sulla Storia
Inviato: 03/03/2011, 12:34
Scrivo da ignorante. Da grande ignorante, che avanzare pretese di comprensione circa i meccanismi della Guerra, ossia della Storia, risulta poco credibile già da parte di chi i bombardamenti li ha vissuti sulla propria pelle; figurarsi per chi non ne ha letto che stralci di memorie altrui (le memorie sono sempre sporcate dal tempo. Nel caso delle memorie di guerra, poi, con tutti i suoi irriscattati rancori, sono stravolte).
Cos'è la Storia, per noi? In prima istanza, è quell'insieme di date e nomi in grassetto studiato sui libri delle scuole elementari. Poi, alle medie, diventa quello più altre date e altri nomi. E così via alle superiori e all'università, dove la lente d'ingrandimento arriva magari a vedere l'azione di un individuo (o di un gruppo di individui) come causa scatenante di un avvenimento di gran risonanza. Principio deterministico: l'individuo fa la Storia, secondo quanto ci viene insegnato.
Per Tolstoj è l'esatto contrario. E' la Storia che fa l'individuo. L'incendio di Mosca del 1812, occupata dalle truppe di Napoleone, non è stato istigato dal governatore della città, il conte Rastopcin, per mettere in fuga il nemico; si è trattato invero di una conseguenza inevitabile di una legge fisica: il legno brucia, e così quella Mosca, costruita in legno, bruciò. Ne consegue che centinaia di migliaia di francesi sono morti perché il legno brucia. E parimenti Napoleone, tre anni dopo, ha conosciuto l'orrore di Waterloo perché il legno brucia, e non perché la strategia nemica fosse migliore o lui un generale ormai bollito.
Ne Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino ce ne offre un'idea diversa: la Storia la fa chi ha una ferita da riscattare. In un senso diverso, però, da quello fatalista di Tolstoj: semplicemente, per Calvino i partigiani verranno ricordati per aver sparato colpi di mortaio utili alla redenzione da quel furore e quell'odio invece perpetuati dai nazifascisti i cui gesti, non importa quali, risulteranno vani e, quindi, dimenticati.
Mentre per Tolstoj gli oppressi, coloro che hanno una motivazione forte che li spinge a combattere, coloro che combattono per liberare la propria patria – come nel caso dei russi nella battaglia di Borodino, alle porte di Mosca, minacciati dall'esercito francese – saranno necessariamente quanto meramente i vincitori, per Calvino saranno essi gli unici i cui spari avranno avuto un senso.
In Guerra e pace, al contrario, la sola intuizione degna di nota per le sorti del conflitto è il grande silenzio che il generale Kutuzov oppone al travolgente avanzare della Storia. Lasciar fluire il corso, in una sorta di lucida remissività. Non affrontare il nemico alle porte di Mosca in un improbabile scontro, ma fuggire, lasciarlo entrare in casa propria e lasciare che ne disponga come gli pare. Un eroe del non-fare, Kutuzov, la cui saggezza, inseparabile dal concetto di vecchiaia, è la più acuta forma di lungimiranza. Una scelta dettata appunto dall'esperienza: non che Kutuzov abbia deciso l'esito della guerra, no; lo ha soltanto accettato. E non perché ciò fosse utile o perché fosse egli mosso da chissà quale scopo individuale o collettivo: nessuna ferita da rimarginare, nessuna libertà da conquistare; quanto perché era l'unica azione possibile, la sola cosa da fare. Era ciò che si doveva fare. Non c'è giusto né sbagliato, in questo atteggiamento; c'è il necessario e basta.
La lotta partigiana analizzata dal commissario Kim – che parla per voce di Calvino il quale, scrivendo, rispondeva con furia ai benpensanti del tempo, quelli che additavano i delinquenti del primo dopoguerra esclamando: “Toh, quel delinquente è un partigiano. Lo dicevo io, lo dicevo!” – è invece una lotta di giusti contro sbagliati. Un “Ti amo” sulla bocca di un partigiano fa storia, dal momento che è venuto prima o dopo un'azione che è servita a qualcosa; sulla bocca di un tedesco, quelle stesse parole appassiscono senza mai fiorire.
E' che Il sentiero dei nidi di ragno è uscito per la prima volta nel 1947, troppo a ridosso degli avvenimenti raccontati; e soprattutto, sono avvenimenti vissuti in prima persona dall'autore. Permeato dallo spirito del tempo e dai sentimenti che ne hanno coniato l'esperienza, Calvino ha necessariamente smarrito quella limpidezza, quella vastità di visione cui invece Tolstoj, scrivendo di cose lontane cinquant'anni, non vissute in prima persona, pure permeato anch'egli da un odio animalesco per il nemico, è riuscito a pervenire.
Né un confronto tra i due libri è del resto nemmeno ipotizzabile, e per contesto e per stile e mole dell'opera.
Era questo solo un omaggio alla letteratura, a ciò che raggiunge, a quel che suscita. A quel che può far vivere a ciascuno di noi. Che se certo non la Storia con la esse maiuscola, la letteratura ha fatto e continua a fare la mia, di storia. Minuscola. Eppure ugualmente costellata di guerre, e di paci.
Cos'è la Storia, per noi? In prima istanza, è quell'insieme di date e nomi in grassetto studiato sui libri delle scuole elementari. Poi, alle medie, diventa quello più altre date e altri nomi. E così via alle superiori e all'università, dove la lente d'ingrandimento arriva magari a vedere l'azione di un individuo (o di un gruppo di individui) come causa scatenante di un avvenimento di gran risonanza. Principio deterministico: l'individuo fa la Storia, secondo quanto ci viene insegnato.
Per Tolstoj è l'esatto contrario. E' la Storia che fa l'individuo. L'incendio di Mosca del 1812, occupata dalle truppe di Napoleone, non è stato istigato dal governatore della città, il conte Rastopcin, per mettere in fuga il nemico; si è trattato invero di una conseguenza inevitabile di una legge fisica: il legno brucia, e così quella Mosca, costruita in legno, bruciò. Ne consegue che centinaia di migliaia di francesi sono morti perché il legno brucia. E parimenti Napoleone, tre anni dopo, ha conosciuto l'orrore di Waterloo perché il legno brucia, e non perché la strategia nemica fosse migliore o lui un generale ormai bollito.
Ne Il sentiero dei nidi di ragno, Calvino ce ne offre un'idea diversa: la Storia la fa chi ha una ferita da riscattare. In un senso diverso, però, da quello fatalista di Tolstoj: semplicemente, per Calvino i partigiani verranno ricordati per aver sparato colpi di mortaio utili alla redenzione da quel furore e quell'odio invece perpetuati dai nazifascisti i cui gesti, non importa quali, risulteranno vani e, quindi, dimenticati.
Mentre per Tolstoj gli oppressi, coloro che hanno una motivazione forte che li spinge a combattere, coloro che combattono per liberare la propria patria – come nel caso dei russi nella battaglia di Borodino, alle porte di Mosca, minacciati dall'esercito francese – saranno necessariamente quanto meramente i vincitori, per Calvino saranno essi gli unici i cui spari avranno avuto un senso.
In Guerra e pace, al contrario, la sola intuizione degna di nota per le sorti del conflitto è il grande silenzio che il generale Kutuzov oppone al travolgente avanzare della Storia. Lasciar fluire il corso, in una sorta di lucida remissività. Non affrontare il nemico alle porte di Mosca in un improbabile scontro, ma fuggire, lasciarlo entrare in casa propria e lasciare che ne disponga come gli pare. Un eroe del non-fare, Kutuzov, la cui saggezza, inseparabile dal concetto di vecchiaia, è la più acuta forma di lungimiranza. Una scelta dettata appunto dall'esperienza: non che Kutuzov abbia deciso l'esito della guerra, no; lo ha soltanto accettato. E non perché ciò fosse utile o perché fosse egli mosso da chissà quale scopo individuale o collettivo: nessuna ferita da rimarginare, nessuna libertà da conquistare; quanto perché era l'unica azione possibile, la sola cosa da fare. Era ciò che si doveva fare. Non c'è giusto né sbagliato, in questo atteggiamento; c'è il necessario e basta.
La lotta partigiana analizzata dal commissario Kim – che parla per voce di Calvino il quale, scrivendo, rispondeva con furia ai benpensanti del tempo, quelli che additavano i delinquenti del primo dopoguerra esclamando: “Toh, quel delinquente è un partigiano. Lo dicevo io, lo dicevo!” – è invece una lotta di giusti contro sbagliati. Un “Ti amo” sulla bocca di un partigiano fa storia, dal momento che è venuto prima o dopo un'azione che è servita a qualcosa; sulla bocca di un tedesco, quelle stesse parole appassiscono senza mai fiorire.
E' che Il sentiero dei nidi di ragno è uscito per la prima volta nel 1947, troppo a ridosso degli avvenimenti raccontati; e soprattutto, sono avvenimenti vissuti in prima persona dall'autore. Permeato dallo spirito del tempo e dai sentimenti che ne hanno coniato l'esperienza, Calvino ha necessariamente smarrito quella limpidezza, quella vastità di visione cui invece Tolstoj, scrivendo di cose lontane cinquant'anni, non vissute in prima persona, pure permeato anch'egli da un odio animalesco per il nemico, è riuscito a pervenire.
Né un confronto tra i due libri è del resto nemmeno ipotizzabile, e per contesto e per stile e mole dell'opera.
Era questo solo un omaggio alla letteratura, a ciò che raggiunge, a quel che suscita. A quel che può far vivere a ciascuno di noi. Che se certo non la Storia con la esse maiuscola, la letteratura ha fatto e continua a fare la mia, di storia. Minuscola. Eppure ugualmente costellata di guerre, e di paci.