Demonite
Inviato: 28/12/2019, 16:35
Demonite, 2019.
Robert Dowd esce dal pub e percorre Jude’s Road fino al punto in cui ha parcheggiato l’auto. Ha in animo di andare a trovare Hester, prima di rientrare a casa, come ha fatto sempre più spesso negli ultimi tempi.
A quell'ora Demonite è spettrale.
Lecito presumere che Robert incontrerà qualche difficoltà a trovare parcheggio: la dimora di Hester si trova nelle vicinanze dello stadio e quella sera si disputa una partita importante. Quindi lascia l’auto prima del ponte, ai piedi di un condominio. Con tutti i posti liberi che ci sono ha l’imbarazzo della scelta, cosa che lo porta a struggersi nell’indecisione. Se fosse presente, Hester lo criticherebbe. Come tutte le donne che Robert ha conosciuto, farebbe della questione un enorme problema di natura psicosomatica, rinfacciandogli per l’ennesima volta il suo atteggiamento di basso profilo.
Non a torto, pensa Robert, consapevole di aver bandito la speranza dalla propria vita: dopo aver guardato per anni al futuro, ora si è arroccato nel presente e opta sempre per la soluzione più sicura, anche se scomoda. Quasi un miglio di cammino, in questo caso.
L’aria è satura di umidità e le lampade dei lampioni generano aloni tremolanti che si sgranano ai bordi. Robert attraversa il ponte, anch’esso deserto, calpestando l’ombra della struttura metallica sotto i piedi. Il fiume è immobile in una compatta lastra opaca. Attutito dalla distanza, il boato dei tifosi si propaga nell’aria, assorbito dalla nebbia. Sull’orizzonte si profila l’oasi luminosa dello stadio dietro i monoliti degli alti palazzi di Crucifix’s Street che, come le dita di una mano, tentano di racchiuderla. Le batterie di fari elettrificano la nebbia, pervadendola di un chiarore diffuso.
Emergono le guglie della cattedrale di St. Peter simili alle propaggini di un fiordo avvistato da una nave. Ben presto la mole della colossale facciata sovrasta Robert e lo avvolge nella propria ombra. Lui alza gli occhi e cerca l’angelo incastonato nell’angolo più alto della cuspide, accovacciato nel suo nido di marmo. Eccolo, il volto di fanciullo pervaso di un’equivoca fissità. Nell’uomo riaffiora il timore infantile che possa gettarsi in picchiata su di lui, e il sospetto che quell’aura sinistra riflessa negli occhi di pietra, sia testimonianza della sua natura demoniaca e non la millantata ribalderia del bulletto di quartiere.
Robert e i suoi amici lo chiamavano Pete, da ragazzini. Il diminutivo era d’obbligo perché a quell’età erano abituati a prendersi confidenza con tutti - insegnanti, sacerdoti, poliziotti, spacciatori, mafiosi. Non che pensassero di essere chissà chi. Erano poveri, ma sapevano anche di non aver fatto nulla per meritarselo. I preti, che ancora per qualche anno potevano vantare su di loro una certa autorità, cantavano le lodi di Dio e questo lo rendeva - ai loro occhi - odioso per associazione, perché non era un mistero ciò che le vecchie lumache bavose facevano in privato.
Si parlava anche del diavolo e dell’inferno. Robert aveva all’epoca una fervida immaginazione, gli piaceva vedere nei paesaggi quotidiani le metafore viventi di quelle favole, e così il diavolo non aveva corna e zoccoli bensì una forma cilindrica e allungata e la sua pelle non era la scorza rossa che dicevano, ma aveva la composizione affumicata dei vecchi stabilimenti industriali. Se il marmoreo Pete passava per il portavoce del paradiso, allora ci stava che la ciminiera della Sullivan & Sons, furiosa e fumigante come se l’indifferenza dell’angelo la facesse imbestialire, fosse l’emissario dell’inferno.
Dal campo di sterpaglie, dove Robert e i suoi amici disputavano abborracciate partite di pallone, si potevano vedere entrambi i contendenti guardarsi in cagnesco ai lati opposti del campo visivo, stagliati contro un cielo plumbeo in cui si apparecchiava uno dei soventi temporali che andavano e venivano da quelle parti. Quando Robert cercò di impressionare il fratello, facendolo partecipe della sua fantasia, quello si limitò a guardare la ciminiera con l’ottusità propria del suo sguardo, e liquidò infine la scena con una breve e concisa osservazione.
«A me sembra solo un grosso cazzo fumante.»
C’è chi sostiene che nel libro stretto fra le mani dell’angelo ci siano le formule per allontanare il diavolo. Secondo altri, invece, ci sono le storie di cui l’angelo è stato testimone. Quest’ultima è una teoria che Robert trova interessante perché pensare che qualcuno lassù tenga conto di tutte le insensate traversie degli esseri umani, è una cosa che lui trova insensatamente di grande conforto.
Sorpassa la cattedrale, e arriva in vista del grande cancello arrugginito. Come previsto, il parcheggio davanti al cimitero è pieno. Robert gira l’angolo e costeggia il lato ovest del complesso. L’unica debole fonte di luce è quel lattiginoso riverbero che sale dal fiume insieme alla nebbia e, onde evitare di cadere nell’acqua, segue con la mano la superfice infestata dalle efflorescenze del muro di cinta, fino al punto in cui i mattoni sono crollati.
Nessuno si è ancora preoccupato di chiudere la breccia. Non ci sono luci nemmeno all’interno dell’enorme e silenziosa confraternita, ciò nonostante Robert avanza con la disinvoltura di chi potrebbe seguire il percorso a occhi chiusi. In fondo all’ultima diramazione del viale ghiaiato, la vede. Hester appare in tutta la sua bellezza sbocciata al cielo da tempo, ora nuda nell’eternità e un poco sfiorita. Be', forse non così poco, ma lui è ancora innamorato di lei.
Pete starà scrivendo? Pensa Robert. Il cimitero rientra certo nell’ampio campo visivo dell’angelo sulla cattedrale. Un altro capitolo del vivere, l’ubiquità della morte.
«Papà!»
«Che c’è, tesoro?»
Malgrado sia l’una del pomeriggio, Robert esce dalla camera da letto con addosso soltanto la vestaglia scozzese. Mentre sua figlia lo guarda disgustata dall’altro lato della penisola, lui apre il frigorifero per prendere il latte di soia.
«Puzzi in un modo disgustoso.»
«Lo so, tesoro, abbi pazienza.»
Grace è appena tornata da scuola. Lo zaino pieno di libri l’ha buttato sul pavimento, accanto allo sgabello su cui è appollaiata. Si è preparata un’insalata con tofu, pomodori e olive nere, ma ora le è passato l’appetito e il tanfo terribile emanato dal corpo di suo padre rischia di farla vomitare. Lo aveva già sentito quando è arrivata, ma non era così intenso e pensava venisse da fuori. Tipo il camion degli spurghi, o qualcosa di analogo e comunque di esterno. Ora che ne ha individuato la provenienza all’interno della casa, la cosa non è più tollerabile. Si alza e indietreggia fino al divano, stringendo al petto l’insalata.
«Pazienza? Ma che stai dicendo? Lo senti o no quanto puzzi?»
«Poi ci fai l’abitudine, vedrai.»
«Col cazzo. Non voglio farci l’abitudine. Devi farti una doccia, subito.»
«Tesoro, temo che non farà una gran differenza.»
«Papà, ti sei rimbecillito? Vatti a fare la doccia, subito! Io apro tutte le finestre. ‘Sto tanfo mi impregna i vestiti e anche la casa. Ci vorrà più di una settimana per farlo andare via.»
«Ma il fatto è…»
«Vatti subito a fare la doccia!»
Robert rimane impalato al centro della cucina, col cartone del latte in mano. La vestaglia un po’ corta e le ciabatte rosse a zampa di drago – l’ultimo regalo di Hester, a Natale, prima del suicidio - gli danno un’aria ridicola. La furia di Grace cresce in proporzione all’inerzia di suo padre. Poi, dal disimpegno, emerge la figura livida e butterata di sua madre. Grace rimane a bocca aperta.
«Quello che tuo padre sta cercando di spiegarti» dice Hester, con un tono di voce piatto e incolore, senza la minima traccia di affetto o di entusiasmo alla vista della figlia, «è che il problema non è lui, sono io».
La sottoveste blu è macchiata in diversi punti, dalle secrezioni post mortem. I capelli sono un disastro. I piedi lasciano una serie di impronte umide. Il tono della sua voce è freddo e strascicato. A Grace fa venire in mente quello del suo amico Brendon, che è sempre stordito dagli oppiacei.
La ragazza rimane impietrita, poi stramazza a terra, svenuta, e Robert abbandona il cartone del latte per soccorrerla. Hester si avvicina lentamente, con cautela. Ha perso due dita cercando di aprire il mobiletto dei cosmetici, poco prima, in bagno. L’anta è sempre stata un po’ dura, lo ricordava, e lei ha tirato un po’ troppo, lasciando l’indice e il medio infilati nella maniglia di ottone. La sua carne è frolla, meglio evitare i movimenti bruschi.
Guarda la figlia distesa, con aria ottusa, e poi suo marito inginocchiato al suo fianco. «Portala in giardino, Robert. Un po’ d’aria fresca le farà bene.»
Grace riprende conoscenza seduta nel gazebo, sotto il grande sicomoro. Suo padre è in piedi a qualche metro di distanza, per non farle sentire il fetore di Hester, che ha addosso. Sua madre è ancora in casa, dietro la vetrata del soggiorno, e la sta guardando con un’espressione un po’ stonata.
«Stai meglio, ora?» Le chiede Robert.
«No, fino a che lei è ancora là. Questo è uno di quegli incubi in cui ti svegli in un altro incubo. Credo che sentirò questa puzza per tutta la vita, anche dopo che mamma se ne sarà andata. Perché se ne andrà, vero? Questo incubo finirà, prima o poi.»
«È solo per un giorno, Grace. A mamma mancava la sua vita. Sai, suo marito, sua figlia» dice indicando prima sé stesso e poi Grace, «e poi le sue abitudini, i cereali al cioccolato, gli sformati di verdura, le zuppe, gli infusi strani, i cosmetici, il forum di scrittura, whatsapp, Netflix, insomma tutte le cose che le piaceva fare prima di… cioè, finché è stata viva.»
«Guarda che lo puoi dire. Prima che si chiudesse nell’auto, in garage, e si facesse una bella inalazione di monossido.»
«Grace…»
«Al diavolo, sempre gli stessi discorsi. Io che la infamo e tu che la difendi.»
«Era tua madre, ti voleva bene.»
«Non abbastanza. Ma non è questo il punto, cazzo. Il punto è: cosa ci fa qui?»
«Te l’ho detto. Voleva tornare a casa, per un giorno.»
«E tu come fai a saperlo? Ti è apparsa in sogno?»
«Qualche volta la vado a trovare, la sera. Quando esco dal pub.»
«E dove? Al cimitero?»
«Sì.»
«Sul serio? Non ci credo, cazzo.»
«C’è ancora quella breccia nel muro, da quando è crollato sei mesi fa. Io andavo sulla sua tomba, e poi lei ha cominciato ad apparire. All’inizio non capiva quello che le dicevo, sembrava smemorata, ma poi si è ricordata ogni cosa ed è tornata come prima.»
«Come prima non mi pare. Non è mai stata troppo sveglia, depressa com’era, ma certo non aveva la faccia da zombie rimbambita che ha adesso. Ma guardala. Ti sembra mia madre, quella?»
Si voltano entrambi, padre e figlia, per guardare Hester di là dal vetro, dentro casa. In effetti non ha un’aria molto presente. Li sta fissando con la bocca aperta e la testa piegata un po’ a sinistra. I capelli color topo, arruffati. Le braccia penzoloni come stracci bagnati. La pelle chiazzata e grigia. Li guarda ma è come se non li vedesse.
«L’hai accompagnata tu, in macchina?» Gli chiede Grace.
«Sì, ieri sera, ma non era ancora pronta a farsi vedere da te, e così ha aspettato in giardino che tu uscissi per andare a scuola.»
«E che ha fatto questa mattina?»
«Te l’ho detto. Le mancavano le sue cose. Ha usato i cosmetici, ha guardato la televisione.»
«Ti conosco, papà. Cos’è che mi stai nascondendo?»
«Niente.»
«Non mi dirai che… No, è impossibile» osserva Grace, scuotendo la testa, ma poi guarda suo padre negli occhi, che cercano di sfuggirle, e le viene il dubbio. «Perché quella cosa stava in sottoveste e tu avevi addosso solo la vestaglia? Non avrete mica…»
«No, macché.»
Gli occhi di suo padre non sono capaci di mentire, Grace lo sa. Lo guarda sbalordita. «No, dai. Non ci credo. Ma, ma… cazzo, che schifo.»
«Tesoro, ti prego…»
La faccia di Grace è una maschera di orrore e disgusto. «Ma come cazzo hai fatto a…» I conati la colgono all’improvviso e questa volta non riesce a trattenersi, si piega di lato e vomita sul pavimento del gazebo.
Robert la guarda e pensa che lei non può capire, anche se c’è stato un momento a letto, quella mattina, in cui ha provato a sua volta un certo disgusto, quando Hester gli stava sopra e lui le ha strizzato un seno. Gli si è rotto in mano come un uovo marcio e un fiotto di liquido maleodorante e vischioso gli è arrivato dritto in faccia. Se non fosse venuto proprio in quel momento, dentro di lei, si sarebbe di certo vomitato addosso e non sarebbe stato molto carino.
Quando Grace si raddrizza, pulendosi la bocca con il dorso della mano, ha una faccia come un cencio.
«Porta via quella cosa prima che puoi. Ok?» Gli dice alzandosi.
«Dove vai?»
«A fare un giro. Chiamami appena se n’è andata.»
«Grace, almeno salutala.»
«Neanche morta.»
Hester passa il resto della giornata ad annusare i suoi profumi, a preparare uno sformato di carote che ovviamente nessuno mangerà mai, a passare in rassegna i suoi vestiti, a guardare qualche episodio di Desperate Housewives. Quando il sole tramonta e cala l’oscurità, lei e Robert escono lungo il vialetto, e salgono nell’auto. Lui le fa fare un giro della città, indicandole a uno a uno tutti i luoghi che hanno condiviso durante la loro relazione. La panchina dove le leggeva le sue poesie preferite, il ristorante in cui le ha chiesto di sposarlo, il bar in cui facevano colazione tutte le mattine. E poi il sentiero lungo il fiume dove andavano a fare lunghe camminate nel fine settimana, il negozio di parrucchiera in cui lavorava lei, la banca di cui lui è stato il direttore per anni.
Poco prima di mezzanotte, Robert ferma la macchina sul limitare del terreno in cui giocava da ragazzino con i suoi amici. Nell’angolo in basso a sinistra del parabrezza, la ciminiera della Sullivan & Sons si staglia scura contro lo sfondo del cielo sulfureo, attraversato dai fumi rossastri che si sollevano verso l’alto a ogni ora del giorno e della notte. La chiesa di St. Peter e l’angelo di marmo, nell’angolo a destra, sono investiti dal doppio fascio di luce bianca sparata dai faretti ai due lati della facciata.
La donna che è stata sua moglie, seduta in silenzio al suo fianco, sembra aver poco da spartire sia con l’inferno che col paradiso. Hester è diventata piuttosto una strana creatura indifferente al concetto di bene e di male, di giusto e sbagliato, di bello e di brutto. Nel suo sguardo fisso e smorzato, sotto le palpebre rilassate, non sembra esservi più interesse per nessuna di quelle distinzioni. E nemmeno - a giudicare dalla reazione a tutto ciò che di quella città avrebbe dovuto ricordare volentieri - a quello che è stato il suo passato. Anzi, il loro passato.
«Mi dispiace, Hester.»
«Di cosa?» Chiede lei, guardando fisso davanti a sé.
«Che sia andata così. Che tu non sia più insieme a noi. Che tu debba tornare in quel cimitero freddo e inospitale.»
Hester non dice nulla. Rimane immobile. Le mani abbandonate in grembo e il profilo del suo volto nascosto in buona parte dai capelli devitalizzati.
«E mi dispiace anche per Grace. Credo le serva ancora un po’ di tempo per accettare il fatto che tu sia…»
«Morta.»
«Esatto. Sono sicuro che la prossima volta in cui organizzeremo una giornata come questa, andrà molto meglio, vedrai.»
Robert si sente a disagio, in primo luogo perché Hester non è nemmeno un po’ compiaciuta di tutte le cose che ha fatto per lei quel giorno; e poi perché non c’è niente in lei che possa ricordargli la donna che aveva sposato, a parte una vaga somiglianza fisica. Vaga e corrotta. Forse ha ragione Grace, e quella cosa non è più la donna che hanno conosciuto come moglie e come madre. Forse le visite al cimitero sono state davvero una follia, ed è il caso di dimenticare Hester una volta per tutte.
Guarda l’orologio e pensa che appena avrà riaccompagnato il cadavere di sua moglie al cimitero, chiamerà la figlia e le dirà che può rientrare a casa, e non dovrà più preoccuparsi di nulla perché mamma non tornerà più a far loro visita.
«Sei pronta, tesoro?»
Lei si volta a guardarlo come se non capisse il senso della domanda.
«Ora ti riaccompagno, e poi ci rivedremo presto» cerca di rassicurarla, interpretando la sua vacuità come una sorta di rammarico.
Ha la stessa espressione di Pete, pensa Robert.
È impaziente di tornare a casa, dentro di sé è consapevole di averle appena mentito e di non provare più alcun desiderio di rivederla. Lei apre la portiera con cautela, cercando di non rimetterci altre due dita, e scende dall’auto.
«Dove vai, cara?» Le chiede Robert, avvertendo una certa apprensione.
«Faccio due passi» dice lei, voltandosi un’ultima volta a guardarlo con quei suoi occhi opachi. «Conosco la strada, ora.»
Prima di chiudere la portiera e allontanarsi nell’oscurità, Hester si piega verso l’interno del veicolo e lo guarda dal suo volto freddo e distante.
«Anche quella di casa.»
Robert Dowd esce dal pub e percorre Jude’s Road fino al punto in cui ha parcheggiato l’auto. Ha in animo di andare a trovare Hester, prima di rientrare a casa, come ha fatto sempre più spesso negli ultimi tempi.
A quell'ora Demonite è spettrale.
Lecito presumere che Robert incontrerà qualche difficoltà a trovare parcheggio: la dimora di Hester si trova nelle vicinanze dello stadio e quella sera si disputa una partita importante. Quindi lascia l’auto prima del ponte, ai piedi di un condominio. Con tutti i posti liberi che ci sono ha l’imbarazzo della scelta, cosa che lo porta a struggersi nell’indecisione. Se fosse presente, Hester lo criticherebbe. Come tutte le donne che Robert ha conosciuto, farebbe della questione un enorme problema di natura psicosomatica, rinfacciandogli per l’ennesima volta il suo atteggiamento di basso profilo.
Non a torto, pensa Robert, consapevole di aver bandito la speranza dalla propria vita: dopo aver guardato per anni al futuro, ora si è arroccato nel presente e opta sempre per la soluzione più sicura, anche se scomoda. Quasi un miglio di cammino, in questo caso.
L’aria è satura di umidità e le lampade dei lampioni generano aloni tremolanti che si sgranano ai bordi. Robert attraversa il ponte, anch’esso deserto, calpestando l’ombra della struttura metallica sotto i piedi. Il fiume è immobile in una compatta lastra opaca. Attutito dalla distanza, il boato dei tifosi si propaga nell’aria, assorbito dalla nebbia. Sull’orizzonte si profila l’oasi luminosa dello stadio dietro i monoliti degli alti palazzi di Crucifix’s Street che, come le dita di una mano, tentano di racchiuderla. Le batterie di fari elettrificano la nebbia, pervadendola di un chiarore diffuso.
Emergono le guglie della cattedrale di St. Peter simili alle propaggini di un fiordo avvistato da una nave. Ben presto la mole della colossale facciata sovrasta Robert e lo avvolge nella propria ombra. Lui alza gli occhi e cerca l’angelo incastonato nell’angolo più alto della cuspide, accovacciato nel suo nido di marmo. Eccolo, il volto di fanciullo pervaso di un’equivoca fissità. Nell’uomo riaffiora il timore infantile che possa gettarsi in picchiata su di lui, e il sospetto che quell’aura sinistra riflessa negli occhi di pietra, sia testimonianza della sua natura demoniaca e non la millantata ribalderia del bulletto di quartiere.
Robert e i suoi amici lo chiamavano Pete, da ragazzini. Il diminutivo era d’obbligo perché a quell’età erano abituati a prendersi confidenza con tutti - insegnanti, sacerdoti, poliziotti, spacciatori, mafiosi. Non che pensassero di essere chissà chi. Erano poveri, ma sapevano anche di non aver fatto nulla per meritarselo. I preti, che ancora per qualche anno potevano vantare su di loro una certa autorità, cantavano le lodi di Dio e questo lo rendeva - ai loro occhi - odioso per associazione, perché non era un mistero ciò che le vecchie lumache bavose facevano in privato.
Si parlava anche del diavolo e dell’inferno. Robert aveva all’epoca una fervida immaginazione, gli piaceva vedere nei paesaggi quotidiani le metafore viventi di quelle favole, e così il diavolo non aveva corna e zoccoli bensì una forma cilindrica e allungata e la sua pelle non era la scorza rossa che dicevano, ma aveva la composizione affumicata dei vecchi stabilimenti industriali. Se il marmoreo Pete passava per il portavoce del paradiso, allora ci stava che la ciminiera della Sullivan & Sons, furiosa e fumigante come se l’indifferenza dell’angelo la facesse imbestialire, fosse l’emissario dell’inferno.
Dal campo di sterpaglie, dove Robert e i suoi amici disputavano abborracciate partite di pallone, si potevano vedere entrambi i contendenti guardarsi in cagnesco ai lati opposti del campo visivo, stagliati contro un cielo plumbeo in cui si apparecchiava uno dei soventi temporali che andavano e venivano da quelle parti. Quando Robert cercò di impressionare il fratello, facendolo partecipe della sua fantasia, quello si limitò a guardare la ciminiera con l’ottusità propria del suo sguardo, e liquidò infine la scena con una breve e concisa osservazione.
«A me sembra solo un grosso cazzo fumante.»
C’è chi sostiene che nel libro stretto fra le mani dell’angelo ci siano le formule per allontanare il diavolo. Secondo altri, invece, ci sono le storie di cui l’angelo è stato testimone. Quest’ultima è una teoria che Robert trova interessante perché pensare che qualcuno lassù tenga conto di tutte le insensate traversie degli esseri umani, è una cosa che lui trova insensatamente di grande conforto.
Sorpassa la cattedrale, e arriva in vista del grande cancello arrugginito. Come previsto, il parcheggio davanti al cimitero è pieno. Robert gira l’angolo e costeggia il lato ovest del complesso. L’unica debole fonte di luce è quel lattiginoso riverbero che sale dal fiume insieme alla nebbia e, onde evitare di cadere nell’acqua, segue con la mano la superfice infestata dalle efflorescenze del muro di cinta, fino al punto in cui i mattoni sono crollati.
Nessuno si è ancora preoccupato di chiudere la breccia. Non ci sono luci nemmeno all’interno dell’enorme e silenziosa confraternita, ciò nonostante Robert avanza con la disinvoltura di chi potrebbe seguire il percorso a occhi chiusi. In fondo all’ultima diramazione del viale ghiaiato, la vede. Hester appare in tutta la sua bellezza sbocciata al cielo da tempo, ora nuda nell’eternità e un poco sfiorita. Be', forse non così poco, ma lui è ancora innamorato di lei.
Pete starà scrivendo? Pensa Robert. Il cimitero rientra certo nell’ampio campo visivo dell’angelo sulla cattedrale. Un altro capitolo del vivere, l’ubiquità della morte.
«Papà!»
«Che c’è, tesoro?»
Malgrado sia l’una del pomeriggio, Robert esce dalla camera da letto con addosso soltanto la vestaglia scozzese. Mentre sua figlia lo guarda disgustata dall’altro lato della penisola, lui apre il frigorifero per prendere il latte di soia.
«Puzzi in un modo disgustoso.»
«Lo so, tesoro, abbi pazienza.»
Grace è appena tornata da scuola. Lo zaino pieno di libri l’ha buttato sul pavimento, accanto allo sgabello su cui è appollaiata. Si è preparata un’insalata con tofu, pomodori e olive nere, ma ora le è passato l’appetito e il tanfo terribile emanato dal corpo di suo padre rischia di farla vomitare. Lo aveva già sentito quando è arrivata, ma non era così intenso e pensava venisse da fuori. Tipo il camion degli spurghi, o qualcosa di analogo e comunque di esterno. Ora che ne ha individuato la provenienza all’interno della casa, la cosa non è più tollerabile. Si alza e indietreggia fino al divano, stringendo al petto l’insalata.
«Pazienza? Ma che stai dicendo? Lo senti o no quanto puzzi?»
«Poi ci fai l’abitudine, vedrai.»
«Col cazzo. Non voglio farci l’abitudine. Devi farti una doccia, subito.»
«Tesoro, temo che non farà una gran differenza.»
«Papà, ti sei rimbecillito? Vatti a fare la doccia, subito! Io apro tutte le finestre. ‘Sto tanfo mi impregna i vestiti e anche la casa. Ci vorrà più di una settimana per farlo andare via.»
«Ma il fatto è…»
«Vatti subito a fare la doccia!»
Robert rimane impalato al centro della cucina, col cartone del latte in mano. La vestaglia un po’ corta e le ciabatte rosse a zampa di drago – l’ultimo regalo di Hester, a Natale, prima del suicidio - gli danno un’aria ridicola. La furia di Grace cresce in proporzione all’inerzia di suo padre. Poi, dal disimpegno, emerge la figura livida e butterata di sua madre. Grace rimane a bocca aperta.
«Quello che tuo padre sta cercando di spiegarti» dice Hester, con un tono di voce piatto e incolore, senza la minima traccia di affetto o di entusiasmo alla vista della figlia, «è che il problema non è lui, sono io».
La sottoveste blu è macchiata in diversi punti, dalle secrezioni post mortem. I capelli sono un disastro. I piedi lasciano una serie di impronte umide. Il tono della sua voce è freddo e strascicato. A Grace fa venire in mente quello del suo amico Brendon, che è sempre stordito dagli oppiacei.
La ragazza rimane impietrita, poi stramazza a terra, svenuta, e Robert abbandona il cartone del latte per soccorrerla. Hester si avvicina lentamente, con cautela. Ha perso due dita cercando di aprire il mobiletto dei cosmetici, poco prima, in bagno. L’anta è sempre stata un po’ dura, lo ricordava, e lei ha tirato un po’ troppo, lasciando l’indice e il medio infilati nella maniglia di ottone. La sua carne è frolla, meglio evitare i movimenti bruschi.
Guarda la figlia distesa, con aria ottusa, e poi suo marito inginocchiato al suo fianco. «Portala in giardino, Robert. Un po’ d’aria fresca le farà bene.»
Grace riprende conoscenza seduta nel gazebo, sotto il grande sicomoro. Suo padre è in piedi a qualche metro di distanza, per non farle sentire il fetore di Hester, che ha addosso. Sua madre è ancora in casa, dietro la vetrata del soggiorno, e la sta guardando con un’espressione un po’ stonata.
«Stai meglio, ora?» Le chiede Robert.
«No, fino a che lei è ancora là. Questo è uno di quegli incubi in cui ti svegli in un altro incubo. Credo che sentirò questa puzza per tutta la vita, anche dopo che mamma se ne sarà andata. Perché se ne andrà, vero? Questo incubo finirà, prima o poi.»
«È solo per un giorno, Grace. A mamma mancava la sua vita. Sai, suo marito, sua figlia» dice indicando prima sé stesso e poi Grace, «e poi le sue abitudini, i cereali al cioccolato, gli sformati di verdura, le zuppe, gli infusi strani, i cosmetici, il forum di scrittura, whatsapp, Netflix, insomma tutte le cose che le piaceva fare prima di… cioè, finché è stata viva.»
«Guarda che lo puoi dire. Prima che si chiudesse nell’auto, in garage, e si facesse una bella inalazione di monossido.»
«Grace…»
«Al diavolo, sempre gli stessi discorsi. Io che la infamo e tu che la difendi.»
«Era tua madre, ti voleva bene.»
«Non abbastanza. Ma non è questo il punto, cazzo. Il punto è: cosa ci fa qui?»
«Te l’ho detto. Voleva tornare a casa, per un giorno.»
«E tu come fai a saperlo? Ti è apparsa in sogno?»
«Qualche volta la vado a trovare, la sera. Quando esco dal pub.»
«E dove? Al cimitero?»
«Sì.»
«Sul serio? Non ci credo, cazzo.»
«C’è ancora quella breccia nel muro, da quando è crollato sei mesi fa. Io andavo sulla sua tomba, e poi lei ha cominciato ad apparire. All’inizio non capiva quello che le dicevo, sembrava smemorata, ma poi si è ricordata ogni cosa ed è tornata come prima.»
«Come prima non mi pare. Non è mai stata troppo sveglia, depressa com’era, ma certo non aveva la faccia da zombie rimbambita che ha adesso. Ma guardala. Ti sembra mia madre, quella?»
Si voltano entrambi, padre e figlia, per guardare Hester di là dal vetro, dentro casa. In effetti non ha un’aria molto presente. Li sta fissando con la bocca aperta e la testa piegata un po’ a sinistra. I capelli color topo, arruffati. Le braccia penzoloni come stracci bagnati. La pelle chiazzata e grigia. Li guarda ma è come se non li vedesse.
«L’hai accompagnata tu, in macchina?» Gli chiede Grace.
«Sì, ieri sera, ma non era ancora pronta a farsi vedere da te, e così ha aspettato in giardino che tu uscissi per andare a scuola.»
«E che ha fatto questa mattina?»
«Te l’ho detto. Le mancavano le sue cose. Ha usato i cosmetici, ha guardato la televisione.»
«Ti conosco, papà. Cos’è che mi stai nascondendo?»
«Niente.»
«Non mi dirai che… No, è impossibile» osserva Grace, scuotendo la testa, ma poi guarda suo padre negli occhi, che cercano di sfuggirle, e le viene il dubbio. «Perché quella cosa stava in sottoveste e tu avevi addosso solo la vestaglia? Non avrete mica…»
«No, macché.»
Gli occhi di suo padre non sono capaci di mentire, Grace lo sa. Lo guarda sbalordita. «No, dai. Non ci credo. Ma, ma… cazzo, che schifo.»
«Tesoro, ti prego…»
La faccia di Grace è una maschera di orrore e disgusto. «Ma come cazzo hai fatto a…» I conati la colgono all’improvviso e questa volta non riesce a trattenersi, si piega di lato e vomita sul pavimento del gazebo.
Robert la guarda e pensa che lei non può capire, anche se c’è stato un momento a letto, quella mattina, in cui ha provato a sua volta un certo disgusto, quando Hester gli stava sopra e lui le ha strizzato un seno. Gli si è rotto in mano come un uovo marcio e un fiotto di liquido maleodorante e vischioso gli è arrivato dritto in faccia. Se non fosse venuto proprio in quel momento, dentro di lei, si sarebbe di certo vomitato addosso e non sarebbe stato molto carino.
Quando Grace si raddrizza, pulendosi la bocca con il dorso della mano, ha una faccia come un cencio.
«Porta via quella cosa prima che puoi. Ok?» Gli dice alzandosi.
«Dove vai?»
«A fare un giro. Chiamami appena se n’è andata.»
«Grace, almeno salutala.»
«Neanche morta.»
Hester passa il resto della giornata ad annusare i suoi profumi, a preparare uno sformato di carote che ovviamente nessuno mangerà mai, a passare in rassegna i suoi vestiti, a guardare qualche episodio di Desperate Housewives. Quando il sole tramonta e cala l’oscurità, lei e Robert escono lungo il vialetto, e salgono nell’auto. Lui le fa fare un giro della città, indicandole a uno a uno tutti i luoghi che hanno condiviso durante la loro relazione. La panchina dove le leggeva le sue poesie preferite, il ristorante in cui le ha chiesto di sposarlo, il bar in cui facevano colazione tutte le mattine. E poi il sentiero lungo il fiume dove andavano a fare lunghe camminate nel fine settimana, il negozio di parrucchiera in cui lavorava lei, la banca di cui lui è stato il direttore per anni.
Poco prima di mezzanotte, Robert ferma la macchina sul limitare del terreno in cui giocava da ragazzino con i suoi amici. Nell’angolo in basso a sinistra del parabrezza, la ciminiera della Sullivan & Sons si staglia scura contro lo sfondo del cielo sulfureo, attraversato dai fumi rossastri che si sollevano verso l’alto a ogni ora del giorno e della notte. La chiesa di St. Peter e l’angelo di marmo, nell’angolo a destra, sono investiti dal doppio fascio di luce bianca sparata dai faretti ai due lati della facciata.
La donna che è stata sua moglie, seduta in silenzio al suo fianco, sembra aver poco da spartire sia con l’inferno che col paradiso. Hester è diventata piuttosto una strana creatura indifferente al concetto di bene e di male, di giusto e sbagliato, di bello e di brutto. Nel suo sguardo fisso e smorzato, sotto le palpebre rilassate, non sembra esservi più interesse per nessuna di quelle distinzioni. E nemmeno - a giudicare dalla reazione a tutto ciò che di quella città avrebbe dovuto ricordare volentieri - a quello che è stato il suo passato. Anzi, il loro passato.
«Mi dispiace, Hester.»
«Di cosa?» Chiede lei, guardando fisso davanti a sé.
«Che sia andata così. Che tu non sia più insieme a noi. Che tu debba tornare in quel cimitero freddo e inospitale.»
Hester non dice nulla. Rimane immobile. Le mani abbandonate in grembo e il profilo del suo volto nascosto in buona parte dai capelli devitalizzati.
«E mi dispiace anche per Grace. Credo le serva ancora un po’ di tempo per accettare il fatto che tu sia…»
«Morta.»
«Esatto. Sono sicuro che la prossima volta in cui organizzeremo una giornata come questa, andrà molto meglio, vedrai.»
Robert si sente a disagio, in primo luogo perché Hester non è nemmeno un po’ compiaciuta di tutte le cose che ha fatto per lei quel giorno; e poi perché non c’è niente in lei che possa ricordargli la donna che aveva sposato, a parte una vaga somiglianza fisica. Vaga e corrotta. Forse ha ragione Grace, e quella cosa non è più la donna che hanno conosciuto come moglie e come madre. Forse le visite al cimitero sono state davvero una follia, ed è il caso di dimenticare Hester una volta per tutte.
Guarda l’orologio e pensa che appena avrà riaccompagnato il cadavere di sua moglie al cimitero, chiamerà la figlia e le dirà che può rientrare a casa, e non dovrà più preoccuparsi di nulla perché mamma non tornerà più a far loro visita.
«Sei pronta, tesoro?»
Lei si volta a guardarlo come se non capisse il senso della domanda.
«Ora ti riaccompagno, e poi ci rivedremo presto» cerca di rassicurarla, interpretando la sua vacuità come una sorta di rammarico.
Ha la stessa espressione di Pete, pensa Robert.
È impaziente di tornare a casa, dentro di sé è consapevole di averle appena mentito e di non provare più alcun desiderio di rivederla. Lei apre la portiera con cautela, cercando di non rimetterci altre due dita, e scende dall’auto.
«Dove vai, cara?» Le chiede Robert, avvertendo una certa apprensione.
«Faccio due passi» dice lei, voltandosi un’ultima volta a guardarlo con quei suoi occhi opachi. «Conosco la strada, ora.»
Prima di chiudere la portiera e allontanarsi nell’oscurità, Hester si piega verso l’interno del veicolo e lo guarda dal suo volto freddo e distante.
«Anche quella di casa.»