Le rondini di Hafsah
Inviato: 24/03/2020, 10:43
Il cielo era percorso da piccole forme scure e veloci che lo riempivano di grida: le rondini migravano a migliaia e si perdevano oltre l’orizzonte.
Hafsah le guardava con occhi sognanti mentre, vestita di un logoro abitino a fiori, trascinava con fatica un secchio dalla fonte limacciosa verso la baracca che chiamavano casa.
Provava una grande invidia per quei piccoli uccelli. Venivano dal sud e volavano liberi verso un nuovo cielo, verso una terra ricca.
- Fortunate quelle rondini che non sono costrette a rimanere in questo posto per tutta la vita - sospirò la ragazzina, fermandosi un momento per posare con attenzione il secchio, le braccia dolenti per lo sforzo.
Aveva ancora molta strada da fare, e forse in futuro sarebbe stato ancora peggio: i vecchi dicevano che il sole era sempre più caldo e l’acqua si sarebbe nascosta ancora più in profondità.
Quel giorno stesso al villaggio fece ritorno Jummai, un cugino di Hafsah che era riuscito ad andarsene qualche anno prima. Era venuto per salutare i genitori e i due fratelli, almeno questo era ciò che diceva. Ma si capiva che era tornato soprattutto per esibire la sua nuova ricchezza e i suoi vestiti occidentali. Con quello che era costato il suo orologio d’oro sarebbe stato possibile portare l’acqua in ogni casa del villaggio; non se ne curava, e fingeva di ignorare gli sguardi di suo padre che non aveva mai approvato la sua partenza.
Jummai fissò Hafsah con uno sguardo che la turbò: c’era una luce stana in quegli occhi. Durò un istante, poi un sorriso allegro cancellò nella ragazzina quella sensazione spiacevole.
- Cugina, sei cresciuta, ora sei una donna. Vieni con me in Italia, c’è lavoro, si guadagna tanto e si sta bene.-
Questo era stato, più o meno, il discorso che Jummai le aveva fatto e poi aveva ripetuto ai genitori di lei, aggiungendo che le spese del viaggio non erano un problema, le avrebbe anticipate lui, Hafsah avrebbe potuto rimborsarlo con il denaro che avrebbe guadagnato in seguito; intanto loro, al villaggio, avrebbero avuto una bocca in meno da sfamare. -Inoltre, proseguì Jummai,- gli uomini di scienza, quelli che sanno tutto, dicono che presto dovremo comunque lasciare la nostra terra, non ci sarà più acqua per tutti. Meglio dare a Hafsah l’opportunità di una vita infinitamente migliore prima che sia troppo tardi.-
concluse Jummai in tono molto convincente.
A Hafsah non sembrò vero quando i genitori decisero di lasciarla partire, era la realizzazione di un sogno: avrebbe seguito le rondini e sarebbe arrivata dove facevano il nido, un posto al di là del mare pieno di meraviglie, come l’acqua che a volte diventava bianca e copriva le montagne, così aveva sentito dire; in ogni caso, anche lei avrebbe esibito vestiti e collane meravigliose.
Il viaggio fu lungo, faticoso e pericoloso, suo cugino le aveva spiegato che non potevano viaggiare insieme, lei doveva entrare di nascosto in quel paese del quale lui invece oramai aveva le chiavi. Ma di sicuro l’aspettavano una bella casa, un buon lavoro e presto i soldi, tanti soldi, era più di una promessa.
All'arrivo Jummai non c’era, e Hafsah non lo rivide più. Al suo posto, alcuni connazionali sconosciuti l’avevano prelevata direttamente dalla spiaggia dove era approdata, fradicia, affamata e spaventata, e l’avevano portata in una lurida casa nella campagna.
La ragazza scoprì molto presto che suo cugino l’aveva semplicemente venduta a un’organizzazione di sfruttatori e che sopra quella casa non volavano le rondini: là, dove lei e alcune altre erano tenute segregate mentre imparavano a forza il mestiere, non c’era posto per i sogni.
Erano le cinque di un pomeriggio d’autunno inoltrato ma i giorni erano ancora roventi come ad Agosto.
Hafsah aspettava sullo spiazzo della statale. Il trucco volutamente pesante cercava di celare il volto da bambina, indosso portava solo una minigonna rossa e una maglietta gialla, attillata e scollata in modo che il suo seno quasi straripava; le scarpe dai tacchi altissimi le rendevano difficile camminare, così stava ferma. Aspettava.
Il furgone bianco frenò poco più avanti, poi retrocedette lentamente.
Un altro cliente, il pomeriggio era stato fiacco, forse sarebbe riuscita a farla diventare una buona giornata, pensò Hafsah.
L’uomo al volante era trasandato, i capelli lunghi raccolti sulla nuca, la barba unta e incolta e quando la apostrofò volgarmente il suo alito puzzava di vino.
Hafsah ebbe un attimo di esitazione, ma sapeva cosa le sarebbe accaduto se, alla fine della giornata, non avesse portato tutto il denaro che si aspettavano da lei. Pensò che non sarebbe stata la prima volta, né l’ultima, che avrebbe accettato un cliente che la disgustava.
La contrattazione fu veloce e lei salì, indicando all’uomo la piccola strada sterrata dove appartarsi.
L’uomo la fece sdraiare brutalmente, poi si mise sopra di lei senza il minimo riguardo.
Hafsah aveva imparato a estraniarsi e persino a sorridere, seguendo il filo dei suoi pensieri mentre gli uomini facevano quello per cui l’avevano pagata. Non era difficile: lei non sentiva nulla, l’al uasat, una tradizione del suo popolo che veniva rispettata puntigliosamente per tutte le bambine e che lei aveva subìto quando ancora prendeva il latte, l’aveva resa incapace di provare qualunque piacere sessuale.
In ogni caso, con quel cliente non avrebbe fatto la minima differenza: a volte ne capitava uno gentile, ma non era certo la persona che in quel momento stava sopra di lei, bestemmiando e alitandole addosso odio e puzza di vino.
- Cos’hai da sorridere, puttana, mi prendi in giro? Stronza di una negra, non sei nemmeno capace di farmelo venire duro! -
Lo schiaffo arrivò violento, tra la tempia e la bocca, facendole uscire il sangue dall’angolo del labbro.
Anche a questo Hafsah era abituata, non era la prima volta che un uomo, sfruttatore o cliente, la picchiava.
- Non mi picchiare, tu stai buono, faccio io tutto, tu vedrai, io sono brava -.
- Ma cosa vuoi fare?- sibilò con rabbia l'uomo - Mi fai schifo, non dovevo prendere su una lurida negra come te, rendimi i soldi.-
L’uomo adesso era in ginocchio e le aveva messo una mano sul collo; Hafsah iniziò ad avere paura.
- Tu lasciami, va bene, io ti do i soldi, mi fai male -.
Una strana luce si accese negli occhi dell’uomo che iniziò a serrare la mano, appoggiandosi con tutto il suo peso.
-Ti faccio male? Ecco, questo sì che mi eccita, dillo ancora, brutta troia!-
Ma Hafsah non poteva parlare, apriva la bocca e l’aria non arrivava ai polmoni, si dibatteva, mentre il terrore s’impossessava di lei. L’uomo era forte, le teneva serrati entrambi gli esili polsi dentro una mano, mentre con l’altra alternava strette al collo con schiaffi spietati. Poi, per sua fortuna, Hafsah perse i sensi e non fu più preda del dolore e della paura, ma solo di una bestia accecata dalla follia.
Passarono pochi minuti e il furgone ripartì, vagando tra le stradine sterrate della pineta. Alla fine si fermò dove un fiumiciattolo si avvicinava al mare tra cespugli e basse dune di sabbia. L’uomo si guardò intorno, quindi trascinò fuori senza sforzo apparente la ragazza. La finì di spogliare, la fece rotolare lungo il corto declivio dell’argine, poi mise i pochi vestiti vicino alla borsetta, sul sedile; se ne sarebbe disfatto da qualche altra parte. Mise in moto e si allontanò velocemente in un sollevarsi di polvere e cartacce.
Il cielo era percorso da piccole forme scure e veloci che lo riempivano di grida: le rondini roteavano a centinaia ma non si allontanavano: con l’autunno così caldo non sentivano più il bisogno di tornare in quelle terre lontane..
Hafsah le guardava con occhi sbarrati mentre, vestita delle foglie di un cespuglio ingrigito dalla polvere, trascinava con fatica il respiro rantolante attraverso la gola martoriata.
Provava una grande invidia per quei piccoli uccelli.
-Almeno voi potete tornare, siete libere, non fatevi ingannare dalle false promesse.-
mormorò Hafsah mentre si abbandonava al buio che la stava avvolgendo.
Hafsah le guardava con occhi sognanti mentre, vestita di un logoro abitino a fiori, trascinava con fatica un secchio dalla fonte limacciosa verso la baracca che chiamavano casa.
Provava una grande invidia per quei piccoli uccelli. Venivano dal sud e volavano liberi verso un nuovo cielo, verso una terra ricca.
- Fortunate quelle rondini che non sono costrette a rimanere in questo posto per tutta la vita - sospirò la ragazzina, fermandosi un momento per posare con attenzione il secchio, le braccia dolenti per lo sforzo.
Aveva ancora molta strada da fare, e forse in futuro sarebbe stato ancora peggio: i vecchi dicevano che il sole era sempre più caldo e l’acqua si sarebbe nascosta ancora più in profondità.
Quel giorno stesso al villaggio fece ritorno Jummai, un cugino di Hafsah che era riuscito ad andarsene qualche anno prima. Era venuto per salutare i genitori e i due fratelli, almeno questo era ciò che diceva. Ma si capiva che era tornato soprattutto per esibire la sua nuova ricchezza e i suoi vestiti occidentali. Con quello che era costato il suo orologio d’oro sarebbe stato possibile portare l’acqua in ogni casa del villaggio; non se ne curava, e fingeva di ignorare gli sguardi di suo padre che non aveva mai approvato la sua partenza.
Jummai fissò Hafsah con uno sguardo che la turbò: c’era una luce stana in quegli occhi. Durò un istante, poi un sorriso allegro cancellò nella ragazzina quella sensazione spiacevole.
- Cugina, sei cresciuta, ora sei una donna. Vieni con me in Italia, c’è lavoro, si guadagna tanto e si sta bene.-
Questo era stato, più o meno, il discorso che Jummai le aveva fatto e poi aveva ripetuto ai genitori di lei, aggiungendo che le spese del viaggio non erano un problema, le avrebbe anticipate lui, Hafsah avrebbe potuto rimborsarlo con il denaro che avrebbe guadagnato in seguito; intanto loro, al villaggio, avrebbero avuto una bocca in meno da sfamare. -Inoltre, proseguì Jummai,- gli uomini di scienza, quelli che sanno tutto, dicono che presto dovremo comunque lasciare la nostra terra, non ci sarà più acqua per tutti. Meglio dare a Hafsah l’opportunità di una vita infinitamente migliore prima che sia troppo tardi.-
concluse Jummai in tono molto convincente.
A Hafsah non sembrò vero quando i genitori decisero di lasciarla partire, era la realizzazione di un sogno: avrebbe seguito le rondini e sarebbe arrivata dove facevano il nido, un posto al di là del mare pieno di meraviglie, come l’acqua che a volte diventava bianca e copriva le montagne, così aveva sentito dire; in ogni caso, anche lei avrebbe esibito vestiti e collane meravigliose.
Il viaggio fu lungo, faticoso e pericoloso, suo cugino le aveva spiegato che non potevano viaggiare insieme, lei doveva entrare di nascosto in quel paese del quale lui invece oramai aveva le chiavi. Ma di sicuro l’aspettavano una bella casa, un buon lavoro e presto i soldi, tanti soldi, era più di una promessa.
All'arrivo Jummai non c’era, e Hafsah non lo rivide più. Al suo posto, alcuni connazionali sconosciuti l’avevano prelevata direttamente dalla spiaggia dove era approdata, fradicia, affamata e spaventata, e l’avevano portata in una lurida casa nella campagna.
La ragazza scoprì molto presto che suo cugino l’aveva semplicemente venduta a un’organizzazione di sfruttatori e che sopra quella casa non volavano le rondini: là, dove lei e alcune altre erano tenute segregate mentre imparavano a forza il mestiere, non c’era posto per i sogni.
Erano le cinque di un pomeriggio d’autunno inoltrato ma i giorni erano ancora roventi come ad Agosto.
Hafsah aspettava sullo spiazzo della statale. Il trucco volutamente pesante cercava di celare il volto da bambina, indosso portava solo una minigonna rossa e una maglietta gialla, attillata e scollata in modo che il suo seno quasi straripava; le scarpe dai tacchi altissimi le rendevano difficile camminare, così stava ferma. Aspettava.
Il furgone bianco frenò poco più avanti, poi retrocedette lentamente.
Un altro cliente, il pomeriggio era stato fiacco, forse sarebbe riuscita a farla diventare una buona giornata, pensò Hafsah.
L’uomo al volante era trasandato, i capelli lunghi raccolti sulla nuca, la barba unta e incolta e quando la apostrofò volgarmente il suo alito puzzava di vino.
Hafsah ebbe un attimo di esitazione, ma sapeva cosa le sarebbe accaduto se, alla fine della giornata, non avesse portato tutto il denaro che si aspettavano da lei. Pensò che non sarebbe stata la prima volta, né l’ultima, che avrebbe accettato un cliente che la disgustava.
La contrattazione fu veloce e lei salì, indicando all’uomo la piccola strada sterrata dove appartarsi.
L’uomo la fece sdraiare brutalmente, poi si mise sopra di lei senza il minimo riguardo.
Hafsah aveva imparato a estraniarsi e persino a sorridere, seguendo il filo dei suoi pensieri mentre gli uomini facevano quello per cui l’avevano pagata. Non era difficile: lei non sentiva nulla, l’al uasat, una tradizione del suo popolo che veniva rispettata puntigliosamente per tutte le bambine e che lei aveva subìto quando ancora prendeva il latte, l’aveva resa incapace di provare qualunque piacere sessuale.
In ogni caso, con quel cliente non avrebbe fatto la minima differenza: a volte ne capitava uno gentile, ma non era certo la persona che in quel momento stava sopra di lei, bestemmiando e alitandole addosso odio e puzza di vino.
- Cos’hai da sorridere, puttana, mi prendi in giro? Stronza di una negra, non sei nemmeno capace di farmelo venire duro! -
Lo schiaffo arrivò violento, tra la tempia e la bocca, facendole uscire il sangue dall’angolo del labbro.
Anche a questo Hafsah era abituata, non era la prima volta che un uomo, sfruttatore o cliente, la picchiava.
- Non mi picchiare, tu stai buono, faccio io tutto, tu vedrai, io sono brava -.
- Ma cosa vuoi fare?- sibilò con rabbia l'uomo - Mi fai schifo, non dovevo prendere su una lurida negra come te, rendimi i soldi.-
L’uomo adesso era in ginocchio e le aveva messo una mano sul collo; Hafsah iniziò ad avere paura.
- Tu lasciami, va bene, io ti do i soldi, mi fai male -.
Una strana luce si accese negli occhi dell’uomo che iniziò a serrare la mano, appoggiandosi con tutto il suo peso.
-Ti faccio male? Ecco, questo sì che mi eccita, dillo ancora, brutta troia!-
Ma Hafsah non poteva parlare, apriva la bocca e l’aria non arrivava ai polmoni, si dibatteva, mentre il terrore s’impossessava di lei. L’uomo era forte, le teneva serrati entrambi gli esili polsi dentro una mano, mentre con l’altra alternava strette al collo con schiaffi spietati. Poi, per sua fortuna, Hafsah perse i sensi e non fu più preda del dolore e della paura, ma solo di una bestia accecata dalla follia.
Passarono pochi minuti e il furgone ripartì, vagando tra le stradine sterrate della pineta. Alla fine si fermò dove un fiumiciattolo si avvicinava al mare tra cespugli e basse dune di sabbia. L’uomo si guardò intorno, quindi trascinò fuori senza sforzo apparente la ragazza. La finì di spogliare, la fece rotolare lungo il corto declivio dell’argine, poi mise i pochi vestiti vicino alla borsetta, sul sedile; se ne sarebbe disfatto da qualche altra parte. Mise in moto e si allontanò velocemente in un sollevarsi di polvere e cartacce.
Il cielo era percorso da piccole forme scure e veloci che lo riempivano di grida: le rondini roteavano a centinaia ma non si allontanavano: con l’autunno così caldo non sentivano più il bisogno di tornare in quelle terre lontane..
Hafsah le guardava con occhi sbarrati mentre, vestita delle foglie di un cespuglio ingrigito dalla polvere, trascinava con fatica il respiro rantolante attraverso la gola martoriata.
Provava una grande invidia per quei piccoli uccelli.
-Almeno voi potete tornare, siete libere, non fatevi ingannare dalle false promesse.-
mormorò Hafsah mentre si abbandonava al buio che la stava avvolgendo.