Sangue di pietra
Inviato: 13/10/2021, 18:11
In una grotta vicino al mare dove il fragore delle onde copriva ogni rumore Petro si risvegliò dal suo sonno. Furono gli antichi a portarlo lì. Lo trasportarono con navi vetuste e primitive fatte di legno di cedro ritenuto sacro e rifinite in bronzo. Quelle navi venivano da lontano ed arrivarono su quelle coste allora disabitate e selvagge. Gli antichi lo avevano scolpito nella roccia e con formule note solo a loro lo avevano animato dandogli il soffio della vita. Nessuno sapeva perché avessero creato Petro né perché lo avessero nascosto in una grotta vicino al mare. Di quel popolo antico e misterioso si sa soltanto che erano tante le insidie e pericoli che ne minacciavano la sopravvivenza. Si presume che ne abbiano creati altri di giganti come Petro, lasciandoli qua e là come semi pronti a sbocciare o vulcani in attesa di poter eruttare distruggendo tutto quello che avrebbero incontrato. L’aspetto di Petro suggeriva un suo utilizzo bellico. Il suo corpo era inscalfibile, il suo organismo non necessitava di cibo e la fatica non apparteneva alla sua natura. I primi ricordi di Petro si rifacevano ai giorni della sua costruzione. Ciò avvenne in una città fantastica, nascosta fra le montagne nel deserto. Una città fatta di cupole d’oro e rame, lucenti ed alte. Ricordava in maniera nitida gli scalpellini che lo scolpivano con strumenti fatti di diamante e metalli sconosciuti. Ricordava gli anziani vestiti di blu con le barbe candide e la pelle bruna che lo esaminavano parlandogli in una lingua che mai avrebbe risentito, neanche se avesse girato il mondo intero. I soliti uomini si erano messi in mare ed una volta individuata la grotta lo trasportarono dentro, utilizzando macchine fatte di rame e leghe nobili. Lo coricarono con una delicatezza quasi materna in quel luogo buio e umido. Una volta adagiato al suolo iniziarono ad intonare una ninnananna. Petro sentì che il sonno stava prendendo il sopravvento, il suo corpo iniziò ad irrigidirsi e il suo cuore rallentò fino ad assopirsi. Prima di andarsene, uno di quegli anziani vestiti di blu carezzò la sua guancia rocciosa e sussurrò nel suo orecchio:
- Sii libero. La tua forza non ci salverà, niente può arrestare la nostra fine. Forse non ci rivedremo più. Addio prodigio vivente.
Petro cadde nel sonno più profondo, sentendo l’aggressività che gli era stata piantata dentro svanire. Un altro anziano vestito di blu promise a Petro che se fosse vissuto abbastanza lo sarebbe venuto a prendere, ma lui dormiva già e non sentì quella promessa. Gli antichi però non tornarono mai e Petro entrò nel letargo senza conoscere il senso della sua creazione. Senza uno scopo dormiva mentre il mare urlava, ed il tempo scorreva.
Molto tempo dopo in quella grotta dischiuse gli occhi, solo e disorientato comprese di essere orfano. Non sapeva cosa fosse il tempo né la vita. Esisteva e basta. La vista gli dava sempre il solito panorama buio fatta eccezione per i pochi e sottili raggi di luce che filtravano dall’esterno. Il mare e il suo ruggito interrompevano di tanto in tanto i suoi ricordi, l’unica cosa che possedeva al mondo. Si chiedeva dove fossero gli antichi, dove fosse la città dalle cupole d’oro e cosa le facesse scintillare dato che adesso era tutto buio. Illuminando le mani con la poca luce a disposizione capì di essere fatto di pietra, la solita materia della quale era fatta la caverna. Quella caverna era come un enorme grembo materno dal quale prima o dopo sarebbe dovuto uscire. In alcuni punti del suo corpo il muschio era cresciuto come una seconda pelle, soffice e scura. L’acqua che gocciolava dal soffitto della caverna lo incuriosiva, non ne afferrava la natura né il senso. Non capiva se fosse qualcosa di vivo dato che aveva una sua dinamicità o se fosse inanimata come la pietra che lo circondava. La luce che andava a stamparsi sulle pareti e l’acqua erano gli unici elementi oltre la pietra. Provò spesso ad afferrare la luce, ma non aveva peso e sostanza. Notò poi che ogni giorno la luce colpiva i soliti punti, lo intuì perché incise il bordo dei raggi solari sulla parete della caverna e si accorse che ogni giorno quei raggi si muovevano andando ad illuminare sempre i soliti posti. Non sapeva cosa fosse il tempo, ma comprese cosa fosse la costanza.
Dopo aver ragionato su questo, decise di andare incontro alla luce. Andandole incontro, la luce si fece sempre più intensa, fino al giorno in cui trovò l’uscita della caverna.
Fuori dalla caverna tutto era luce, tutto era fatto di colori. La prima volta si spaventò. Non aveva mai provato niente del genere. Sentì qualcosa di caldo scorrergli dentro e la sua pelle farsi più pesante. Senza che se ne fosse accorto aveva innescato un meccanismo di autodifesa che lo rendeva ancora più forte e resistente. Quando uscì per la seconda volta il coraggio era saldo in lui, decise quindi di esplorare il mondo circostante. Il mare e il cielo furono la prima cosa che riuscì a vedere e in un certo senso a capire. Si accorse che non erano la stessa cosa e notò che l’acqua era per lui qualcosa di pericoloso. Dei sassi sdrucciolarono in mare andando giù senza riemergere, questo gli creò un po’ di ansia. Il cielo era alto, limpido e innocuo. Gli piacque. Si arrampicò su per la scogliera ed arrivò in un bosco fatto di pini verdi. Toccò gli alberi, anche questi sembravano fatti di pietra ma notò che erano molto più fragili. La loro corteccia si sfaldava con estrema facilità. Non erano simili a Petro in nulla e di questo se ne dispiacque dato che gli piacevano. Vide poi degli animali e sentì che gli piacevano. Trovava belli i serpenti, lucidi e scintillanti. Amava i conigli soffici e timidi. Adorava gli uccelli dinamici e esuberanti. Negli animali vedeva e sentiva qualcosa di strano. La vita e il movimento erano bizzarri per lui. Ma niente di tutto quello che trovava bello e interessante gli somigliava, questo gli fece sperimentare la solitudine e i sentimenti che ne derivavano.
Senza che afferrasse il concetto di tempo iniziò ad interrogarsi su se stesso, riesaminando i suoi ricordi per poi confrontarli con le sue nuove esperienze. Cosa lo teneva in vita? Quali erano i meccanismi che lo differenziavano dal resto delle altre creature? Quali erano i processi che innescavano le sue idee? Cosa scorreva sotto la pietra che lo componeva?
Iniziò a studiare il movimento del sole e delle stelle. Capì che la luce andava e veniva sempre nella stessa maniera. Ma non avendo concezione del tempo non dette troppo peso a ciò, anzi credette che il sole appartenesse al regno animale e come lui anche le stelle. Vedeva ogni giorno il sole e ogni notte la luna e le stelle. Erano lontani e luminosi. Durante le notti dove la luna splendeva pensava spesso agli antichi e alla loro città. Quando di notte pensava a loro il giorno seguente tornava alla grotta. Ma le possenti navi in cedro non c’erano e nemmeno gli antichi dalla pelle bruna e le vesti blu. La nostalgia e la speranza lo attanagliavano spesso facendolo sentire un estraneo, un alieno caduto dal cielo in un mondo bello, ma che non gli apparteneva.
Non era infelice, ma i suoi creatori li avrebbe rincontrati volentieri. Volentieri avrebbe rivisto i loro abiti blu, la loro barba bianca, riascoltato la loro voce. La loro ninnananna che ancora riecheggiava nella sua testa granitica era l’unico gesto di affetto che aveva ricevuto e che mai avrebbe scordato.
Poi un giorno qualcosa nell’aria mentre vagabondava fra i pini lo destò dai suoi pensieri. Inizialmente credette di aver sognato, di essersi immaginato tutto. Ma poco dopo la sentì di nuovo. Sentì la voce di un uomo. Non poteva sbagliare visto che nessun animale poteva replicare un suono come quello. Pensò subito agli antichi, forse erano venuti a prenderlo.
Seguì la voce e seguendola si accorse che il bosco spariva. Ai margini della vegetazione gli si parò davanti uno spettacolo singolare e bizzarro. In un agglomerato di sassi simili a grotte c’erano dei curiosi esseri. Avevano le fattezze degli antichi, delle similitudini nei tratti. Ma il disgusto che sentì non lo aveva mai provato. Quelli non erano gli antichi, quei “cosi” potevano avere due braccia e due gambe come loro, ma non erano loro. La loro lingua era volgare e fastidiosa, il loro tono nel parlare era rozzo. Gli abiti che portavano addosso erano logori e banali. Le loro case, che Petro aveva confuso per grotte, erano squallide. In niente quell’accozzaglia di pietre e ciottoli assomigliava alla città dalle cupole d’oro. In nulla la voce e le parole di chi lo aveva creato erano simili ai volgari rantoli di quelle bestie su due zampe.
La delusione diventò orrore quando li vide mangiare. Uccidevano e mangiavano gli animali che lui amava. Sentì l’impulso di ucciderli tutti, ma poi si domandò “a che fine farlo?”. La loro natura era quella, misera e brutta. Non avrebbe vendicato la sofferenza delle bestie, le quali anche loro mangiavano e uccidevano, né avrebbe istruito quei mostri ad una vita migliore. Sarebbe stata violenza fine a se stessa se li avesse uccisi. Sarebbe di conseguenza diventato come loro, come l’unica cosa che odiava al mondo. I comportamenti degli uomini fecero sì che Petro iniziasse a guardarsi dentro, così da interrogarsi su cosa fosse giusto o sbagliato.
Il giorno si fece notte e le stelle e la luna apparvero. Si rallegrò del fatto che almeno loro non fossero spariti nelle loro disgustose bocche. I grilli frinivano nella testa di Petro, una melodia trita ma rassicurante. Era la musica della terra, utile a cose che lui non sapeva, ma che avrebbe voluto conoscere. Gli interrogativi sul mondo che lo circondava erano tanti. Avrebbe voluto capire tutto, ma senza un maestro, un amico o qualsiasi essere col quale comunicare era tutto complicato. Era come giocare ad un gioco senza saperne le regole. Poteva solo osservare ed ascoltare quello che lo circondava, trarre delle conclusioni che potevano essere giuste o sbagliate e questo solo grazie al suo intelletto continuamente martellato da interrogativi. Poi qualcosa di diverso lo fece sobbalzare. Un suono unico, una melodia che gli entrò nelle orecchie, qualcosa di nuovo, di mai ascoltato. Provò qualcosa di simile alla paura che lo aveva assalito il primo giorno fuori dalla grotta. Ma poi la paura svanì e diventò qualcosa di diverso, che non sapeva spiegare.
Si avvicinò verso quel suono delicato, simile in qualche modo alle parole degli antichi e quando capì da dove venisse fu stupore, confusione e meraviglia. Affacciata alla finestra di una casupola fatiscente una ragazza pregava illuminata da una candela. Era così bella da spaventarlo. Quella ragazza era una di loro, ma non era come loro. Non era viscida, né grezza. Era bella anche se non conosceva il significato di questa parola. Il suo volto non era volgare, come non lo erano le sue mani, né la sua voce delicata. Petro ascoltò le sue note vocali senza capire una sola parola. Ma non aveva importanza per lui. La candela poi si spense e la ragazza sparì nell’ombra. Tornò lì ogni notte e lei ogni notte pregava a voce alta, incantandolo.
Grazie a lei iniziò ad elaborare e capire ed apprezzare il concetto di bellezza. Era qualcosa di più profondo della meraviglia o dello stupore. Quelli li aveva sperimentati velocemente perché ciò che lo circondava, specialmente una volta uscito dalla grotta, era tutto una scoperta, una novità.
La sua intelligenza si era evoluta, portandolo a fare ragionamenti o speculazioni. Ma quella ragazza era qualcosa di più. Davanti a lei non ragionava. Si perdeva. Perdeva la sua abitudine di giudicare, di chiedersi il perché di tutto. Era bella, semplicemente bella. E non lasciava adito ad altro. Non c'era da chiedersi perché. Lui poteva solo star lì a fissarla, senza pensare ad altro.
Ascoltandola iniziò a capirla. Iniziò a tradurre in oggetti e concetti i suoni che lo affascinavano. Quella creatura unica chiedeva non si sa a chi delle ricchezze.
Per scoprire cosa fosse la ricchezza Petro dovette umiliarsi nel dover osservare gli altri uomini e donne. Non fu facile spiarli senza farsi vedere, ma ci riuscì.
Capì che la ricchezza e la felicità erano connesse, ma non erano la solita cosa. La maggior parte degli uomini bramava le ricchezze senza però mai ottenerle. Offendevano i pochi che ne possedevano e si lanciavano in sfuriate patetiche quando a sera si ubriacavano dopo aver faticato tutto il giorno. Altri rubavano, altri si vendevano, molti tradivano per queste ricchezze.
Aveva un opinione degli uomini sempre più bassa. Si domandò perché la ragazza, tanto bella e gentile, aspirasse alla solita cosa di quei ridicoli e gretti esseri. Ogni notte la vedeva e l’ascoltava, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, per esaudire i suoi desideri. Lei di ricchezza a Petro ne aveva elargita tanta senza saperlo. Si sentiva ricco grazie a lei. Il senso di vuoto era sparito da quando l’aveva vista per la prima volta, avere un esistenza piena per lui era la ricchezza più grande.
Era comunque difficile capire cosa fosse materialmente la ricchezza. Gli uomini del posto barattavano tutto, non usavano ricchezze per sostentarsi. Un giorno però un uomo diverso dagli altri, uno che in quel paesino non aveva mai visto, arrivò da lontano. Gli altri uomini era ammutoliti al suo cospetto, docili e guardinghi. Le loro espressioni di fronte a quello straniero erano contrite, sembrava che lo temessero, ma ciò nonostante erano goffamente servili nei suoi riguardi. Quest’uomo, con sprezzo malcelato, tirò fuori di tasca una pepita d’oro lucente e tutti si misero in moto come burattini al suo servizio. Tutti correvano per accontentarlo, gli sorridevano e si sforzavano di essere meno brutti e rozzi. Lui li derideva e loro facevano a gara nel farsi deridere. Quella pepita riaccese i ricordi più lontani di Petro. Le cupole della città degli antichi erano fatte di quella sostanza luminosa. Gli antichi ne avevano da buttare di quel metallo straordinario. Certo, loro non lo usavano come moneta. L‘oro degli antichi serviva per catturare i fulmini ed innescare enormi macchine di straordinaria bellezza. Petro rise di quell’uomo. Usava un oggetto del genere per avere in cambio gli oggetti e i servizi di quei barbari.
La nostalgia per un momento gli appesantì l’animo, ma poi si rallegrò.
Di oro o ricchezze simili la terra è piena. Gli antichi glielo avevano detto, anzi era una delle sue mansioni trovare l’oro. Avrebbe trovato l’oro e lo avrebbe consegnato alla ragazza rendendola ricca. Sentì la felicità scorrergli dentro, qualcosa di caldo che nella sua vita aveva sperimentato poche volte. Aspettò con ansia il buio, poi avrebbe atteso la luce della candela e infine la voce della ragazza.
Anche quella sera le andò incontro dopo averla sentita pregare. Quella notte avrebbe dato qualsiasi cosa per poterla toccare. Si avvicinò lentamente. Lei non lo sentì né lo vide. Poi lui per la prima volta in vita sua parlò. Il suo fu più in rantolo, non aveva mai parlato in vita sua e nemmeno sentito mai il suono della propria voce. Rimase stupito oltre che imbarazzato, ma non volle farci caso visto che la ragazza lo aveva sentito e aveva smesso di pregare. Sentendo quel suono strano la ragazza si era bloccata, domandò chi ci fosse, ma nessuno le rispose. Un colosso di Pietra le stava di fronte, ma lei non lo vedeva. I suoi occhi, grandi e bellissimi, fissavano il vuoto e le sue mani si agitavano l’una con l’altra. Petro comprese che la ragazza non lo avrebbe visto, come mai avrebbe potuto vedere nulla. Pensò alla ragazza, ai suoi ricordi fatti di soli suoni, senza immagini ne colori. La ragazza domandò di nuovo chi fosse, Petro si sentì triste come mai si era sentito. Si fece coraggio e le chiese il suo nome
- Iris. Rispose lei con un po’ di apprensione.
Vide i suoi grandi occhi verdi socchiudersi, non aveva paura e questo lo intenerì ancora di più . Avrebbe voluto accarezzarla, dimostrale l’affetto che lo scaldava sotto la sua scorza rocciosa. Ma si congedò, promettendo che sarebbe tornato per esaudire i suoi desideri. Lei lo lasciò andare credendo forse che un angelo fosse sceso in terra per ascoltarla.
Petro tornò nella caverna dalla quale era uscito molto tempo prima e iniziò a scavare. La pietra della caverna si sgretolava sotto i suoi possenti colpi. Un metro alla volta Petro aprì una voragine ciclopica, più estesa del villaggio di Iris. Senza vedere più il sole e la luna perse la cognizione del tempo. Scavò sempre più a fondo fino a che una vena d’oro illuminò il buio. Era riuscito nel suo scopo. L’oro era stato trovato e con esso anche molte gemme preziose. Ne raggruppò una quantità non indifferente che a mala pena riusciva a trasportare e una volta presa fra le sue possenti mani uscì dalla grotta. Fuori era buio, s’incamminò verso il villaggio di Iris, ma i punti di riferimento che ricordava erano scomparsi. Il bosco era praticamente sparito, adesso delle lunghe spighe avevano sostituito gli alberi. Con grosse difficoltà ritrovò il villaggio. Non era più squallido e fatiscente, sembrava più ordinato e curato. In giro non c’era nessuno, solo qualche gatto. Non si capacitava del perché ci fossero tanti cambiamenti. Poi vide una ragazza dove una volta Iris pregava. Anche la casa di Iris era cambiata, sembrava più grande e meno brutta. Si avvicinò a quella ragazza che nel buio teneva in mano qualcosa di luminoso. A farle luce non c’era una candela, ma una piccola sfera di luce che lui non aveva mai visto.
Fu invaso dalla gioia e per poco non fece cadere l’oro e le gemme. La ragazza era Iris.
Si avvicinò convinto di non essere visto, ma la ragazza alzò lo sguardo su di lui e rimase impietrita dal terrore. Lui non arrestò la sua avanzata e una volta al suo cospetto le mostrò l’oro e le gemme che aveva estratto dalla grotta. La ragazza rimase interdetta, non disse nulla, fu Petro a chiamarla per nome.
- Iris.
Lei guardò le ricchezze e poi il colosso di pietra che gliele porgeva. Cercò di dominare la paura e con un filo di voce.
- Io non sono Iris. Mi chiamo Rosa. Iris era mia nonna.
Lui rimase ammutolito.
- Purtroppo mia nonna è morta quindici anni fa. Era molto anziana. Mi dispiace.
Quelle parole scossero dentro di lui qualcosa che non si muoveva da molto, forse troppo, tempo. Iniziò a sentir scorrere dentro di se qualcosa di caldo. Quella sostanza gli ricordò istintivamente l’acqua. Riusciva ad avvertirne la consistenza anche se tutto avveniva dentro di lui. Il suo corpo si stava intorpidendo, un po’ come quando gli antichi cantarono la ninnananna che lo fece addormentare. Ma stavolta era diverso. Un pezzo alla volta la sua enorme mole iniziò a sgretolarsi fino a diventare polvere. L’ultima cosa che vide furono gli occhi verdi di Rosa, identici a quelli di Iris, e poi più nulla. Ai piedi della ragazza rimase un piccolo cumulo di polvere nera, simile alla cenere ma con dei riflessi vetrosi. Dalla polvere spuntarono simili a dei funghi le gemme e l’oro che scintillavano sotto la luce della luna. Le gemme brillarono più forti dopo che il vento soffiò via la polvere nera. Quel manto nero volò leggero fino al mare, forse fino alla città dalle cupole dorate.
- Sii libero. La tua forza non ci salverà, niente può arrestare la nostra fine. Forse non ci rivedremo più. Addio prodigio vivente.
Petro cadde nel sonno più profondo, sentendo l’aggressività che gli era stata piantata dentro svanire. Un altro anziano vestito di blu promise a Petro che se fosse vissuto abbastanza lo sarebbe venuto a prendere, ma lui dormiva già e non sentì quella promessa. Gli antichi però non tornarono mai e Petro entrò nel letargo senza conoscere il senso della sua creazione. Senza uno scopo dormiva mentre il mare urlava, ed il tempo scorreva.
Molto tempo dopo in quella grotta dischiuse gli occhi, solo e disorientato comprese di essere orfano. Non sapeva cosa fosse il tempo né la vita. Esisteva e basta. La vista gli dava sempre il solito panorama buio fatta eccezione per i pochi e sottili raggi di luce che filtravano dall’esterno. Il mare e il suo ruggito interrompevano di tanto in tanto i suoi ricordi, l’unica cosa che possedeva al mondo. Si chiedeva dove fossero gli antichi, dove fosse la città dalle cupole d’oro e cosa le facesse scintillare dato che adesso era tutto buio. Illuminando le mani con la poca luce a disposizione capì di essere fatto di pietra, la solita materia della quale era fatta la caverna. Quella caverna era come un enorme grembo materno dal quale prima o dopo sarebbe dovuto uscire. In alcuni punti del suo corpo il muschio era cresciuto come una seconda pelle, soffice e scura. L’acqua che gocciolava dal soffitto della caverna lo incuriosiva, non ne afferrava la natura né il senso. Non capiva se fosse qualcosa di vivo dato che aveva una sua dinamicità o se fosse inanimata come la pietra che lo circondava. La luce che andava a stamparsi sulle pareti e l’acqua erano gli unici elementi oltre la pietra. Provò spesso ad afferrare la luce, ma non aveva peso e sostanza. Notò poi che ogni giorno la luce colpiva i soliti punti, lo intuì perché incise il bordo dei raggi solari sulla parete della caverna e si accorse che ogni giorno quei raggi si muovevano andando ad illuminare sempre i soliti posti. Non sapeva cosa fosse il tempo, ma comprese cosa fosse la costanza.
Dopo aver ragionato su questo, decise di andare incontro alla luce. Andandole incontro, la luce si fece sempre più intensa, fino al giorno in cui trovò l’uscita della caverna.
Fuori dalla caverna tutto era luce, tutto era fatto di colori. La prima volta si spaventò. Non aveva mai provato niente del genere. Sentì qualcosa di caldo scorrergli dentro e la sua pelle farsi più pesante. Senza che se ne fosse accorto aveva innescato un meccanismo di autodifesa che lo rendeva ancora più forte e resistente. Quando uscì per la seconda volta il coraggio era saldo in lui, decise quindi di esplorare il mondo circostante. Il mare e il cielo furono la prima cosa che riuscì a vedere e in un certo senso a capire. Si accorse che non erano la stessa cosa e notò che l’acqua era per lui qualcosa di pericoloso. Dei sassi sdrucciolarono in mare andando giù senza riemergere, questo gli creò un po’ di ansia. Il cielo era alto, limpido e innocuo. Gli piacque. Si arrampicò su per la scogliera ed arrivò in un bosco fatto di pini verdi. Toccò gli alberi, anche questi sembravano fatti di pietra ma notò che erano molto più fragili. La loro corteccia si sfaldava con estrema facilità. Non erano simili a Petro in nulla e di questo se ne dispiacque dato che gli piacevano. Vide poi degli animali e sentì che gli piacevano. Trovava belli i serpenti, lucidi e scintillanti. Amava i conigli soffici e timidi. Adorava gli uccelli dinamici e esuberanti. Negli animali vedeva e sentiva qualcosa di strano. La vita e il movimento erano bizzarri per lui. Ma niente di tutto quello che trovava bello e interessante gli somigliava, questo gli fece sperimentare la solitudine e i sentimenti che ne derivavano.
Senza che afferrasse il concetto di tempo iniziò ad interrogarsi su se stesso, riesaminando i suoi ricordi per poi confrontarli con le sue nuove esperienze. Cosa lo teneva in vita? Quali erano i meccanismi che lo differenziavano dal resto delle altre creature? Quali erano i processi che innescavano le sue idee? Cosa scorreva sotto la pietra che lo componeva?
Iniziò a studiare il movimento del sole e delle stelle. Capì che la luce andava e veniva sempre nella stessa maniera. Ma non avendo concezione del tempo non dette troppo peso a ciò, anzi credette che il sole appartenesse al regno animale e come lui anche le stelle. Vedeva ogni giorno il sole e ogni notte la luna e le stelle. Erano lontani e luminosi. Durante le notti dove la luna splendeva pensava spesso agli antichi e alla loro città. Quando di notte pensava a loro il giorno seguente tornava alla grotta. Ma le possenti navi in cedro non c’erano e nemmeno gli antichi dalla pelle bruna e le vesti blu. La nostalgia e la speranza lo attanagliavano spesso facendolo sentire un estraneo, un alieno caduto dal cielo in un mondo bello, ma che non gli apparteneva.
Non era infelice, ma i suoi creatori li avrebbe rincontrati volentieri. Volentieri avrebbe rivisto i loro abiti blu, la loro barba bianca, riascoltato la loro voce. La loro ninnananna che ancora riecheggiava nella sua testa granitica era l’unico gesto di affetto che aveva ricevuto e che mai avrebbe scordato.
Poi un giorno qualcosa nell’aria mentre vagabondava fra i pini lo destò dai suoi pensieri. Inizialmente credette di aver sognato, di essersi immaginato tutto. Ma poco dopo la sentì di nuovo. Sentì la voce di un uomo. Non poteva sbagliare visto che nessun animale poteva replicare un suono come quello. Pensò subito agli antichi, forse erano venuti a prenderlo.
Seguì la voce e seguendola si accorse che il bosco spariva. Ai margini della vegetazione gli si parò davanti uno spettacolo singolare e bizzarro. In un agglomerato di sassi simili a grotte c’erano dei curiosi esseri. Avevano le fattezze degli antichi, delle similitudini nei tratti. Ma il disgusto che sentì non lo aveva mai provato. Quelli non erano gli antichi, quei “cosi” potevano avere due braccia e due gambe come loro, ma non erano loro. La loro lingua era volgare e fastidiosa, il loro tono nel parlare era rozzo. Gli abiti che portavano addosso erano logori e banali. Le loro case, che Petro aveva confuso per grotte, erano squallide. In niente quell’accozzaglia di pietre e ciottoli assomigliava alla città dalle cupole d’oro. In nulla la voce e le parole di chi lo aveva creato erano simili ai volgari rantoli di quelle bestie su due zampe.
La delusione diventò orrore quando li vide mangiare. Uccidevano e mangiavano gli animali che lui amava. Sentì l’impulso di ucciderli tutti, ma poi si domandò “a che fine farlo?”. La loro natura era quella, misera e brutta. Non avrebbe vendicato la sofferenza delle bestie, le quali anche loro mangiavano e uccidevano, né avrebbe istruito quei mostri ad una vita migliore. Sarebbe stata violenza fine a se stessa se li avesse uccisi. Sarebbe di conseguenza diventato come loro, come l’unica cosa che odiava al mondo. I comportamenti degli uomini fecero sì che Petro iniziasse a guardarsi dentro, così da interrogarsi su cosa fosse giusto o sbagliato.
Il giorno si fece notte e le stelle e la luna apparvero. Si rallegrò del fatto che almeno loro non fossero spariti nelle loro disgustose bocche. I grilli frinivano nella testa di Petro, una melodia trita ma rassicurante. Era la musica della terra, utile a cose che lui non sapeva, ma che avrebbe voluto conoscere. Gli interrogativi sul mondo che lo circondava erano tanti. Avrebbe voluto capire tutto, ma senza un maestro, un amico o qualsiasi essere col quale comunicare era tutto complicato. Era come giocare ad un gioco senza saperne le regole. Poteva solo osservare ed ascoltare quello che lo circondava, trarre delle conclusioni che potevano essere giuste o sbagliate e questo solo grazie al suo intelletto continuamente martellato da interrogativi. Poi qualcosa di diverso lo fece sobbalzare. Un suono unico, una melodia che gli entrò nelle orecchie, qualcosa di nuovo, di mai ascoltato. Provò qualcosa di simile alla paura che lo aveva assalito il primo giorno fuori dalla grotta. Ma poi la paura svanì e diventò qualcosa di diverso, che non sapeva spiegare.
Si avvicinò verso quel suono delicato, simile in qualche modo alle parole degli antichi e quando capì da dove venisse fu stupore, confusione e meraviglia. Affacciata alla finestra di una casupola fatiscente una ragazza pregava illuminata da una candela. Era così bella da spaventarlo. Quella ragazza era una di loro, ma non era come loro. Non era viscida, né grezza. Era bella anche se non conosceva il significato di questa parola. Il suo volto non era volgare, come non lo erano le sue mani, né la sua voce delicata. Petro ascoltò le sue note vocali senza capire una sola parola. Ma non aveva importanza per lui. La candela poi si spense e la ragazza sparì nell’ombra. Tornò lì ogni notte e lei ogni notte pregava a voce alta, incantandolo.
Grazie a lei iniziò ad elaborare e capire ed apprezzare il concetto di bellezza. Era qualcosa di più profondo della meraviglia o dello stupore. Quelli li aveva sperimentati velocemente perché ciò che lo circondava, specialmente una volta uscito dalla grotta, era tutto una scoperta, una novità.
La sua intelligenza si era evoluta, portandolo a fare ragionamenti o speculazioni. Ma quella ragazza era qualcosa di più. Davanti a lei non ragionava. Si perdeva. Perdeva la sua abitudine di giudicare, di chiedersi il perché di tutto. Era bella, semplicemente bella. E non lasciava adito ad altro. Non c'era da chiedersi perché. Lui poteva solo star lì a fissarla, senza pensare ad altro.
Ascoltandola iniziò a capirla. Iniziò a tradurre in oggetti e concetti i suoni che lo affascinavano. Quella creatura unica chiedeva non si sa a chi delle ricchezze.
Per scoprire cosa fosse la ricchezza Petro dovette umiliarsi nel dover osservare gli altri uomini e donne. Non fu facile spiarli senza farsi vedere, ma ci riuscì.
Capì che la ricchezza e la felicità erano connesse, ma non erano la solita cosa. La maggior parte degli uomini bramava le ricchezze senza però mai ottenerle. Offendevano i pochi che ne possedevano e si lanciavano in sfuriate patetiche quando a sera si ubriacavano dopo aver faticato tutto il giorno. Altri rubavano, altri si vendevano, molti tradivano per queste ricchezze.
Aveva un opinione degli uomini sempre più bassa. Si domandò perché la ragazza, tanto bella e gentile, aspirasse alla solita cosa di quei ridicoli e gretti esseri. Ogni notte la vedeva e l’ascoltava, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, per esaudire i suoi desideri. Lei di ricchezza a Petro ne aveva elargita tanta senza saperlo. Si sentiva ricco grazie a lei. Il senso di vuoto era sparito da quando l’aveva vista per la prima volta, avere un esistenza piena per lui era la ricchezza più grande.
Era comunque difficile capire cosa fosse materialmente la ricchezza. Gli uomini del posto barattavano tutto, non usavano ricchezze per sostentarsi. Un giorno però un uomo diverso dagli altri, uno che in quel paesino non aveva mai visto, arrivò da lontano. Gli altri uomini era ammutoliti al suo cospetto, docili e guardinghi. Le loro espressioni di fronte a quello straniero erano contrite, sembrava che lo temessero, ma ciò nonostante erano goffamente servili nei suoi riguardi. Quest’uomo, con sprezzo malcelato, tirò fuori di tasca una pepita d’oro lucente e tutti si misero in moto come burattini al suo servizio. Tutti correvano per accontentarlo, gli sorridevano e si sforzavano di essere meno brutti e rozzi. Lui li derideva e loro facevano a gara nel farsi deridere. Quella pepita riaccese i ricordi più lontani di Petro. Le cupole della città degli antichi erano fatte di quella sostanza luminosa. Gli antichi ne avevano da buttare di quel metallo straordinario. Certo, loro non lo usavano come moneta. L‘oro degli antichi serviva per catturare i fulmini ed innescare enormi macchine di straordinaria bellezza. Petro rise di quell’uomo. Usava un oggetto del genere per avere in cambio gli oggetti e i servizi di quei barbari.
La nostalgia per un momento gli appesantì l’animo, ma poi si rallegrò.
Di oro o ricchezze simili la terra è piena. Gli antichi glielo avevano detto, anzi era una delle sue mansioni trovare l’oro. Avrebbe trovato l’oro e lo avrebbe consegnato alla ragazza rendendola ricca. Sentì la felicità scorrergli dentro, qualcosa di caldo che nella sua vita aveva sperimentato poche volte. Aspettò con ansia il buio, poi avrebbe atteso la luce della candela e infine la voce della ragazza.
Anche quella sera le andò incontro dopo averla sentita pregare. Quella notte avrebbe dato qualsiasi cosa per poterla toccare. Si avvicinò lentamente. Lei non lo sentì né lo vide. Poi lui per la prima volta in vita sua parlò. Il suo fu più in rantolo, non aveva mai parlato in vita sua e nemmeno sentito mai il suono della propria voce. Rimase stupito oltre che imbarazzato, ma non volle farci caso visto che la ragazza lo aveva sentito e aveva smesso di pregare. Sentendo quel suono strano la ragazza si era bloccata, domandò chi ci fosse, ma nessuno le rispose. Un colosso di Pietra le stava di fronte, ma lei non lo vedeva. I suoi occhi, grandi e bellissimi, fissavano il vuoto e le sue mani si agitavano l’una con l’altra. Petro comprese che la ragazza non lo avrebbe visto, come mai avrebbe potuto vedere nulla. Pensò alla ragazza, ai suoi ricordi fatti di soli suoni, senza immagini ne colori. La ragazza domandò di nuovo chi fosse, Petro si sentì triste come mai si era sentito. Si fece coraggio e le chiese il suo nome
- Iris. Rispose lei con un po’ di apprensione.
Vide i suoi grandi occhi verdi socchiudersi, non aveva paura e questo lo intenerì ancora di più . Avrebbe voluto accarezzarla, dimostrale l’affetto che lo scaldava sotto la sua scorza rocciosa. Ma si congedò, promettendo che sarebbe tornato per esaudire i suoi desideri. Lei lo lasciò andare credendo forse che un angelo fosse sceso in terra per ascoltarla.
Petro tornò nella caverna dalla quale era uscito molto tempo prima e iniziò a scavare. La pietra della caverna si sgretolava sotto i suoi possenti colpi. Un metro alla volta Petro aprì una voragine ciclopica, più estesa del villaggio di Iris. Senza vedere più il sole e la luna perse la cognizione del tempo. Scavò sempre più a fondo fino a che una vena d’oro illuminò il buio. Era riuscito nel suo scopo. L’oro era stato trovato e con esso anche molte gemme preziose. Ne raggruppò una quantità non indifferente che a mala pena riusciva a trasportare e una volta presa fra le sue possenti mani uscì dalla grotta. Fuori era buio, s’incamminò verso il villaggio di Iris, ma i punti di riferimento che ricordava erano scomparsi. Il bosco era praticamente sparito, adesso delle lunghe spighe avevano sostituito gli alberi. Con grosse difficoltà ritrovò il villaggio. Non era più squallido e fatiscente, sembrava più ordinato e curato. In giro non c’era nessuno, solo qualche gatto. Non si capacitava del perché ci fossero tanti cambiamenti. Poi vide una ragazza dove una volta Iris pregava. Anche la casa di Iris era cambiata, sembrava più grande e meno brutta. Si avvicinò a quella ragazza che nel buio teneva in mano qualcosa di luminoso. A farle luce non c’era una candela, ma una piccola sfera di luce che lui non aveva mai visto.
Fu invaso dalla gioia e per poco non fece cadere l’oro e le gemme. La ragazza era Iris.
Si avvicinò convinto di non essere visto, ma la ragazza alzò lo sguardo su di lui e rimase impietrita dal terrore. Lui non arrestò la sua avanzata e una volta al suo cospetto le mostrò l’oro e le gemme che aveva estratto dalla grotta. La ragazza rimase interdetta, non disse nulla, fu Petro a chiamarla per nome.
- Iris.
Lei guardò le ricchezze e poi il colosso di pietra che gliele porgeva. Cercò di dominare la paura e con un filo di voce.
- Io non sono Iris. Mi chiamo Rosa. Iris era mia nonna.
Lui rimase ammutolito.
- Purtroppo mia nonna è morta quindici anni fa. Era molto anziana. Mi dispiace.
Quelle parole scossero dentro di lui qualcosa che non si muoveva da molto, forse troppo, tempo. Iniziò a sentir scorrere dentro di se qualcosa di caldo. Quella sostanza gli ricordò istintivamente l’acqua. Riusciva ad avvertirne la consistenza anche se tutto avveniva dentro di lui. Il suo corpo si stava intorpidendo, un po’ come quando gli antichi cantarono la ninnananna che lo fece addormentare. Ma stavolta era diverso. Un pezzo alla volta la sua enorme mole iniziò a sgretolarsi fino a diventare polvere. L’ultima cosa che vide furono gli occhi verdi di Rosa, identici a quelli di Iris, e poi più nulla. Ai piedi della ragazza rimase un piccolo cumulo di polvere nera, simile alla cenere ma con dei riflessi vetrosi. Dalla polvere spuntarono simili a dei funghi le gemme e l’oro che scintillavano sotto la luce della luna. Le gemme brillarono più forti dopo che il vento soffiò via la polvere nera. Quel manto nero volò leggero fino al mare, forse fino alla città dalle cupole dorate.