Il cavaliere del cielo
Inviato: 16/10/2021, 18:30
Che ci faccio qui? E come ci sono arrivato? Non ricordo nulla… Non so come e perché, ma mi ritrovo in un ambiente rurale, forse in aperta campagna. La fitta nebbia che mi circonda non mi concede altri indizi, fatta eccezione per un casolare che si erge di fronte a me. C'è una porta socchiusa, dall'interno filtra una luce tremolante. Tanto vale entrare, non ho molte alternative…
Mi trovo ora in una sala dove ci sono delle tavole apparecchiate: su ognuna di esse, sopra una tovaglia a quadretti, sempre la stessa, sono disposte con meticolosa precisione piatti, posate e un immancabile fiasco di vino rosso. Sembra di essere in una bettola dei primi del Novecento. Ma di avventori nessuna traccia. Mi guardo intorno. Appeso alla parete c'è un quadro con l'effigie di un pilota francese: è in piedi davanti al suo aereo, un Newport 11, la mano appoggiata sull'elica. Anche i nostri aviatori, soprattutto durante i primi mesi della Grande Guerra, hanno volato con questo splendido caccia: Francesco Baracca, Pier Ruggero Piccio, Fulco Ruffo e tanti altri… Mi gratto la testa. Da una stanza alla mia sinistra sento provenire dei rumori, simili a schiamazzi di bambini che giocano. Appoggio l'orecchio alla parete: sì, sembra proprio che ci siano dei ragazzini che si stanno trastullando. Cammino lungo il muro, apro con cautela la porta che ancora mi separa da quel trambusto. Mentre lo spazio visivo aumenta gradualmente, le immagini si fanno sempre più nitide e chiare. Un uomo, con la divisa militare degli Ulani, sta giocando a fare la carriola con un cane di notevoli dimensioni, verosimilmente un danese. Poi entrambi, animale e padrone, perdono l'equilibrio e cadono a terra. L'uomo ride a crepapelle, quasi gli lacrimano gli occhi. Si accorge della mia presenza e, visibilmente imbarazzato, si alza in piedi e si aggiusta la divisa. In silenzio raccoglie il cappello da cui, con gesti energici della mano, toglie via la polvere. Se lo mette in testa. Poi non lo guardo più. La mia attenzione viene infatti catturata dal suo compagno di giochi. Paradossalmente, il cane sembra vergognarsi ancor più del suo padrone e, per qualche istante, ho persino la sensazione di percepirne i foschi pensieri. A testa e orecchie basse si muove verso il fondo della stanza, sale sul tetto della sua cuccia e si mette comodo, con l'espressione imbronciata di chi è stato colto in fallo.
"Buongiorno, piacere di conoscerla, io sono l'Oberleutnant Manfred Von Richthofen, caposquadriglia della Jasta 11. "
Giro la testa, rimango senza parole. Sì, davanti a me c'è proprio lui, il leggendario Barone Rosso. L'ufficiale tedesco si è completamente ricomposto e non mostra più alcun segno di imbarazzo. O forse è semplicemente più bravo del suo cane a mascherarlo. Non posso credere ai miei occhi. Lui, un giovane Sigfrido, l'incarnazione di un eroe medioevale. Sulla sua giacca fa bella mostra la Pour le Merite, croce smaltata di blu e d'oro, la più alta onorificenza prussiana, che gli fu concessa alla fine del 1916, dopo che gli venne riconosciuta la sedicesima vittoria in aria. Durante la Grande Guerra le nazioni coinvolte nel conflitto iniziarono a usare il termine "asso" per indicare i piloti che avessero abbattuto almeno cinque aerei nemici. E lui, con le sue 81 vittorie accertate, fu il miglior pilota di caccia che la storia ricordi. Nel corso della guerra si guadagnò la stima dei superiori e il rispetto e l'ammirazione dei camerati. Capace di trasmettere fiducia e coraggio ai commilitoni, divenne un modello da emulare per tutti coloro che aspiravano a guadagnarsi la gloria in sella a un destriero fatto di metallo.
"Guardi che si sbaglia, finora sono accreditato di sole 60 vittorie, non certo 81, anche se confido di raggiungere presto il numero di abbattimenti che generosamente mi ha attribuito, piuttosto e anzichenò!"
Sono sconcertato, il mio interlocutore ha indovinato esattamente il senso dei miei ragionamenti. Ride.
"Sì, certo che sono in grado di capire quello che le passa per la testa. Perché è così stupito? Ah, si chiede come ciò sia possibile. Ma è ovvio, no? Io e lei percepiamo i pensieri del mio cane, io i suoi, ma non succede il contrario. Davvero non riesce a comprenderne il motivo? Signor mio, mi sembra che lei sia un po' ignorante in tema di leggi della fisica, scusi se glielo dico. E le assicuro che non c'è sarcasmo nelle mie parole. Le faccio una domanda: in che direzione si muovono i pensieri? Non lo sa? Non ci credo… Ma insomma, i pensieri, essendo più leggeri dell'aria, salgono verso l'alto. Beh, ecco che, essendo lei, senza offesa, un po' bassino, io riesco a captare i suoi. Lei invece non è in grado di intercettare i miei. Come? Crede che, grazie a questo, io sia in posizione di vantaggio rispetto a lei? Non è proprio così, sa? Percepire i pensieri degli altri significa anche comprenderne il travaglio interiore e fare nostre sofferenze che nostre non sono. E io, che volo alto nel cielo, dove si raccolgono gli afflati umani che salgono dai campi di battaglia, ne so qualcosa. Ma ora bando a queste inutili tristezze. Io mi sono presentato, i principi della buona educazione esigono che lei faccia lo stesso. Di sicuro non è un pilota tedesco. È forse un asso francese? Come? Lei non è un aviatore? E tantomeno un asso? Ciò non va bene, sa? In questo posto sono ammessi solo coloro che si possono fregiare del titolo di asso. Dovrei chiederle di andarsene, ma oggi mi sento particolarmente di buonumore, e per lei farò un'eccezione. Mi palesi almeno il motivo per cui è giunto qui… Non lo sa? Com'è possibile? Le capita forse di girovagare come un sonnambulo, per poi risvegliarsi all' improvviso in un posto sconosciuto? E va bene, le parlerò un po' di me, visto che lei ha così poco da raccontare… Ogni tanto vengo in questa osteria, al confine tra Francia e Germania, per incontrarmi con gli assi inglesi e francesi. Ci unisce una profonda stima reciproca, anche se in aria ci affrontiamo in duelli all'ultimo sangue. Mangiamo e beviamo insieme e, naturalmente, ogni volta commemoriamo i caduti, brindando al loro coraggio e al loro valore. Come può vedere, le pareti sono tappezzate di ritratti di piloti tedeschi, francesi e inglesi che hanno sacrificato la vita per la patria. Si guardi intorno, è circondato da assi!"
Addita le immagini di decine di giovani eroi mentre, con la voce rotta dalla commozione, cita i nomi di commilitoni e di piloti nemici: "Georges Guynemer, Albert Ball, Max Immelman, Hans Berr, Sebastian Festner, Lanoe Hawker. A voi la gloria eterna! E poi lui, il più grande di tutti, Oswald Boelcke!" Mi mette una mano sulla spalla.
"Venga, sediamoci a tavola, oggi è un giorno speciale". Appena seduti prende un fiasco e riempie due bicchieri di vino rosso. "Esattamente un anno fa moriva il mio maestro, l'asso degli assi, Oswald Boelcke."
Che affermazione insensata, devo dare fiato ai miei pensieri, seppur consapevole che il Barone Rosso sarebbe in grado di percepirli anche se inespressi. "Ehm, il valore dell'asso Boelke è fuori discussione ma è lei, Oberleutnant Von Richthofen, il miglior pilota di caccia di sempre! Se ricordo bene Oswald Boelke ha ottenuto solo 40 successi, lei ha già da tempo superato tale traguardo."
"Ah, allora anche a lei è stato concesso il dono della favella… Comunque, non è questo il punto. Non sono i numeri che fanno grandi gli uomini. E ad ogni modo, sappia che se Boelcke fosse sopravvissuto a quell'incidente, a quest'ora ne avrebbe abbattuto almeno cento, di aerei nemici. Non ci sono dubbi. La sua tecnica era ineguagliabile. Quando gli ho chiesto qual era il suo segreto, sa cosa mi ha risposto? 'Mio Dio, è piuttosto semplice, punto direttamente il mio nemico, prendo la mira, faccio fuoco e lui va giù.' Per essere un grande pilota da combattimento non devi essere un acrobata o un tiratore provetto. Devi avere il coraggio di volare diritto contro il tuo avversario. Io sono un anonimo manovratore di aeromobili, lui è una leggenda."
Il tono della sua voce si fa sempre più cupo, in un misto di sconforto e disillusione. Guardandolo attentamente, mi accorgo che il suo volto è solcato da profonde rughe. Nonostante abbia poco più di vent'anni. È stata la guerra a scavare quelle voragini di solitudine e tristezza? Dopo aver tracannato in un unico sorso l'intero bicchiere di vino, probabilmente l'ultimo di una lunga serie, lo sbatte sul tavolo con un gesto energico.
"Lo confesso, dopo la morte del mio maestro ho pensato di mollare tutto, mi sentivo completamente svuotato. Dalle alte sfere arrivarono persino a propormi di smettere con le missioni e di svolgere incarichi amministrativi, lontano dal fronte. A detta dei superiori ormai ero diventato un simbolo per la Germania, e come tale non potevo rischiare di morire, l'effetto sul morale dei miei compatrioti sarebbe stato devastante. Sì, avevo quasi preso una decisione in questo senso… Ma quando ne ho parlato con mio fratello Lothar, lui mi ha dato un sonoro ceffone e mi ha detto: 'Manfred, non ti riconosco più! Davanti a me ora vedo solo un vigliacco, succube delle sue paure, incapace di trovare il coraggio di assumersi le proprie responsabilità!' Aveva pienamente ragione. Mi sarei sentito un verme se, col peso delle decorazioni e della gloria, avessi salvato la mia vita, mentre tutti i poveracci in trincea sopportavano sofferenze inaudite. E così ho continuato a volare. Perché un Richthofen non si tira mai indietro di fronte alle difficoltà che il destino gli riserva."
Il Barone si alza in piedi, inizia a girovagare inquieto per la stanza, si risiede.
"Alcune settimane fa sono tornato a casa, a Schweidnizt, nella bassa Slesia, per una breve licenza. Speravo di trascorrere qualche giorno di serenità con mia madre. Ricordo che un pomeriggio stavo guardando delle vecchie fotografie, mentre il cuore mi si gonfiava di gioia e nostalgia. Mi scorrevano sotto gli occhi le immagini dei miei vecchi compagni della 69a unità in Russia. Mia madre si alzò improvvisamente dalla poltrona dove era seduta, mi si avvicinò, indicando un pilota e chiedendomi cosa ne fosse stato di lui. 'Caduto in battaglia', risposi. Indicò poi un altro giovane. 'Anche lui morto', mormorai con un filo di voce. 'Non farmi più domande, le dissi, 'sono tutti morti'. Mi comprenda, già dopo i primi combattimenti aerei avevo capito che la guerra non consiste solo nella gloria e nel perverso compiacimento di avere ingannato la morte una volta di più, ma ne maturai la piena consapevolezza allorché il colonnello Von Riezenstein, comandante dell'87° reggimento della fanteria di riserva, mi inviò la fotografia del cadavere del pilota nemico da me abbattuto quando conseguii la mia 27a vittoria. In quell'occasione compresi che le mie vittime non erano macchine fatte di metallo, ma persone in carne e ossa. Da allora mi sono sempre portato dentro questo segreto, mascherando la sofferenza interiore con l'ardore giovanile e la posizione di comandante di squadriglia. Io sono il Barone Rosso e come tale mi sento carico di pesanti responsabilità. Il mio dovere è proteggere gli uomini della mia squadriglia, prepararli alle asperità del combattimento, mantenere alto il loro morale anche quando tutto sembra andare a rotoli. Per questo non potevo e non posso tuttora mostrare all'esterno quello che provo veramente."
L'espressione del viso e la postura, con la schiena ricurva e il capo leggermente piegato in avanti, le braccia allungate sul tavolo, quasi non avesse la forza di sollevarle, mostrano in modo esplicito il vuoto interiore che ha dentro. Repentinamente il Barone Rosso si gira verso l'entrata, dando l'impressione di essere in attesa di qualcuno. Ma non si fa vivo nessuno. A causa di quel movimento, scorgo un bendaggio voluminoso sulla sua testa, all'altezza dell'occipite.
"Vedo che ha notato la ferita… Circa due mesi fa stavo combattendo contro un velivolo biposto. A un certo punto l'osservatore ha cominciato a mitragliarmi da una posizione impossibile. Pensavo, che pivello, non riuscirà mai a colpirmi. Eppure, all'improvviso ho provato un forte dolore alla nuca e tutto è diventato nero. Ho perso il controllo del mio Fokker e ho iniziato a precipitare. Ero praticamente spacciato. Poi, di colpo, ho riacquistato la vista. L'altimetro segnalava 800 metri d'altezza. Riavviai il motore e ripresi quota. Guardi, la ferita non si è ancora rimarginata, in questo punto è larga all'incirca come un Taler." Mi soffermo a guardare quel profondo taglio da rispettosa distanza, mentre si toglie e si rimette la benda.
"Da allora, sono perseguitato da terribili emicranie. A volte mi sento quasi svenire dal dolore. Ma per quanto fastidiosa, non è questa la conseguenza più nefasta dell'incidente". Io lo guardo incuriosito.
"Da allora, soffro di allucinazioni… Ho avuto la prima circa tre settimane più tardi, dopo che il medico mi diede finalmente il permesso di tornare a volare. Stavo guidando la mia squadriglia, la Jasta 11, quando, tutto ad un tratto, il mio Albatros si imbizzarrì e puntò in alto, verso il sole. Naturalmente ne rimasi accecato. Quando riuscii a riprendere il controllo del velivolo, dovevo trovarmi a un'altezza inusitata, forse oltre i 10000 metri. Consideri che di solito non voliamo mai oltre i 5000 metri. Beh, appena mi tornò la vista guardai in giù, dove stava infuriando la terza battaglia di Ypres. Con immenso stupore mi resi conto che, da lassù, potevo distinguere nitidamente i volti dei soldati che combattevano sotto di me. Come se al posto degli occhi avessi avuto dei cannocchiali, capisce? Fui preso da sgomento. Nel giro di qualche istante quelle visioni scomparvero e mi convinsi che fosse stato tutto frutto della mia immaginazione. Mi lanciai allora in picchiata, per correre in soccorso dei miei commilitoni. Tuttavia, subito dopo aver sparato una prima raffica di mitra contro i fanti nemici, l'orrore si impossessò di me. Pensai di essere prossimo a impazzire…"
Di colpo si interrompe, assalito da ricordi così drammatici, Io pendo dalle sue labbra: "Perché, perché ha pensato di impazzire? Mi risponda."
Il Barone è visibilmente scosso, grosse gocce di sudore gli rigano il viso:" ebbene, la mia intenzione era quella di continuare a mitragliare la fanteria britannica ma…"
"Continui il suo racconto, la prego, mi dica cosa è successo!"
L'ufficiale tedesco respira affannosamente, lo sguardo perso nel vuoto. "Il mio Albatros, grondava sangue… In quantità tale da sommergere tutti i soldati che si fronteggiavano sul campo di battaglia, tanto che non ero più in grado di distinguere i nostri uomini dai nemici. Quel fiume di sangue aveva ricoperto completamente le uniformi dei fanti di entrambi gli schieramenti. Sì, era come se tutti i soldati indossassero delle divise rosso sangue… Preso dallo sconforto, decisi di tornare alla base. Ma il mio biplano non rispondeva ai comandi, e cominciò a spostarsi avanti e indietro lungo il fronte. Ero impotente, fui costretto ad assistere al massacro che si stava compiendo sotto di me. I soldati combattevano con una violenza inaudita. Tutti avevano un unico obiettivo: sterminare i nemici, non importa in che modo. Ho visto persino uomini disarmati affrontarsi a mani nude. Lottavano per interminabili minuti a calci e pugni, fino a quando uno dei due stramazzava a terra, esausto. E allora l'altro, con ferocia animale, si lanciava sul caduto per finirlo, strangolandolo con le mani o con una cintura. In qualche caso il colpo di grazia veniva dato con un morso alla giugulare… Dopo un tempo che mi era sembrato non finire mai, l'aereo ebbe pietà di me, e mi ricondusse al campo base. Mentre ero sulla via del ritorno, un turbinio di pensieri si affollava nella mia mente. Uno, in particolare, mi divorava l'anima: il colore del mio Albatros, di cui tanto andavo fiero, non era rosso fuoco, ma rosso sangue… Per la prima volta in vita mia non sono più stato sicuro dei valori in cui ho sempre creduto. Da generazioni noi Richthofen abbiamo raggiunto posizioni di prestigio nell'esercito tedesco, convinti che fosse nostro imprescindibile dovere obbedire ai dettami della madrepatria, anche a costo della vita. Per noi l'onore è una virtù irrinunciabile e la certezza di essere dalla parte del giusto ci ha sempre consentito di affrontare e superare difficoltà altrimenti insuperabili. Ma da allora tutto è cambiato. Quando, alla guida del mio velivolo, volgo lo sguardo in giù, vedo cose inenarrabili: uomini che si affrontano e si uccidono come bestie, ufficiali che sparano alla schiena dei commilitoni che esitano nell'andare all'assalto delle fortificazioni nemiche, gas che s'infilano negli stretti corridoi delle trincee compiendo silenziose stragi…". Scuote mestamente la testa.
"Non è così che deve morire un soldato. Quaggiù non c'è più onore, non c'è più dignità. No, non mi sento più di appartenere a questa razza terrestre. Ogni volta che rimetto piede nel campo d'aviazione, dopo una missione, mi rinchiudo nei miei alloggi, non voglio vedere nessuno, né fare nulla. Bastano tuttavia poche ore trascorse a terra che già mi sento soffocare, mentre un disperato bisogno di tornare a volare mi lacera dentro…" Il Barone Rosso sembra ridestarsi, batte un pugno sul tavolo.
"Si, perché in alta quota tutto è diverso, solo nell'immensità della volta celeste riesco a respirare liberamente. Lassù noi ci sfidiamo a singolar tenzone. Ogni battaglia aerea, non importa quanti velivoli siano coinvolti nel combattimento, si risolve sempre in duelli singoli. Lassù i valori dei nostri avi regnano incontrastati!"
All'improvviso un orologio a pendolo appeso al muro batte due rintocchi. Il Barone Rosso si alza in piedi, il mento in su, il portamento nuovamente fiero e marziale. "Mi scusi, ma ora devo proprio andare, un asso francese mi attende in alto tra le nubi." Batte i tacchi e fa una piroetta su se stesso. Dopo qualche passo si ferma e si volta verso di me, gli occhi gli brillano di vivida luce: "Sa, noi siamo i cavalieri del cielo…"
Mi trovo ora in una sala dove ci sono delle tavole apparecchiate: su ognuna di esse, sopra una tovaglia a quadretti, sempre la stessa, sono disposte con meticolosa precisione piatti, posate e un immancabile fiasco di vino rosso. Sembra di essere in una bettola dei primi del Novecento. Ma di avventori nessuna traccia. Mi guardo intorno. Appeso alla parete c'è un quadro con l'effigie di un pilota francese: è in piedi davanti al suo aereo, un Newport 11, la mano appoggiata sull'elica. Anche i nostri aviatori, soprattutto durante i primi mesi della Grande Guerra, hanno volato con questo splendido caccia: Francesco Baracca, Pier Ruggero Piccio, Fulco Ruffo e tanti altri… Mi gratto la testa. Da una stanza alla mia sinistra sento provenire dei rumori, simili a schiamazzi di bambini che giocano. Appoggio l'orecchio alla parete: sì, sembra proprio che ci siano dei ragazzini che si stanno trastullando. Cammino lungo il muro, apro con cautela la porta che ancora mi separa da quel trambusto. Mentre lo spazio visivo aumenta gradualmente, le immagini si fanno sempre più nitide e chiare. Un uomo, con la divisa militare degli Ulani, sta giocando a fare la carriola con un cane di notevoli dimensioni, verosimilmente un danese. Poi entrambi, animale e padrone, perdono l'equilibrio e cadono a terra. L'uomo ride a crepapelle, quasi gli lacrimano gli occhi. Si accorge della mia presenza e, visibilmente imbarazzato, si alza in piedi e si aggiusta la divisa. In silenzio raccoglie il cappello da cui, con gesti energici della mano, toglie via la polvere. Se lo mette in testa. Poi non lo guardo più. La mia attenzione viene infatti catturata dal suo compagno di giochi. Paradossalmente, il cane sembra vergognarsi ancor più del suo padrone e, per qualche istante, ho persino la sensazione di percepirne i foschi pensieri. A testa e orecchie basse si muove verso il fondo della stanza, sale sul tetto della sua cuccia e si mette comodo, con l'espressione imbronciata di chi è stato colto in fallo.
"Buongiorno, piacere di conoscerla, io sono l'Oberleutnant Manfred Von Richthofen, caposquadriglia della Jasta 11. "
Giro la testa, rimango senza parole. Sì, davanti a me c'è proprio lui, il leggendario Barone Rosso. L'ufficiale tedesco si è completamente ricomposto e non mostra più alcun segno di imbarazzo. O forse è semplicemente più bravo del suo cane a mascherarlo. Non posso credere ai miei occhi. Lui, un giovane Sigfrido, l'incarnazione di un eroe medioevale. Sulla sua giacca fa bella mostra la Pour le Merite, croce smaltata di blu e d'oro, la più alta onorificenza prussiana, che gli fu concessa alla fine del 1916, dopo che gli venne riconosciuta la sedicesima vittoria in aria. Durante la Grande Guerra le nazioni coinvolte nel conflitto iniziarono a usare il termine "asso" per indicare i piloti che avessero abbattuto almeno cinque aerei nemici. E lui, con le sue 81 vittorie accertate, fu il miglior pilota di caccia che la storia ricordi. Nel corso della guerra si guadagnò la stima dei superiori e il rispetto e l'ammirazione dei camerati. Capace di trasmettere fiducia e coraggio ai commilitoni, divenne un modello da emulare per tutti coloro che aspiravano a guadagnarsi la gloria in sella a un destriero fatto di metallo.
"Guardi che si sbaglia, finora sono accreditato di sole 60 vittorie, non certo 81, anche se confido di raggiungere presto il numero di abbattimenti che generosamente mi ha attribuito, piuttosto e anzichenò!"
Sono sconcertato, il mio interlocutore ha indovinato esattamente il senso dei miei ragionamenti. Ride.
"Sì, certo che sono in grado di capire quello che le passa per la testa. Perché è così stupito? Ah, si chiede come ciò sia possibile. Ma è ovvio, no? Io e lei percepiamo i pensieri del mio cane, io i suoi, ma non succede il contrario. Davvero non riesce a comprenderne il motivo? Signor mio, mi sembra che lei sia un po' ignorante in tema di leggi della fisica, scusi se glielo dico. E le assicuro che non c'è sarcasmo nelle mie parole. Le faccio una domanda: in che direzione si muovono i pensieri? Non lo sa? Non ci credo… Ma insomma, i pensieri, essendo più leggeri dell'aria, salgono verso l'alto. Beh, ecco che, essendo lei, senza offesa, un po' bassino, io riesco a captare i suoi. Lei invece non è in grado di intercettare i miei. Come? Crede che, grazie a questo, io sia in posizione di vantaggio rispetto a lei? Non è proprio così, sa? Percepire i pensieri degli altri significa anche comprenderne il travaglio interiore e fare nostre sofferenze che nostre non sono. E io, che volo alto nel cielo, dove si raccolgono gli afflati umani che salgono dai campi di battaglia, ne so qualcosa. Ma ora bando a queste inutili tristezze. Io mi sono presentato, i principi della buona educazione esigono che lei faccia lo stesso. Di sicuro non è un pilota tedesco. È forse un asso francese? Come? Lei non è un aviatore? E tantomeno un asso? Ciò non va bene, sa? In questo posto sono ammessi solo coloro che si possono fregiare del titolo di asso. Dovrei chiederle di andarsene, ma oggi mi sento particolarmente di buonumore, e per lei farò un'eccezione. Mi palesi almeno il motivo per cui è giunto qui… Non lo sa? Com'è possibile? Le capita forse di girovagare come un sonnambulo, per poi risvegliarsi all' improvviso in un posto sconosciuto? E va bene, le parlerò un po' di me, visto che lei ha così poco da raccontare… Ogni tanto vengo in questa osteria, al confine tra Francia e Germania, per incontrarmi con gli assi inglesi e francesi. Ci unisce una profonda stima reciproca, anche se in aria ci affrontiamo in duelli all'ultimo sangue. Mangiamo e beviamo insieme e, naturalmente, ogni volta commemoriamo i caduti, brindando al loro coraggio e al loro valore. Come può vedere, le pareti sono tappezzate di ritratti di piloti tedeschi, francesi e inglesi che hanno sacrificato la vita per la patria. Si guardi intorno, è circondato da assi!"
Addita le immagini di decine di giovani eroi mentre, con la voce rotta dalla commozione, cita i nomi di commilitoni e di piloti nemici: "Georges Guynemer, Albert Ball, Max Immelman, Hans Berr, Sebastian Festner, Lanoe Hawker. A voi la gloria eterna! E poi lui, il più grande di tutti, Oswald Boelcke!" Mi mette una mano sulla spalla.
"Venga, sediamoci a tavola, oggi è un giorno speciale". Appena seduti prende un fiasco e riempie due bicchieri di vino rosso. "Esattamente un anno fa moriva il mio maestro, l'asso degli assi, Oswald Boelcke."
Che affermazione insensata, devo dare fiato ai miei pensieri, seppur consapevole che il Barone Rosso sarebbe in grado di percepirli anche se inespressi. "Ehm, il valore dell'asso Boelke è fuori discussione ma è lei, Oberleutnant Von Richthofen, il miglior pilota di caccia di sempre! Se ricordo bene Oswald Boelke ha ottenuto solo 40 successi, lei ha già da tempo superato tale traguardo."
"Ah, allora anche a lei è stato concesso il dono della favella… Comunque, non è questo il punto. Non sono i numeri che fanno grandi gli uomini. E ad ogni modo, sappia che se Boelcke fosse sopravvissuto a quell'incidente, a quest'ora ne avrebbe abbattuto almeno cento, di aerei nemici. Non ci sono dubbi. La sua tecnica era ineguagliabile. Quando gli ho chiesto qual era il suo segreto, sa cosa mi ha risposto? 'Mio Dio, è piuttosto semplice, punto direttamente il mio nemico, prendo la mira, faccio fuoco e lui va giù.' Per essere un grande pilota da combattimento non devi essere un acrobata o un tiratore provetto. Devi avere il coraggio di volare diritto contro il tuo avversario. Io sono un anonimo manovratore di aeromobili, lui è una leggenda."
Il tono della sua voce si fa sempre più cupo, in un misto di sconforto e disillusione. Guardandolo attentamente, mi accorgo che il suo volto è solcato da profonde rughe. Nonostante abbia poco più di vent'anni. È stata la guerra a scavare quelle voragini di solitudine e tristezza? Dopo aver tracannato in un unico sorso l'intero bicchiere di vino, probabilmente l'ultimo di una lunga serie, lo sbatte sul tavolo con un gesto energico.
"Lo confesso, dopo la morte del mio maestro ho pensato di mollare tutto, mi sentivo completamente svuotato. Dalle alte sfere arrivarono persino a propormi di smettere con le missioni e di svolgere incarichi amministrativi, lontano dal fronte. A detta dei superiori ormai ero diventato un simbolo per la Germania, e come tale non potevo rischiare di morire, l'effetto sul morale dei miei compatrioti sarebbe stato devastante. Sì, avevo quasi preso una decisione in questo senso… Ma quando ne ho parlato con mio fratello Lothar, lui mi ha dato un sonoro ceffone e mi ha detto: 'Manfred, non ti riconosco più! Davanti a me ora vedo solo un vigliacco, succube delle sue paure, incapace di trovare il coraggio di assumersi le proprie responsabilità!' Aveva pienamente ragione. Mi sarei sentito un verme se, col peso delle decorazioni e della gloria, avessi salvato la mia vita, mentre tutti i poveracci in trincea sopportavano sofferenze inaudite. E così ho continuato a volare. Perché un Richthofen non si tira mai indietro di fronte alle difficoltà che il destino gli riserva."
Il Barone si alza in piedi, inizia a girovagare inquieto per la stanza, si risiede.
"Alcune settimane fa sono tornato a casa, a Schweidnizt, nella bassa Slesia, per una breve licenza. Speravo di trascorrere qualche giorno di serenità con mia madre. Ricordo che un pomeriggio stavo guardando delle vecchie fotografie, mentre il cuore mi si gonfiava di gioia e nostalgia. Mi scorrevano sotto gli occhi le immagini dei miei vecchi compagni della 69a unità in Russia. Mia madre si alzò improvvisamente dalla poltrona dove era seduta, mi si avvicinò, indicando un pilota e chiedendomi cosa ne fosse stato di lui. 'Caduto in battaglia', risposi. Indicò poi un altro giovane. 'Anche lui morto', mormorai con un filo di voce. 'Non farmi più domande, le dissi, 'sono tutti morti'. Mi comprenda, già dopo i primi combattimenti aerei avevo capito che la guerra non consiste solo nella gloria e nel perverso compiacimento di avere ingannato la morte una volta di più, ma ne maturai la piena consapevolezza allorché il colonnello Von Riezenstein, comandante dell'87° reggimento della fanteria di riserva, mi inviò la fotografia del cadavere del pilota nemico da me abbattuto quando conseguii la mia 27a vittoria. In quell'occasione compresi che le mie vittime non erano macchine fatte di metallo, ma persone in carne e ossa. Da allora mi sono sempre portato dentro questo segreto, mascherando la sofferenza interiore con l'ardore giovanile e la posizione di comandante di squadriglia. Io sono il Barone Rosso e come tale mi sento carico di pesanti responsabilità. Il mio dovere è proteggere gli uomini della mia squadriglia, prepararli alle asperità del combattimento, mantenere alto il loro morale anche quando tutto sembra andare a rotoli. Per questo non potevo e non posso tuttora mostrare all'esterno quello che provo veramente."
L'espressione del viso e la postura, con la schiena ricurva e il capo leggermente piegato in avanti, le braccia allungate sul tavolo, quasi non avesse la forza di sollevarle, mostrano in modo esplicito il vuoto interiore che ha dentro. Repentinamente il Barone Rosso si gira verso l'entrata, dando l'impressione di essere in attesa di qualcuno. Ma non si fa vivo nessuno. A causa di quel movimento, scorgo un bendaggio voluminoso sulla sua testa, all'altezza dell'occipite.
"Vedo che ha notato la ferita… Circa due mesi fa stavo combattendo contro un velivolo biposto. A un certo punto l'osservatore ha cominciato a mitragliarmi da una posizione impossibile. Pensavo, che pivello, non riuscirà mai a colpirmi. Eppure, all'improvviso ho provato un forte dolore alla nuca e tutto è diventato nero. Ho perso il controllo del mio Fokker e ho iniziato a precipitare. Ero praticamente spacciato. Poi, di colpo, ho riacquistato la vista. L'altimetro segnalava 800 metri d'altezza. Riavviai il motore e ripresi quota. Guardi, la ferita non si è ancora rimarginata, in questo punto è larga all'incirca come un Taler." Mi soffermo a guardare quel profondo taglio da rispettosa distanza, mentre si toglie e si rimette la benda.
"Da allora, sono perseguitato da terribili emicranie. A volte mi sento quasi svenire dal dolore. Ma per quanto fastidiosa, non è questa la conseguenza più nefasta dell'incidente". Io lo guardo incuriosito.
"Da allora, soffro di allucinazioni… Ho avuto la prima circa tre settimane più tardi, dopo che il medico mi diede finalmente il permesso di tornare a volare. Stavo guidando la mia squadriglia, la Jasta 11, quando, tutto ad un tratto, il mio Albatros si imbizzarrì e puntò in alto, verso il sole. Naturalmente ne rimasi accecato. Quando riuscii a riprendere il controllo del velivolo, dovevo trovarmi a un'altezza inusitata, forse oltre i 10000 metri. Consideri che di solito non voliamo mai oltre i 5000 metri. Beh, appena mi tornò la vista guardai in giù, dove stava infuriando la terza battaglia di Ypres. Con immenso stupore mi resi conto che, da lassù, potevo distinguere nitidamente i volti dei soldati che combattevano sotto di me. Come se al posto degli occhi avessi avuto dei cannocchiali, capisce? Fui preso da sgomento. Nel giro di qualche istante quelle visioni scomparvero e mi convinsi che fosse stato tutto frutto della mia immaginazione. Mi lanciai allora in picchiata, per correre in soccorso dei miei commilitoni. Tuttavia, subito dopo aver sparato una prima raffica di mitra contro i fanti nemici, l'orrore si impossessò di me. Pensai di essere prossimo a impazzire…"
Di colpo si interrompe, assalito da ricordi così drammatici, Io pendo dalle sue labbra: "Perché, perché ha pensato di impazzire? Mi risponda."
Il Barone è visibilmente scosso, grosse gocce di sudore gli rigano il viso:" ebbene, la mia intenzione era quella di continuare a mitragliare la fanteria britannica ma…"
"Continui il suo racconto, la prego, mi dica cosa è successo!"
L'ufficiale tedesco respira affannosamente, lo sguardo perso nel vuoto. "Il mio Albatros, grondava sangue… In quantità tale da sommergere tutti i soldati che si fronteggiavano sul campo di battaglia, tanto che non ero più in grado di distinguere i nostri uomini dai nemici. Quel fiume di sangue aveva ricoperto completamente le uniformi dei fanti di entrambi gli schieramenti. Sì, era come se tutti i soldati indossassero delle divise rosso sangue… Preso dallo sconforto, decisi di tornare alla base. Ma il mio biplano non rispondeva ai comandi, e cominciò a spostarsi avanti e indietro lungo il fronte. Ero impotente, fui costretto ad assistere al massacro che si stava compiendo sotto di me. I soldati combattevano con una violenza inaudita. Tutti avevano un unico obiettivo: sterminare i nemici, non importa in che modo. Ho visto persino uomini disarmati affrontarsi a mani nude. Lottavano per interminabili minuti a calci e pugni, fino a quando uno dei due stramazzava a terra, esausto. E allora l'altro, con ferocia animale, si lanciava sul caduto per finirlo, strangolandolo con le mani o con una cintura. In qualche caso il colpo di grazia veniva dato con un morso alla giugulare… Dopo un tempo che mi era sembrato non finire mai, l'aereo ebbe pietà di me, e mi ricondusse al campo base. Mentre ero sulla via del ritorno, un turbinio di pensieri si affollava nella mia mente. Uno, in particolare, mi divorava l'anima: il colore del mio Albatros, di cui tanto andavo fiero, non era rosso fuoco, ma rosso sangue… Per la prima volta in vita mia non sono più stato sicuro dei valori in cui ho sempre creduto. Da generazioni noi Richthofen abbiamo raggiunto posizioni di prestigio nell'esercito tedesco, convinti che fosse nostro imprescindibile dovere obbedire ai dettami della madrepatria, anche a costo della vita. Per noi l'onore è una virtù irrinunciabile e la certezza di essere dalla parte del giusto ci ha sempre consentito di affrontare e superare difficoltà altrimenti insuperabili. Ma da allora tutto è cambiato. Quando, alla guida del mio velivolo, volgo lo sguardo in giù, vedo cose inenarrabili: uomini che si affrontano e si uccidono come bestie, ufficiali che sparano alla schiena dei commilitoni che esitano nell'andare all'assalto delle fortificazioni nemiche, gas che s'infilano negli stretti corridoi delle trincee compiendo silenziose stragi…". Scuote mestamente la testa.
"Non è così che deve morire un soldato. Quaggiù non c'è più onore, non c'è più dignità. No, non mi sento più di appartenere a questa razza terrestre. Ogni volta che rimetto piede nel campo d'aviazione, dopo una missione, mi rinchiudo nei miei alloggi, non voglio vedere nessuno, né fare nulla. Bastano tuttavia poche ore trascorse a terra che già mi sento soffocare, mentre un disperato bisogno di tornare a volare mi lacera dentro…" Il Barone Rosso sembra ridestarsi, batte un pugno sul tavolo.
"Si, perché in alta quota tutto è diverso, solo nell'immensità della volta celeste riesco a respirare liberamente. Lassù noi ci sfidiamo a singolar tenzone. Ogni battaglia aerea, non importa quanti velivoli siano coinvolti nel combattimento, si risolve sempre in duelli singoli. Lassù i valori dei nostri avi regnano incontrastati!"
All'improvviso un orologio a pendolo appeso al muro batte due rintocchi. Il Barone Rosso si alza in piedi, il mento in su, il portamento nuovamente fiero e marziale. "Mi scusi, ma ora devo proprio andare, un asso francese mi attende in alto tra le nubi." Batte i tacchi e fa una piroetta su se stesso. Dopo qualche passo si ferma e si volta verso di me, gli occhi gli brillano di vivida luce: "Sa, noi siamo i cavalieri del cielo…"