L'angelo di legno
Inviato: 23/03/2022, 12:34
Alle porte di un cimitero di campagna la natura avanzava, riprendendosi quello che gli uomini le avevano tolto e a lei ora tornava. Ghiande e foglie ormai non scricchiolavano più sotto il passo delle persone, solo gli animali frequentavano quegli spazi. Nelle colline circostanti tutto era diventato selvatico e incolto, le viti e gli olivi crescevano selvaggi, mescolandosi con la macchia fatta di spine.
Il tempo esercitava una pressione lenta, ma potente. Quel cimitero era l’ultimo baluardo del passato “regno degli uomini”, prima che migrassero nelle città, lasciando la falce e la vanga per impugnare il martello o la chiave inglese. Così il cimitero dormiva dimenticato. Presto la natura, approfittando dell’incuria, lo avrebbe conquistato, pochi centimetri alla volta.
I semi, portati dal vento o dagli uccelli, si erano trasformati in piccoli arbusti che sbucavano sul ghiaino grigio del cimitero.
Se qualcuno li avesse visti avrebbe giudicato la cosa in maniera romantica, ma per la natura era guerra, era riconquista e rivalsa.
I marmi bianchi, ormai sbiaditi, subivano l’erosione della pioggia e del vento. Le lettere di ferro, che raccontavano sullo sfondo di marmo qualcosa dei defunti, piangevano ruggine e imbrattavano di rosso i marmi, candidi come ossa. Le piogge più aggressive lavavano via quell’ossido rossiccio, dando un’idea di decoro ritrovato, ma quelle più leggere tornavano ad aggredire le lettere forgiate in ferro, quasi a voler ricordare come lo scorrere inesorabile degli anni e madre natura fossero ormai alleati indissolubili.
Le sbiadite fotografie rendevano solo una vaga idea di quanti furono, in tempi lontani, uomini baffuti, giovani in divisa, donne con fazzoletti in testa e anziani contadini. Foto sobrie, ognuna simile alle altre, che davano un’idea di dignitosa semplicità. Alcune lapidi erano inclinate come relitti in attesa di affondare, altre erano ormai solo sassi bianchi coperti di muschio. Solamente la parte dedicata ai bambini resisteva allo scorrere degli anni, come se la natura avesse pietà di quei piccoli e volesse risparmiarli dal suo bottino di guerra.
Li c’erano minuscole lapidi, decorate con piccoli angeli scolpiti o con fregi infantili. L’erba aveva trasformato il cimitero dei bambini in un prato tenero, sempre verde pure nei mesi estivi, quando tutto il resto diventava giallo e secco. A far compagnia a quelle piccole tombe c’era una figura scolpita nel legno, alta e slanciata, ma non bella da vedere, anzi, a tratti era inquietante.
L’intagliatore era stato, in fin dei conti, un semplice amatore che ci aveva messo il massimo dell’impegno, anche se non sorretto dall’esperienza.
Un angelo di legno, sproporzionato e grezzo, aggredito dal muschio che ne copriva le piccole ali e le mani giunte, in origine con la funzione di candeliere.
Era l’opera di un ragazzo che aveva perso il fratellino a causa della spagnola.
Quel ragazzo dopo la perdita fu perseguitato dal piccolino che, ogni notte, turbava i suoi sogni.
Il ragazzo non parlò mai a nessuno di quei sogni, ma provò invece a capirli e interpretarli.
Ogni notte il fratellino piangeva, spaventato dal buio e il ragazzo comprese cosa doveva fare.
Raddoppiò i suoi turni di lavoro presso il fattore così da poter ottenere in cambio un enorme tronco di legno ricavato da una quercia.
Il lavoro fu lungo e faticoso, ma vissuto con affetto e svolto col massimo dell’impegno. Quando l’angelo di legno fu finito, il suo creatore accese per la prima volta una candela sulle sue mani.
Quella notte il fratellino visitò ancora i sogni del fratello maggiore, ma poi lo salutò e ringraziandolo svanì. Il ragazzo non lo sognò mai più.
L’angelo di legno illuminava le tombe dei bambini proteggendoli dal buio, dispensando loro un po’ di conforto. Il ragazzo lo chiamò Yuvvi, e fino a che visse su quelle colline, non fece mai mancare la luce. Ogni sera, che fosse estate o inverno, lasciava accesa una piccola candela fra le mani dell’angelo.
Ma il ragazzo non poté farlo per sempre, e da anni il cimitero, stretto nella morsa della natura, non era più cosa per gli uomini.
Quell’angelo di legno diventò obsoleto, inutile nella sua immobilità. Il muschio copriva tutto il suo corpo, la natura se lo stava prendendo, lo stava riportando a casa. I suoi occhi erano completamente coperti, ma le sue orecchie no. Il suo creatore aveva avuto l’accortezza di scolpirgliele, così che potesse ascoltare. Quel ragazzo aveva parlato al suo angelo tante volte, confessandogli i propri sogni e le proprie paure, come avrebbe fatto con un amico.
Yuvvi ascoltava. Rimase in ascolto per molto tempo, fino a quando non si svegliò. Quando ciò avvenne anche lui ne rimase stupito. Forse era merito della linfa che ancora gli scorreva dentro, o forse erano i lamenti dei bambini che erano tornati ad avere paura del buio.
Una notte sentì per la prima volta la sensibilità nel suo corpo. Yuvvi si mosse, si stiracchiò e azzardò qualche passo. Non vedeva nulla, dovette grattare via dai suoi occhi tutto il muschio cresciutoci sopra.
La prima cosa che riconobbe furono gli alberi. I suoi passi furono indirizzati verso il bosco di querce, che in un certo senso era la sua famiglia. Sentì il bisogno di toccare un albero, forse nella speranza di poter tornare a essere come lui. Avrebbe voluto accogliere il richiamo della foresta, ma furono i lamenti dei bambini a trattenerlo.
Provò a ignorare le loro suppliche, ma poi decise di accontentarli. D’altronde conosceva ognuno di quei bimbi, era lì quando la morte li aveva separati per sempre dai loro cari. Li aveva sentiti ridere e scherzare ogni giorno, come li aveva confortati nelle notti buie, tenendo un po’ di luce fra le sue mani. Non poteva abbandonarli, lo doveva al ragazzo che lo aveva scolpito.
Lui gli aveva impresso nella corteccia molti sentimenti con le sue carezze, parlandogli come se fosse vivo. Inoltre se non fosse stato per quel ragazzo sarebbe diventato legna da ardere. Yuvvi guardò la foresta dondolare al vento, il suo animo accusò una forte nostalgia, ma fu stoico. Salutò la foresta e tornò dai bambini. I suoi passi tornarono a gracchiare sotto il brecciolino per poi accomodarsi sull’erba che copriva il cimitero dei bambini.
«Ditemi», disse Yuvvi. E subito loro si lamentarono in maniera chiassosa, parlando tutti insieme. Yuvvi provò a calmarli, ma invano. Sapeva benissimo di cosa avevano bisogno, volevano la luce. Il buio era tremendo, al punto da sembrare infinito. Non lasciava la possibilità di poter vedere nulla. Chiunque si sarebbe sentito solo. I bambini piangevano e si lamentavano per questo. Quel coro di voci entrò come un fiume nella testa di Yuvvi. Lui cercò a lungo la soluzione a un problema che non poteva essere risolto.
«Yuvvi sono Marco!»
Una voce saettò nella testa di Yuvvi, interrompendo il corso di tutte le altre.
«Marco?!»
Quel nome fece scricchiolare tutta la sua fibra legnosa. Marco era il fratellino del ragazzo che lo aveva costruito. Yuvvi sapeva tutto il poco che c’era da sapere del piccolo Marco, lo conosceva che era ancora un tronco di legno perché chi lo aveva scolpito gli aveva parlato a lungo di lui.
«Dimmi Marco.»
«Virgilione mi ha raccontato che c'è un altro mondo.»
«Virgilione?»
«Si!»
Virgilione era uno dei tanti defunti nel cimitero degli adulti. Era così grosso che quando morì servirono otto persone per trasportarlo. Yuvvi ricordava di aver sentito spesso questa storia.
«Va bene chiederò a lui, ma voi state buoni e cercate di avere pazienza”.
I bambini smisero di piangere e Yuvvi si avviò incespicando verso la parete dei forni. Una volta lì, tastando le lettere sulle lapidi, trovò quella di Virgilione.
«Virgilio, apri, sono Yuvvi!»
Il marmo suonò sordo contro le sue nocche. All’interno del forno si sentirono dei rumori simili a quelli di un animale nella sua tana.
«Che cosa vuoi Yuvvi?»
Una voce rauca, profonda come fosse stata quella di un mostro, uscì da dietro la lapide.
«È vero che esiste un mondo oltre questa lapide?»
«Sicuro!»
«Allora fammi entrare».
«Perché vuoi venire qua?»
«Perché ai bambini manca la luce, e io non riesco a trovare una soluzione. Forse nel mondo che sta di là è possibile trovarla. Qui nessuno può darmi la luce, gli uomini non ci sono più».
«Non è una buona idea».
«Senti Virgilio, io non ho niente da perdere, sono inutile ormai da troppo tempo.
Fammi tentare».
La pietra fece un rumore simile a quello di una serratura, un alito di aria gelida soffiò sulla sua corteccia.
«Come vuoi...»
«Bene».
La pietra cadde a terra. Una faccia corpulenta con due occhi enormi uscì dal buio.
«Accomodati Yuvvi, e buona fortuna».
La faccia sparì nel buio rientrando verso l’interno. Yuvvi si affacciò dentro al fornetto, gattonando affrontò le tenebre. Pochi metri dopo, le sue mani persero l’appoggio del piano che le sosteneva.
Il suolo era umido e morbido, e lui rotolò senza che la sua corteccia si rompesse, ma si bagnò di rugiada. Una volta in piedi i suoi occhi vennero aggrediti da qualcosa che non sapeva spiegare. Yuvvi, tenendo gli occhi serrati, cercò a tastoni il punto dal quale era uscito, poi la voce di Virgilione lo ammonì.
«Vuoi già andartene?»
Yuvvi si bloccò.
«No Virgilio, è che c’è qualcosa che non va. I miei occhi hanno qualcosa».
«Stupido. I tuoi occhi non hanno niente che non va, anzi».
«Anzi cosa?»
Virgilio rise.
«Adesso puoi vedere i colori».
Yuvvi capì. Quello che vedeva non era frutto di un disagio, tutt’altro. Lo spavento si dissolse e il mondo che lo circondava si fece meraviglioso. Alzò lo sguardo verso il cielo e vide qualcosa di stupefacente. Le stelle che aveva visto ogni notte, qua erano enormi. Sembravano piccoli soli ammantati di aloni e aure variopinte.
«Addio Yuvvi».
A quelle parole Virgilio sparì nell’apertura che aveva fatto da ingresso. Yuvvi non ebbe la prontezza di salutarlo, di questo se ne dispiacque.
La natura intorno a lui era più variopinta di quella che aveva lasciato, più esotica. Le piante non avevano spine ed era pieno di fiori enormi. Accarezzò l’erba per apprezzarne la consistenza grassa.
Ma la meraviglia durò poco. Una sensazione che non sapeva descrivere lo attanagliò. Guardandosi intorno scorse delle sagome dalle quali due occhi rossi lo puntavano.
Non si dilungò in inutili domande, lasciò che l’istinto lo facesse correre lontano da quegli occhi. Corse con tutto il fiato che aveva. Mentre scappava sentiva la sua corteccia bruciare, più gli inseguitori erano vicini più il dolore era intenso.
Gli inseguitori erano sui suoi passi, più lenti di lui, ma inesorabili e caparbi. Yuvvi correva fra alberi e massi per non bruciare vivo, sentiva che se si fosse fermato sarebbe finito così. Purtroppo però non era abituato a correre e si stancò, se solo le sue ali di legno fossero state utili al volo sarebbe volato lontano. Dovette fermarsi a riprendere fiato, non aveva altra scelta. Sentì il bruciore pizzicare, poi farsi febbre, poi diventare dolore. Quei mostri gli erano quasi addosso, lo sentiva.
«Scappi da loro?»
Un coro di voci aveva parlato all’unisono.
«Chi siete?»
«Chi sono vorrai dire».
Il bruciore aumentava.
«Con quali intenzioni sei arrivato qua?»
La corteccia scottava, il dolore era insopportabile.
«Devo aiutare dei bambini».
«Questo lo vedremo. Se dici la verità sei salvo, altrimenti rimpiangerai di non essere stato bruciato da chi ti sta inseguendo».
Il coro di voci non aggiunse altro. Yuvvi sentiva ogni fibra del suo corpo ardere come se fosse stato gettato in un caminetto acceso.
«Aiutatemi vi prego...»
Alle parole smorzate di Yuvvi, un enorme serpente uscì da un cespuglio. Yuvvi ne aveva visti di serpenti, qualche vipera o qualche biscia. Non sarebbe stata una gran sorpresa se non fosse stato per le dimensioni. Il serpente era così lungo da non vederne la fine e così grosso da sembrare un mostro marino.
«Non ti muovere».
Il coro di voci apparteneva al serpente. In un attimo il serpente avvolse delicatamente Yuvvi coprendolo completamente. All’interno delle spire il bruciore si spense del tutto.
«Sento che hai detto la verità. Non ti faranno più del male».
Yuvvi intuì che il sonno stava per sopraffarlo. Una volta chiusi gli occhi iniziò a viaggiare fra ricordi e visioni fantastiche.
«Dormi pure Yuvvi, io ti proteggerò da tutto. Poi riprenderai il tuo viaggio, ma non sarà semplice».
Yuvvi dormì abbracciando chi lo aveva salvato da quei mostri. Il serpente aspettò pazientemente il suo risveglio.
«Stai meglio Yuvvi?»
Yuvvi toccò tutte le parti del corpo che prima bruciavano, si rese conto di non aver subito danni.
«Si serpente grazie. Ma come fai a sapere il mio nome?»
«Chiunque tocchi la mia pelle mi trasmette i suoi pensieri e le sue emozioni, quindi so tutto di te».
«Non capisco».
«Non ha importanza, trova Lucero. Lui possiede la luce».
«Lucero?»
«Si. Lo troverai nella palude, dovrai attraversare il fiume per raggiungerla».
«Ma ci sono quei mostri che mi hanno inseguito».
Il serpente si gonfiò e poi rise.
«Non lo faranno più Yuvvi, parola mia».
Yuvvi capì che doveva andare, avrebbe voluto dire tante cose a quel serpente che lo aveva salvato, ma non trovava le parole, quindi lo toccò. Il serpente emise dei soffi che sembravano delle fusa e si acquietò.
«Vai adesso piccolo sciocco di legno».
Le sue ultime parole furono dette con tenerezza, dopo di che sparì dentro la chioma di un albero dalle foglie viola.
Yuvvi riprese il suo cammino seguendo il rumore del fiume. Il fiume era un sospiro lontano che riusciva a malapena a sentire. Un passo alla volta, il sospiro divenne fragore, e infine l’acqua ruppe il paesaggio fatto di erba. L’altra sponda era lontana, troppo per raggiungerla a nuoto. Yuvvi toccò l’acqua, e il contatto con questa gli dette una sensazione strana, al punto da balzare all’indietro verso la sponda.
«Non provare ad attraversare il fiume, non farlo da solo».
Yuvvi non capiva chi aveva parlato, quella voce non aveva una direzione.
«Sono qua. Aspettami».
Qualcosa di freddo gli aveva toccato la spalla. Si voltò. Un vecchio scarno era apparso al suo fianco sinistro. Aveva gli occhi rossi come i mostri che lo avevano inseguito. Yuvvi sentì che doveva stare calmo, quel vecchio non gli avrebbe fatto del male.
«Chi sei?»
«Io sono Pesaho. Hai bisogno di me e della mia zattera per passare oltre».
«Ti prego, aiutami».
«Aspettami qua, vado a prendere la zattera».
Il vecchio sparì nel nulla da cui era apparso. Qualche istante dopo una zattera gli venne incontro dal buio.
«Sali!»
Yuvvi obbedì.
La zattera si abbassò e imbarcò dell’acqua, quando Yuvvi vi saltò su.
«Non farci caso, succede sempre».
«Sono così pesante?»
«Lo è quello che hai dentro».
Yuvvi non capiva. Pesaho iniziò a immergere un enorme palo che andava a toccare il fondo del fiume. Facendo forza, la zattera si staccò dalla riva. Il vecchio era coperto da uno straccio logoro e i suoi occhi emettevano un bagliore vermiglio. La zattera solcava il fiume lentamente, la riva sembrava sempre al solito punto.
«Non ci stiamo avvicinando».
A quelle parole di Yuvvi, la zattera imbarcò altra acqua. Il vecchio rise teneramente.
«La pazienza è come il silenzio, cioè d’oro».
La voce di quel vecchio, nonostante il suo aspetto inquietante, era calma e rassicurava chiunque avesse paura.
«Scusami, ma ho paura».
«Lo so. È la tua paura che ci appesantisce, la paura frena qualsiasi tragitto».
«Proverò a calmarmi».
«Non è questione di provare, devi ascoltare. Il fiume va ascoltato».
Yuvvi ci provò, ma riuscì ad ascoltare solo le sue paure, e la zattera stava affondando sotto di esse.
«Così non andiamo da nessuna parte».
Nelle parole del vecchio non c’erano toni di rimprovero. Aveva sempre il solito tono dolce.
«Facciamo un gioco».
Yuvvi annuì, la zattera era quasi sommersa.
«Adesso chiuderai gli occhi e immaginerai quello che io ti racconterò. Saranno poche parole, ma basteranno. D’altronde io non sono mai stato bravo a parlare».
Yuvvi annuì.
«Cielo che tuona, le api si riparano, pioggia sui fiori».
Yuvvi riuscì a visualizzare queste immagini, aveva sentito tante volte il cielo tuonare, le api poi erano una presenza fissa nel cimitero. Il pensiero della pioggia sui fiori gli fece ricordare quanto fossero belle le piogge estive.
«Va meglio?»
Yuvvi rispose di sì.
«Allora continuiamo».
La zattera riprese a viaggiare.
«Possiamo rifarlo?»
Il vecchio sorrise poi, annuì. Yuvvi chiuse di nuovo gli occhi.
«Scure che batte, profumo di resina, il fiume scorre».
Stavolta i ricordi di Yuvvi viaggiarono in luoghi che non pensava potessero esistere. Rivide il ragazzo che lo aveva scolpito con amore. Quel ragazzo voleva dare conforto a un bambino sfortunato che aveva lasciato tutto e tutti troppo presto.
«Pesaho come fai a parlare così?»
«In che senso Yuvvi?»
«Riesci a riportarmi dei ricordi che non credevo neppure di avere».
«Non è merito mio. Io sono solo un vecchio che traina una zattera, ma so ascoltare. L’ho imparato dal fiume e da tutti quelli che, attraversandolo, mi hanno insegnato qualcosa».
Yuvvi avvertiva dentro di sé un’emozione che non aveva mai provato e non sapeva spiegare.
«Pesaho...»
«Si Yuvvi ho capito. Chiudi di nuovo gli occhi, ma stavolta oltre a me ascolta anche il fiume».
Yuvvi provò a svuotare la testa, ma senza successo.
«Pesaho ho paura di perdere quei ricordi».
«Non puoi perdere qualcosa che è dentro di te».
Yuvvi si calmò, sgombrò la mente e aspettò che il vecchio parlasse.
«Sparo nel buio, sangue che sgorga, le lucciole volano».
Yuvvi vide il colore rosso che gocciolava nei suoi pensieri, poi nel buio le lucciole che brillavano.
«Siamo arrivati».
La zattera si era arenata su una piccola spiaggia.
«Yuvvi devi andare».
La riva che prima sembrava lontanissima era stata raggiunta in poco tempo.
«Grazie Pesaho».
«Di niente Yuvvi, se tornerai qua la prossima volta ascolta il fiume, non me. Lui ha molte più storie da raccontare. Lui è ovunque nello stesso momento, lui scorre e sta fermo».
«Lo farò».
Yuvvi scese dalla zattera. Di fronte a lui c’era un sentiero. Pesaho lo guardò, sorridendo teneramente. La zattera ripartì andando incontro al buio, Yuvvi si sentì strano. Aveva qualcosa che si agitava dentro di lui, qualcosa che gli apparteneva, ma che non capiva. Non era la linfa, era qualcosa di nuovo. Si voltò verso il sentiero e senza una ragione iniziò a correre. Questa volta però fu differente, non come quando i mostri lo avevano inseguito. Sentiva e vedeva cose che non si possono sentire e vedere, ma che dormono dentro. Capì quanto quel viaggio lo avesse cambiato, quanto gli eventi lo avessero scolpito e plasmato. Il suo essere non era più solo il figlio del seme che lo aveva generato o del ragazzo che lo aveva scolpito.
Adesso era anche il risultato delle sue avventure.
La palude era di fronte a lui, illuminata solo dalle stelle. La luce era catturata dall’acqua scura senza che nessun riflesso venisse restituito. Non si sentivano rumori, neppure quello dei suoi passi. Quel luogo poteva essere davvero la casa di un custode della luce?
Yuvvi avanzò nella melma, in un paesaggio tetro fatto di alberi marci che sbucavano qua e là come schegge. Poi, in lontananza, vide un piccolo bagliore che non poteva essere una stella. Era esausto, ma pensò ai bambini del cimitero: ora, oltre al buio, erano pure soli.
Raccolse le sue forze e raggiunse un piccolo isolotto dove un enorme salice troneggiava avvolgendolo interamente. Sotto questo salice una piccola fiamma ardeva fra le mani di un ragazzino. Yuvvi si avvicinò, il ragazzino non distolse mai lo sguardo dalla fiamma.
«Chi sei?» domandò Yuvvi
«Mi chiamo Lucero».
Era lui, lo aveva trovato finalmente, ma non era come lo aveva immaginato. Era un ragazzino piccolo, con pelle chiara e spalle esili. Non era troppo differente dai bambini che aveva lasciato al cimitero.
«Chi sei?» chiese Lucero staccando per la prima volta gli occhi dalla luce che custodiva fra le mani.
«Mi chiamo Yuvvi, sono qua perché mi serve un po’ di luce da portare nel mio mondo».
«Vieni da un posto buio?»
«In parte. Quando è giorno il sole illumina tutto, ma quando il sole tramonta diventa tutto buio. Voglio portare la luce a dei bambini, loro sono soli e quando è notte hanno paura del buio».
Yuvvi guardò la luce, si rese conto che stava parlando al suo spirito, comunicando cose che la sua mente non riusciva a tradurre. Impossibile fissare per troppo tempo quella luce, era come guardare negli occhi qualcuno che si ama, senza avere il coraggio di dichiararsi.
«Apri la mano».
La mano di legno si distese il più che poté. Lucero inclinò la luce, come la cera di una candela gocciolò sulla mano di Yuvvi. Un piccolo bagliore, simile a una fiamma, si muoveva come una goccia di mercurio sul palmo legnoso, senza però trovare stabilità.
«Non sta funzionando».
Lucero sembrava preoccupato.
«Perché non funziona?» chiese Yuvvi.
Non lo so Yuvvi. Forse perché vieni da un altro mondo. È possibile che questa luce non sia compatibile con il tuo essere o il tuo mondo. Mi dispiace».
Lucero schioccò le dita e la luce saltò dal palmo di Yuvvi per ricongiungersi con quella nelle sue mani.
«Non affliggerti Yuvvi, non è colpa tua. Ci sono leggi alle quali tutti dobbiamo rendere conto».
Yuvvi aveva viaggiato ininterrottamente per raggiungere il suo scopo, ed era difficile accettarne la sconfitta. Rise di sé e di tutto ciò che aveva vissuto, perché ogni cosa al mondo può essere derisa. L’obbiettivo non era raggiunto, ma aveva raggiunto lui. Lo aveva modellato, costruito, istruito. Adesso, nel suo fallimento, era in pace. Pensò ai bambini, nella sua testa le loro voci chiamavano il suo nome. Avrebbe voluto piangere, ma il suo corpo non gli permetteva un simile sfogo.
«Calmati Yuvvi, le anime candide arrivano presto a destinazione, non conoscono ostacoli. Tu hai fatto un viaggio strano, sei cambiato al punto di non poter più tornare da dove sei venuto. Ma forse non è più un problema né per te, né per chi volevi aiutare. A volte quando si cerca qualcosa in maniera caparbia, senza voler accettare che questa sia impossibile da ottenere, si trova altro. Non puoi portare la luce ai tuoi bambini, ma si può fare il contrario».
Yuvvi non aveva ascoltato una sola parola. Sentiva solo le voci dei bambini, voci che gli parlavano come il fuoco di Lucero, o le parole di Pesaho. Quelle voci irrompevano nella sua testa sempre più invadenti, fino a che non si voltò.
I suoi occhi erano tutti per un fenomeno strano che si stava palesando alle sue spalle, nella direzione dalla quale era venuto. Un bagliore cangiante stava emergendo dal buio, squarciava il cielo nero probabilmente volando, mescolandosi con le stelle. Poi Yuvvi capì, erano farfalle, farfalle gigantesche e bellissime che brillavano nel cielo.
«Addio piccolo pezzo di legno. Sii libero, ora appartieni a questo mondo e a tutti i mondi che potrai e vorrai raggiungere».
Con queste ultime parole pronunciate con affetto, Lucero sparì nel nulla.
Le farfalle avevano la voce dei bambini, per la prima volta Yuvvi li sentì ridere mentre da lontano lo salutavano.
Il tempo esercitava una pressione lenta, ma potente. Quel cimitero era l’ultimo baluardo del passato “regno degli uomini”, prima che migrassero nelle città, lasciando la falce e la vanga per impugnare il martello o la chiave inglese. Così il cimitero dormiva dimenticato. Presto la natura, approfittando dell’incuria, lo avrebbe conquistato, pochi centimetri alla volta.
I semi, portati dal vento o dagli uccelli, si erano trasformati in piccoli arbusti che sbucavano sul ghiaino grigio del cimitero.
Se qualcuno li avesse visti avrebbe giudicato la cosa in maniera romantica, ma per la natura era guerra, era riconquista e rivalsa.
I marmi bianchi, ormai sbiaditi, subivano l’erosione della pioggia e del vento. Le lettere di ferro, che raccontavano sullo sfondo di marmo qualcosa dei defunti, piangevano ruggine e imbrattavano di rosso i marmi, candidi come ossa. Le piogge più aggressive lavavano via quell’ossido rossiccio, dando un’idea di decoro ritrovato, ma quelle più leggere tornavano ad aggredire le lettere forgiate in ferro, quasi a voler ricordare come lo scorrere inesorabile degli anni e madre natura fossero ormai alleati indissolubili.
Le sbiadite fotografie rendevano solo una vaga idea di quanti furono, in tempi lontani, uomini baffuti, giovani in divisa, donne con fazzoletti in testa e anziani contadini. Foto sobrie, ognuna simile alle altre, che davano un’idea di dignitosa semplicità. Alcune lapidi erano inclinate come relitti in attesa di affondare, altre erano ormai solo sassi bianchi coperti di muschio. Solamente la parte dedicata ai bambini resisteva allo scorrere degli anni, come se la natura avesse pietà di quei piccoli e volesse risparmiarli dal suo bottino di guerra.
Li c’erano minuscole lapidi, decorate con piccoli angeli scolpiti o con fregi infantili. L’erba aveva trasformato il cimitero dei bambini in un prato tenero, sempre verde pure nei mesi estivi, quando tutto il resto diventava giallo e secco. A far compagnia a quelle piccole tombe c’era una figura scolpita nel legno, alta e slanciata, ma non bella da vedere, anzi, a tratti era inquietante.
L’intagliatore era stato, in fin dei conti, un semplice amatore che ci aveva messo il massimo dell’impegno, anche se non sorretto dall’esperienza.
Un angelo di legno, sproporzionato e grezzo, aggredito dal muschio che ne copriva le piccole ali e le mani giunte, in origine con la funzione di candeliere.
Era l’opera di un ragazzo che aveva perso il fratellino a causa della spagnola.
Quel ragazzo dopo la perdita fu perseguitato dal piccolino che, ogni notte, turbava i suoi sogni.
Il ragazzo non parlò mai a nessuno di quei sogni, ma provò invece a capirli e interpretarli.
Ogni notte il fratellino piangeva, spaventato dal buio e il ragazzo comprese cosa doveva fare.
Raddoppiò i suoi turni di lavoro presso il fattore così da poter ottenere in cambio un enorme tronco di legno ricavato da una quercia.
Il lavoro fu lungo e faticoso, ma vissuto con affetto e svolto col massimo dell’impegno. Quando l’angelo di legno fu finito, il suo creatore accese per la prima volta una candela sulle sue mani.
Quella notte il fratellino visitò ancora i sogni del fratello maggiore, ma poi lo salutò e ringraziandolo svanì. Il ragazzo non lo sognò mai più.
L’angelo di legno illuminava le tombe dei bambini proteggendoli dal buio, dispensando loro un po’ di conforto. Il ragazzo lo chiamò Yuvvi, e fino a che visse su quelle colline, non fece mai mancare la luce. Ogni sera, che fosse estate o inverno, lasciava accesa una piccola candela fra le mani dell’angelo.
Ma il ragazzo non poté farlo per sempre, e da anni il cimitero, stretto nella morsa della natura, non era più cosa per gli uomini.
Quell’angelo di legno diventò obsoleto, inutile nella sua immobilità. Il muschio copriva tutto il suo corpo, la natura se lo stava prendendo, lo stava riportando a casa. I suoi occhi erano completamente coperti, ma le sue orecchie no. Il suo creatore aveva avuto l’accortezza di scolpirgliele, così che potesse ascoltare. Quel ragazzo aveva parlato al suo angelo tante volte, confessandogli i propri sogni e le proprie paure, come avrebbe fatto con un amico.
Yuvvi ascoltava. Rimase in ascolto per molto tempo, fino a quando non si svegliò. Quando ciò avvenne anche lui ne rimase stupito. Forse era merito della linfa che ancora gli scorreva dentro, o forse erano i lamenti dei bambini che erano tornati ad avere paura del buio.
Una notte sentì per la prima volta la sensibilità nel suo corpo. Yuvvi si mosse, si stiracchiò e azzardò qualche passo. Non vedeva nulla, dovette grattare via dai suoi occhi tutto il muschio cresciutoci sopra.
La prima cosa che riconobbe furono gli alberi. I suoi passi furono indirizzati verso il bosco di querce, che in un certo senso era la sua famiglia. Sentì il bisogno di toccare un albero, forse nella speranza di poter tornare a essere come lui. Avrebbe voluto accogliere il richiamo della foresta, ma furono i lamenti dei bambini a trattenerlo.
Provò a ignorare le loro suppliche, ma poi decise di accontentarli. D’altronde conosceva ognuno di quei bimbi, era lì quando la morte li aveva separati per sempre dai loro cari. Li aveva sentiti ridere e scherzare ogni giorno, come li aveva confortati nelle notti buie, tenendo un po’ di luce fra le sue mani. Non poteva abbandonarli, lo doveva al ragazzo che lo aveva scolpito.
Lui gli aveva impresso nella corteccia molti sentimenti con le sue carezze, parlandogli come se fosse vivo. Inoltre se non fosse stato per quel ragazzo sarebbe diventato legna da ardere. Yuvvi guardò la foresta dondolare al vento, il suo animo accusò una forte nostalgia, ma fu stoico. Salutò la foresta e tornò dai bambini. I suoi passi tornarono a gracchiare sotto il brecciolino per poi accomodarsi sull’erba che copriva il cimitero dei bambini.
«Ditemi», disse Yuvvi. E subito loro si lamentarono in maniera chiassosa, parlando tutti insieme. Yuvvi provò a calmarli, ma invano. Sapeva benissimo di cosa avevano bisogno, volevano la luce. Il buio era tremendo, al punto da sembrare infinito. Non lasciava la possibilità di poter vedere nulla. Chiunque si sarebbe sentito solo. I bambini piangevano e si lamentavano per questo. Quel coro di voci entrò come un fiume nella testa di Yuvvi. Lui cercò a lungo la soluzione a un problema che non poteva essere risolto.
«Yuvvi sono Marco!»
Una voce saettò nella testa di Yuvvi, interrompendo il corso di tutte le altre.
«Marco?!»
Quel nome fece scricchiolare tutta la sua fibra legnosa. Marco era il fratellino del ragazzo che lo aveva costruito. Yuvvi sapeva tutto il poco che c’era da sapere del piccolo Marco, lo conosceva che era ancora un tronco di legno perché chi lo aveva scolpito gli aveva parlato a lungo di lui.
«Dimmi Marco.»
«Virgilione mi ha raccontato che c'è un altro mondo.»
«Virgilione?»
«Si!»
Virgilione era uno dei tanti defunti nel cimitero degli adulti. Era così grosso che quando morì servirono otto persone per trasportarlo. Yuvvi ricordava di aver sentito spesso questa storia.
«Va bene chiederò a lui, ma voi state buoni e cercate di avere pazienza”.
I bambini smisero di piangere e Yuvvi si avviò incespicando verso la parete dei forni. Una volta lì, tastando le lettere sulle lapidi, trovò quella di Virgilione.
«Virgilio, apri, sono Yuvvi!»
Il marmo suonò sordo contro le sue nocche. All’interno del forno si sentirono dei rumori simili a quelli di un animale nella sua tana.
«Che cosa vuoi Yuvvi?»
Una voce rauca, profonda come fosse stata quella di un mostro, uscì da dietro la lapide.
«È vero che esiste un mondo oltre questa lapide?»
«Sicuro!»
«Allora fammi entrare».
«Perché vuoi venire qua?»
«Perché ai bambini manca la luce, e io non riesco a trovare una soluzione. Forse nel mondo che sta di là è possibile trovarla. Qui nessuno può darmi la luce, gli uomini non ci sono più».
«Non è una buona idea».
«Senti Virgilio, io non ho niente da perdere, sono inutile ormai da troppo tempo.
Fammi tentare».
La pietra fece un rumore simile a quello di una serratura, un alito di aria gelida soffiò sulla sua corteccia.
«Come vuoi...»
«Bene».
La pietra cadde a terra. Una faccia corpulenta con due occhi enormi uscì dal buio.
«Accomodati Yuvvi, e buona fortuna».
La faccia sparì nel buio rientrando verso l’interno. Yuvvi si affacciò dentro al fornetto, gattonando affrontò le tenebre. Pochi metri dopo, le sue mani persero l’appoggio del piano che le sosteneva.
Il suolo era umido e morbido, e lui rotolò senza che la sua corteccia si rompesse, ma si bagnò di rugiada. Una volta in piedi i suoi occhi vennero aggrediti da qualcosa che non sapeva spiegare. Yuvvi, tenendo gli occhi serrati, cercò a tastoni il punto dal quale era uscito, poi la voce di Virgilione lo ammonì.
«Vuoi già andartene?»
Yuvvi si bloccò.
«No Virgilio, è che c’è qualcosa che non va. I miei occhi hanno qualcosa».
«Stupido. I tuoi occhi non hanno niente che non va, anzi».
«Anzi cosa?»
Virgilio rise.
«Adesso puoi vedere i colori».
Yuvvi capì. Quello che vedeva non era frutto di un disagio, tutt’altro. Lo spavento si dissolse e il mondo che lo circondava si fece meraviglioso. Alzò lo sguardo verso il cielo e vide qualcosa di stupefacente. Le stelle che aveva visto ogni notte, qua erano enormi. Sembravano piccoli soli ammantati di aloni e aure variopinte.
«Addio Yuvvi».
A quelle parole Virgilio sparì nell’apertura che aveva fatto da ingresso. Yuvvi non ebbe la prontezza di salutarlo, di questo se ne dispiacque.
La natura intorno a lui era più variopinta di quella che aveva lasciato, più esotica. Le piante non avevano spine ed era pieno di fiori enormi. Accarezzò l’erba per apprezzarne la consistenza grassa.
Ma la meraviglia durò poco. Una sensazione che non sapeva descrivere lo attanagliò. Guardandosi intorno scorse delle sagome dalle quali due occhi rossi lo puntavano.
Non si dilungò in inutili domande, lasciò che l’istinto lo facesse correre lontano da quegli occhi. Corse con tutto il fiato che aveva. Mentre scappava sentiva la sua corteccia bruciare, più gli inseguitori erano vicini più il dolore era intenso.
Gli inseguitori erano sui suoi passi, più lenti di lui, ma inesorabili e caparbi. Yuvvi correva fra alberi e massi per non bruciare vivo, sentiva che se si fosse fermato sarebbe finito così. Purtroppo però non era abituato a correre e si stancò, se solo le sue ali di legno fossero state utili al volo sarebbe volato lontano. Dovette fermarsi a riprendere fiato, non aveva altra scelta. Sentì il bruciore pizzicare, poi farsi febbre, poi diventare dolore. Quei mostri gli erano quasi addosso, lo sentiva.
«Scappi da loro?»
Un coro di voci aveva parlato all’unisono.
«Chi siete?»
«Chi sono vorrai dire».
Il bruciore aumentava.
«Con quali intenzioni sei arrivato qua?»
La corteccia scottava, il dolore era insopportabile.
«Devo aiutare dei bambini».
«Questo lo vedremo. Se dici la verità sei salvo, altrimenti rimpiangerai di non essere stato bruciato da chi ti sta inseguendo».
Il coro di voci non aggiunse altro. Yuvvi sentiva ogni fibra del suo corpo ardere come se fosse stato gettato in un caminetto acceso.
«Aiutatemi vi prego...»
Alle parole smorzate di Yuvvi, un enorme serpente uscì da un cespuglio. Yuvvi ne aveva visti di serpenti, qualche vipera o qualche biscia. Non sarebbe stata una gran sorpresa se non fosse stato per le dimensioni. Il serpente era così lungo da non vederne la fine e così grosso da sembrare un mostro marino.
«Non ti muovere».
Il coro di voci apparteneva al serpente. In un attimo il serpente avvolse delicatamente Yuvvi coprendolo completamente. All’interno delle spire il bruciore si spense del tutto.
«Sento che hai detto la verità. Non ti faranno più del male».
Yuvvi intuì che il sonno stava per sopraffarlo. Una volta chiusi gli occhi iniziò a viaggiare fra ricordi e visioni fantastiche.
«Dormi pure Yuvvi, io ti proteggerò da tutto. Poi riprenderai il tuo viaggio, ma non sarà semplice».
Yuvvi dormì abbracciando chi lo aveva salvato da quei mostri. Il serpente aspettò pazientemente il suo risveglio.
«Stai meglio Yuvvi?»
Yuvvi toccò tutte le parti del corpo che prima bruciavano, si rese conto di non aver subito danni.
«Si serpente grazie. Ma come fai a sapere il mio nome?»
«Chiunque tocchi la mia pelle mi trasmette i suoi pensieri e le sue emozioni, quindi so tutto di te».
«Non capisco».
«Non ha importanza, trova Lucero. Lui possiede la luce».
«Lucero?»
«Si. Lo troverai nella palude, dovrai attraversare il fiume per raggiungerla».
«Ma ci sono quei mostri che mi hanno inseguito».
Il serpente si gonfiò e poi rise.
«Non lo faranno più Yuvvi, parola mia».
Yuvvi capì che doveva andare, avrebbe voluto dire tante cose a quel serpente che lo aveva salvato, ma non trovava le parole, quindi lo toccò. Il serpente emise dei soffi che sembravano delle fusa e si acquietò.
«Vai adesso piccolo sciocco di legno».
Le sue ultime parole furono dette con tenerezza, dopo di che sparì dentro la chioma di un albero dalle foglie viola.
Yuvvi riprese il suo cammino seguendo il rumore del fiume. Il fiume era un sospiro lontano che riusciva a malapena a sentire. Un passo alla volta, il sospiro divenne fragore, e infine l’acqua ruppe il paesaggio fatto di erba. L’altra sponda era lontana, troppo per raggiungerla a nuoto. Yuvvi toccò l’acqua, e il contatto con questa gli dette una sensazione strana, al punto da balzare all’indietro verso la sponda.
«Non provare ad attraversare il fiume, non farlo da solo».
Yuvvi non capiva chi aveva parlato, quella voce non aveva una direzione.
«Sono qua. Aspettami».
Qualcosa di freddo gli aveva toccato la spalla. Si voltò. Un vecchio scarno era apparso al suo fianco sinistro. Aveva gli occhi rossi come i mostri che lo avevano inseguito. Yuvvi sentì che doveva stare calmo, quel vecchio non gli avrebbe fatto del male.
«Chi sei?»
«Io sono Pesaho. Hai bisogno di me e della mia zattera per passare oltre».
«Ti prego, aiutami».
«Aspettami qua, vado a prendere la zattera».
Il vecchio sparì nel nulla da cui era apparso. Qualche istante dopo una zattera gli venne incontro dal buio.
«Sali!»
Yuvvi obbedì.
La zattera si abbassò e imbarcò dell’acqua, quando Yuvvi vi saltò su.
«Non farci caso, succede sempre».
«Sono così pesante?»
«Lo è quello che hai dentro».
Yuvvi non capiva. Pesaho iniziò a immergere un enorme palo che andava a toccare il fondo del fiume. Facendo forza, la zattera si staccò dalla riva. Il vecchio era coperto da uno straccio logoro e i suoi occhi emettevano un bagliore vermiglio. La zattera solcava il fiume lentamente, la riva sembrava sempre al solito punto.
«Non ci stiamo avvicinando».
A quelle parole di Yuvvi, la zattera imbarcò altra acqua. Il vecchio rise teneramente.
«La pazienza è come il silenzio, cioè d’oro».
La voce di quel vecchio, nonostante il suo aspetto inquietante, era calma e rassicurava chiunque avesse paura.
«Scusami, ma ho paura».
«Lo so. È la tua paura che ci appesantisce, la paura frena qualsiasi tragitto».
«Proverò a calmarmi».
«Non è questione di provare, devi ascoltare. Il fiume va ascoltato».
Yuvvi ci provò, ma riuscì ad ascoltare solo le sue paure, e la zattera stava affondando sotto di esse.
«Così non andiamo da nessuna parte».
Nelle parole del vecchio non c’erano toni di rimprovero. Aveva sempre il solito tono dolce.
«Facciamo un gioco».
Yuvvi annuì, la zattera era quasi sommersa.
«Adesso chiuderai gli occhi e immaginerai quello che io ti racconterò. Saranno poche parole, ma basteranno. D’altronde io non sono mai stato bravo a parlare».
Yuvvi annuì.
«Cielo che tuona, le api si riparano, pioggia sui fiori».
Yuvvi riuscì a visualizzare queste immagini, aveva sentito tante volte il cielo tuonare, le api poi erano una presenza fissa nel cimitero. Il pensiero della pioggia sui fiori gli fece ricordare quanto fossero belle le piogge estive.
«Va meglio?»
Yuvvi rispose di sì.
«Allora continuiamo».
La zattera riprese a viaggiare.
«Possiamo rifarlo?»
Il vecchio sorrise poi, annuì. Yuvvi chiuse di nuovo gli occhi.
«Scure che batte, profumo di resina, il fiume scorre».
Stavolta i ricordi di Yuvvi viaggiarono in luoghi che non pensava potessero esistere. Rivide il ragazzo che lo aveva scolpito con amore. Quel ragazzo voleva dare conforto a un bambino sfortunato che aveva lasciato tutto e tutti troppo presto.
«Pesaho come fai a parlare così?»
«In che senso Yuvvi?»
«Riesci a riportarmi dei ricordi che non credevo neppure di avere».
«Non è merito mio. Io sono solo un vecchio che traina una zattera, ma so ascoltare. L’ho imparato dal fiume e da tutti quelli che, attraversandolo, mi hanno insegnato qualcosa».
Yuvvi avvertiva dentro di sé un’emozione che non aveva mai provato e non sapeva spiegare.
«Pesaho...»
«Si Yuvvi ho capito. Chiudi di nuovo gli occhi, ma stavolta oltre a me ascolta anche il fiume».
Yuvvi provò a svuotare la testa, ma senza successo.
«Pesaho ho paura di perdere quei ricordi».
«Non puoi perdere qualcosa che è dentro di te».
Yuvvi si calmò, sgombrò la mente e aspettò che il vecchio parlasse.
«Sparo nel buio, sangue che sgorga, le lucciole volano».
Yuvvi vide il colore rosso che gocciolava nei suoi pensieri, poi nel buio le lucciole che brillavano.
«Siamo arrivati».
La zattera si era arenata su una piccola spiaggia.
«Yuvvi devi andare».
La riva che prima sembrava lontanissima era stata raggiunta in poco tempo.
«Grazie Pesaho».
«Di niente Yuvvi, se tornerai qua la prossima volta ascolta il fiume, non me. Lui ha molte più storie da raccontare. Lui è ovunque nello stesso momento, lui scorre e sta fermo».
«Lo farò».
Yuvvi scese dalla zattera. Di fronte a lui c’era un sentiero. Pesaho lo guardò, sorridendo teneramente. La zattera ripartì andando incontro al buio, Yuvvi si sentì strano. Aveva qualcosa che si agitava dentro di lui, qualcosa che gli apparteneva, ma che non capiva. Non era la linfa, era qualcosa di nuovo. Si voltò verso il sentiero e senza una ragione iniziò a correre. Questa volta però fu differente, non come quando i mostri lo avevano inseguito. Sentiva e vedeva cose che non si possono sentire e vedere, ma che dormono dentro. Capì quanto quel viaggio lo avesse cambiato, quanto gli eventi lo avessero scolpito e plasmato. Il suo essere non era più solo il figlio del seme che lo aveva generato o del ragazzo che lo aveva scolpito.
Adesso era anche il risultato delle sue avventure.
La palude era di fronte a lui, illuminata solo dalle stelle. La luce era catturata dall’acqua scura senza che nessun riflesso venisse restituito. Non si sentivano rumori, neppure quello dei suoi passi. Quel luogo poteva essere davvero la casa di un custode della luce?
Yuvvi avanzò nella melma, in un paesaggio tetro fatto di alberi marci che sbucavano qua e là come schegge. Poi, in lontananza, vide un piccolo bagliore che non poteva essere una stella. Era esausto, ma pensò ai bambini del cimitero: ora, oltre al buio, erano pure soli.
Raccolse le sue forze e raggiunse un piccolo isolotto dove un enorme salice troneggiava avvolgendolo interamente. Sotto questo salice una piccola fiamma ardeva fra le mani di un ragazzino. Yuvvi si avvicinò, il ragazzino non distolse mai lo sguardo dalla fiamma.
«Chi sei?» domandò Yuvvi
«Mi chiamo Lucero».
Era lui, lo aveva trovato finalmente, ma non era come lo aveva immaginato. Era un ragazzino piccolo, con pelle chiara e spalle esili. Non era troppo differente dai bambini che aveva lasciato al cimitero.
«Chi sei?» chiese Lucero staccando per la prima volta gli occhi dalla luce che custodiva fra le mani.
«Mi chiamo Yuvvi, sono qua perché mi serve un po’ di luce da portare nel mio mondo».
«Vieni da un posto buio?»
«In parte. Quando è giorno il sole illumina tutto, ma quando il sole tramonta diventa tutto buio. Voglio portare la luce a dei bambini, loro sono soli e quando è notte hanno paura del buio».
Yuvvi guardò la luce, si rese conto che stava parlando al suo spirito, comunicando cose che la sua mente non riusciva a tradurre. Impossibile fissare per troppo tempo quella luce, era come guardare negli occhi qualcuno che si ama, senza avere il coraggio di dichiararsi.
«Apri la mano».
La mano di legno si distese il più che poté. Lucero inclinò la luce, come la cera di una candela gocciolò sulla mano di Yuvvi. Un piccolo bagliore, simile a una fiamma, si muoveva come una goccia di mercurio sul palmo legnoso, senza però trovare stabilità.
«Non sta funzionando».
Lucero sembrava preoccupato.
«Perché non funziona?» chiese Yuvvi.
Non lo so Yuvvi. Forse perché vieni da un altro mondo. È possibile che questa luce non sia compatibile con il tuo essere o il tuo mondo. Mi dispiace».
Lucero schioccò le dita e la luce saltò dal palmo di Yuvvi per ricongiungersi con quella nelle sue mani.
«Non affliggerti Yuvvi, non è colpa tua. Ci sono leggi alle quali tutti dobbiamo rendere conto».
Yuvvi aveva viaggiato ininterrottamente per raggiungere il suo scopo, ed era difficile accettarne la sconfitta. Rise di sé e di tutto ciò che aveva vissuto, perché ogni cosa al mondo può essere derisa. L’obbiettivo non era raggiunto, ma aveva raggiunto lui. Lo aveva modellato, costruito, istruito. Adesso, nel suo fallimento, era in pace. Pensò ai bambini, nella sua testa le loro voci chiamavano il suo nome. Avrebbe voluto piangere, ma il suo corpo non gli permetteva un simile sfogo.
«Calmati Yuvvi, le anime candide arrivano presto a destinazione, non conoscono ostacoli. Tu hai fatto un viaggio strano, sei cambiato al punto di non poter più tornare da dove sei venuto. Ma forse non è più un problema né per te, né per chi volevi aiutare. A volte quando si cerca qualcosa in maniera caparbia, senza voler accettare che questa sia impossibile da ottenere, si trova altro. Non puoi portare la luce ai tuoi bambini, ma si può fare il contrario».
Yuvvi non aveva ascoltato una sola parola. Sentiva solo le voci dei bambini, voci che gli parlavano come il fuoco di Lucero, o le parole di Pesaho. Quelle voci irrompevano nella sua testa sempre più invadenti, fino a che non si voltò.
I suoi occhi erano tutti per un fenomeno strano che si stava palesando alle sue spalle, nella direzione dalla quale era venuto. Un bagliore cangiante stava emergendo dal buio, squarciava il cielo nero probabilmente volando, mescolandosi con le stelle. Poi Yuvvi capì, erano farfalle, farfalle gigantesche e bellissime che brillavano nel cielo.
«Addio piccolo pezzo di legno. Sii libero, ora appartieni a questo mondo e a tutti i mondi che potrai e vorrai raggiungere».
Con queste ultime parole pronunciate con affetto, Lucero sparì nel nulla.
Le farfalle avevano la voce dei bambini, per la prima volta Yuvvi li sentì ridere mentre da lontano lo salutavano.