Quella sera che Jimi Hendrix e la sua band suonarono per noi
Inviato: 25/06/2022, 21:30
Era stato Maurizio, a febbraio del ’68, a parlarci del possibile arrivo qui da noi di un fenomenale chitarrista americano. Non ci disse il nome, come era solito fare, ma quando si sbilanciava a dare una notizia potevamo fidarci.
Al Festival di San Remo del ’66, mi aveva presentato a Maurizio un amico di famiglia, pezzo grosso di una primaria casa discografica di Milano, che sperava di convincerlo a incidere con loro. La mia presenza, secondo i piani, sarebbe stata di aiuto, perché anch’io iniziavo a muovere i primi passi nell’ambiente e l’avevo già incrociato in qualche balera della bassa.
Mi impegnavo per diventare un buon strumentista, ma non andai mai oltre le feste popolari e i locali di Lugano e Locarno, mentre Maurizio aveva già imbroccato la strada giusta da un paio d’anni ed era lanciato verso importanti successi nazionali, con il nuovo nome dato al suo complesso.
Attendere l’arrivo, dato per imminente, di questa stella del rock, senza conoscere nient’altro, accendeva al massimo la nostra curiosità, e certo non potevamo telefonare oltre oceano, a chi, poi! Altri sistemi non ne esistevano in quegli anni. Potevamo soltanto insistere con Maurizio per saperne di più. Ma lui, impegnato in giro per l’Italia, era impossibile da rintracciare, e le poche volte che lo scoprivamo in via Bodoni, si divertiva a inventare storie, burlandosi bonariamente di noi.
La data certa del concerto ce la comunicò l’amico di famiglia e, non so come, riuscì anche a procurare due biglietti, per me e l’amico Andrea, ovviamente pagati da mio padre. Sborsò il denaro e nemmeno volle dirmi quanto gli costarono. Proprio lui, grande ammiratore di Claudio Villa e Frank Sinatra, che odiava sentirmi in camera mia strimpellare le canzoni di De André.
23 maggio del 1968, giovedì. Il gran giorno era arrivato!
Mattina scuola, pomeriggio Jimi Hendrix. Questa, era vita!
Noi avevamo i biglietti per il concerto delle 16:30, ma il tempo passava e Jimi non arrivava, nel frattempo emergevano le notizie più fantasiose.
Ricordo di un volo dirottato, o forse caduto in mare, non era Jimi in arrivo ma Cassius Clay. L’ultima fu questa: agli Experience avevano sequestrato gli amplificatori. Li stavano smontando alla dogana dell’aeroporto, alla ricerca di droga.
Alla fine il concerto del pomeriggio non si fece. Gli organizzatori volevano rimborsarci il biglietto. Figuriamoci! Prima avrebbero dovuto passare sul nostro cadavere.
Si rimase tutti in attesa del concerto serale, fissato per le 21:30. Fu lunga, ma con l’adrenalina che avevamo in corpo avremmo aspettato anche fino a domenica. All’apertura delle porte, aiutati dalla mia prestanza fisica e dalla furbizia del mio amico Andrea, entrammo con i primi e correndo ci piazzammo davanti al piccolo palco dei musicisti. La calca di ottocento persone in uno spazio per quattrocento era molta e lottammo con le unghie e con i denti per mantenere la posizione. Fu una vera battaglia e non ci fu possibile evitare di spostarci sulla sinistra. Pazienza.
Il concerto iniziò con l’immancabile ritardo verso le 22:30. Sulla piccola pedana, stracolma di strumenti, c’erano un sacco di persone che non capivamo perché stessero lì. Si iniziò con l’esibizione di due gruppi incaricati di rompere il ghiaccio, un’usanza considerata allora doverosa, ma per fortuna durò poco. Finalmente apparirono batterista e bassista degli Experience, poi spuntò anche Jimi, con la mitica Fender Stratocaster.
Chitarra e basso utilizzavano una coppia di amplificatori Marshall: un vero schianto per me e il mio amico Andrea.
Partì la Musica
Io ero lì, Jimi Hendrix era a due metri e non me lo sarei perso per tutto l'oro del mondo!
Jimi suonava e cantava senza eccessi. Era concentrato sul suo strumento, ma ve lo giuro: era un fiume in piena di note.
Erano in tre. Sembravano dieci. Gli amplificatori erano a palla. Basso e batteria producevano un ritmo indiavolato. Jimi lo dominava e lo cavalcava con sicurezza. Viaggiava sulle corde con un’agilità mai vista. Noi sempre lì, a due passi. Lo osservavamo grondare di sudore. Stregati dall’energia prodotta dalla sua chitarra.
Sparava note acute e basse a velocità siderale. Utilizzava un distorsore inesistente qui in Italia, i suoni che produceva si rovesciavano addosso a noi con veemenza. Le nostre casse toraciche vibravano all’unisono con quell’impasto di ritmo e frenesia. Era una scena da matti, letteralmente, ma andava bene così, anzi lo incitavamo urlando. Lui raccoglieva e ne traeva nuovo vigore. Sapevo cosa voleva dire suonare su un palco con il pubblico che ti spronava a dare il massimo, ma qui eravamo oltre ogni umano limite.
Non ho la sequenza delle canzoni. Di sicuro eseguirono tutti i brani dell’album “Are You Experienced”.
Ho frammenti di ricordi di Hey Joe, Stone free e Purple Haze. Ebbi un’emozione particolare quando Jimi cantò Foxy Lady. Ne era talmente coinvolto da convincermi del suo reale rimpianto per l’incontro con una ragazza, lasciata poi chissà dove, con la nostalgia di averla persa per sempre.
Ancora oggi, se penso che dopo soli due anni, quel ragazzo, alto e magrissimo, frutto di un incrocio fra sangue indiano Cherokee, sangue nero e messicano, lo avrebbero ritrovato morto a Londra, in una stanza del Samarkand Hotel, mi sento male peggio di allora.
Questo è uno degli epitaffi scritti sulla sua tomba a Seattle, visitata in tempi recenti dall'amico Andrea, gran giramondo.
“Message to Love – Everybody come alive, Everybody Love alive, Everybody hear my message”
Il concerto finì molto tardi. Io dovevo essere a casa per le otto di sera, invece a mezzanotte e oltre, ancora non ero rientrato e avvisare i genitori di un ritardo era allora quasi impossibile. Il telegiornale forse qualche cosa aveva detto, ma mio padre, uomo di altri tempi, parti in macchina per venire a vedere cosa cavolo fosse successo. Come fece a individuarmi, in quella babele, è rimasto un mistero, e quante me ne disse! Da buon genitore, però, portò a casa anche il mio amico e le altre due ragazze che avevamo agganciato al concerto.
Allora le cose andavano così!
Al Festival di San Remo del ’66, mi aveva presentato a Maurizio un amico di famiglia, pezzo grosso di una primaria casa discografica di Milano, che sperava di convincerlo a incidere con loro. La mia presenza, secondo i piani, sarebbe stata di aiuto, perché anch’io iniziavo a muovere i primi passi nell’ambiente e l’avevo già incrociato in qualche balera della bassa.
Mi impegnavo per diventare un buon strumentista, ma non andai mai oltre le feste popolari e i locali di Lugano e Locarno, mentre Maurizio aveva già imbroccato la strada giusta da un paio d’anni ed era lanciato verso importanti successi nazionali, con il nuovo nome dato al suo complesso.
Attendere l’arrivo, dato per imminente, di questa stella del rock, senza conoscere nient’altro, accendeva al massimo la nostra curiosità, e certo non potevamo telefonare oltre oceano, a chi, poi! Altri sistemi non ne esistevano in quegli anni. Potevamo soltanto insistere con Maurizio per saperne di più. Ma lui, impegnato in giro per l’Italia, era impossibile da rintracciare, e le poche volte che lo scoprivamo in via Bodoni, si divertiva a inventare storie, burlandosi bonariamente di noi.
La data certa del concerto ce la comunicò l’amico di famiglia e, non so come, riuscì anche a procurare due biglietti, per me e l’amico Andrea, ovviamente pagati da mio padre. Sborsò il denaro e nemmeno volle dirmi quanto gli costarono. Proprio lui, grande ammiratore di Claudio Villa e Frank Sinatra, che odiava sentirmi in camera mia strimpellare le canzoni di De André.
23 maggio del 1968, giovedì. Il gran giorno era arrivato!
Mattina scuola, pomeriggio Jimi Hendrix. Questa, era vita!
Noi avevamo i biglietti per il concerto delle 16:30, ma il tempo passava e Jimi non arrivava, nel frattempo emergevano le notizie più fantasiose.
Ricordo di un volo dirottato, o forse caduto in mare, non era Jimi in arrivo ma Cassius Clay. L’ultima fu questa: agli Experience avevano sequestrato gli amplificatori. Li stavano smontando alla dogana dell’aeroporto, alla ricerca di droga.
Alla fine il concerto del pomeriggio non si fece. Gli organizzatori volevano rimborsarci il biglietto. Figuriamoci! Prima avrebbero dovuto passare sul nostro cadavere.
Si rimase tutti in attesa del concerto serale, fissato per le 21:30. Fu lunga, ma con l’adrenalina che avevamo in corpo avremmo aspettato anche fino a domenica. All’apertura delle porte, aiutati dalla mia prestanza fisica e dalla furbizia del mio amico Andrea, entrammo con i primi e correndo ci piazzammo davanti al piccolo palco dei musicisti. La calca di ottocento persone in uno spazio per quattrocento era molta e lottammo con le unghie e con i denti per mantenere la posizione. Fu una vera battaglia e non ci fu possibile evitare di spostarci sulla sinistra. Pazienza.
Il concerto iniziò con l’immancabile ritardo verso le 22:30. Sulla piccola pedana, stracolma di strumenti, c’erano un sacco di persone che non capivamo perché stessero lì. Si iniziò con l’esibizione di due gruppi incaricati di rompere il ghiaccio, un’usanza considerata allora doverosa, ma per fortuna durò poco. Finalmente apparirono batterista e bassista degli Experience, poi spuntò anche Jimi, con la mitica Fender Stratocaster.
Chitarra e basso utilizzavano una coppia di amplificatori Marshall: un vero schianto per me e il mio amico Andrea.
Partì la Musica
Io ero lì, Jimi Hendrix era a due metri e non me lo sarei perso per tutto l'oro del mondo!
Jimi suonava e cantava senza eccessi. Era concentrato sul suo strumento, ma ve lo giuro: era un fiume in piena di note.
Erano in tre. Sembravano dieci. Gli amplificatori erano a palla. Basso e batteria producevano un ritmo indiavolato. Jimi lo dominava e lo cavalcava con sicurezza. Viaggiava sulle corde con un’agilità mai vista. Noi sempre lì, a due passi. Lo osservavamo grondare di sudore. Stregati dall’energia prodotta dalla sua chitarra.
Sparava note acute e basse a velocità siderale. Utilizzava un distorsore inesistente qui in Italia, i suoni che produceva si rovesciavano addosso a noi con veemenza. Le nostre casse toraciche vibravano all’unisono con quell’impasto di ritmo e frenesia. Era una scena da matti, letteralmente, ma andava bene così, anzi lo incitavamo urlando. Lui raccoglieva e ne traeva nuovo vigore. Sapevo cosa voleva dire suonare su un palco con il pubblico che ti spronava a dare il massimo, ma qui eravamo oltre ogni umano limite.
Non ho la sequenza delle canzoni. Di sicuro eseguirono tutti i brani dell’album “Are You Experienced”.
Ho frammenti di ricordi di Hey Joe, Stone free e Purple Haze. Ebbi un’emozione particolare quando Jimi cantò Foxy Lady. Ne era talmente coinvolto da convincermi del suo reale rimpianto per l’incontro con una ragazza, lasciata poi chissà dove, con la nostalgia di averla persa per sempre.
Ancora oggi, se penso che dopo soli due anni, quel ragazzo, alto e magrissimo, frutto di un incrocio fra sangue indiano Cherokee, sangue nero e messicano, lo avrebbero ritrovato morto a Londra, in una stanza del Samarkand Hotel, mi sento male peggio di allora.
Questo è uno degli epitaffi scritti sulla sua tomba a Seattle, visitata in tempi recenti dall'amico Andrea, gran giramondo.
“Message to Love – Everybody come alive, Everybody Love alive, Everybody hear my message”
Il concerto finì molto tardi. Io dovevo essere a casa per le otto di sera, invece a mezzanotte e oltre, ancora non ero rientrato e avvisare i genitori di un ritardo era allora quasi impossibile. Il telegiornale forse qualche cosa aveva detto, ma mio padre, uomo di altri tempi, parti in macchina per venire a vedere cosa cavolo fosse successo. Come fece a individuarmi, in quella babele, è rimasto un mistero, e quante me ne disse! Da buon genitore, però, portò a casa anche il mio amico e le altre due ragazze che avevamo agganciato al concerto.
Allora le cose andavano così!