Il fiore amaro dell'ailanto
Inviato: 29/06/2022, 15:39
Don Raimondo fece capolino nel giardino percorso dalla fresca brezza mattutina.
«Voscenza s’abbenerica» lo ossequiò l’anziano giardiniere, con una levata di berretto e una reverenza di capo.
Il grembiule gli scendeva fino ai piedi come una veste talare e lui, già magro e sfilato di suo, pareva ancor più secco di una canna al vento.
«Don Peppino» lo salutò il principe, mentre un gesto veloce provava a sistemare la bionda cresta leonina.
«Propiu ‘na bbedda jurnata di suli, eccellenza» rispose, e già aveva ripreso a sforbiciare, nel tentativo di metter ordine nelle fitte siepi di pittosforo.
«Peccato ‘unn arrinesca a scaldarici puri ‘u cori a la genti» fece di rimando don Raimondo.
«Voscenza, 'u suli curpa ‘unn’avi» sentenziò don Peppino.
Il principe si adombrò, il cielo azzurro smarrì l’incanto e riprese a essere il muto testimone che sempre era stato.
«Siamo infelici e malinconici, eternamente insoddisfatti, e sempre alla ricerca di qualcosa, che tuttavia sfugge: guardate» e indicò gli intonaci del palazzo quasi del tutto sbriciolati dalle intemperie e dall’incuria. «Hanno visto tutto: eretici e autòs da fé, apostoli e annunciazioni, rivolte e impiccagioni, restaurazioni, repubbliche, re e imperatori; cento conquistatori e tutte le lingue e le illusioni del mondo» mormorò, con l’amarezza di chi le sue illusioni le aveva già viste tutte svanire.
«Voscenza tuortu ‘unn’avi. Rassignati semu e 'ndiffirenti.»
«E con la segreta voglia in corpo di farla finita» aggiunse il principe, ma sottovoce, nel timore che, per quell’ardire, si potesse abbattere su di lui uno strale della collera divina.
Don Raimondo Montecateno, ultimo dei principi di Leonforte, di antica e illustre discendenza catalana, era il perfetto prodotto di secoli di iattanza coscienziosa e di noia spensierata.
Alto, magro, occhi azzurri come il cielo e bello come il sole, nutriva per la vita un sentimento tragico; abitava, come i suoi antenati da innumerevoli generazioni, il palazzo di famiglia, nei vicoli oramai sudici dell’Albergheria; una cupa costruzione spogliata, dal trascorrere del tempo e dal disinteresse degli uomini, dei segni dell’antico splendore.
Quelle pietre avevano conosciuto tutta l’arroganza e i privilegi di secoli di ladronerie e di sprechi di quell’orrenda razza spagnola che aveva messo in ginocchio l’isola, e tutto lo sfarzo e il lusso che la nobiltà siciliana sola conosce. Ma dell’antico fulgore non era rimasto nulla, oltre a pareti spoglie, e nulla dell’immenso patrimonio; dissipato dal bisavolo per la causa separatista fin dai tempi del Comitato Rivoluzionario di Ruggero Settimo, dal nonno tra tavoli da gioco e ballerine francesi, dal padre in folli spedizioni archeologiche alla ricerca della biblica arca di Noè.
«La pazzia abita a casa Montecateno» salmodiava la nonna di don Raimondo, quando questi era ancora nicuzzu e nel suo siciliano litaniava stanze stanze: «‘A fuddìa è ‘na bbuttana, ca si suca ‘a robba nostra e puru li figghi. Però a mmia 'un mi futti, ’sta bbuttana!»
Ma donna Eleonora non aveva fatto eccezione, e aveva terminato i suoi giorni sbavando rabbiosa dentro una cella spoglia del convento delle carmelitane scalze di piazza della Kalsa.
«La pazzia è figlia di quest’isola assolata» ricordò a se stesso don Raimondo, che seguiva il filo invisibile dei suoi pensieri nel tentativo di scongiurare, con un motto originale, un destino, a suo sentire, ineluttabile.
Un giorno, durante la quotidiana partita a scacchi col farmacista Consales, mentre sorseggiava un bicchierino di acqua e zammù all’ombra del gigantesco ailanto che sovrastava il giardino, don Raimondo s’animò: «E se la causa della prostrazione del popolo siciliano, la sua incapacità di guardare al futuro, non dipendessero dall'indolenza, come voi sostenete, dottor Consales? Se la causa della miseria del nostro popolo non risiedesse nel susseguirsi ininterrotto di gioghi stranieri, com’è invece convinto monsignor Agrusa? Se queste fossero solo le conseguenze e non la causa? Se ciò che impedisce ai siciliani di partecipare ai capovolgimenti storici che affannano il mondo sia l’immensità stessa della natura e la vastità del tempo?» Domandò, e abbozzò un sorriso unito a un'alzata di occhi al cielo, come se dovesse ringraziare il Padreterno per quella magnifica intuizione.
E dopo averci a lungo riflettuto spostò il cavallo nero alla destra dell’alfiere bianco, sopra la scacchiera sulla quale i Montecateno si vantavano avessero giocato un’epica partita il viceré Caracciolo e l’abate Meli.
Ogni volta il principe concentrava la sua attenzione sul baluginio di un’idea, la inseguiva, la sviluppava, finiva per innamorarsene e, infine, l’abbandonava.
«Il siciliano, a differenza degli altri europei» continuò con la sua voce calda «percepisce la vacuità dell’essere uomo.»
E arroccò il re alla destra della torre.
«E riconosce fondato e vero il solo governo della natura e della necessità degli eventi; eventi dei quali si sente attore o comparsa, a seconda dei casi, giammai regista. Da questo sentimento scaturisce la nostra incapacità di costruire la nostra storia senza ricorrere a un aiuto esterno. Poiché non riusciamo a concepire il corso degli eventi umani come un’entità controllabile e assoggettabile a nostro piacimento. Di conseguenza, ci adattiamo alla realtà e perciò la subiamo; i siciliani si destano solo per necessità, per causa di forza maggiore, e infatti quando ciò accade essi si sollevano con la furia dei Titani, come durante i Vespri, o al tempo di d’Alessi, di Ruggero Settimo o al tempo dei Fasci, quando l’unità nazionale mostrò il volto aspro della colonizzazione. I siciliani vedono intorno a loro, tutti i giorni sin dalla nascita, le magnifiche e diseguali vestigia di millenni di dominazioni straniere: nelle strade, nei palazzi, perfino nei loro stessi nomi o nel colore della loro pelle o dei propri occhi. Allora, è chiaro come ci appaia vera non la lotta contro il barbaro, contro il diverso, contro l’altro ma, al contrario, quella perpetua contro la durezza della natura, contro questo cielo maledetto, sempre azzurro e assetato.»
Con don Raimondo, nell’immenso palazzo di famiglia, vivevano la madre, donna Teresa, e la sorella Marianna, frutto, si era mormorato a suo tempo, di una relazione incestuosa tra donna Teresa e il fratello, il duca Ignazio La Grua.
Il padre di don Raimondo, Jaime, partito molti anni prima, non aveva più fatto ritorno da quell’ultima spedizione sull’Ararat, e si favoleggiava vagasse ancora nelle steppe dell’Asia centrale alla ricerca di un favoloso tesoro da tutti dimenticato.
Donna Teresa, a dispetto della sua apparenza minuta, era una donna forte e mostrava ancora nel viso, sotto l’aspetto severo e triste di chi cerca in tutti i modi di sopravvivere alla rovina della propria casa, i segni di un’antica bellezza.
La figlia Marianna, più giovane di don Raimondo, non era bella: aveva un viso lungo e scarno dal colorito pallido su cui dominavano occhi cerulei un po’ obliqui e sporgenti, e uno sguardo inquietante, ardente, come di chi sia divorato da una oscura e indicibile sofferenza.
Nonostante ciò non mancava di un certo aristocratico, e sottile, fascino tale da non lasciar rimpiangere quella mancanza di avvenenza.
Marianna viveva ritirata, come fosse stata reclusa, prigioniera di quell’antica magione priva ormai di mobilia, con gli splendidi affreschi e gli antichi arazzi quali unici ornamenti, vittima consapevole di una colpa non commessa, rassegnata a vivere una vita al margine serrata tra quelle mura che, pur appartenendogli, non sentiva sue.
Trascorreva le sue giornate in una sorta di clausura, da monaca di casa, dedicandosi in silenzio al ricamo e alla creazione di ricercati motivi decorativi per completi di lenzuola e di tovaglie, ogni giorno infelice eppur serena. Sottomessa di carattere, non chiedeva altro se non di far felice la madre e servire il fratello, di cui riconosceva non tanto la superiorità intellettuale quanto la superiorità del sangue; perché egli era – lui sì! – un Montecateno, l’ultimo vero erede di secoli di storia.
Quel magnifico passato li schiacciava e li rendeva incapaci di cogliere il presente; perciò essi avevano rinviato ogni decisione, l'intera loro vita, a un futuro che avesse potuto uguagliare ciò che era stato e perciò non sarebbe giunto mai.
Erano questi gli ultimi Montecateno.
Tuttavia, tra i cespugli variopinti del giardino, come all’interno dei giganteschi saloni ormai vuoti se non per qualche consòlle o étagère sopravvissuta alle urgenze dei creditori, in mezzo ai tanti libri rimasti, don Raimondo godeva di una condizione di particolare tranquillità, essendo l’unico e ultimo discendente maschio di una gloriosa e illustre casata, e quindi il legittimo depositario di tutte le cure e le attenzioni di cui la madre e la sorella lo facevano oggetto e monumento.
Il nostro Raimondo, lo chiamavano entrambe, ed esse vivevano unicamente per lui, e le loro residue speranze le avevano riposte in lui. Era loro compito permettergli di vivere sereno, di non fargli mancare mai nulla e di condurlo a un buon matrimonio che avrebbe permesso loro di risalire la china. Un sogno coronato dall’arrivo di un erede maschio in grado di far sopravvivere, almeno per un’altra generazione, un’altra ancora, il nome illustre dei Montecateno.
Purtroppo per loro don Raimondo non si dava cura di nulla, si sentiva un poeta e un filosofo, e le sue occupazioni consistevano nel leggere e nello scrivere.
E non scriveva, a parte qualche raro articolo sul Giornale di Sicilia — e per cui rifiutava con sdegno i sia pur minimi compensi — che per se stesso, fermo nell’invincibile convinzione che nulla di quanto producesse fosse degno di essere ricordato.
In sostanza, non si preoccupava di nulla e non aveva nulla di cui lamentarsi; era stato dispensato dalla vita e poteva vivere nell’oblio contando sul lavoro della madre e della sorella, le quali si affannavano tutto il giorno solo per lui consumando dita e occhi su trame e orditi.
E donna Teresa, in fondo al cuore consapevole della inadeguatezza del figlio, sapeva bene che, al di là dei sogni e delle speranze, a segnare un confine tra la sopravvivenza e la sventura vi era solo il suo impegno; e soltanto grazie al lavoro suo e della figlia —sapeva — poteva conservare la speranza: di salvare loro stessi e centinaia di anni di storia dalla rovina.
Con non pochi sforzi era riuscita a farsi una buona clientela nelle ricche dame della nuova aristocrazia palermitana, quella del denaro e non del sangue.
Grazie a donne viziate e arroganti, che non potevano fare a meno delle tovaglie e delle lenzuola ricamate dalle nobili mani delle principesse Montecateno di Leonforte, donna Teresa aveva tenuto in piedi la famiglia, e aveva esercitato il suo ruolo con dignità e coraggio.
E dei frutti di questo coraggio don Raimondo godeva e si avvantaggiava.
Il principe amava trascorrere quelle giornate d’inizio estate con una passeggiata lungo la vecchia via Toledo, da Porta Nuova giù fino al Teatro del Sole e poi lungo via Maqueda ad arrivare fino alla via d’Alcalà e alla Villa al Mare: per poi tornare e riposare nel grande giardino del palazzo di famiglia. E così ogni pomeriggio si stendeva in una poltrona di vimini all’ombra del maestoso ailanto, piantato secoli prima dal suo avo Guglielmo Luigi III, che ricopriva ogni angolo col frutto rossastro dei suoi rami, innalzandosi prepotente a sfidare il cielo e a occultare il sole, e si addormentava. E non poteva fare a meno di pensare quanto, in fondo, la vita somigliasse a quell’albero: così alto e spavaldo da sostenere il cielo coi suoi rami, sotto i quali si godeva di frescura e quiete, ma i cui frutti, così belli a vedersi, erano tanto amari da esser velenosi.
In quel sereno angolo di mondo, nascosto alla vista e riparato dalle intemperie del clima come dalle angustie degli uomini, don Raimondo viveva senza fatica, com’era giusto forse per chi poteva vantare nel proprio albero genealogico una mezza dozzina tra cardinali e viceré, e dimenticava il presente ricordando il passato e ignorando il futuro.
Aveva soldi a sufficienza per i suoi sigari, per qualche libro che lo interessava e per altri piccoli desideri; vestiva con eleganza, la sorella Marianna gli dedicava ogni cura possibile, per cui usciva sempre in perfetto ordine, col vezzo del bastone da passeggio e del grande panama bianco. E tutto questo, in definitiva, gli bastava.
«Cosa contano le ricchezze del mondo, se si possiede tutta la virtù necessaria?» Si rivolgeva alla sorella, fiero di sé.
Di tanto in tanto, per svagare la mente e allenare il corpo, svolgeva qualche commissione per la madre: forniture di materiali o, più spesso, consegne di lavori già terminati o acquisizioni di nuovi ordini.
E questa, col passar del tempo, era divenuta quasi un’occupazione, dato che le ricche signore dell’alta borghesia panormita adoravano vedersi recapitare i loro pacchi dal colto e sensibile principe di Leonforte in persona; al quale, tra teneri indugi e finti svenimenti, finivano per rivelare i loro travagli o gli affanni di cuore a cui i loro mariti, padri e fratelli, non avevano tempo, o voglia, di porgere orecchio.
Don Raimondo, pertanto, sebbene vivesse con due donne, era solo perché non ne aveva alcuna. Tuttavia qualche volta, tra un pensiero sublime e un’armonica visione, ci pensava seriamente a prender moglie; ma sentiva che quella strada gli fosse, in qualche modo, preclusa: era come se, avendo già una famiglia, non avesse alcun diritto a crearsene un’altra.
La sorella viveva per lui, la madre lo proteggeva, da tanti era apprezzato e anche la gente del quartiere non mancava di cercarlo per consigli di ogni genere. Eppure don Raimondo, a volte, sentiva prepotente la mancanza di un qualcosa, o di qualcuno. E quel qualcuno, sempre più spesso, si materializzava nei suoi pensieri e nei suoi sogni nelle fattezze di una donna: una donna solo per sé, una donna in grado di amarlo con la medesima profondità con cui lui sentiva il mondo.
Naturalmente era consapevole che, per prender moglie, fosse necessaria una certa, seppur minima, indipendenza economica. E così a un certo punto, spinto dal desiderio di raggiungerla, dalla necessità del guadagno, per la prima volta in vita sua si attivò per trovare un’occupazione qualsiasi che gli fruttasse anche un po’ di denaro.
Grazie alle conoscenze di monsignor Agrusa trovò un non ben specificato impiego da svolgere presso gli uffici cittadini della segreteria del P.N.F. Si trattava di un lavoro che non richiedeva alcuna particolare capacità e, pertanto, si adattava perfettamente alla sua indole. Don Raimondo non sapeva fare nulla, e perciò pensava di saper far tutto, e peraltro, illuso dalle proprie fantasie, egli era disposto anche a far di tutto.
E così, pur vantandosi di essere uno spirito libero e un anarchico stavroghiniano (sic!), lavorò con entusiasmo per il partito fascista e arrivò a dirigerne, da solo e a tempo pieno, la locale sezione.
Divenne infaticabile, si occupò della propaganda, delle iscrizioni dei nuovi tesserati, del bilancio e delle attività sociali, come delle esercitazioni militari degli avanguardisti e, il sabato, dell’adunata fascista.
Scoprì di avere delle discrete attitudini ginniche e instaurò un profondo rapporto cameratesco con la squadra di picciotti che aveva formato.
Ogni domenica li conduceva in gita nei dintorni di Palermo, li portava a marciare per i campi, in montagna, lungo le spiagge, declamando i versi di Byron e di Shelley; in mezzo a tanto fervore e dedizione al partito, impegnato com’era a esercitare le maschie attività cameratesche, la sua insoddisfazione sembrò placarsi.
Ma la pace ebbe breve durata.
Don Raimondo, spinto da un impulso irrefrenabile ad agire acuito dall’astinenza, prese a frequentare il bordello di vicolo Villanueva, e lì si scoprì di appetiti insaziabili; ma quel sesso sfacciatamente esposto e comperato, come pesce al mercato, mal si adattava al suo temperamento, e ciò gli procurò, a lungo andare, un vago senso di vuoto e di soffocante inutilità che, dopo qualche tempo, lo spinse in un vortice di penosa depressione e perenne disistima di sé.
Accadde più o meno in questo periodo che don Raimondo avesse organizzato, con i suoi picciotti, una gita in bicicletta a Cefalù, con pernottamento all’addiaccio. Così, al termine di una faticosa e calda giornata di fine primavera, il principe ebbe la ventura di condurre l’intera maschia brigata di adolescenti all’assalto di un bordello dentro l’abitato della cittadina.
Alla testa di un manipolo di eroi irruppe nella casa e, nel comico tentativo d’imitare il principe di Montenevoso, si animò: «Suggete il sacro effluvio di queste bbuttane, o miei arditi!»
Incitate le sue schiere, tiratosi giù i calzoni fino alle caviglie, prese a inneggiare le rime del Vate, tra grida di donne e lo stupore dei legittimi avventori, e seminò il panico, in violazione di tutte le leggi che regolavano il meretricio nelle case di tolleranza.
L’avvenimento ebbe larga eco in provincia, quasi uno scandalo, non tanto per il fatto in sé ‒ ben poca cosa in realtà ‒ ma proprio perché fu il principe a condurre lo sconclusionato assalto al bordello.
Il partito gli tolse ogni incarico senza far rumore e don Raimondo si ritrovò, da un giorno all’altro, di nuovo disoccupato, a consegnare pacchi per la madre e a scriver poesie che nessuno leggeva.
Le sue stranezze aumentarono e sia la madre che la sorella riconobbero i primi sintomi della malattia che per generazioni aveva ammorbato i Montecateno.
«Che hai Raimonduzzu?» Lo coccolava donna Teresa, con le lacrime agli occhi.
E lui, senza distogliere lo sguardo dal vuoto, rispondeva: «Chi guarda in faccia la disperante Necessità impazzisce, e l’unica salvezza è l’ebbrezza o il sogno.»
Donna Teresa capì.
L’estate passò e don Raimondo parve essersi un’altra volta chetato, lentamente, come le onde del mare che, dopo giorni di tempesta, abbandonano le rive da poco conquistate; ricominciò a frequentare con assiduità il bordello di vicolo Villanueva: di donne, però, di donne vere, nemmeno l’ombra.
E sì che, avendo ripreso a consegnare pacchi per la madre, non gli mancavano certo le occasioni per fare delle belle conversazioni col gentil sesso; ma nulla sfociava poi in qualcosa di concreto.
Non che le donne ‒ le donne vere s’intende ‒ non lo gratificassero, anzi forse lo facevano in modo eccessivo a causa della sua capacità di leggere i sentimenti altrui.
Riscuoteva tanta di quella fiducia tra di loro da non potersi permettere, per paradosso, di avvalersi dei suoi diritti di maschio, prigioniero del ruolo di intimo confidente, comprensivo, sicuro, affidabile, al quale si poteva rivelare, senza pena e senza timore, ogni affanno e ogni peccato e ricevere in cambio considerazione e consigli.
Questa condizione, seppure in qualche modo lo premiasse, lo consumava ogni giorno un po’ di più, perché conosceva ogni segreto di donna, ma non poteva comportarsi da uomo vigoroso qual era.
Ma a quella condizione, un bel dì, decise di non rassegnarsi.
Informò la madre della sua decisione irrevocabile: «Prendere moglie! Una qualunque donna. Purché sia tutta mia, solo mia» precisò, con quel piglio militare appreso quando dirigeva la sezione del P.N.F. di Salita Ramirez.
E donna Teresa, ancora una volta, supinamente l’assecondò, nella speranza che una moglie avrebbe placato i furori del figlio e allontanato lo spettro della malattia dei Montecateno; ma nel profondo convinta a tenerselo in casa folle piuttosto che vederlo legato a una donna qualunque.
«La moglie d’un principe di Leonforte deve essere patrizia» si confidò un giorno con la figlia. «Una delle ragazze Alliata certo, o può darsi una Torrearsa, o magari una Lanza di Scalea» perché temeva, se così non fosse stato, che il sangue di viceré e cardinali si sarebbe mischiato col fango.
Sulle sue povere spalle di vedova gravava la responsabilità di settecento e più anni di storia.
La voce che don Raimondo volesse prender moglie corse silenziosa per la città, ma nessuna nobile pretendente al titolo di principessa di Leonforte si fece avanti, in molte, certo, allettate dal titolo, ma di più spaventate dai debiti.
Marianna soffriva in silenzio, com’era sua abitudine, per la madre e per il fratello che vedeva, giorno dopo giorno, scivolare verso un destino del quale percepiva l’inesorabilità, e di cui lei si sentiva, per qualche oscura ragione, causa.
Quasi dipendesse solo da lei il poter fare qualcosa, come se solo in lei fosse riposta l’unica possibile soluzione.
Dal canto suo don Raimondo continuava a scrivere, a consegnare pacchi, e a dare segni di squilibrio.
Una mattina, andato a prendere un ordine per una tovaglia ricamata, gli aprì la porta la padrona di casa.
Era una bella donna sui quarant’anni, florida, dalla carnagione fresca e dagli occhi lucenti e maliziosi, ed era avvolta solo da una eccitante vestaglia, che lasciava intravedere più che nascondere, presaga di inimmaginabili lussurie.
Al principe sembrò che il sangue gli prendesse fuoco nelle sue stesse vene, e fu sopraffatto dal desiderio, e da una indicibile collera al pensiero che quella donna così meravigliosa non fosse sua, ma di qualcun altro.
Sentì ribollirsi d’ira, come di chi non riesce più a tollerare la presenza di un odiato nemico.
Vide schiere di eroici antenati sfilargli innanzi con le else insanguinate, a incitarlo all’azione, alla violenza; sentì la forza di mille anni di rapine e di stupri irrigidirgli i muscoli, si sentì un Ares trasfigurato.
Lanciò un’occhiata insieme feroce e lasciva alla donna, si aprì i pantaloni, con un gesto quasi di sfida, e rimase immobile a fissarle gli occhi scuri.
La donna lanciò un urlo.
Nessuno seppe nulla di quanto accadde: la ricca signora tacque la violenza subita, forse per paura, forse perché, in fondo, appagata dell’esser stata causa di tanto virile furore.
Tuttavia, in qualche modo, donna Teresa venne a sapere dell’accaduto.
Informata, senza l’omissione dei particolari più osceni, donna Teresa, per la prima volta in vita sua, ebbe una reazione furibonda: nulla poté salvare don Raimondo dalla sua ira e dai suoi rimproveri e, a malincuore, anche dal disappunto della sorella.
Dopo quel fatto il principe si avvolse ancor di più in se stesso, prese a non uscire di casa, rifiutò ogni forma di comunicazione; si negò agli amici che andavano a trovarlo, chiuso in un ostinato mutismo, come se ogni parola fosse divenuta di colpo incapace di esprimere l’abisso che aveva dentro, e il silenzio solo fosse in grado di esprimere quanto provava.
Immobile, sdraiato sopra il letto, ascoltava muto le invettive della madre: «Rimminchionitu. Fimminaru! Quale demone avete dentro, voi Montecateno?» Imprecava disperata, stanca di difendere il figlio insieme al suo nome.
Marianna lo osservava di nascosto, all’apparenza imperturbabile e silenziosa;socchiudeva appena i grandi occhi innocenti e piangeva, senza farsi notare.
Il suo Raimondo non le parlava più, non discuteva più con lei, non rispondeva, stava supino nel letto, vinto dall’indifferenza, perso in cosmici pensieri, amante non amato, ossessionato e consumato da un’estasi amorosa che non trovava sfogo.
Trascorsero un paio di settimane, don Raimondo li visse in uno stato di torpore cosciente in cui rifiutò ogni presenza umana eccettuata quella della sorella che, con incredibile pazienza e senza cedimenti, lo aveva vegliato, imboccato come si può fare con un bambino o con un malato, perché riconosceva nel proprio fratello la malattia di cui lei stessa era parte e colpa: la malattia dei Montecateno.
Don Raimondo la fissò riconoscente, muto, distolse appena gli occhi azzurri dai suoi per cercare il cielo al di là della finestra, screziato da nuvole cremisi illuminate dall’ultimo sole delle corte giornate d’autunno.
E tra le nubi immagini di giovani donne si rincorrevano e si dissolvevano, spazzate dal vento, per poi tornare con tutte le tonalità cangianti del vermiglio e del vermiglione del tramonto novembrino.
Intento a seguire aeree figure femminili carezzò la delicata mano di Marianna e, mentre il pallido viso di lei si riempiva di lacrime, egli avvertì la presenza, la morbida fragranza, della sorella che, silenziosa e leggera come una libellula, senza mai lasciare la sua mano, s’infilava nel suo letto.
Udì un profondo sospiro e si sentì prendere come da un’ondata d’inebriante calore.
Guardò il cielo, ormai scuro, e gli parve che le fronde alte del gigante che dominava il giardino, cariche di delicati germogli vermigli, muovendosi al vento avessero avvolto l’intero palazzo in un abbraccio modulato e voluttuoso.
Chiuse allora gli occhi senza riuscire a stabilire se stesse fantasticando ancora o se infine,non stesse per cogliere il frutto amaro dell’ailanto.
«Voscenza s’abbenerica» lo ossequiò l’anziano giardiniere, con una levata di berretto e una reverenza di capo.
Il grembiule gli scendeva fino ai piedi come una veste talare e lui, già magro e sfilato di suo, pareva ancor più secco di una canna al vento.
«Don Peppino» lo salutò il principe, mentre un gesto veloce provava a sistemare la bionda cresta leonina.
«Propiu ‘na bbedda jurnata di suli, eccellenza» rispose, e già aveva ripreso a sforbiciare, nel tentativo di metter ordine nelle fitte siepi di pittosforo.
«Peccato ‘unn arrinesca a scaldarici puri ‘u cori a la genti» fece di rimando don Raimondo.
«Voscenza, 'u suli curpa ‘unn’avi» sentenziò don Peppino.
Il principe si adombrò, il cielo azzurro smarrì l’incanto e riprese a essere il muto testimone che sempre era stato.
«Siamo infelici e malinconici, eternamente insoddisfatti, e sempre alla ricerca di qualcosa, che tuttavia sfugge: guardate» e indicò gli intonaci del palazzo quasi del tutto sbriciolati dalle intemperie e dall’incuria. «Hanno visto tutto: eretici e autòs da fé, apostoli e annunciazioni, rivolte e impiccagioni, restaurazioni, repubbliche, re e imperatori; cento conquistatori e tutte le lingue e le illusioni del mondo» mormorò, con l’amarezza di chi le sue illusioni le aveva già viste tutte svanire.
«Voscenza tuortu ‘unn’avi. Rassignati semu e 'ndiffirenti.»
«E con la segreta voglia in corpo di farla finita» aggiunse il principe, ma sottovoce, nel timore che, per quell’ardire, si potesse abbattere su di lui uno strale della collera divina.
Don Raimondo Montecateno, ultimo dei principi di Leonforte, di antica e illustre discendenza catalana, era il perfetto prodotto di secoli di iattanza coscienziosa e di noia spensierata.
Alto, magro, occhi azzurri come il cielo e bello come il sole, nutriva per la vita un sentimento tragico; abitava, come i suoi antenati da innumerevoli generazioni, il palazzo di famiglia, nei vicoli oramai sudici dell’Albergheria; una cupa costruzione spogliata, dal trascorrere del tempo e dal disinteresse degli uomini, dei segni dell’antico splendore.
Quelle pietre avevano conosciuto tutta l’arroganza e i privilegi di secoli di ladronerie e di sprechi di quell’orrenda razza spagnola che aveva messo in ginocchio l’isola, e tutto lo sfarzo e il lusso che la nobiltà siciliana sola conosce. Ma dell’antico fulgore non era rimasto nulla, oltre a pareti spoglie, e nulla dell’immenso patrimonio; dissipato dal bisavolo per la causa separatista fin dai tempi del Comitato Rivoluzionario di Ruggero Settimo, dal nonno tra tavoli da gioco e ballerine francesi, dal padre in folli spedizioni archeologiche alla ricerca della biblica arca di Noè.
«La pazzia abita a casa Montecateno» salmodiava la nonna di don Raimondo, quando questi era ancora nicuzzu e nel suo siciliano litaniava stanze stanze: «‘A fuddìa è ‘na bbuttana, ca si suca ‘a robba nostra e puru li figghi. Però a mmia 'un mi futti, ’sta bbuttana!»
Ma donna Eleonora non aveva fatto eccezione, e aveva terminato i suoi giorni sbavando rabbiosa dentro una cella spoglia del convento delle carmelitane scalze di piazza della Kalsa.
«La pazzia è figlia di quest’isola assolata» ricordò a se stesso don Raimondo, che seguiva il filo invisibile dei suoi pensieri nel tentativo di scongiurare, con un motto originale, un destino, a suo sentire, ineluttabile.
Un giorno, durante la quotidiana partita a scacchi col farmacista Consales, mentre sorseggiava un bicchierino di acqua e zammù all’ombra del gigantesco ailanto che sovrastava il giardino, don Raimondo s’animò: «E se la causa della prostrazione del popolo siciliano, la sua incapacità di guardare al futuro, non dipendessero dall'indolenza, come voi sostenete, dottor Consales? Se la causa della miseria del nostro popolo non risiedesse nel susseguirsi ininterrotto di gioghi stranieri, com’è invece convinto monsignor Agrusa? Se queste fossero solo le conseguenze e non la causa? Se ciò che impedisce ai siciliani di partecipare ai capovolgimenti storici che affannano il mondo sia l’immensità stessa della natura e la vastità del tempo?» Domandò, e abbozzò un sorriso unito a un'alzata di occhi al cielo, come se dovesse ringraziare il Padreterno per quella magnifica intuizione.
E dopo averci a lungo riflettuto spostò il cavallo nero alla destra dell’alfiere bianco, sopra la scacchiera sulla quale i Montecateno si vantavano avessero giocato un’epica partita il viceré Caracciolo e l’abate Meli.
Ogni volta il principe concentrava la sua attenzione sul baluginio di un’idea, la inseguiva, la sviluppava, finiva per innamorarsene e, infine, l’abbandonava.
«Il siciliano, a differenza degli altri europei» continuò con la sua voce calda «percepisce la vacuità dell’essere uomo.»
E arroccò il re alla destra della torre.
«E riconosce fondato e vero il solo governo della natura e della necessità degli eventi; eventi dei quali si sente attore o comparsa, a seconda dei casi, giammai regista. Da questo sentimento scaturisce la nostra incapacità di costruire la nostra storia senza ricorrere a un aiuto esterno. Poiché non riusciamo a concepire il corso degli eventi umani come un’entità controllabile e assoggettabile a nostro piacimento. Di conseguenza, ci adattiamo alla realtà e perciò la subiamo; i siciliani si destano solo per necessità, per causa di forza maggiore, e infatti quando ciò accade essi si sollevano con la furia dei Titani, come durante i Vespri, o al tempo di d’Alessi, di Ruggero Settimo o al tempo dei Fasci, quando l’unità nazionale mostrò il volto aspro della colonizzazione. I siciliani vedono intorno a loro, tutti i giorni sin dalla nascita, le magnifiche e diseguali vestigia di millenni di dominazioni straniere: nelle strade, nei palazzi, perfino nei loro stessi nomi o nel colore della loro pelle o dei propri occhi. Allora, è chiaro come ci appaia vera non la lotta contro il barbaro, contro il diverso, contro l’altro ma, al contrario, quella perpetua contro la durezza della natura, contro questo cielo maledetto, sempre azzurro e assetato.»
Con don Raimondo, nell’immenso palazzo di famiglia, vivevano la madre, donna Teresa, e la sorella Marianna, frutto, si era mormorato a suo tempo, di una relazione incestuosa tra donna Teresa e il fratello, il duca Ignazio La Grua.
Il padre di don Raimondo, Jaime, partito molti anni prima, non aveva più fatto ritorno da quell’ultima spedizione sull’Ararat, e si favoleggiava vagasse ancora nelle steppe dell’Asia centrale alla ricerca di un favoloso tesoro da tutti dimenticato.
Donna Teresa, a dispetto della sua apparenza minuta, era una donna forte e mostrava ancora nel viso, sotto l’aspetto severo e triste di chi cerca in tutti i modi di sopravvivere alla rovina della propria casa, i segni di un’antica bellezza.
La figlia Marianna, più giovane di don Raimondo, non era bella: aveva un viso lungo e scarno dal colorito pallido su cui dominavano occhi cerulei un po’ obliqui e sporgenti, e uno sguardo inquietante, ardente, come di chi sia divorato da una oscura e indicibile sofferenza.
Nonostante ciò non mancava di un certo aristocratico, e sottile, fascino tale da non lasciar rimpiangere quella mancanza di avvenenza.
Marianna viveva ritirata, come fosse stata reclusa, prigioniera di quell’antica magione priva ormai di mobilia, con gli splendidi affreschi e gli antichi arazzi quali unici ornamenti, vittima consapevole di una colpa non commessa, rassegnata a vivere una vita al margine serrata tra quelle mura che, pur appartenendogli, non sentiva sue.
Trascorreva le sue giornate in una sorta di clausura, da monaca di casa, dedicandosi in silenzio al ricamo e alla creazione di ricercati motivi decorativi per completi di lenzuola e di tovaglie, ogni giorno infelice eppur serena. Sottomessa di carattere, non chiedeva altro se non di far felice la madre e servire il fratello, di cui riconosceva non tanto la superiorità intellettuale quanto la superiorità del sangue; perché egli era – lui sì! – un Montecateno, l’ultimo vero erede di secoli di storia.
Quel magnifico passato li schiacciava e li rendeva incapaci di cogliere il presente; perciò essi avevano rinviato ogni decisione, l'intera loro vita, a un futuro che avesse potuto uguagliare ciò che era stato e perciò non sarebbe giunto mai.
Erano questi gli ultimi Montecateno.
Tuttavia, tra i cespugli variopinti del giardino, come all’interno dei giganteschi saloni ormai vuoti se non per qualche consòlle o étagère sopravvissuta alle urgenze dei creditori, in mezzo ai tanti libri rimasti, don Raimondo godeva di una condizione di particolare tranquillità, essendo l’unico e ultimo discendente maschio di una gloriosa e illustre casata, e quindi il legittimo depositario di tutte le cure e le attenzioni di cui la madre e la sorella lo facevano oggetto e monumento.
Il nostro Raimondo, lo chiamavano entrambe, ed esse vivevano unicamente per lui, e le loro residue speranze le avevano riposte in lui. Era loro compito permettergli di vivere sereno, di non fargli mancare mai nulla e di condurlo a un buon matrimonio che avrebbe permesso loro di risalire la china. Un sogno coronato dall’arrivo di un erede maschio in grado di far sopravvivere, almeno per un’altra generazione, un’altra ancora, il nome illustre dei Montecateno.
Purtroppo per loro don Raimondo non si dava cura di nulla, si sentiva un poeta e un filosofo, e le sue occupazioni consistevano nel leggere e nello scrivere.
E non scriveva, a parte qualche raro articolo sul Giornale di Sicilia — e per cui rifiutava con sdegno i sia pur minimi compensi — che per se stesso, fermo nell’invincibile convinzione che nulla di quanto producesse fosse degno di essere ricordato.
In sostanza, non si preoccupava di nulla e non aveva nulla di cui lamentarsi; era stato dispensato dalla vita e poteva vivere nell’oblio contando sul lavoro della madre e della sorella, le quali si affannavano tutto il giorno solo per lui consumando dita e occhi su trame e orditi.
E donna Teresa, in fondo al cuore consapevole della inadeguatezza del figlio, sapeva bene che, al di là dei sogni e delle speranze, a segnare un confine tra la sopravvivenza e la sventura vi era solo il suo impegno; e soltanto grazie al lavoro suo e della figlia —sapeva — poteva conservare la speranza: di salvare loro stessi e centinaia di anni di storia dalla rovina.
Con non pochi sforzi era riuscita a farsi una buona clientela nelle ricche dame della nuova aristocrazia palermitana, quella del denaro e non del sangue.
Grazie a donne viziate e arroganti, che non potevano fare a meno delle tovaglie e delle lenzuola ricamate dalle nobili mani delle principesse Montecateno di Leonforte, donna Teresa aveva tenuto in piedi la famiglia, e aveva esercitato il suo ruolo con dignità e coraggio.
E dei frutti di questo coraggio don Raimondo godeva e si avvantaggiava.
Il principe amava trascorrere quelle giornate d’inizio estate con una passeggiata lungo la vecchia via Toledo, da Porta Nuova giù fino al Teatro del Sole e poi lungo via Maqueda ad arrivare fino alla via d’Alcalà e alla Villa al Mare: per poi tornare e riposare nel grande giardino del palazzo di famiglia. E così ogni pomeriggio si stendeva in una poltrona di vimini all’ombra del maestoso ailanto, piantato secoli prima dal suo avo Guglielmo Luigi III, che ricopriva ogni angolo col frutto rossastro dei suoi rami, innalzandosi prepotente a sfidare il cielo e a occultare il sole, e si addormentava. E non poteva fare a meno di pensare quanto, in fondo, la vita somigliasse a quell’albero: così alto e spavaldo da sostenere il cielo coi suoi rami, sotto i quali si godeva di frescura e quiete, ma i cui frutti, così belli a vedersi, erano tanto amari da esser velenosi.
In quel sereno angolo di mondo, nascosto alla vista e riparato dalle intemperie del clima come dalle angustie degli uomini, don Raimondo viveva senza fatica, com’era giusto forse per chi poteva vantare nel proprio albero genealogico una mezza dozzina tra cardinali e viceré, e dimenticava il presente ricordando il passato e ignorando il futuro.
Aveva soldi a sufficienza per i suoi sigari, per qualche libro che lo interessava e per altri piccoli desideri; vestiva con eleganza, la sorella Marianna gli dedicava ogni cura possibile, per cui usciva sempre in perfetto ordine, col vezzo del bastone da passeggio e del grande panama bianco. E tutto questo, in definitiva, gli bastava.
«Cosa contano le ricchezze del mondo, se si possiede tutta la virtù necessaria?» Si rivolgeva alla sorella, fiero di sé.
Di tanto in tanto, per svagare la mente e allenare il corpo, svolgeva qualche commissione per la madre: forniture di materiali o, più spesso, consegne di lavori già terminati o acquisizioni di nuovi ordini.
E questa, col passar del tempo, era divenuta quasi un’occupazione, dato che le ricche signore dell’alta borghesia panormita adoravano vedersi recapitare i loro pacchi dal colto e sensibile principe di Leonforte in persona; al quale, tra teneri indugi e finti svenimenti, finivano per rivelare i loro travagli o gli affanni di cuore a cui i loro mariti, padri e fratelli, non avevano tempo, o voglia, di porgere orecchio.
Don Raimondo, pertanto, sebbene vivesse con due donne, era solo perché non ne aveva alcuna. Tuttavia qualche volta, tra un pensiero sublime e un’armonica visione, ci pensava seriamente a prender moglie; ma sentiva che quella strada gli fosse, in qualche modo, preclusa: era come se, avendo già una famiglia, non avesse alcun diritto a crearsene un’altra.
La sorella viveva per lui, la madre lo proteggeva, da tanti era apprezzato e anche la gente del quartiere non mancava di cercarlo per consigli di ogni genere. Eppure don Raimondo, a volte, sentiva prepotente la mancanza di un qualcosa, o di qualcuno. E quel qualcuno, sempre più spesso, si materializzava nei suoi pensieri e nei suoi sogni nelle fattezze di una donna: una donna solo per sé, una donna in grado di amarlo con la medesima profondità con cui lui sentiva il mondo.
Naturalmente era consapevole che, per prender moglie, fosse necessaria una certa, seppur minima, indipendenza economica. E così a un certo punto, spinto dal desiderio di raggiungerla, dalla necessità del guadagno, per la prima volta in vita sua si attivò per trovare un’occupazione qualsiasi che gli fruttasse anche un po’ di denaro.
Grazie alle conoscenze di monsignor Agrusa trovò un non ben specificato impiego da svolgere presso gli uffici cittadini della segreteria del P.N.F. Si trattava di un lavoro che non richiedeva alcuna particolare capacità e, pertanto, si adattava perfettamente alla sua indole. Don Raimondo non sapeva fare nulla, e perciò pensava di saper far tutto, e peraltro, illuso dalle proprie fantasie, egli era disposto anche a far di tutto.
E così, pur vantandosi di essere uno spirito libero e un anarchico stavroghiniano (sic!), lavorò con entusiasmo per il partito fascista e arrivò a dirigerne, da solo e a tempo pieno, la locale sezione.
Divenne infaticabile, si occupò della propaganda, delle iscrizioni dei nuovi tesserati, del bilancio e delle attività sociali, come delle esercitazioni militari degli avanguardisti e, il sabato, dell’adunata fascista.
Scoprì di avere delle discrete attitudini ginniche e instaurò un profondo rapporto cameratesco con la squadra di picciotti che aveva formato.
Ogni domenica li conduceva in gita nei dintorni di Palermo, li portava a marciare per i campi, in montagna, lungo le spiagge, declamando i versi di Byron e di Shelley; in mezzo a tanto fervore e dedizione al partito, impegnato com’era a esercitare le maschie attività cameratesche, la sua insoddisfazione sembrò placarsi.
Ma la pace ebbe breve durata.
Don Raimondo, spinto da un impulso irrefrenabile ad agire acuito dall’astinenza, prese a frequentare il bordello di vicolo Villanueva, e lì si scoprì di appetiti insaziabili; ma quel sesso sfacciatamente esposto e comperato, come pesce al mercato, mal si adattava al suo temperamento, e ciò gli procurò, a lungo andare, un vago senso di vuoto e di soffocante inutilità che, dopo qualche tempo, lo spinse in un vortice di penosa depressione e perenne disistima di sé.
Accadde più o meno in questo periodo che don Raimondo avesse organizzato, con i suoi picciotti, una gita in bicicletta a Cefalù, con pernottamento all’addiaccio. Così, al termine di una faticosa e calda giornata di fine primavera, il principe ebbe la ventura di condurre l’intera maschia brigata di adolescenti all’assalto di un bordello dentro l’abitato della cittadina.
Alla testa di un manipolo di eroi irruppe nella casa e, nel comico tentativo d’imitare il principe di Montenevoso, si animò: «Suggete il sacro effluvio di queste bbuttane, o miei arditi!»
Incitate le sue schiere, tiratosi giù i calzoni fino alle caviglie, prese a inneggiare le rime del Vate, tra grida di donne e lo stupore dei legittimi avventori, e seminò il panico, in violazione di tutte le leggi che regolavano il meretricio nelle case di tolleranza.
L’avvenimento ebbe larga eco in provincia, quasi uno scandalo, non tanto per il fatto in sé ‒ ben poca cosa in realtà ‒ ma proprio perché fu il principe a condurre lo sconclusionato assalto al bordello.
Il partito gli tolse ogni incarico senza far rumore e don Raimondo si ritrovò, da un giorno all’altro, di nuovo disoccupato, a consegnare pacchi per la madre e a scriver poesie che nessuno leggeva.
Le sue stranezze aumentarono e sia la madre che la sorella riconobbero i primi sintomi della malattia che per generazioni aveva ammorbato i Montecateno.
«Che hai Raimonduzzu?» Lo coccolava donna Teresa, con le lacrime agli occhi.
E lui, senza distogliere lo sguardo dal vuoto, rispondeva: «Chi guarda in faccia la disperante Necessità impazzisce, e l’unica salvezza è l’ebbrezza o il sogno.»
Donna Teresa capì.
L’estate passò e don Raimondo parve essersi un’altra volta chetato, lentamente, come le onde del mare che, dopo giorni di tempesta, abbandonano le rive da poco conquistate; ricominciò a frequentare con assiduità il bordello di vicolo Villanueva: di donne, però, di donne vere, nemmeno l’ombra.
E sì che, avendo ripreso a consegnare pacchi per la madre, non gli mancavano certo le occasioni per fare delle belle conversazioni col gentil sesso; ma nulla sfociava poi in qualcosa di concreto.
Non che le donne ‒ le donne vere s’intende ‒ non lo gratificassero, anzi forse lo facevano in modo eccessivo a causa della sua capacità di leggere i sentimenti altrui.
Riscuoteva tanta di quella fiducia tra di loro da non potersi permettere, per paradosso, di avvalersi dei suoi diritti di maschio, prigioniero del ruolo di intimo confidente, comprensivo, sicuro, affidabile, al quale si poteva rivelare, senza pena e senza timore, ogni affanno e ogni peccato e ricevere in cambio considerazione e consigli.
Questa condizione, seppure in qualche modo lo premiasse, lo consumava ogni giorno un po’ di più, perché conosceva ogni segreto di donna, ma non poteva comportarsi da uomo vigoroso qual era.
Ma a quella condizione, un bel dì, decise di non rassegnarsi.
Informò la madre della sua decisione irrevocabile: «Prendere moglie! Una qualunque donna. Purché sia tutta mia, solo mia» precisò, con quel piglio militare appreso quando dirigeva la sezione del P.N.F. di Salita Ramirez.
E donna Teresa, ancora una volta, supinamente l’assecondò, nella speranza che una moglie avrebbe placato i furori del figlio e allontanato lo spettro della malattia dei Montecateno; ma nel profondo convinta a tenerselo in casa folle piuttosto che vederlo legato a una donna qualunque.
«La moglie d’un principe di Leonforte deve essere patrizia» si confidò un giorno con la figlia. «Una delle ragazze Alliata certo, o può darsi una Torrearsa, o magari una Lanza di Scalea» perché temeva, se così non fosse stato, che il sangue di viceré e cardinali si sarebbe mischiato col fango.
Sulle sue povere spalle di vedova gravava la responsabilità di settecento e più anni di storia.
La voce che don Raimondo volesse prender moglie corse silenziosa per la città, ma nessuna nobile pretendente al titolo di principessa di Leonforte si fece avanti, in molte, certo, allettate dal titolo, ma di più spaventate dai debiti.
Marianna soffriva in silenzio, com’era sua abitudine, per la madre e per il fratello che vedeva, giorno dopo giorno, scivolare verso un destino del quale percepiva l’inesorabilità, e di cui lei si sentiva, per qualche oscura ragione, causa.
Quasi dipendesse solo da lei il poter fare qualcosa, come se solo in lei fosse riposta l’unica possibile soluzione.
Dal canto suo don Raimondo continuava a scrivere, a consegnare pacchi, e a dare segni di squilibrio.
Una mattina, andato a prendere un ordine per una tovaglia ricamata, gli aprì la porta la padrona di casa.
Era una bella donna sui quarant’anni, florida, dalla carnagione fresca e dagli occhi lucenti e maliziosi, ed era avvolta solo da una eccitante vestaglia, che lasciava intravedere più che nascondere, presaga di inimmaginabili lussurie.
Al principe sembrò che il sangue gli prendesse fuoco nelle sue stesse vene, e fu sopraffatto dal desiderio, e da una indicibile collera al pensiero che quella donna così meravigliosa non fosse sua, ma di qualcun altro.
Sentì ribollirsi d’ira, come di chi non riesce più a tollerare la presenza di un odiato nemico.
Vide schiere di eroici antenati sfilargli innanzi con le else insanguinate, a incitarlo all’azione, alla violenza; sentì la forza di mille anni di rapine e di stupri irrigidirgli i muscoli, si sentì un Ares trasfigurato.
Lanciò un’occhiata insieme feroce e lasciva alla donna, si aprì i pantaloni, con un gesto quasi di sfida, e rimase immobile a fissarle gli occhi scuri.
La donna lanciò un urlo.
Nessuno seppe nulla di quanto accadde: la ricca signora tacque la violenza subita, forse per paura, forse perché, in fondo, appagata dell’esser stata causa di tanto virile furore.
Tuttavia, in qualche modo, donna Teresa venne a sapere dell’accaduto.
Informata, senza l’omissione dei particolari più osceni, donna Teresa, per la prima volta in vita sua, ebbe una reazione furibonda: nulla poté salvare don Raimondo dalla sua ira e dai suoi rimproveri e, a malincuore, anche dal disappunto della sorella.
Dopo quel fatto il principe si avvolse ancor di più in se stesso, prese a non uscire di casa, rifiutò ogni forma di comunicazione; si negò agli amici che andavano a trovarlo, chiuso in un ostinato mutismo, come se ogni parola fosse divenuta di colpo incapace di esprimere l’abisso che aveva dentro, e il silenzio solo fosse in grado di esprimere quanto provava.
Immobile, sdraiato sopra il letto, ascoltava muto le invettive della madre: «Rimminchionitu. Fimminaru! Quale demone avete dentro, voi Montecateno?» Imprecava disperata, stanca di difendere il figlio insieme al suo nome.
Marianna lo osservava di nascosto, all’apparenza imperturbabile e silenziosa;socchiudeva appena i grandi occhi innocenti e piangeva, senza farsi notare.
Il suo Raimondo non le parlava più, non discuteva più con lei, non rispondeva, stava supino nel letto, vinto dall’indifferenza, perso in cosmici pensieri, amante non amato, ossessionato e consumato da un’estasi amorosa che non trovava sfogo.
Trascorsero un paio di settimane, don Raimondo li visse in uno stato di torpore cosciente in cui rifiutò ogni presenza umana eccettuata quella della sorella che, con incredibile pazienza e senza cedimenti, lo aveva vegliato, imboccato come si può fare con un bambino o con un malato, perché riconosceva nel proprio fratello la malattia di cui lei stessa era parte e colpa: la malattia dei Montecateno.
Don Raimondo la fissò riconoscente, muto, distolse appena gli occhi azzurri dai suoi per cercare il cielo al di là della finestra, screziato da nuvole cremisi illuminate dall’ultimo sole delle corte giornate d’autunno.
E tra le nubi immagini di giovani donne si rincorrevano e si dissolvevano, spazzate dal vento, per poi tornare con tutte le tonalità cangianti del vermiglio e del vermiglione del tramonto novembrino.
Intento a seguire aeree figure femminili carezzò la delicata mano di Marianna e, mentre il pallido viso di lei si riempiva di lacrime, egli avvertì la presenza, la morbida fragranza, della sorella che, silenziosa e leggera come una libellula, senza mai lasciare la sua mano, s’infilava nel suo letto.
Udì un profondo sospiro e si sentì prendere come da un’ondata d’inebriante calore.
Guardò il cielo, ormai scuro, e gli parve che le fronde alte del gigante che dominava il giardino, cariche di delicati germogli vermigli, muovendosi al vento avessero avvolto l’intero palazzo in un abbraccio modulato e voluttuoso.
Chiuse allora gli occhi senza riuscire a stabilire se stesse fantasticando ancora o se infine,non stesse per cogliere il frutto amaro dell’ailanto.