E la chiamano estate...
Inviato: 16/05/2023, 20:27
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E la chiamano estate
In quel giorno d’agosto la spiaggia appariva la location di un film. Non un filmetto di quelli con i cantanti e le attricette e le “spalle” comiche, Al Bano e Romina, Gianni Morandi, Little Tony, Franco e Ciccio, Nino Taranto… Non questo, bensì qualcosa con Gassman e Jean-Louis Trintignan. Forse per via del solleone che picchiava imperioso rendendo la sabbia bollente sotto i piedi, se ti azzardavi a traversare la distanza dall’ombrellone alla battigia senza sandali. Sullo chalet del lido, qualcuno al Jukebox aveva messo Gino Paoli, il Paoli di “Sapore di Sale”, un evergreen ormai in quell’agosto del 1965.
La musica arrivava fino agli ombrelloni in fila “privilegiata”, cioè quelli più vicini alla riva. Non dava fastidio a Heiko, pur era abituata ad ascoltare ben altro, soprattutto quegli scandalosi inglesi che minacciavano di scalzare i Beatles dal loro regno fatato, e il menestrello americano, voce della protesta e la contestazione giovanile. Quel giorno particolare poi, sembrava che il suo cervello fosse in pausa. Vedendola, l’avresti detta una studentessa universitaria in relax dopo le fatiche degli esami nella sessione estiva, una delle tante. Spiccavano, forse, i suoi capelli bruni, del colore dell’ala di un corvo, lisci come la seta, portati raccolti in una semplicissima coda di cavallo da ragazzina. Osservandola con attenzione, ti saresti però reso conto che Heiko con era una delle normali ventenni sparpagliate per il lido… E in quel momento non si stava rilassando affatto, bensì cercava di tenere calmo il suo cervello, farne una lavagna sulla quale un bidello avesse passato il cancellino.
Era tutta colpa di quel giorno: il 6 agosto 1965. Cosa avrebbe significato per tutta quella gioventù e anche quelli più grandi, quelli maturi, se lei avesse urlato a pieni polmoni scandendo lo stesso giorno dello stesso mese, ma di una data di venti anni prima? Niente. Per lei invece quel 6 agosto 1945 significava molto. Sua madre del resto era morta intorno a quella data di agosto. No, non a Hiroshima, ma non cambiava tanto: uccisa poco prima della fine della guerra in cui non aveva creduto, e che anzi aveva odiato con tutta sé stessa. Uccisa poco prima di poter avere dalla vita quello a cui aveva diritto. Caduta come un’antieroina sui suoi ultimi metri prima del traguardo.
E la rabbia scrisse ideogrammi di fuoco su quella lavagna che Heiko si sforzava di tenere sgombra, pensando solo pensieri anodini. Digrignò i denti in una smorfia feroce. Si alzò di colpo, progettando di recarsi al bar per una birretta. Ci ponzò un attimo su, perché nonostante tutto le sembrava una mossa audace: una signorina al massimo poteva ordinare una coca cola o un “tropical” un cocktail analcolico di menta e latte di mandorla. Però poi scosse le spalle. “Al diavolo, ho venti anni adesso. Posso fare quel che mi pare!”.
Così si diresse verso il lido. Prese una Peroni e tornò indietro, all’ombrellone. Si sedette sulla sdraio. Accese una sigaretta.
Passò un bagnino. La vide e scosse la testa. – Birra e sigarette: attenta ragazzina…
Il tono condiscendente non contribuì a schiarire l’umore di Heiko. – Sono nata nel ’45: sai contare? – replicò ruvida.
Il bagnino alzò le braccia e andò oltre.
“Ecco, l’ho fatto di nuovo” pensò lei. “Sono stata scortese e acida. Finirò come una vecchia zitella, di quelle che borbottano sempre”. Però poi digrignò di nuovo i denti. Lo fece perché in un guizzo si rese conto di essere osservata. “Di nuovo…” mormorò sotto voce. Non era irritata, ma nemmeno contenta. Sapeva quale fosse il significato di quegli sguardi: lo aveva appreso da quando aveva tredici anni.
A tredici anni infatti, la maledizione delle donne della sua famiglia materna, aveva iniziato il suo lavoro con lei. Fino ad ora, gli sguardi della gente erano stati di discredito, di riprovazione, di ripulsa persino: lei era la pupattola color zafferano, la bambina dagli “occhi storti”, la figlia scandalosa di un padre non meno scandaloso e di una madre che sicuramente sarà stata “una poco di buono di quei paesi là”. Dai tredici anni, quando era diventata donna, precoce tra le altre della sua età, ancora bambine in cui la femminilità iniziava appena appena a delinearsi, aveva cominciato ad attrarre un altro genere di sguardi. Era uno sguardo di quel tipo che adesso si sentiva sulla pelle.
Si voltò rapida come una volpe che pensa al da farsi. Una volpe delle leggende del paese di sua madre. E ti potevi sbagliare? Sempre lui.
Lui, un bel ragazzo moro, che si allenava da play boy. Un play boy di quelli veri, che non fanno nulla per esserlo ma lo sono, con una specie di grazia, se non vocazione, naturale. La fissava da sotto il suo ombrellone. Ma non era questo, bensì il modo come la fissava: in tralice, sottecchi. Sguardi furtivi, come dovessero rimanere segreti; come non stesse bene esplicitarli, cosa avrebbe detto la gente?
Heiko digrignò di nuovo i denti. Poi la sua natura le mandò un input. Stavolta decise di cogliere il suggerimento e di seguirlo. Sciolse la coda di cavallo, e i suoi capelli neri come l’ala di un corvo e lisci come seta, presero a scenderle lungo le spalle. Non solo: cominciò a fissare ostentatamente il giovane. Lui carpì quegli sguardi, ma vi rispose con occhiate sottecchi. Un gioco di sguardi truccato.
Dopo un po' però lei si stancò. Scrollò le spalle. Si stiracchiò sulla sdraio. Raccolse il libro che aveva con sé, e si immerse nella lettura. Quasi subito però si bloccò e alzò la testa, percependo un’ombra accanto a lei.
– Ciao – fece il ragazzo alto e moro. L’accento meridionale ne aumentava il fascino.
Heiko arrossì all’istante. – C… ciao – balbettò.
Lo sapeva, lo sapeva: si metteva sempre nei guai. E adesso in che modo ne veniva fuori? Accidenti ma come le era balzato in testa di mettersi a fare la civetta?
Però poi con la coda dell’occhio notò tre o quattro ragazze: guardavano nella sua direzione. Sferrò un’occhiata al giovane moro che sembrava presa da uno di quei film di Sergio Leone con quell’americano biondo che lei vedeva al cinema d’essai, un localino incassato tra due palazzotti in una strada secondaria della sua città.
Lui scosse la testa. – Non è come pensi – si affrettò a dire.
L’occhiata di lei conservò la stessa intensità. – E secondo te come penso che sia? – disse.
Lui mise le mani in avanti, con i palmi rivolti verso l’esterno. – Non ti stiamo prendendo in giro – fece.
– Ah, no? – replicò lei.
Il ragazzo annuì, forse non sapendo nemmeno bene a cosa annuisse. – Senti, lascia stare quelle: non c’entrano… Invece io… diciamo che vorrei spiegarti…
– Vorresti spiegarmi cosa? Cosa ci sarebbe da spiegare? La sfigata che si fa delle illusioni; o peggio, la sfacciata che ci prova convinta di essere Brigitte Bardot… Ovviamente ti fa piacere, no? Però c’è un però. Un però grosso come un grattacielo… C’è o non c’è questo però?
Colto alla sprovvista lui si trovò sprovvisto di parole.
Heiko annuì. – Oh si che c’è questo però. Mica sta bene far vedere di essere interessato ad una ragazza… Ovviamente non ad una ragazza qualunque, ma a questa ragazza – si indicò con vemenza, si fece anche un po' male piantandosi quasi il pollice nello sterno.
Lui tentò di negare. – Ma no, non è così.
Anche Heiko scosse la testa. – Invece è proprio così – mormorò.
– Ti sei offesa – disse lui. Sembrava davvero rammaricato.
– Il punto non è offendersi – continuò lei. – Bensì constatare la realtà. La mia, la tua realtà. Rispondimi sinceramente: ti faresti vedere in giro con me? Mi porteresti ovunque ci sia gente a guardarci? – e con la testa fece segno di “no”. – Ma se anche ora ti senti a disagio sotto gli occhi di tutti…
– No, non è così, è…
– La colpa è della gente? Di quelli che guardano? Non dico di no: la gente giudica. E allora sentiamo: come affronteresti tu il giudizio della gente? Non l’affronteresti. Non vuoi affrontarlo. Non daresti a loro tutto il torto. Non glielo dai. Ti vergogni di te stesso, invece. Perciò continua a girare dietro le ragazze italiane e lasciami in pace. Non sei quello che cerco, né sono io quella adatta a te.
Avrebbe voluto aggiungere “solo non guardarmi più”, ma le sembrò eccessivo: la sua solita cortesia.
E il ragazzo replicò col silenzio. Un lungo silenzio. I secondi si dilatavano imbarazzanti. Alla fine si allontanò a testa bassa, senza voltarsi dietro. Heiko lo vide rimpicciolire, come un ricordo del passato. Bé, c’era da dire che almeno non le aveva promesso mari e monti sapendo di non poterli mantenere.
Ma lei avvertì la solita cosa strisciarle addosso. Non era proprio terrore, ma di certo nulla di gradevole. Quella cosa che le faceva compagnia da una vita, ormai.
Chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì si ritrovò ancora su quella spiaggia, non in un posto che potesse chiamare casa. E la spiaggia era ancora affollata e assolata. Non era cambiato niente; non poteva cambiare niente.
Accese una sigaretta. Fissò quella spiaggia con tutto ciò che conteneva. “Non posso farci niente se non sono come voi” disse a sé stessa. “Io sono Heiko. Heiko e basta”.
Bevve un sorso di birra a canna. Ormai era diventata calda.