End of the World, Route 66
Inviato: 01/12/2023, 20:12
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Conobbi Jasmine ai tempi del college e durante una delle innumerevoli feste, me ne innamorai perdutamente. Bei tempi: eravamo giovani, spensierati e senza troppe responsabilità. La sposai, e dopo quasi dieci anni di matrimonio, la nostra relazione precipitò drasticamente. Infatti, da anni ormai, la mia consorte non perdeva occasione per scaricare le sue insensate frustrazioni su di me.
Una sera, dopo l’ennesima discussione, mia moglie ghignò a denti stretti: «Stammi bene a sentire Aaron, non crederai di uscire coi tuoi amici anche questa sera?» Poi, incalzò: «Sei uno scansafatiche e non ti permetto di trattarmi da serva!» Rimasi allibito, in fondo non ero certo il tipo di uomo che passava il tempo davanti alla TV o che non dava una mano per le faccende domestiche. Fu così, che non le diedi nemmeno la soddisfazione di una risposta, e senza degnarla di uno sguardo, presi la giacca, le chiavi dell’auto e uscii, sbattendo la porta. Non ne potevo più, ero saturo. Quella donna non era più la ragazza timida, dolce e aggraziata che conobbi, si era trasformata in una strega.
Accesi la mia fiammante Mustang, consapevole che questa volta, i sensi di colpa non mi avrebbero fatto cambiare idea.
Mi diressi verso Chicago, sulla U.S. Route 66 in cerca di una stazione di servizio. Dovevo fare rifornimento all’auto e, senza dubbio, avevo bisogno di bere qualcosa di forte. Dopo qualche miglio, scorsi il posto adatto ed accostai.
“End of the world Route 66”, sorrisi pensando alla fantasia del gestore nella scelta del nome per la sua attività, decisamente originale, poi senza tergiversare, spinsi la porta ed entrai. Il locale era piuttosto accogliente e, malgrado le mie aspettative non lo avrebbero certo previsto, colmo di gente. Della musica country rendeva gradevole l’atmosfera, anche se le persone all’apparenza, sembravano indaffarate in questioni personali. I clienti non sembravano del posto, e a dirla tutta, nonostante molti di loro sedevano allo stesso tavolo, avrei giurato che fossero perfetti sconosciuti. Sensazioni. Mi avvicinai al bancone per ordinare un whisky on the rocks. La cameriera forzò un sorriso e me lo servì in un batter d’occhio.
La musica cessò improvvisamente. Non mi era mai piaciuto il country. Colsi l’occasione per avvicinarmi ad uno splendido jukebox, che mi invitò a selezionare qualcosa del mio genere. Pensai immediatamente al classico rock’n’roll degli ACDC, ma non appena intravidi Elvis, beh, non potei far altro che optare per la famosa “Jailhouse Rock”. Introdussi la moneta e il disco venne selezionato. Le note armoniose del Re del Rock si diffusero nel salone, tanto da trasformare l’ambiente lugubre, in una sala da ballo. Mi voltai e incredulo stropicciai gli occhi nel vedere gli stessi individui persi nei loro affari, coinvolti in una ballata rock, sorridenti e fieri, come se si fossero svegliati da un letargo decennale.
Una bellissima ragazza, abbigliata come Daisy Duke di Hazard, mi prese per mano e mi trascinò in quella bolgia. Non avevo intenzione di tradire mia moglie: non certo per una qualche paranoia di tipo etico, non più almeno, non me ne fregava più nulla. Avevo semplicemente paura di essere scoperto. Da settimane, ormai, il mio pensiero fisso era uno e uno soltanto, il divorzio, e non potevo permettermi scivoloni che potessero trascinarmi dalla parte del torto. Inoltre, una volta ottenuto il divorzio, avrei potuto fare ciò che volevo: era solo questione di aspettare un po’ di tempo. Però, al diavolo, in quel locale tutti stavano ballando con tutti, senza dubbio avrei iniziato a ballare con quella ragazza, e in pochi minuti, in quella bolgia, mi sarei ritrovato come damigella un biker muscoloso e tatuato dalla barba chilometrica. Così mi lasciai andare. Non sono mai stato capace di ballare ma poco importava, a quanto pare. In pochi istanti i passi di danza avevano lasciato il posto a brindisi virili, capaci di crepare i boccali, trenini conga sconclusionati, gente che semplicemente ondeggiava spalle e bacino, rigorosamente in piedi sui tavoli. In mezzo a tutto quel caos mi colpì un uomo, lo vidi solo per qualche frazione di secondo, tra una schiena e l’altra: “Ma quello è un pirata!” pensai, e quell’immagine mi strappò un sorriso. Avrà avuto una settantina d’anni, capelli lunghi e bianchi, una maglia a righe orizzontali e le dita delle mani coperte di anelli dorati. Personaggi singolari ce n’erano in quel bar, ma quel tizio li batteva tutti. Niente di che, continuai a ballare e di quando in quando, facevo in modo di approdare al bancone urlando: «Whiskey!», giusto per fare rifornimento.
Andò avanti così per circa mezz''ora, poi la musica finì e tutti tornarono a sedersi, ridendo e asciugandosi il sudore. Qualcuno si complimentava con qualcun altro per chissà quale motivo e io tornai al bancone.
«Una bottiglietta d’acqua, ghiacciata per favore».«Qui nessuno beve acqua», mi rispose una voce roca, di fianco a me. Era il pirata. «Eh, immagino e anzi, sono d’accordo», replicai ridendo, «ma dopo quattro whiskey e tutto questo movimento un goccio ci sta, o no?» «No», ribadì serio il pirata. «Qui nessuno beve acqua». «Vuoi qualcosa di fresco? Fagli un Hell on the Road, Dolores» esclamò, rivolgendosi alla barista. E se ne andò. Rimasi interdetto, ma compiaciuto e divertito e scolai tutto d’un fiato quella che doveva essere la specialità della casa. Una specie di succo di frutta, molto ma molto zuccherato. Buono ma leggero. «Fammene un altro, Dolores». Mi sedetti su uno sgabello, con i gomiti appoggiati al bancone, a bere con calma. Devo confessare due cose: la prima, cercai per un po’ la Daisy Duke che mi aveva introdotto alle danze, ma non la trovai più, come immaginavo. E per fortuna. Secondo, quella specie di succo dolciastro, specialità della casa, mi stava lentamente inebriando, ammetto di averlo sottovalutato. E con mio grande sgomento, mi resi conto che stava per iniziare la classica sbronza triste: erano ormai le 2.00 e, a momenti, sarei dovuto tornare nel mio inferno privato, con quella troia di mia moglie.
Guardavo fisso il bicchiere, quando sentii una voce roca e sottile: «Dammi il solito». La barista passò al mio vicino di sgabello un bicchiere lungo e sottile, una forma mai vista prima, e con la coda dell’occhio, vidi una cosa che mi sconvolse. Il cliente accanto a me, infilò in quella specie di tubo una lunga, lunghissima lingua, che riempì tutto il vetro, succhiando la bevanda al suo interno. “O mio dio” pensai, e rivolsi lo sguardo a quella cosa. Aveva un impermeabile beige e un cappello. Ma la sua faccia era, santi numi: la sua faccia era di un colore tra il grigio e il marroncino, squamata, la bocca un po’ allungata e due occhi enormi. Mi guardò. «Qui fanno la migliore tisana al melograno della contea. Certo, la qualità non giustifica un prezzo così alto ma cosa vuoi mai, tutto costa di più oggi… e meno male che con queste mani non posso guidare: vogliamo parlare dei prezzi del gasolio?»
Sgranai gli occhi, e mi allontanai con uno scatto repentino, quasi facendo cadere lo sgabello. Cosa diavolo era quella cosa? Lui, quel mostro, mi seguì con lo sguardo per pochi istanti, poi abbassò gli occhi, per bere un altro sorso di quella bevanda. Indietreggiando, sempre con gli occhi sgranati, urtavo e venivo sbattuto dalle decine di persone, ammucchiate in quel locale. Qualcuno si lamentò, intimandomi di stare attento a dove mettevo i piedi. Non sapevo cosa fare, nessuno sembrava badare a quella mostruosità, che io invece continuavo a fissare, allontanandomi sempre più dal bancone. Mi voltai, deciso a scappare, o forse per lanciare l’allarme e indicare a qualcuno, chiunque, quella cosa seduta al bar. Ma quando alzai lo sguardo, mi ritrovai faccia a faccia con una donna, giovane e molto molto carina. Almeno fino a quando non scansò la ciocca di lunghi capelli biondi, che le copriva metà del viso, mostrando l’occhio sinistro. O meglio, ciò che avrebbe dovuto essere l’occhio sinistro: dalla cavità oculare, incorniciata da pelle cadente e sanguinante, emergevano vermi e larve. Urlai e corsi per guadagnare l’uscita, ma… non vi era alcuna porta. Mi guardai intorno: lungo la parete in mattoni rossi potevo intravedere solo insegne al neon, gagliardetti e raccolte di fotografie. Bloccai la persona più vicina a me: «Scusi dov’è l’uscita?» L’uomo si voltò: nessuna lingua viscida e allungata, niente pelle sciolta e cadente. L’uomo appariva normale, certo un po’ pallido, ma non vi era nulla di strano. Iniziò a indicare la sua bocca con l’indice, facendomi alcuni segni con la mano, senza proferire una parola: «Non capisco, ho solo chiesto dov’è l’uscita?» domandai di nuovo, urlando per sovrastare il volume della musica che nel frattempo era ripartita a livelli assordanti. Alzando gli occhi al cielo, con fare spazientito, l’uomo abbassò il colletto del maglione: ok, evidentemente voleva dirmi che non poteva parlare, d’altra parte come avrebbe potuto con quello squarcio profondo e sanguinante che gli attraversava il collo?
Ero terrorizzato, confuso, la paura si mescolava alla sbornia. L’alcool. La specialità della casa… Hell on the Street, on the Road, come diavolo si chiamava. Corsi verso il bancone e inveii contro la barista: «Che diavolo c’era dentro a quella roba, mi avete drogato?!» La donna mi guardò con sufficienza, la testa leggermente piegata e il chewing gum masticato senza ritegno. «Sì, è la prima cosa a cui si pensa, arrivati qui». Mi voltai e inorridii… era quello che avevo soprannominato il pirata.
«Ancora niente, vero?»
«Ma di che diavolo stai parlando?»
«Vieni con me», mi disse.
Sconvolto iniziai a seguire quell’uomo attraverso il salone affollato, poi salimmo una rampa di scale e ci appoggiammo a un parapetto. Davanti ai nostri occhi decine e decine di figure, maschili e femminili, alcune di quelle le avevo già viste nel corso della serata, prima che si trasformassero, almeno. Qualcuno aveva una fessura nel cranio che non avevo notato fino a qualche minuto prima, qualcuno aveva il volto massacrato e sanguinante, molti (la maggioranza) avevano ossa rotte, che emergevano dalla pelle o dai vestiti. Ma non solo: c’erano figure che di umano non avevano nulla, come quell’essere che incontrai al bancone, ma dalle diverse fisionomie. Un uomo vestito di pelle nera, portava al guinzaglio un altro uomo, magrissimo, glabro, nudo, con le palpebre e la bocca cucite. Una donna strisciava leccando il pavimento, un uomo seduto in un angolo, con lo sguardo fisso e allucinato, masticava frammenti di vetro, mentre il sangue colava dalla sua bocca. Era un’orgia di distruzione, perversione e orrore.
«Qui è dove accogliamo le anime auto distrutte, qui è dove la consunzione del corpo e dello spirito soggiornano per l’eternità. Anni spesi ad arrendersi all’angoscia, attraverso scappatoie e vie di fuga, rifiutando qualsiasi sforzo o tentativo di alzarsi in piedi. Morti fuori e morti dentro: prima si danza in preda all’ebbrezza, poi l’entusiasmo si spegne e si torna al buio che ci compete e, davanti al quale, abbiamo chinato il capo. Questo è il deserto dell’essere, questo è il rifugio di chi odia la moglie, questa è la consolazione di chi sfoga la frustrazione, iniettandosi eroina o premendo sull’acceleratore, questo è il Midian della società, questo è il nulla eterno».
«Voi siete pazzi, questa è solo una festa in maschera, dove servite di nascosto droghe e merda del genere, io voglio andarmene».
«E nessuno te lo impedisce. Quella è l’uscita», disse il pirata, indicando una zona della parete, che credevo di aver controllato, senza trovare l’uscita.
Corsi via, più forte che potevo, salii sulla mia Mustang e partii diretto verso casa.
Ero decisamente ubriaco, ma volevo andarmene, in fretta e furia. L’orrore che avevo appena vissuto, era decisamente troppo, anche più di quella strega di mia moglie. Mentre mi avvicinavo all’isolato di casa, sentii numerose sirene, accompagnate dalle luci blu intermittenti di polizia e ambulanze. Stavano allontanando curiosi e vicini, mentre delimitavano una scena del crimine. Rimasi piuttosto perplesso e sbigottito. Il nostro quartiere era uno dei più tranquilli, e nel vicinato, non si erano mai verificati episodi significativi di criminalità.
Scesi dall’auto e mi avvicinai alla folla chiedendo spiegazioni, ma stranamente, nessuno sembrava vedermi né darmi ascolto. Poi, udii uno scambio di battute fra due persone poco distanti, che discutevano dell’accaduto. «Quella Jasmine sembrava una donna così educata e gentile, una donna per bene insomma». «Già, e chi diavolo si sarebbe immaginato che potesse fare a pezzi il marito?» «Poveraccio, non si meritava certo una fine simile. Ammazzato e fatto a pezzi, cosa da non credere!» I due parlavano di me, ma nonostante mi avvicinai e cercai di strattonarli per attirare la loro attenzione, per loro ero invisibile. Non potevano né vedermi, né sentire le mie urla; non riuscivo ad accettare la verità, non volevo credere. Tentai un nuovo disperato tentativo, per attirare l’attenzione. Urlai a squarciagola verso la folla circostante: «Ehi, che diavolo fate? Io sono qui, sono vivo, mi chiamo Aaron, Maledizione!» Piansi ed iniziai a disperarmi.
In preda al panico, mi rimisi al volante e cominciai a guidare, a velocità sempre più elevata. Il buio mi impediva di orientarmi, non sapevo dove fossi, non c’erano svincoli, non c’erano edifici. Fino a quando, scorsi nuovamente l’insegna dell’“End of the World”, il locale sulla Route 66. A quel punto, mi fermai e spensi la macchina. Il respiro pesante, intervallato dai singhiozzi, la testa tra le mani. Rassegnato, disperato, scesi dall’abitacolo e mi diressi verso l’unico edificio presente lungo quella buia strada di follia.
Il pirata fece un sorriso beffardo: «Bentornato Aaron. Fai un Hell on the Road al nostro nuovo amico, Dolores. Anzi, faglielo doppio: tanto avrà tutto il tempo di gustarlo. Qualcosa come... l’eternità».
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