Ben tornato a casa, Mr. Jones
Inviato: 20/03/2024, 13:36
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Ben tornato a casa, Mr. Jones
"Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle. Storie fotografate dentro un album rilegato in pelle. Tuoni di aerei supersonici che fanno alzar la testa…"
(C. Baglioni, da Avrai)
«Miao!» Un gatto. Sì, era un gatto! Mi guardai attorno, ma non riuscivo a localizzare dove esattamente fosse. «Miao! Miao! Miao!» Eppure miagolava con insistenza e doveva essere abbastanza vicino. «Ah, sei quassù? Furbone!» Stava appollaiato sopra i rami di un albero a circa due metri d'altezza. Probabilmente si era arrampicato prima, incuriosito dal rumore o dal luccichio di qualcosa, e poi, come di solito capita ai gatti, ora si trovava in difficoltà e non sapeva più come fare per scendere. Per questo miagolava? Voleva solo un mezzo di trasporto per raggiungere i piani bassi? Rischiando i suoi graffi, stesi le braccia, lui restò immobile, docilmente lo afferrai da sotto le zampe anteriori e come una morbida calda palla di pelo lo posai sul marciapiedi.
Credevo scappasse una volta a terra. Ma il gatto sollevò il musetto, tutto interessato a me, iniziò a guardarmi, annusarmi, e girando e rigirando a strusciarsi sulle falde dei miei pantaloni. Immaginai che questo fosse il suo modo di esprimermi la sua riconoscenza. Quando ritenne di avermi ispezionato e sniffato per benino, si sdraiò sul marciapiedi, con la pancia all'insù, le zampe tese in avanti e gli occhi socchiusi.
«Vuoi essere strapazzato un pochino, micio?»
Mi abbassai sopra di lui e cominciai a carezzarlo e a fargli coi polpastrelli dei grattini sotto il collo; e lui, sereno e beato, prese a fare ronfi e piccoli miagolii. «Ti piace, eh? Giocherellone!» E gli sfregai anche la testolina. Serrò così ancora di più gli occhi e si stiracchiò come una molla. Scoprii a quel punto un collare e una piastrina con scritto il suo nome: Mr. Jones.
Insolito come gatto. In vita mia non mi era mai capitato, se non in qualche manifesto o pubblicità della TV, di averne mai visto uno tanto bello dal vivo prima d'allora. Mezzo persiano, con occhi grandi e di un celeste chiaro, il pelo lungo color crema, tranne le estremità, cioè zampe, coda, orecchie, muso e genitali di tono più intenso, tipo color cioccolato. In apparenza grassoccio, la testa tonda e il naso appena schiacciato. La mia buona azione per quel giorno l'avevo fatta. Perciò mi rimisi in piedi e ripresi ad andare per la mia strada, ma subito lui scattò sulle quattro zampe e iniziò a seguirmi.
Dondolandosi leggero sulle dita delle zampe e con l'ampia e vaporosa coda tesa come un pennacchio, era costantemente al mio lato con la testolina e gli occhi vispi rivolti nei miei, accorto a ogni mio movimento. Percorremmo un bel pezzo di strada assieme, ma non ricordo esattamente quanta. Attraversando anche diversi incroci, in cui il piccolo felino, completamente rapito dalla mia presenza, non prestava attenzione neppure alle auto, alle persone o ai rumori circostanti. Stressato dal suo comportamento, finsi di ignorarlo e lui riprese a miagolare più forte per richiamare la mia attenzione. Poi, d'improvviso, fece una rapida corsa, andò un poco più avanti, si voltò e fermò per mettersi seduto sulle zampe posteriori e rimase, sempre coi suoi occhi puntati nei miei, ad aspettarmi.
«Che vuoi, Mr. Jones?» chiesi appena lo raggiunsi.
E lui rispose coi suoi soliti: «Miao! Miao! Miao!»
«Hai forse fame?»
Due potevano essere le cose: o aveva fame o mi aveva confuso con un altro.
«Miao! Miao! Miao!» fece ancora, e diede inizio al suo consueto balletto di morbidi sfregamenti della coda e sinuose giravolte attorno alle falde dei miei pantaloni.
A un certo punto mi stava talmente appiccicato alle scarpe che rischiavo quasi d'inciampargli addosso mentre cercavo di avanzare. Così, mi fermai. Fui costretto a farlo.
«Si può sapere cosa vuoi da me? E smamma, gattaccio!» e cercai di scacciarlo con la punta di una scarpa, e lui solita risposta: «Miao! Miao! Miao!»
Ma proprio in quel tratto di strada, dove il piccolo animale mi impediva di proseguire, sentii il cigolio d'un battente aprirsi sul mio lato destro e vidi uscire dal cancello di una modesta casa a schiera una ragazza con due sacchi della spazzatura. Era una ragazza acqua e sapone, con sneakers, jeans e una maglietta bianca, e i suoi capelli quasi biondi, legati in una treccia, scivolavano morbidi lungo le spalle.
«È suo il micio?» sussurrai tra me. E senza neppure sapere chi fosse e se il mio intuito ci avesse indovinato o meno, le dissi: «Maria, è tuo il gatto?» Ovviamente l'avevo chiamata con un nome a caso, essendo lei per me una perfetta sconosciuta.
«Sì, è il mio! – trasalì, e i due sacchi di spazzatura le scivolarono dalle mani con un tonfo a terra – È sparito da dieci giorni. Mamma e io abbiamo anche appeso in giro dei volantini con la sua foto e una ricompensa di cinquanta euro per chi lo avesse ritrovato. Ce n'è proprio uno attaccato sul muretto a lato del cancello di casa nostra. Signore, non l'ha visto?» Pronunciò quelle parole tutto d'un fiato rimanendo alla fine con la voce strozzata, poi deglutì la saliva e tirò bene su col naso l'aria nei polmoni.
«No!» risposi e specificai: «Perché di solito non leggo cose scritte per strada. Sono poco affidabili oggigiorno. Come tutto del resto!»
«È un colourpoint. Ha quattordici anni ed è cieco» continuò lei.
«Cieco?» feci, titubante. Perché solo poco fa sembrava vedermi fin troppo bene.
«Il glaucoma, purtroppo, lo ha reso cieco, come ha detto il veterinario, e questa malattia colpisce spesso i gatti anziani. Di solito non si allontana mai oltre il cancello del giardino. In questo periodo però era irrequieto. Non so perché sia scappato, ma ho paura sia successo qualcosa di brutto. – Era rossa sulle guance e parlava sempre quasi in modo un po' concitato ed evitando, al contrario del suo cucciolo, di guardarmi negli occhi: timidezza, ovvio! – Grazie, allora, per averlo trovato e avercelo riportato» concluse.
«In realtà, io non ho trovato niente. Diciamo che è stato più il gatto a trovare me e portarmi qui, e non viceversa. Ehi! Ben tornato a casa, Mr. Jones! Visto? Siamo ritornati dalla tua padroncina!»
«Miao! Miao! Miao!» fece sempre il gatto.
«Vieni, Mr. Jones, su! Vieni, bello! Vieni, micio!» fece la ragazza.
E il gatto, a quei richiami, distolse – e finalmente! – la sua attenzione da me, girò il muso verso lei, e solo in quel momento notai, mentre con aria assorta, muovendosi a tentoni, con orecchie e coda dritte come un radar, che sembrava per davvero disorientato e non riuscisse bene a capire in quale posto esattamente fosse e in che direzione stesse andando. Quando, un po' a fatica, giunse davanti alla sua giovane padrona, si fermò, aspettando. E nel momento in cui lei lo raccolse tra le sue braccia, cominciò a miagolare forte.
«Con chi stai parlando? Lo sai bene che non devi dare confidenza agli estranei!» strepitò una voce di donna dal piano superiore della casa, come a voler squarciare quel poco di conversazione creatasi tra me e quella ragazzina dai modi garbati e fin eccessivamente schivi, e un attimo dopo la intravidi scostare l'anta della finestra e fare capolino.
«Mamma, c'è davanti casa un signore, ci ha riportato il nostro cucciolo!» urlò lei come risposta.
«Ah! Allora non era finito sotto una macchina? Dunque c'è del vero nel detto: i gatti hanno sette vite. Sette o undici? Non ricordo bene, devo chiederlo a tuo padre. Certamente lui lo saprà. Lui di solito sa sempre tutto. Ma visto che il signore è stato tanto gentile, digli di entrare a prendere qualcosa» disse a voce alta la madre, rientrata in casa e intenta a sbrigare faccende domestiche con l'aspirapolvere.
«Vuole entrare, signore, magari per… un caffè?» replicò allora sua figlia per formalizzare l'invito.
«No, sarà per un'altra volta, se mi ricapiterà un giorno di passare da queste parti. Grazie lo stesso. E ringrazia da parte mia anche la tua mamma.»
«Un bicchiere di Fanta o di Coca-Cola?» insistette.
«Mi spiace, devo andare.»
«Proprio non vuole?» fece un po' delusa, lei.
«Ci si rivede, Maria.»
Stavo ormai per andarmene, e la biondina fece ancora: «I cinquanta euro non li vuole?»
Finsi di non capire quello che diceva e confermai soltanto: «Non posso fermarmi, vado di fretta.»
«Allora buona giornata, signore» mormorò con voce incerta, mentre mi guardava, preoccupata, e lentamente, stando accanto a dei fiori bianchi arrampicati su un graticcio in stuoia di vimini, carezzava il dorso del suo gatto.
Mi ero ormai già allontanato di una ventina di passi, che la sentii gridare:
«Ehi, signore! – mi voltai – Io mi chiamo Isabella! Non Maria! Ma tutti mi chiamano Betty!»
«È la stessa cosa, piccola! È la stessa cosa!» E scappai via, senza neppure ricordare più dove prima stessi andando.
* * *
Caso volle, circa due settimane avanti, mentre di pomeriggio passeggiavo in un parco di un quartiere parecchio distante da dove si era svolta la "faccenda del gatto", che rividi Isabella. Indossava una T-shirt aderente, impavidi shorts jeans e sandali infradito: e tutta roba griffata Michael Kors, con abbinata relativa borsetta pink a forma di cuore, e tra le mani aveva un cellulare, di quelli buoni, nuovo di pacca e con la mela morsicata dietro. Stava lì con una sua amica, coetanea e altrettanto sciccosa, intente a fare selfie e foto a vicenda, e a giocare con Mr. Jones.
Il gatto correva e saltava agilmente, tendendo, con piccoli balzi felini, azzardati agguati ai piccioni che gironzolavano attorno alla vasca di una fontana, senza mostrare alcun minimo segno di qualche presunta cecità. Non era di certo una questione di vita o di morte, ma la mia indole curiosa mi spinse in quel frangente a cercare di capirne di più su quella storia del "gatto cieco".
Aspettando il momento opportuno, mi mantenni una certa distanza da loro e non fui notato. E quando la sua amica si allontanò per mettersi in fila a un chiosco di gelati, presi la palla al balzo e di soppiatto mi avvicinai alle spalle della ragazza, e le dissi: «Piccola, ma non era cieco il tuo gatto?» Lei ebbe un fremito e di soprassalto voltò la testa a guardarmi, meravigliata dalla mia inattesa presenza, poi, con un sorriso malizioso, vivacemente disse: «Oh! Ma lui è un mattacchione! E a volte gli piace giocare a fare il cieco. È un modo per attirare l'attenzione e ottenere qualche coccola in più.»
Ai suoi occhi azzurrissimi e all'humor di quella risposta, persi le parole e rimasi basito. Ma ero contento che Mr. Jones godesse di ottima salute, nonostante le bugie della sua padroncina.
«E i cinquanta euro della ricompensa, dove sono finiti?»
«Beh, ho finto con mamma che lei li… Trattenuti da me e spesi insieme ad altri messi da parte in un laboratorio per un piercing all'ombelico. Fatto di nascosto, perché mamma è ottusa, bigotta e tirchia, e non mi avrebbe mai dato i soldi e il consenso per farlo. Poi quasi tutte le mie amiche hanno un piercing o tattoo da qualche parte.»
«Io sono stato la tua prima vittima?» le domandai, curioso.
«Oh, no… credo il settimo o l'ottavo in circa un anno e mezzo a non volere la ricompensa per un povero micio malato. Ora non lo dirà alla mamma e resterà un segreto tra noi, vero?»
«Tranquilla! Sarò muto più di un pesce!» e lei ribatté con un accorto sorriso. «Racconti sempre tante bugie, piccola?»
«Non tante! Soltanto quando servono» rispose mentre mi abbassavo sulle ginocchia per accarezzare il suo fido complice felino, dicendogli: «Ehi! Mr. Jones, visto? Stai di nuovo con la tua scaltra padroncina!»
«Miao! Miao! Miao!» confermò molto felice il gatto.
«Lo vuole vedere il mio piercing, signore?» azzardò la ragazza.
Deviai la sua audace domanda, chiedendole:
«Sul serio ha quattordici anni, Mr. Jones?»
«Lui ne ha quattro, io, invece, quindici, anzi, sedici il prossimo ottobre.»
«Infatti, mi sembrava fin troppo arzillo per essere tanto vecchio.»
«Lo vuole vedere il mio piercing, signore?» incalzò poi schietta, domanda che questa volta elusi non rispondendole, ma, senza che potessi accorgermene, lei arrotolò con entrambe le dita delle mani il bordo della sua maglietta, continuando liberamente a dire: «Da grande voglio diventare come Taylor Swift, Margot Robbie, però anche una influencer di moda come la Ferragni mi andrebbe bene…» detto questo, perse il suo timore reverenziale verso di me, e con voce spavalda fece: «Ma non chiamarmi più piccola, mi dà fastidio quando lo fai. Puoi chiamarmi Betty o Bella, se tu vuoi…» E quando distolsi la mia attenzione da Mr. Jones per riguardarla, mi ritrovai di fronte a lei, tutta scosciata e profumosa di J'adore, e io accucciato ad altezza dei suoi shorts che lasciavano scorgere l'elastico delle mutandine, a fissare, turbato, il suo ombelico. Tanto vicino da poterlo toccare. In cui, simile a un anello, si incastonava una piccola pietruzza sbrilluccicante, al sole di quel pomeriggio, come d'un riflesso adamantino.
"Capelli color grano e occhi blu stoviglia, e un'aria da signora finta come le sue ciglia... Ciao, mi chiamo Isabella…"
(Ivan Graziani, da Isabella sul treno)