Tortine e frittelle
Inviato: 28/04/2024, 14:02
Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.
Il mio nome è Aisha. Sono nata a Fann Hock, un villaggio di pescatori, in riva al mare di Dakar, dove ho vissuto i miei primi quarant’anni.
Senza le insistenze di mia cugina Binah, abitante da tempo qui in Lombardia, non avrei mai lasciato il mio paese, perché se è pur vero che in Africa la fame è una tragedia quotidiana, anche il dolore di abbandonare la propria famiglia, e partire verso l’ignoto, è un ostacolo altrettanto duro da superare.
Renato, compagno di mia cugina Binah e maestro alle elementari del nostro quartiere, mi ha insegnato a parlare l’italiano, ma scrivere è tutt’altra cosa e senza il suo indispensabile aiuto non sarei mai riuscita a raccontarvi la mia storia.
So bene che sono milioni gli africani costretti a lasciare le loro amate terre, in un doloroso esodo di massa che ha privato interi villaggi e città delle loro energie migliori, e non solo qui in Senegal.
Ho sconfitto, non so come, tutte le mie paure; ho affidato i miei figli, Daren e Rudo, ai miei anziani genitori, e ho venduto tutto ciò che possedevo per un biglietto di sola andata verso l’Italia.
Per fortuna qui a Varese la gente è gentile e tutti mi aiutano. Riesco a parlare in italiano e ne sono fiera, perché comunicare con le persone è un’esigenza per me fondamentale, ma religione, abitudini e tradizioni sono tutta un’altra cosa e, come ripete ogni volta Binah, confidiamo nel buon cuore dei Varesini, sicure che nessuno vorrà mai pretendere il sacrificio delle nostre radici.
Quando osservo le donne italiane, mi rendo conto di quanto esse amino le cose minuscole, con i loro giubbini attillati e le mini borsette, dove a malapena trova posto l’immancabile telefonino. Un proverbio senegalese afferma: “il sangue di una donna, in mancanza di curve adeguate, rischia di arrivarle troppo velocemente al cervello!” Con un pizzico di malizia, credo sia questa la causa che spinge molte italiane a discutere e gesticolare così perennemente irrequiete! Un rischio che di sicuro io non corro con le mie forme generose e il metro e ottanta di statura.
Chissà cosa penseranno di me, mi chiedo spesso, mentre cammino per la strada avvolta in vivaci tuniche colorate, ma ben difficilmente mi capiterà di udire un commento: i Varesini sono molto educati e mai si permetterebbero una critica indiscreta. Per esempio, ho notato che se una persona è un po’ tonta, preferiscono chiamarla “diversamente abile”. Il significato è uguale, ma l’effetto è veramente diverso. L’incoerenza, semmai, sta nel fatto che se capita loro di incrociare un diversamente abile, il più delle volte preferiscono ignorarlo, voltandosi dall’altra parte.
Noi africani, invece, siamo più spontanei e magari ci scappa anche una parola di troppo, salvo poi sdrammatizzare con un luminoso sorriso.
Un altro problema da me notato qui in Italia sono i vecchi, ma guai a chiamarli così, altrimenti si arrabbiano.
In Africa, un nonno in famiglia è rispettato e custodito come un capitale prezioso d’informazioni a costo zero. È un’enciclopedia di storia, di tradizioni e di esperienze vissute. Un tesoro da tutelare gelosamente e giammai da confinare in un ospizio.
A proposito, io sono la badante del Dottor Ferrero, persona intelligente e colta, che ha molto viaggiato e, a dispetto dei suoi settant’anni, visita ancora numerosi pazienti nel suo studio di specialista ortopedico.
Con i mille euro che guadagno, più vitto e alloggio, mantengo tutta la famiglia a Dakar e riesco pure a mettere da parte qualche soldino, per far venire qua i miei figli, quando Dio lo vorrà.
Il Dottore mi permette di tenere le foto dei miei familiari sul mobile in cucina e quando siamo a tavola esse sono l’occasione per raccontargli degli episodi divertenti della mia vita africana. Lui ascolta affascinato e puntualmente ammette che vedermi ridere di gusto, a dispetto delle mie tante difficoltà, gli allarga il cuore più di cento vincite al superenalotto. Altre volte è lui a tirarmi su il morale con aneddoti spiritosi di qualche suo viaggio in giro per il mondo, quando la sua Adelina era ancora viva. Di suo figlio Giorgio, invece, ne parla poco e sempre con la voce velata da una sottile malinconia.
− Il mio ragazzo è eternamente indaffarato più di un alveare a primavera, − afferma puntualmente, pronto a scusarlo per le sue rarissime visite. Ma secondo me il motivo è un altro. Temo non gli sia rimasto molto da condividere, se non elemosinare regali per i nipotini o farsi pagare le rate del mutuo.
Tutto ciò è davvero triste, perché io so bene quanto il Dottore avrebbe bisogno di stare con lui…
La domenica mattina il mio padrone ascolta a tutto volume le canzoni della sua gioventù. Gli ricordano avventure, mi ripete, che farebbero arrossire perfino una dalla pelle nera come me.
Del baccano non mi preoccupo e tanto meno dei vicini. Sono così frettolosi e depressi che a malapena salutano.
Anche il Dottore ride poco, ma in casa sua si sta al caldo, si mangia da re, si dorme tra due guanciali e per il divertimento bastano i programmi della tv.
Oggi, però, è il suo compleanno e mi sento in obbligo di fargli un regalo, specie dopo che il figlio Giorgio mi ha comunicato la sua assenza per la cena, “causa impegni di lavoro indilazionabili”, così sta scritto sull’SMS da me ricevuto questa mattina! Io non conosco il significato di questo aggettivo, ma quando ho letto il messaggio al Dottore, lui ha abbassato lo sguardo e la sua faccia si è raggrinzita peggio di un foglio di giornale gettato nella spazzatura.
Mi ha fatto tenerezza, pover’uomo, e vorrei rincuorarlo con un bel dono. Peccato che con appena dieci euro le commesse dei negozi di via Matteotti mi hanno praticamente riso in faccia. Il destino, però, ha voluto che l’idea giusta mi balenasse proprio sulla via del ritorno. Ho dovuto correre tutto il pomeriggio per organizzare, ma ci sono riuscita alla grande.
Adesso sono le otto di sera. Il Dottore è tornato da poco. Si è seduto incerto a tavola, e io gli saltello intorno come un cucciolone irrequieto.
− Dottore… le spiace seguirmi un attimo? – chiedo impacciata.
− Dove mi vuoi portare, Aisha? A quest’ora poi!
− Beh… vorrei mostrarle una cosa…
− Su, venga con me! – Incalzo. Decisa a non farmi smontare dal suo tono sfiduciato.
Senza attendere il suo consenso, lo prendo sottobraccio e lo trascino verso le scale. Lui protesta, quasi arrabbiato. In pochi attimi siamo sul terrazzo. Da quassù Varese è un incanto, in lontananza si distingue il campanile del Santuario del Sacro Monte.
Su di un tavolino ho sistemato due brocche colme del suo aperitivo preferito e accanto c’è una lunga tavolata, con ogni sorta di bontà internazionali, cucinate con l’aiuto delle altre badanti del palazzo.
Il Dottore è ammutolito, ma parlano per lui due occhi sbarrati come fanali, mentre il giradischi suona le sue canzoni.
Un istante e una folla sbuca da dietro l’angolo. Ci sono gli inquilini al completo con il panettiere, il barista, il giornalaio, la postina e mia cugina Binah gli porge un bel mazzo di fiori.
Ho temuto che non venisse nessuno e invece eccoli tutti qui, eccitati e con le facce compiaciute di chi compie una buona azione.
Il Dottore si lascia trascinare nel vortice di una gioia inattesa, e non lesina sorrisi e strette di mano vigorose. Tutti gli fanno gli auguri, e c’è chi addirittura elogia la sua badante.
Si ride a crepapelle, si brinda con l’ottimo aperitivo e s’inizia a mangiare.
Io sorseggio il mio drink e mi abbuffo di tortine di pollo e frittelle senegalesi al cocco. Che magico momento! Finalmente ritrovo il calore di una vera famiglia, come a casa mia. In fondo ho anch’io qualcosa da festeggiare: domani compirò il mio primo anno in Italia.