Te ne sei accorta, sì?
Inviato: 22/06/2024, 13:26
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Te ne sei accorta, sì?
La prima volta non successe al BadGirls. Ero troppo piccola e forse Raul non voleva rischiare che qualcosa non potesse filare liscio come doveva. Quel giorno mi mandò un SMS in cui c'era scritto di chiamarlo al più presto da un telefono pubblico a un numero diverso dal solito. Scesi da casa, erano circa le quattro di pomeriggio, e lo chiamai dal primo box telefonico che trovai in strada. Parlò di un affare, così li definiva lui gli incontri, accennando poi anche a una grossa cifra in ballo, e che buona parte di quei soldi sarebbero toccati a me se avessi accettato; risposi di sì, accettai subito senza pensarci molto, perché sapevo che prima o poi mi avrebbe chiamata per propormi una cosa del genere. Continuò quindi a spiegarmi che tutto si sarebbe svolto in un piccolo hotel nella periferia della città, vicino a una vecchia ma ancora funzionante stazione dei treni, quella di Stony Brook, che a parole mi fece capire come arrivarci con l'autobus, la metro, infine in treno. Specificandomi nei dettagli anche tutti i nomi delle strade che avrei poi dovuto percorrere a piedi per raggiungere la mia destinazione. E a grandi linee mi consigliò pure come avrei dovuto vestirmi e comportarmi: "Truccati poco, indossa una camicetta, jeans, sneakers, golfino o piumino leggero, profilattici in tasca… e usali, mi raccomando. Metti sotto però della biancheria sexy e, se ti senti nervosa, fatti una canna dieci minuti prima di entrare. Quando sei in camera con lui, tieni spento il cellulare per evitare che possano disturbarvi, e se, per imbarazzo, non sai da dove iniziare, suggeriscigli di fare il bagno insieme e vedrai poi come sarà più facile continuare."
Poche ore più tardi, verso le sei e mezzo di sera, dopo aver camminato in una periferia ordinata e solitaria, mi ritrovai di fronte al Munger Moss Hotel: questo era il suo nome. Neanche lì vidi gente o altro, solo ogni tanto qualche auto sfilare sulla strada, pochi negozi aperti. E a volte, a causa di quella quiete che regnava tutt'intorno, si sentivano dei cani abbaiare da lontano, forse dalle case in legno a schiera sulla collina che intravedevo dalla mia prospettiva; mentre il vento, prima impercettibile, iniziava a scuotere i rami frusciando tra le foglie dei platani che costeggiavano, su entrambi i margini, quel viale da me poc'anzi percorso nel mio passo veloce per arrivare fin lì. Ma nell'istante in cui mi apprestai ad attraversare la strada per portarmi verso l'entrata, una musica mi distrasse e mi guardai intorno per capire da dove provenisse. Era distante da me, ma si vedeva bene lo stesso: un suonatore nero di sax, con la schiena addossata alla vetrina di un negozio, a farsi ascoltare osservando sottecchi il viavai dei passanti. Doveva essere uno di quei mendicanti che si esibiscono in strada, dato che accanto ai suoi piedi vi era posto il fondo di una scatola di metallo, in cui, eventualmente, avrebbe poi tintinnato il rumore delle monete di poco valore che qualcuno gli avrebbe lanciato. Ma in quel momento, nella strada deserta, a parte me, non c'era proprio nessuno da guardare, o che lo guardava, o ascoltava. Per lui, però, sembrava che questo non fosse molto importante: né cielo né terra esistevano per lui. E con gli occhi coperti da occhiali scuri, un piccolo cappuccio sulla testa e la barba lunga striata di bianco, imperterrito articolava le dita sulle leve del suo strumento, dando fiato e anima al lamento della sua musica. Per me, invece, tutto ciò, che in quel momento vedevo e sentivo giungere alle mie orecchie, mi suscitava dentro un sentimento troppo difficile da comprendere, simile a quello che si prova verso un qualcosa di nemico, ostile, che ti appare all'improvviso e tu non sai il perché.
Ma quelle distrazioni, a cui pure prima i miei sensi troppo spesso si erano concessi, magari erano solo un pretesto per prendere il maggior tempo possibile e giustificare le mie esitazioni a ciò che avrei dovuto fare quella sera. Guardai perciò l'orologio sul polso, mancavano pochi minuti, non potevo più indugiare perché l'avevo promesso che ci sarei andata. Attraversai la strada, camminai verso l'entrata e spinsi la pesante porta dell'edificio, non bloccata dalla serratura e accostata al battente solo dalla molla chiudi-porta. Appena fui nell'androne e l'anta si richiuse morbidamente da sé alle mie spalle, un click e dal soffitto una plafoniera sembrò magicamente brillare soltanto per me, come se fosse stata lì ad attendermi, poi la logica mi suggerì che in realtà qualche rilevatore di movimento ne avesse provocato l'accensione. Anche qui il deserto, e dietro il banco della reception nessun portiere o altri. Notai che c'era l'ascensore, ma rinunciai a usarlo per il timore di essere sola per davvero e scelsi di avviarmi su per la rampa delle scale. E intanto che furtiva e silenziosa mi arrampicavo sui gradini e nelle mie piccole soste sui pianerottoli, aperti da ambo i lati verso i corridoi delle camere, sentivo provenire un quasi impercettibile, ma certo, brusio di voci che smascheravano la finta desolazione di quel luogo, sfilai dalla tasca del giubbotto il mio biglietto scritto poche ore prima per essere sicura di non sbagliare, e lessi: quarto piano a destra, camera numero 190-91.
Spensi il cellulare, come Raul mi aveva detto di fare, e bussai con le nocche alla porta. Aspettai meno di un minuto, ma nessuno rispose. Picchiettai di nuovo con più insistenza. Ancora silenzio. Un dubbio mi assalì: avevo forse commesso un errore nel segnare il numero? Misi allora una mano sulla maniglia, abbassandola delicatamente, e spinsi l'anta fino a farla spalancare per tutta la sua ampiezza. Oltre la soglia, mi inoltrai con circospezione in un breve corridoio; sospeso tra ombre e luce. A sinistra e di fronte a me, due porte indicavano spazi più intimi: il bagno e una cabina armadio. A destra, un arco, simile a un'enorme bocca spalancata, conduceva alla camera principale. Lo attraversai e inaspettatamente mi investì, facendomi chiudere di riflesso gli occhi di scatto, un fascio di luce del sole basso che filtrava da una fessura delle tende a rullo che cadevano sulla la parete esterna interamente finestrata. Li schiusi e vidi un uomo sulla sessantina, non brutto, vestito in modo distinto e seduto in una poltroncina bianca accanto a un letto coperto da una trapunta rosa pallido e diversi e gonfi cuscini.
«Ti stavo aspettando», fece lui a quel punto.
«Beh, eccomi qui!», risposi come un'imbranata e abbozzando una specie di sorriso.
«Come ti chiami?», chiese poi.
«Denise!», esclamai dopo averci riflettuto un po' e, non so perché, dissi il nome della mia mamma, non il mio.
«Mi avevano detto un nome diverso. Forse si saranno sbagliati.»
«Sì», confermai.
«Poco importa. Anzi, voglio dirti una cosa…», e si interruppe.
«Cosa?», lo spronai, curiosa.
«Che di persona sei più bella della ragazza in foto. Sempre se eri tu in quelle foto, Denise», insinuò lui.
Non conoscevo la storia delle fotografie, che probabilmente erano quelle che ogni tanto venivano scattate nel locale, ma forse questo incontro era per davvero di un'altra ragazza che poi aveva rinunciato.
«Ero io in quelle foto», riconfermai. Non sapendo però se stessi dicendo una bugia o la verità.
«Allora, Denise, vuoi qualcosa da bere?», chiese ancora; risposi con una smorfia che non significava né sì né no. «Faccio io», continuò lui. Ma dopo che si alzò per chiudere la porta d'ingresso della camera, che io avevo lasciato aperta, e poi andare verso un piccolo mobile bar per afferrare una bottiglia e versare qualcosa in un lucido bicchiere, dissi: «No! No!» E lo bloccai e mi bloccai pure io.
Mi bloccai, con lui che mi guardava con un'espressione poco convinta, senza dire parola, perché mi resi conto che l'impeto di quelle certezze, che nella mia fantasia avevo troppo facilmente dato per scontato qualche ora prima, allo stesso modo erano andate a infrangersi contro la realtà di quei momenti, e questo mi disorientava, mi rendeva insicura, e non sapevo più a quel punto che fare e se dovessi essere io per prima a muovermi o aspettare l'inevitabile fatalità degli eventi: tenendo conto anche della mia timidezza e della mia caratteriale tendenza all'inibizione, che rendevano il tutto più complicato e incerto. Ed ebbi il timore che lui avrebbe potuto intuire quello che provavo dentro, e per questo indispettirsi, rinunciare e poi, di lì a poco, con un pretesto mandarmi via in qualche modo. Ma un pensiero mi venne in soccorso, perché mi ricordai di quello che mi aveva suggerito Raul se si fosse verificata una tale circostanza: la storia di lavarci assieme. Glielo proposi e disse di sì. Andammo quindi in bagno. Era strettissimo e la doccia non c'era. Ci spogliammo, io non del tutto e rimasi in reggiseno e mutandine. Entrammo poi nella vasca, rimanendo seduti di fronte con le gambe al petto, e io, da una sua risata beffarda, intuii che lui era abbastanza divertito, vista la mia età, dalla mia poca esperienza. Ma io, mi ripeto, mi sentivo soltanto a disagio, diffidente, anche in un certo senso ridicola per quello che stava accadendo. Capimmo perciò entrambi che non aveva senso stare lì, così uscimmo, e dopo esserci asciugati, andammo a stenderci sul letto.
In quel momento ero completamente soggiogata in quel giro di vite di quegli eventi in cui io stessa ero andata da sola a incastrarmi. Come in un gioco delle parti, nel quale io non ero esattamente una vittima, e da cui avrai potuto facilmente uscirne fuori se solo l'avessi voluto. Ma, a dispetto di ogni cosa, perché Raul si sarebbe arrabbiato con me se avessi fallito già al primo incontro e un'altra chance come quella non me l'avrebbe mai più concessa, volevo e dovevo a ogni costo continuare, nonostante il mio umore e le mie paure mi facessero sentire a pezzi già prima che tutto per davvero cominciasse.
Chiese, senza impormelo, di fargli delle cose e se anch'io volevo che lui mi facesse delle cose. Dissi in entrambi i casi di no o gli feci intendere di no. Non lo ricordo bene. Anzi, lo avevo dimenticato. Una cosa gli chiesi. Ma che non c'entrava nulla con le robe di sesso che intendeva lui. Gli chiesi di chiudere completamente le fasce delle tende perché non volevo che dall'esterno qualcuno, magari da una finestra dello stabile di fronte, potesse accidentalmente vederci mentre lo stavamo facendo. Le abbassò, e in camera si creò penombra, troppa, quasi buio, e lui per compensare la poca luce mosse la levetta dell'interruttore e illuminò il lampadario.
Quando mi riguardò, seminuda, ma sempre esitante e ferma come un tronco, distesa sul letto, accelerò i tempi. Sfilò le mie mutandine inzuppate d'acqua, mi allargò le gambe e le piegò all'indietro, si inginocchiò tra di esse, sollevò con due dita al centro la fascia elastica del mio push-up, scoprendomi i seni, e subito la rilasciò sulla parte alta del torace con uno schiocco: che a me sembro risuonare nel petto simile a un colpo secco e sordo di un tamburo. Si abbassò poi su di me e le sue mani iniziarono a stringere, palpare, graffiare, talvolta provocandomi dolore, mentre il suo fiato di tabacco sul mio volto, cercando con la sua bocca baci che respingevo, sospirando mi farfugliava frasi con parole volgari, alternate ad altre gentili e affettuose, di cui però non riuscivo mai ad afferrarne pienamente il significato, perché non mi importava saperlo; ma che, a ogni modo, a lui sembravano dargli carica, frenesia, eccitarlo sempre più.
In fondo era solo un pezzo di carne che doveva entrare in un altro pezzo di carne. Soltanto di questo si trattava! Non mi avrebbe poi fatto tanto male. Non ci sarei morta per questo!
Eppure, quando ciò avvenne, fu come essere trafitta per sprofondare in un liquido nero, vischioso, con l'impressione e la mia voglia ostinata di risalire a galla. Ma, invece, di tutti i miei slanci verso l'alto, in superficie riemergeva soltanto la percezione del mio corpo, ripetutamente schiacciato sempre più giù, mentre le molle della rete del letto cigolavano, e io, col fiato dei miei respiri spezzati dai suoi colpi e le sue spinte, che cercavo a ogni boccata d'aria di trattenerne più che potevo nei polmoni, lottando, per non sentirmi del tutto soffocare.
Non durò, credo, più del tempo che basta per fumare una sigaretta. Si sollevò da me per adagiarsi sulla sua parte libera del letto, mentre io rimasi sdraiata, muta e sempre immobile con le gambe divaricate a osservare, una alla volta, le pareti dipinte di tenero rosa che avvolgevano la camera, bloccandomi alla fine a scrutare il lampadario acceso in bilico dal bianchissimo soffitto: sette corolle di fiori in vetro delicatamente sfumate, sempre di rosa, e allo stesso modo sagomate. Pensai alla storiella dell'ape, all'odore umido dei fili d'erba di un prato dopo che è piovuto, ai petali, ai pistilli e al polline di fiori profumati; cioè a tutto quello che mi era stato raccontato da piccola per in qualche maniera spiegarmi l'amore fisico tra due persone. Nulla di ciò era stato. Inoltre, la stanchezza, che già in precedenza avevo avvertito, in quegli istanti mi aveva del tutto avvinta. Voglia di dormire, che non proveniva soltanto dal corpo, ma anche dalla tristezza del desiderio di non pensare più a nulla e sparire nel riposo di un sonno che sapevo bene di non potermi concedere. Cercai così di alzarmi, ma farlo sembrava avesse richiesto un'energia che semplicemente non riuscivo a raccogliere dentro. Dovevo però cercare lo stesso di muovermi, andare via da lì, altrimenti sarei impazzita e quel letto sarebbe diventato la mia tomba. Balzai allora con uno scatto nervoso, ma fu più un riflesso di volontà che forza muscolare, sulla grigia moquette a bouclé. Mi rivestii di corsa, andai per un attimo a rifugiarmi nel bagno e guardandomi allo specchio cercai con le mani di sistemarmi i capelli tutti scompigliati.
Prima di lasciare la camera, lui, nudo e rimasto disteso sul letto, disse che ero una bella ragazza, di preciso graziosa bambina mi chiamò, malgrado non avessi ancora molta fiducia nel mio corpo, e che gli sarebbe piaciuto rivedermi se ciò fosse stato possibile e anch'io lo avessi voluto. A tal proposito mi chiese il mio numero di cellulare, che io scandii una cifra alla volta, fin troppo lentamente, dato che in quel momento avevo la bocca impastata di saliva e non riuscivo ad articolare bene i suoni delle parole. Lui neppure lo annotò da qualche parte, perché disse che aveva buona memoria e non lo avrebbe dimenticato, come non avrebbe dimenticato la bellezza dei miei occhi neri. E almeno fu gentile in questa sua frase. Appena dopo, tirandosi su dal letto, sfilò un biglietto da visita dal taschino della giacca appoggiata sul dorso della piccola poltrona in compagnia degli altri suoi indumenti, che allungando un braccio mi passò fra le dita, dove c'era stampato un numero di cellulare con aggiunto a penna un nome: Sonny Jankis. Il numero sì, ma non credo che quello fosse il suo vero nome. Non confermai né risposi di no, ma gli spiegai che avrebbe dovuto sempre accordarsi anticipatamente con Raul, perché non potevo accettare appuntamenti in totale autonomia. Lui, un po' deluso, forse perché sperava, oltre a quella scopata, che potesse crearsi altro fra noi, annuendo con la testa fece intendermi che aveva capito. Però quell'uomo, di cui non conoscevo neanche con certezza il nome, cosa che lui altrettanto poteva dire di me, e che, a dispetto dei suoi propositi, mai più mi chiamò e io neppure mai cercai o chiesi a qualcuno chi realmente fosse, sapeva, o aveva intuito, che quella era stata la prima volta che lo avevo fatto per soldi, ma non anche che era stata la prima volta che lo avevo fatto in assoluto. Credendo che quella macchia rossa al centro di quel letto disfatto, su quella federa intrisa di umori e sudore, fosse dovuta all'inizio del mio ciclo. Addirittura mi suggerì, cosa davvero squallida, di usare le spugne mestruali per evitare che nelle eventuali future circostanze certi inconvenienti potessero creare irritazione per lui, o altri, e imbarazzo per la sottoscritta. Si mosse ancora, si mise seduto sul bordo del letto, tirò il cassetto del comodino al suo lato. Sul cui piano, in aggiunta all'abat-jour, c'era poggiato un piccolo vaso con altri fiori, ma questi erano veri: gladioli rossi, uguali nel tono del colore alla mia macchia di sangue su cui poc'anzi il mio sguardo si era soffermato. Prese una mazzetta di fruscianti banconote da cinquanta dollari legata con due elastici, sfilandone poi altri trecentocinquanta dal suo portafogli come extra per me, perché, pur non essendomi dimostrata completamente disponibile, avevo comunque accettato di farlo senza precauzioni. Ma io non avevo accettato un bel niente, mi ero solo dimenticata di quel piccolo dettaglio, che poi tanto piccolo non era, e lui ne aveva semplicemente approfittato. Per questo, nei mesi che seguirono, ho avuto di frequente il dubbio - anzi no, la quasi certezza - che fu esattamente da quella sera che iniziarono tutti i miei problemi. Restava tuttavia il fatto che in poco meno di due ore, incluso il tempo per raggiungere l'albergo, avevo realizzato una cifra che sembrava essere una piccola fortuna. Afferrai i soldi, li infilai nella tasca interna del giubbotto, lo salutai e andai via come fuggendo.
La notte stava calando quando uscii fuori dall'hotel e i lampioni sulla strada erano accesi. L'aria più fredda e immobile rispetto al mio arrivo e mi pizzicava la faccia. Feci un respiro profondo e d'istinto volsi la testa dove prima c'era il mendicante e il suono del suo sax. Ma erano spariti, e pensai che in realtà non fossero mai esistiti, e che quello che avevo visto e ascoltato prima erano stati solo il frutto della mia immaginazione; poi un altro suono, il rimbombo di un clacson di un taxi parcheggiato lungo il marciapiedi, richiamò la mia attenzione. Mi avvicinai e dal finestrino abbassato l'autista mi disse: «Mi hanno chiamato dall'agenzia per dirmi di venire sotto questo albergo ad aspettare una ragazza. Sì, una ragazza giovane, bruna, carina, coi capelli lisci, lunghi e di nome Mary. È forse lei, signorina?» Intuii che l'avesse mandato Raul come premio perché mi ero comportata bene.
«Sì, sono io Mary. Può portarmi subito a casa, per favore?», lo implorai con un filo di voce.
«Certo, signorina!», rispose lui, che vedendomi sola e agitata cominciò a guardarmi con stupore, incuriosito, e capii, ma non so come spiegarlo, che c'era come tenerezza nel suo sguardo.
Lungo il tragitto, che apparentemente mi riportava indietro, pensai che solo un istante prima di entrare in quella stanza, camminavo come in equilibrio sopra una linea; poi la linea l'avevo varcata. Probabilmente per la necessità di quel decoro che tutti quei soldi per un bel po' di tempo mi avrebbero garantito e che in altra maniera non sarei mai stata capace di guadagnare, o per una mia voglia di ribellione che doveva trovare un suo senso e sfogo nel dimostrare a me stessa e agli altri che pure io potevo essere desiderata, amata come Lucy, e valevo qualcosa, anche se era stato solo un prezzo quello che mi avevano dato; ma sentivo, ugualmente, con amarezza, che oltre al mio imene qualcos'altro si era irrimediabilmente rotto dentro di me, e che da quel momento in avanti sarebbe stato difficile tornare indietro. Ma forse il mio era solo un modo contorto per giustificarmi, un alibi o una facile bugia da credere, per spigare e capire quanto successo, e la verità, invece, molto più semplice: cioè che non c'era assolutamente nulla da spiegare o capire, e facevo proprio schifo come persona.
Improvvisamente il taxi voltò in una strada lungo la costa e di nuovo un fascio di luce, come in quella camera, mi ferì gli occhi e sentii l'autista dire:
«Bello qui, vero, signorina?»
Con una mano mi schermai la vista e guardai in controluce. Aveva ragione lui: perché ora era completamente diverso da prima. Il cielo era tutto un pavoneggiare di gialli, rossi e toni purpurei sopra un mare increspato di liquido d'oro; e le nuvole basse dai contorni infuocati, mentre il sole, immerso già a metà di quell'orizzonte d'acqua, andava morendo, in certi punti apparivano come screziate di madreperla e di altre sfumature di colori continuamente mutanti, indefinibili. E intanto che stavo lì e osservavo ogni cosa, gli occhi mi si gonfiarono e sentii nella mia bocca anche il sale di quel mare di fronte; ma in realtà erano solo le mie lacrime che, rigandomi le guance, scendevano a toccarmi le labbra.
«Perché piange, signorina?», fece con voce esitante l'autista.
«È stato un brutto sogno», risposi.
«Ma adesso è passato, vero?»
«Sì, ora sto meglio», dissi, ma era una bugia.
«Non pianga, la prego! La vita è giovane e bella come lei, signorina!», continuò ancora lui.
Mi incattivii a quella sua risposta e con rabbia presi dalla tasca del giubbotto il biglietto da visita di quell'uomo, rilessi lentamente quel nome e il suo numero di cellulare, promettendomi di non dimenticarli, e lo strappai con le dita in tanti piccoli pezzi, abbassai poi di poco il vetro al mio lato e li lanciai fuori dal finestrino, che rapidamente li aspirò, facendoli volare via alle mie spalle per disperderli come coriandoli nella corrente d'aria che l'auto creava avanzando.