Pagina 1 di 1

ANTUDO

Inviato: 18/07/2024, 16:38
da Namio Intile
leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

La Sala dei Baroni nel Castello di Lombardia, Castrojanni, inverno del 1313


Alajmo si inchinò e annunciò l’arrivo del conte Tancredi.
«Ha appena varcato la porta di Janniscuru col suo seguito per entrare in città» disse.
Non era andato oltre la soglia e aveva accompagnato la notizia con un inchino tanto profondo da dover impiegare qualche istante per ritornare col busto diritto.
Il suo padrone, accigliato, gli ordinò di fare con calma, e di attenersi a quanto avevano concordato.
«Introducilo senza indugi e fa’ portare della carne e della frutta… e vino in abbondanza ai suoi nel piazzale delle Vettovaglie. E sai cosa dover fare quando sentirai la campana della Torre Pisana» si raccomandò.
Cercò nelle sue iridi cerulee il segno della loro precedente intesa. «Poscia, lascia che io e lui rimaniamo soli.»
«Sarà fatto, mio Signore» obbedì, e si allontanò lasciando aperta la porta alle proprie spalle.
Il pomeriggio stava declinando in un crepuscolo gelido e ventoso. Sopra il selciato lastricato colla pietra grigia di Montevago si udiva soltanto lo scalpiccio degli zoccoli ferrati, il nitrito dei cavalli, il clangore delle briglie e dei finimenti sulla pelle, il rumore delle armi e degli stivali.
Il conte Tancredi varcò la soglia di travertino, ancora fradicio della pioggia che da giorni oscurava l’astro diurno e gonfiava i torrenti in guisa di fiumi.
«Tancredi, cugino, amico d’una infanzia ormai svanita» lo salutò Manfredi Branciforte con un sorriso tirato. «Siate il benvenuto. E fatevi abbracciare...» disse avvicinandosi e stringendo a sé il giovane appena entrato.

«Il calore della vostra accoglienza mi rende felice, Manfredi, non potevo aspettarmi un benvenuto migliore. Ho percorso un lungo e faticoso cammino per giungere sin qui.»
Gli si avvicinò, e le due figure si confusero in un abbraccio.
«Quando siete partito da Palermo?»
«Una settimana oggi. Anche volendo non avrei potuto sottrarmi alla chiamata di re Federico. Ma non vi nascondo che per tutto il viaggio sono stato seguito da un oscuro compagno, un fosco presentimento.»
Il conte Manfredi scosse la testa, come a raccomandargli di non far caso a tali sciocchezze, e invitò il cugino a sedersi a uno dei tavoli al centro dell’ampia stanza riscaldata da un camino crepitante. Lo rassicurò. «Qui non v’è nulla di cui dobbiate temere.» Batté le mani e tosto due servitori oltrepassarono la soglia, si appressarono a riempire le coppe di vino rosso e altri apparecchiarono la tavola con svariate pietanze di innumerevoli tipi di cacciagione arrostita condita con salse alle mele con sapore di menta. Al termine, quando furono soli, Manfredi estrasse una pergamena da un cilindro di cuoio e la srotolò in un tavolo liberato dall’ultimo desinare. Di fianco a loro un braciere denso di carboni ardenti spargeva calore alla luce di due ingombranti candelieri in ferro.
Tancredi notò la chiusura con la ceralacca e impresso e ben visibile era il simbolo del Rex Trinacriae.
«Non li comprendo questi iberici, che preferiscono la fredda e solitaria Castrojanni agli agii e al clima mite della capitale» divagò Tancredi, sorvolando di proposito sul contenuto della pergamena.
Bevve con avidità il purpureo rosso del Mongibello svuotando la coppa in un unico e lungo sorso, e in assenza dei servitori fu Manfredi stesso a colmare quel vuoto e riempire per egli e per sé un’altra coppa.
«Pare che qui rivedano le nebbiose colline della lontana Aragona, Tancredi.» E aggiunse che era la nostalgia a imporre loro la scelta, che era il cuore a dettare il luogo, e non la ragione. «Il Re, prima di incontrarvi, ha incaricato me. Preferisce sia io a preparare il vostro abboccamento con lui... Egli domanda l’aiuto dei Baroni… soprattutto il vostro, cugino. Voi, a cui molti, nonostante la giovane età, si rivolgono come a un luminare maggiore. È un grande onore, sappiate intenderlo. Un onore da cui potrete ricavare svariati vantaggi… se saprete immaginarli.»
«Se volessi desiderarli» disse Tancredi allontanandosi dal tavolo e gli diede le spalle per avvicinarsi al calore del camino.
Manfredi lo seguì e gli si appressò da dietro, ma preferì rimanere in silenzio, finché non ritenne opportuno incoraggiarlo a continuare, a confidargli quanto sentiva, a palesargli i dubbi che il suo atteggiamento, le sue mezze frasi, il suo silenzio rendevano evidenti.
«Sì, è un grande onore, dite bene, cugino.»
Tancredi si sottrasse a quella vicinanza e si riaccostò al tavolo con le vivande. Quando fu sicuro d’esser notato si nettò le dita nella ciotola colma d’acqua sopra cui galleggiavano numerosi petali di rosa.
«Ma questa è anche l’ennesima prova a cui mi sottopone Sua Maestà, non credete? Perché continua a metter alla prova la mia lealtà?»
Manfredi si fece scuro in volto, più scuro di quanto non fosse all’arrivo del cugino.
«Suvvia… Egli sa bene quanto la scelta della Nobiltà dipenda dalla vostra decisione. Egli sa come il vostro giudizio possa influenzare i Baroni della parzialità latina. Egli comprende quanto essi vedano in voi un esempio da seguire, una fiaccola nell’oscurità in grado di guidarli indenni verso il futuro.»
«Sua Maestà mi giudica con eccessiva benevolenza… Sopravvaluta la mia posizione e l’influenza che gli altri Baroni mi accordano.»
«Una disposizione d’animo tanto favorevole» osservò Manfredi con una smorfia che mutò la sua espressione in un ghigno «potrebbe in breve esser corretta… a vostro detrimento.»
Si spostò per avvicinarsi di nuovo a Tancredi e ribadì quell’avvertimento, dicendogli che tale disposizione avrebbe potuto facilmente mutare, in bene o in male.
«Federico è a conoscenza del vostro malumore nei confronti della Monarchia.»
Tancredi sorrise, quasi si aspettasse quella stoccata e si tirò indietro, per poggiarsi al duro schienale di quercia stagionata di fianco al tavolo con sopra la pergamena.
«Da tempo non ne faccio un mistero, caro cugino... Nutro dei dubbi sulla dinastia Aragona. Essa non ha portato alcun giovamento né sollievo al Regno. Anzi... Da quando la pace di Caltabellotta ha loro assicurato il possesso dell’Isola il solo desiderio di re Federico è stato quello della vendetta. Vendetta contro il franco Anjou per cacciarlo da Napoli e rimpossessarsi della parte peninsulare del Regno. Vendetta contro i papi di Avignone per non averlo appoggiato contro gli Anjou. Vendetta contro l’imperatore di Bisanzio da cui non ha ricevuto gli ausilii sperati contro il regno di Francia. Vendetta contro il suo stesso fratello, Jaime, per poter ritornare re in Aragona.
«Tancredi, vi chiedo... che male può esservi nel desiderare l’unione del vecchio Regnum Siciliae? Che male può esservi nel desiderare il rientro del papato a Roma, sua sede naturale? Che male può esservi nel muovere guerra all’imperatore scismatico e traditore? Quanto a Jaime, è solo una questione di interessi familiari.»
«Non metto certo in dubbio le vostre parole. Ma ammetterete che Federico non pensi ad altro se non a propiziare guerre, spedizioni, rivincite. Anziché ricostruire un paese devastato da trenta e più anni di sanguinosi scontri muove guerra a Costantinopoli, con mille inutili pretesti che non nascondono il desiderio di diventare imperatore e pensa anche a una crociata perché vuole per sé il titolo di Re di Gerusalemme, continua le ostilità contro i francesi per riunire il vecchio e glorioso Regnum, e trova anche il tempo di disputare con il fratello Giacomo, per essere egli stesso re in Aragona anziché in Sicilia. Ma non capite? È come se si stesse vendicando contro il suo stesso popolo di essere soltanto un Rex Trinacriae!»
Manfredi provò a zittirlo serrandogli la bocca con la mano. «Non siete affatto prudente, Tancredi. Ciò nuoce voi e la vostra causa.»
E si avvicinò alla spessa porta a controllare che fosse ben serrata. «A Palermo il re ha orecchie ovunque, maliziose e invidiose, e non crediate di esser al sicuro nel vostro Hosterium della Kalsa... spesso dietro un amico si nasconde un cortigiano infido e pronto a tutto, a volte anche le mura ritenute più sicure affidano messaggi ai colombi. I vostri malumori volano a Castrojanni, ingigantiti, colmi di disprezzo per il re e per la casa degli Aragona. Menti vigliacche agiscono al solo fine di sminuirvi: per sottrarvi la Contea di Modica, che vi permette di essere regnum in regno, molti sarebbero disposti a ogni sorta di bassezza anche solo per una sola frazione di essa.»
«Sono lieto di udire la vostra preoccupazione, Manfredi, e la vostra sincera sollecitudine nei miei confronti. E non crediate che io non condivida la ragione di tante ambasce. Tuttavia le voci corrispondono alla verità…» ammise, e si allontanò dalla sedia verso la finestra da cui si scorgevano rincorrersi i lunghi crinali innevati dei Nébrodi e in lontananza il massiccio edificio conico del Mongibello.
«Ma adesso basta politica, parlatemi delle cacce del Re tra Piazza e Leonforte» e accompagnò le parole a un gesto della mano, come a voler scacciare quei pensieri tristi. «Si narrano meraviglie. Poste e banchetti e un gran numero di dame e cavalieri tra uno sterminato nugolo di cani…»
«Splendide, anche voi siete ben informato sulle passioni del nostro sovrano, cugino. E ricchi sollazzi le concludono. Ma, vi prego di credermi, io vi partecipo di rado. Gli affari del Regno occupano ogni mio recondito pensiero, guidano ogni mio quotidiano agire, riempiono ogni mio affanno e preoccupazione. Tuttavia, presto potrete assistervi: la caccia di domani la preparano da settimane. Sua Maestà vorrà parlarvi in quell’occasione per Egli sempre lieta. Quando impegnato nella caccia l’umore degli Aragona migliora, come la loro capacità di stringere accordi e di cedere su alcuni punti.»
«Sull’accordo che dovrete preparare oggi, immagino» e finalmente si volse verso la pergamena distesa sul tavolo.
«Dite bene, cugino. Prego Iddio affinché la vostra mente venga illuminata.»
Tancredi scosse la testa e sussurrò: «Mi hanno riferito di Macalda… Le mie preghiere hanno accompagnato il vostro dolore. Dio si prenderà cura della sua anima e di quella del figlio che teneva in grembo.»
«Vi sono riconoscente per tanta premura, cugino» rispose il conte.
Ma, se possibile, quel ricordo tramutò il suo aspetto in un ancor più tetro sembiante.
«Dunque, se questa volta re Federico non desidera l’aiuto soltanto della parzialità catalana, deve trattarsi di una faccenda importante...»
«Vuole incoronare il figlio Pietro» rivelò Manfredi. «E rompere la tregua di Caltabellotta...»
«Ahi, un tempo la chiamavate pace… come mutano le parole in vista di ciò che ci si appresta a compiere. Siamo dunque vicini a una nuova guerra, non mi sbagliavo. Ma re Roberto non sarà affatto indulgente e non rimarrà sulla difensiva, vorrà lui anche riprendersi questa parte.»
«Difatti… Finché gli Anjou rimarranno a Napoli non vi sarà mai la pace: gli stati si formano e si mantengono con la forza.»
Manfredi si sentì in dovere di precisarlo, e nel farlo i suoi occhi grigi divennero duri, della consistenza del granito di Chiaramonte Gulfi. «I catalani non rinunceranno al Regno nella sua interezza, Tancredi. Non lasceranno Napoli ai francesi con tanta facilità.»
«E neanche gli Anjou, non credete? È facile per entrambi scatenare guerre in quella che dopotutto non è la loro patria e mandare al massacro i popoli del Regnum Siciliae, che mai saranno il loro popolo.»
Ecco, lì seduti, l’uno difronte all’altro, davanti al maestoso camino che riempiva un lato dell’austera Sala dei Baroni all’interno del Castello di Lombardia. Il più possente maniero del Regno, circondato da alte mure difese da ventiquattro altissime torri che dominavano quella che tremila anni prima era stata la Rocca di Cerere dei Sicani.
Amici un tempo, si fronteggiavano ormai come acerrimi nemici, attenti a rintuzzare la prossima mossa e subito pronti alla contromossa.
«La guerra dura ininterrotta da trenta lunghi anni» lo incalzò Tancredi, e si alzò per camminare dinanzi alle fiamme crepitanti dentro al vasto camino di granito e travertino. «Da quel lontano 31 marzo del 1282. E ancora non si vede la fine di un incubo sì lungo. E Federico non è ancor sazio di sangue. Insegue i sogni imperiali del nonno materno, di cui ha ereditato soltanto il nome e non la visione, né la prudenza. Guerre, guerre e ancora guerre. Adesso più che mai ne ho certezza! Fu un errore invitare gli iberici a protezione del Regno. Il Regno, alla fine, gli Aragona se lo sono spartito con i franchi Anjou, utilizzando i nostri puerili contrasti per giocare tra guerra e pace. Dividendo la Nobiltà in opposte fazioni, parzialità le hanno battezzate così da conferire legittimità ai nostri dissidi, concedendo favori ora a una famiglia ora all’altra a scapito ora dell’una ora dell’altra, ma con in testa solo la loro fortuna e la nostra rovina insieme a quella del popolo i cui interessi rappresentiamo per volere di Dio.»
E gli disse di esser stanco, e che lo era tutto il Regnum, al di qua e al di là del Faro. E quasi per liberarsi da quei miasmi si affacciò alla bifora il cui orizzonte era occupato dalla massa imponente del Mongibello rischiarato da una luna piena il cui fulgore riempiva di candore le nevi delle sue vette.
«E io farò finta di non avervi udito, cugino. Un’altra guerra con i francesi è inevitabile, non è soltanto un capriccio di Federico. L’imperatore Arrigo è con noi. Gli Alemanni non rimarranno inerti questa volta. Riflettete, diamine!»
E lo afferrò per le spalle, come a scuoterlo.
«Sulla guerra si fonda l’ordine sopra cui ogni umano edificio si regge, sopra cui ogni nazione vive e prospera! Essa garantisce i nostri privilegi, governa e disciplina il popolo e modella il mondo secondo i nostri desideri, alimenta il progresso e la ricchezza. Pertanto è essa stessa una Necessità. E se noi governiamo la guerra, Tancredi, governiamo anche il mondo da essa plasmato» ragionò Manfredi con la sicurezza di chi ha visto innumerevoli volte quei pensieri tramutarsi in fatti.
«Non ti seguo» disse Tancredi, e allontanò con una mano l’idea stessa, come fosse il volo di un insetto fastidioso. «Voi vi sbagliate; come io un tempo. La guerra ha distrutto il Regnum Siciliae costruito dai nostri avi» osservò il giovane. «Tutta la fatica, le forze, le ricchezze, le speranze dei nostri antenati per un futuro luminoso e migliore le abbiamo inutilmente sparse al vento. Il Regno che ci è stato affidato era un magnifico e pacifico esempio di convivenza e coesione tra genti diverse, tra culture e credi diversi: cristiani, ebrei, musulmani. Normanni, Italiani, Siciliani, Greci, Arabi, Berberi, Ebrei. Tutti insieme convivevamo, in pace e armonia sotto un unico tetto. Un tetto coperto di stelle. Nulla è più, ormai dai tempi dell’ultimo Tancredi, dell’ultimo Altavilla. Il più ricco, popoloso e fiero Regno della cristianità giace spezzato in due tronconi privi di forza e consistenza da una pace vergognosa. Smembrato in due entità senza importanza, artificialmente ostili e in continua guerra tra loro. Gli abitanti ridotti alla schiavitù, alla povertà, all’inconsistenza; e la Nobiltà senza voce, in balia dello straniero, costretta a scannarsi per la gloria di un qualunque iberico, franco o alemanno. Persino greco o musulmano se essi recuperassero l’antica forza e si unissero al gioco.»
«Credete che la sollevazione del Vespro sia stata inutile?» Lo sfidò Manfredi.
«Credo che non si possa distruggere una nazione per l’interesse particolare di qualche barone. Neanche per l’interesse di un re. O per una questione di principio, per quanto essa sia valida, pure se lo richieda la legge di Dio. Nemmeno in nome della libertà da tributi e da servitù altrimenti emendabili. Una nazione è unione, e non v’è libertà senza unione, non esiste prosperità senza una casa comune al riparo della quale crescere, e senza prosperità non esiste felicità. Per non dire dell’amministrazione del Regno, dove gli Aragona non si son dimostrati migliori degli Anjou.»
«I sollazzi della capitale hanno spezzato il vostro carattere» lo attaccò Manfredi. «O è quella serva con cui dividete il letto che vi ha reso vile? A Corte questo vostro comportamento nei confronti della plebe è guardato con disappunto, anzi con sospetto. Corrisponde al vero il desiderio di farla vostra sposa?»
«Corrisponde al vero, Manfredi. La Nobiltà deve servire il popolo. Ma non sono venuto sin qua per discutere con voi dei miei affari personali. Sono stanco del sangue e di una lotta che anche questa volta si annuncia inutile e dolorosa. Io vi imploro di rifletterci: anche chi vincerà risulterà sconfitto. Sono nauseato di assistere alla rovina del mio popolo per una causa senza ragione, anzi essendone io stesso la primaria causa; con i miei comportamenti, con l’avallo continuo di decisioni indecorose e chiaramente perniciose. Non voglio più ratificare la povertà del mio popolo per qualche privilegio in più per il mio casato o per la mia discendenza. Una generazione o due in più cosa importano? Nessun monarca avrà il mio aiuto, si chiami esso Pietro d’Aragona o Carlo di Valois o Roberto d’Anjou.»
«Vi state per incamminare lungo un sentiero periglioso e solitario, cugino» lo ammonì nuovamente Manfredi, e si avvicinò alle sue spalle. Gli strinse il braccio e lo costrinse a girarsi per guardarlo in viso.
«No, ascoltatemi voi, farò in modo che i nostri pari d’origine Normanna agiscano per il bene del popolo e non certo contro il popolo. Come fecero gli Altavilla. Parola di Tancredi Chiaromonte.»
«Il popolo…» ripeté con fastidio Manfredi.
E con tutta la foga che aveva in corpo gli rammentò che il popolo esisteva solo per servire i propri signori. Per servire e onorare la Nobiltà che Dio aveva scelto a sua guida. E continuò dicendogli che era lui ad aver frainteso la storia dei suoi antenati. Che i suoi Normanni erano dei mercenari venuti in Italia al soldo dell’imperatore di Costantinopoli, o del papato, per riprendersi i feudi strappati loro dagli infedeli. E che non avevano esitato a servire gli infedeli stessi, salvo poi comprendere che sia gli uni che gli altri erano deboli e che le loro guerre dipendevano dalle loro armi, finendo per prendersi tutto il piatto.
«E ricordate il Guiscardo? Morì a Durazzo, non nelle Puglie o in Sicilia. Morì sulla strada di Costantinopoli, dove stava correndo per farsi imperatore e aveva lasciato al fratello minore Ruggero il Regno appena conquistato. Per non parlare dell’altro Ruggero e delle sue spedizioni in Africa, della conquista di Tunisi, del suo desiderio di farsi Califfo. Mentre i suoi figli, i due Guglielmi, conquistatori dell’Acaia, tutta la vita in guerra contro l’imperatore di Costantinopoli e contro quello alemanno nella Longobardia. Voi avete travisato la storia, la vostra stessa storia, quella della vostra famiglia, dei vostri re. Nessun sovrano normanno lo è stato per il popolo. Ma ognuno solo e soltanto per la propria gloria e la propria ricchezza.
Da voi mi aspetto il rispetto dell’ouroboros che vi diede mio padre» lo richiamò Manfredi. «In esso vi è inciso il nostro motto, non dimenticatelo! ANTUDO, Animus tuus dominus. Il coraggio è il tuo Signore...»
«Non temete. Ho onorato fino a oggi il motto del Vespro. Ho perso il braccio sinistro per esso. C’eravate anche voi al mio fianco quando a Falconara catturammo il Re di Francia Filippo e lo consegnammo a Federico. Così grande gloria e coraggio sono già dimenticati dal tuo re? Persino da te che eri insieme a me? Larga parte della nostra famiglia si è sacrificata sui campi di battaglia, in terra e per mare dalla Sicilia a Napoli, all’Acaia, in Africa. Ascolta, Manfredi! Non i francesi, non i catalani... Ancora non capisci? Animus tuus dominus: non è fermandoti al senso esteriore delle parole che ne comprenderai l’essenza. Il coraggio non va dimostrato unicamente sui campi di battaglia, uccidendo altri uomini. Il vero coraggio è quello di spezzare il vincolo del destino, il coraggio di vivere superando i nostri pregiudizi, costruendo un mondo equo e prospero per tutti. Ragionando a partire dagli ultimi anziché dai primi. Come ci ha insegnato Nostro Signore. Il coraggio di andare oltre un futuro già segnato dall’avidità e dall’interesse. Il coraggio di abbandonare la via delle armi per costruire un regno di pace.»
«Parlate come un dannato eretico Tancredi. O peggio, come un vile, come un traditore. Da che parte state?»
«Dalla parte di coloro che hanno edificato un regno indipendente e libero da guerre. Un regno del popolo e per il popolo, senza un sovrano assoluto, ma con un Parlamento a garanzia della legge e del diritto come vollero i nostri avi che provenivano dalle fredde terre scandinave.»
«Quanta ingenuità! Volete capire che quel regno non è mai esistito? Che gli Altavilla non erano meglio degli Aragona, o degli Staufen, persino degli Anjou. Che quella fosse un’età felice è una perversione della vostra fantasia; ma se proprio volete dar retta alle favole del popolino esso non è durato che un battito d’ali, distrutto dalla casa Staufen. Anzi, distrutto dalla Necessità e dalla Realtà.»
«Alle volte basta un battito d’ali per mostrati qual è la via.»
«Ora basta, Tancredi!»
E gli disse che parlava come un folle o un eretico. E che sia l’uno che l’altro tradivano i valori della Monarchia e anche quelli della Nobiltà.
«Non voglio più sentirvi. Vi lascio solo e domani... Domani, nel corso della caccia incontrerete Sua Maestà Federico III e a lui soltanto prometterete obbedienza. Riflettete e scendete a più miti consigli, se non desiderate la rovina vostra e del vostro casato.»
«Siamo dunque agli ultimatum?»
Manfredi si avvicinò e fu a un passo dal suo viso. Ne scrutò gli occhi e gli appoggiò le mani sulle spalle.
Fu un lampo e Tancredi comprese. «Cosa ti ha promesso» sussurrò con un fil di voce, mentre la sottile lama dello stiletto usciva dal suo collo e la vita lo abbandonava.
«La Contea di Modica. Il Re mi ha promesso la tua Contea» sibilò Manfredi sfilando l’anello del cugino e sistemandolo all’anulare, come una fede nuziale.