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Kamikaze

Inviato: 25/09/2024, 21:16
da Letylety
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“Evvai con I will follow!”
Kamikaze salì in macchina caricato a molla e la canzone degli U2 gli diede ancor maggior propulsione. Lo salutai dandogli il pugno, sentendo dentro di me un’immediata vibrazione di allerta.
Era un ragazzo che conoscevo a malapena giacché c’eravamo incrociati solo a qualche raduno musicale, parlando un po’ ma avendo sempre come riferimento Sghesch, il nostro amico comune.
Quando era fatto, e di testa e di vena era sempre fatto, Kamikaze parlava a mezza velocità con improvvisi rallentamenti, grattandosi ovunque e con l’abitudine fastidiosa di avvicinarsi all’interlocutore, come se dovesse confidare chissà quale segreto.
Quella sera ci ritrovammo noi due con l’unico obiettivo di sballarci.
Ero passato a prenderlo con la mia Uno grigio topo alle otto di sera. Abitava vicino alla Garbatella e lì intorno eravamo destinati.
“John, che facciamo? Mettiamo settantacinquemila per una grammata?”
“Roba o coca?”
“Roba, è più lenta a scendere.”
“Ok.”
Ci addentrammo nel quartiere e finimmo nella zona delle baracche. Una grande distesa di rifiuti ci accolse all’entrata per aprirsi su decine di case fatiscenti a uno o due piani. Era estate, il caldo umido puzzava di liquami e veleni, sentivo un sapore di ferro scendermi per la gola.
Parcheggiamo in una via con poco traffico e ci inoltrammo tra le case. Kamikaze conosceva qualcuno che ci avrebbe venduto la roba, senza farci un pacco, diceva lui.
Fuori da quelle stamberghe tante persone sedevano davanti a tavolini da campeggio, donne e uomini grassi e sudati.
All’inizio di quei fantastici anni ’80 la moda della dieta non aveva ancora fatto capolino e tutto era ruspante, anche il degrado.
Dopo un giro di perlustrazione trovammo l’aggancio. Era una donna sulla quarantina, corpulenta e piacente. Credo che facesse la vita oltre ad essere una spacciatrice.
Acquistammo la grammata mentre la tv urlava una puntata di Drive In.
Riprendemmo la macchina e ce ne andammo a un paio di chilometri da lì.
Ci fermammo sotto una pianta, tre parcheggi in tutto. Tanto silenzio e nessuna auto di passaggio. Qui la polizia non si vede mai, disse Kamikaze.
Lui tirò fuori una siringa e un cucchiaino dal cruscotto della macchina.
“Kami, è sporca questa siringa” gli feci notare.
“Sì, l’ho usata ieri sera.”
“Amico, io non la userei lo stesso, io preferisco pippare come sempre ma tu sei sicuro? Non ha qualche microbo?”
“Tranquillo.”
Presi la mia dose, molto meno della metà, feci una bella striscia sul libretto delle istruzioni della Uno, arrotolai un deca e feci una fortissima pippata che avrei potuto aspirare mezza spiaggia di Sabaudia. Al primo momento la sentii tutta nel naso poi lentamente scese e la sentii in gola. Era il momento più eccitante, dove la roba cominciava a entrare in circolo ed io mi sentivo calmo e leggero. Di lì a poco avrei cominciato a parlare come se avessi la sindrome di Asperger e a stupirmi per tutte le cose del Creato.
Lui si preparò una mega dose in due fasi, prese la siringa, tastò la vena e iniettò.
Subito il suo corpo ebbe uno spasmo poi si rilassò, tenendo sempre la siringa conficcata nel braccio.
La cosa non mi faceva particolarmente effetto perché ero un donatore di sangue, e l’ago che si utilizza per il prelievo è il quadruplo di una normale siringa da endovenosa. Però non mi piaceva vederlo così, inerte agli eventi e troppo fatto, pertanto la presi e con calma la tolsi dal braccio. Lì vicino c’era un cestino, presi uno straccio, ci misi dentro la siringa e il cucchiaino, e il tutto lo buttai dentro.
Kamikaze nel vedermi all’opera ebbe un primo attacco di nervi.
“Bastardo, cazzo hai fatto?”
Al primo momento rimasi basito, poi capii il soggetto e cercai di tranquillizzarlo.
“Kami, era tutto sporco. Per stasera va bene così.”
“Col cazzo, andiamo a comprarne ancora.”
Cominciai a capire che ero fottuto. A differenza mia che pippavo spesso ma poco, che assaporavo i cambiamenti dentro il mio corpo e li studiavo come un William Burroughs de noantri, lui ci affogava, non capiva nulla, voleva solo essere fatto, come se raggiungere quella specie di nirvana fosse la fine del viaggio. Per me invece il viaggio iniziava lì, volevo girare per Roma, parlare con la gente, magari bere qualche alcolico per gestire lo sballo senza esserne sopraffatto.
Mentre tergiversavo Kamikaze si calmò e cominciò a parlare del suo nuovo padre.
Io avevo sentito qualcosa da Sghesch ma feci finta di nulla.
“Tua madre è separata?” gli chiesi.
“Sì, ora il mio nuovo papà fa l’imprenditore. E’ ricco, ha un villone, e la mia camera è grande il doppio di dove abitavo prima.”
“Bello! E si accorge se vai a casa fatto?”
Kamikaze si stava grattando lentamente il mento.
Si avvicinò.
“No, ciao ciao e tutti a letto. Non ho molti rapporti.”
“Che ne dici se andiamo a bere una birra?”
“Prima andiamo a comprare un’altra grammata.”
“No Kami, io sono a posto e tu di più. Te ne ho anche lasciato un po’ della mia. Dai, andiamo a bere una birra.”
Continuava a grattarsi e a biascicare un po’ le parole. Sapevo che dovevo aspettare ma il rischio era di andare in giro con uno che sembrava uno zombie, con il rischio di non far nessun discorso e magari litigare. L’unico sistema era mollarlo.
“Ho rotto la macchina, adesso andiamo a casa mia, prendo i soldi e torniamo a prendere un’altra grammata.”
“Kami, forse è meglio che te ne vai a letto. Sei stravolto.”
“Cazzo dici.”
“Tienili per domani."
“Stasera” biascicò.
La situazione era critica e noiosa.
Alla fine acconsentii.
Uscimmo da quel parcheggio e riprendemmo la via verso la Garbatella. Lui con gli occhi semichiusi m’indicava il tragitto migliore con la mano malferma.
Finalmente arrivammo davanti a un grande cancello. Da fuori si vedeva un vialetto che serpeggiava tra gli alberi e, poco lontano, una grande casa a un piano. Sembrava bassa perché l’estensione dei locali era notevole. Era proprio un villone.
“Aspettami.”
Scese dalla macchina con passo pesante, figlio moderno di quella borghesia anni ’80. Mi dissi che io in quelle condizioni non sarei mai entrato a casa mia. Io ero più accorto, stavo attento nei rapporti con le persone, in primis i miei genitori, e poi non avrei gradito farmi vedere in giro in quelle condizioni pietose. Sapevo che la gente parlava di tutti e non sapevo cosa potessero dire di me. A Sghesch dicevo sempre che mentre tu cammini la gente ti osserva senza che tu te ne accorgi. Ero sicuramente sospettato, ma non lasciavo adito a nessuno di dire qualcosa perché ero controllato. Era difficile sgamarmi, William Burroughs docet.
Cominciai a pensare di andare via.
Kami per quanto simpatico non era uno dei miei migliori amici, e poi era anche un po’ un bambino dispotico, che voleva fare sempre di testa sua. Era un vinto, dietro la spavalderia, i muscoli, i vestiti alla moda si celava un vero e proprio kamikaze, uno che non ragionava molto, uno che voleva solo sbatter la testa, più forte era e più lui stava bene. Gli mancava una famiglia normale.
La sensazione di noia e di spalle al muro si amplificò nel giro di dieci secondi. Aria, aria, aria, volevo solo respirare il profumo della mia libertà.
Accesi la macchina e pigiai forte sull’acceleratore. Me ne andai via con tanti saluti a Kamikaze. Stavo bene, sarei tornato al bar vicino a casa e avrei trovato qualcuno con cui scambiare quattro palle.
Qualche tempo dopo incontrai Sghesch. Mi disse che se Kamikaze mi avesse trovato mi avrebbe riempito di botte. Lì per lì mi spaventai un pochino, poi a mente fredda mi dissi che il rischio di rincontrarlo non era molto alto e poi conoscevo i tipi come lui, una quadra l’avrei inventata.
Un anno dopo seppi che era morto di AIDS.
Mi dispiacque molto, perché Kamikaze in fondo era un buono, figlio di una società consumistica che inibiva la libertà di pensiero, compresso in una famiglia che non gli aveva insegnato nessun limite e nessun dovere. E lui, per stare al mondo, ci aveva messo poco di suo, ingenuo e inadeguato. Era troppo affezionato a quella scimmia che stazionava sulla sua spalla e grattava quando si sentiva trascurata. Sul filo sottile della vita non riusciva a stare in equilibrio, e non voleva cercare un’altra direzione. Non aveva capacità di soffrire il cambiamento, preferiva anestetizzare la mente invece di cercare nuovi stimoli.
RIP Kamikaze

C'è chi segue una religione
C'è chi insegue il primo milione
C'è chi insegue il suo grande amore
E c'è chi insegue la propria fine
La verità si può cambiare
La verità si può travestire
Mi dai la caccia
Nei miei occhi e quello che fissi
È la profondità degli abissi
(Manuel Agnelli)

Commento

Inviato: 05/10/2024, 9:42
da Marino Maiorino
Ciao Letylety,
fai un quadro della Roma anni '80, una generazione che ha preceduto "La grande bellezza" che è poi diventata quella che dicono (o preferiscono tacere) le cronache, attraverso gli occhi di un "prudente" borghesotto, che si fa, ma con attenzione.
Il tuo racconto è ben scritto, ma a me è mancato qualcosa, forse il dramma, la tragedia. È poco sentita la fine di Kamikaze, come potrebbe essere qualcosa di accaduto a un conoscente alla lontana.
Non è necessario fare un dramma di tutto quello che si racconta ma, senza quello straziare di sentimenti, cosa resta del tuo racconto? Un vago avvertimento di fare attenzione a come ci si sballa?
E se non è questo, che volevi denunciare, ma magari l'atteggiamento disincantato, squallidamente passivo di una certa borghesia persino di fronte a tragedie del genere, dov'è allora la molla a rigettare tanta miseria morale? Dov'è una lezione alla Christiana F.? Questo racconto non mi sa nemmeno di necrologio.
Non lo so, probabilmente sono solo io che ho pretese assurde, ma credo che non siamo qui solo per fare esercizi di stile, o meglio, di buon scrivere. O forse, confesso un mio "difetto di fabbrica", è che comincio a temere le prime perdite di amici, e io sono uno che si attacca alle persone in maniera morbosa.
Insomma... https://allpoetry.com/No-man-is-an-island
A presto