Come il Sole a un cieco

di Marino Maiorino

Venne dal Nord come fanno i venti di tempesta: alto, possente, un gigante dalla forza prodigiosa. Bellissimo, con gli occhi azzurri come il cielo e rapidi come una saetta, giunse al nostro villaggio recando doni con sé: un cervo, un cinghiale e un orso. Se erano il frutto della sua caccia, si era presentato come il più abile cacciatore che avessimo mai conosciuto. Era venuto a riprendere la sua donna.

Opis l'avevamo trovata poche lune prima nel folto dei boschi e, se non fosse stato per il suo ostinato mutismo, avremmo capito prima che anche lei era una di loro.

Avremmo dovuto pensarci, quando la vedemmo imbracciare l'arco con tanta disinvoltura e fare strage di selvaggina come il migliore tra noi, ma Opis aveva tante altre qualità: conosceva le piante medicinali, sapeva aiutare le donne nel parto, aveva un che di preveggenza e poi… ballava con una leggiadria che confondeva gli occhi e i cuori. Il vecchio Enopio la volle per sé, e lì ebbe termine ogni domanda sulla sua origine: era della casa di Enopio.

Per cosa la voleva, il vecchio, se erano anni che non usava con donne? A dirla tutta, nemmeno aveva figli: quelli che aveva avuto in passato gli erano tutti morti, chi per una malattia, chi per un incidente, chi per le ferite di un rivale… Era un buon capo, e quando pretese Opis per sé, nessuno osò contraddirlo.

La ragazza era di carattere pronto e sfrontato, e il vecchio chiaramente non voleva limitarla in niente. Fu allora che scoprimmo quanto Opis fosse capace nella caccia, quanta gioia provasse nel praticarla, quanto conoscesse gli animali… C'era in lei alcunché di prodigioso, ma quando non praticava le sue attività, sapeva tenerlo ben celato, sembrava una ragazza come qualunque altra.

Sicchè, quando Orion giunse, lei era ormai una di noi, una dei nostri, e mai avremmo pensato che…

Noi no, ma Enopio doveva aver subodorato qualcosa da subito, o più probabilmente era stata Opis stessa a metterlo sull'avviso, e così, in onore del nuovo arrivato, si fece festa, si organizzò una partita di caccia, e poi un banchetto, e fu portato vino, che Orion non conosceva.

Si addormentò ebbro, bellissimo gigante selvaggio, e il mattino seguente non poteva più vedere. Al cielo giunsero le urla: che inganno era mai quello, che un uomo fosse intossicato la sera da una bevanda inebriante, e si levasse il giorno dopo senza il bene della vista? «Opis», gridò. «OPIS!»

Freddo, grave come quando pronunciava le sue sentenze, il capo venne, Opis era con lui, e piangeva afflitta.

«Questa è la pena per aver osato prendere la mia Opis contro la sua volontà!» sentenziò il vecchio. «Fossi stato un altro uomo, la condanna sarebbe stata la morte, ma Opis ha intercesso per te senza che io riesca a farmene una ragione; né in questa, come in qualunque altra cosa, voglio lasciare insoddisfatta una sua richiesta.

«Ora però vattene, lascia questo villaggio, prima che la tua sola presenza mi induca a ripensarci. Allontanati da qui subito!»


Nei boschi, da solo. Orion poteva essere un gigante, ma senza il bene degli occhi sarebbe stato alla mercé delle fiere. Non era quella una condanna a morte, comunque? E poi…

Io l'avevo osservata, Opis, negli occhi, e non piangeva per un affronto subito, la sua afflizione era altra. Quando udì Enopio cacciare Orion dal villaggio, dovette trattenersi dall'esplodere, quasi fosse sul punto di gridare un irragionevole “NO!”

Più tardi, quando tutto era finito e Orion era già andato via, avvicinai la ragazza con una scusa: io sono il figlio del fabbro e nessuno fa caso a me, ma lei mi aveva spesso chiesto di prepararle piccole cose, quelle che già avevo appreso a realizzare.

L'avvicinai, dunque, e chiesi: «Ti ho visto piangere, Opis, ma più ti ho visto temere per Orion. Se lui è stato un malfattore, come puoi essere in pena per lui, che ti ha arrecato un'offesa tanto grande? Perciò, che accade? Chi è Orion, e chi sei tu?»

Si sciolse in lacrime come mai avrei immaginato e raccontò: «Opis io sono, degli iperborei come Orion, il mio promesso sposo, la cui unica colpa è stata cercarmi fin qui. Kedalion, io ho lasciato la mia gente perché non volevo ancora sposarlo; sono fuggita dal mio popolo, ma lo amo! Ma quando l'ho visto qui ho avuto paura, e allora ho chiesto al vecchio Enopio di montare una scena. Non potevo immaginare…»

«Cosa non potevi immaginare?» Ero indignato: possibile che non si rendesse conto di cos'aveva suscitato? Era ovvio che il vecchio ormai la considerava una cosa sua, e avrebbe fatto l'impossibile per tenere lontano il pretendente di diritto! «Enopio ti ha accolto in casa sua! Io non so come gli tieni compagnia, ma anche se ti considerasse solo come una figlia, l'uomo ha perso ogni altro affetto! Non ti avrebbe mai lasciata andare e non avrebbe mai permesso a nessuno di strapparti a sé!»

«Orion, Orion!» gemette senza nemmeno ascoltare le mie rimostranze. «Kedalion, devi aiutarlo, te ne prego!»

«Che dici, sei pazza?» mi opposi. «Come posso aiutare Orion nelle selve, se sono solo un ragazzo e lui è cieco? È più probabile che mi schiacci senza nemmeno rendersene conto!»

«No, no, aspetta: la cecità di Orion non è permanente: può essere curata!» mi annunciò. Questo cambiava tutto.

«Non sono un mostro, Kedalion. Io non volevo fare del male a Orion, volevo solo che non mi avesse più davanti agli occhi, che non si torturasse con la vista di me nella casa di un altro uomo. Ma sarei tornata da lui presto, quando mi fossi sentita pronta per lui».

Rimasi senza parole. Quella non era la ragazza sveglia e determinata che tutti, nel villaggio, apprezzavamo. Poteva conoscere la medicina e la caccia quanto si voglia, ma in fondo restava poco più di una bambina alla quale volevano imporre un matrimonio.

«E quindi, affinché non ti vedesse», le rimproverai incredulo, «l'hai accecato? E non hai pensato che se ti ama davvero non importa che ti veda o meno? Egli già ti vede ogni istante della sua vita con altri occhi, che niente può accecare!»

«Ti prego, Kedalion, non torturarmi in questo modo!» mi supplicò, preda di un'angoscia che è quella dell'amata per l'amato. «Va', trova Orion nelle selve, guidalo verso Oriente, cerca mia sorella Eos! Lei conosce il rimedio e ha i mezzi per far tornare la vista a Orion».

«E tu? Non lo conosci questo rimedio?» le rimproverai. «Possibile che tu non possa applicarlo all'uomo che doveva essere tuo marito? Preparalo! Dallo a me e lo applicherò io, piuttosto! Che bisogno c'è, di mandarci in questo viaggio pericoloso per foreste e luoghi selvaggi?»

«Conosco il rimedio», rispose afflitta, «ma non ho i mezzi per prepararlo qui! Quando avessi voluto tornare da Orion, allora l'avrei guidato io stessa alla casa di mia sorella, ma Enopio, quel vecchio tiranno, è impazzito per me e ha mandato all'aria tutto ciò che avevo pensato! Ho cominciato a nutrire paura di lui: finora mi ha visto come una figlia, ma temo che abbia preso a bramarmi in altri modi, e non voglio essere costretta a fargli del male; per il momento non ne ho avuto. Allora che farai, andrai da Orion? Lo guiderai fino a Eos?»

«Dovremo volare», le risposi. «Si dice che il desiderio per una donna cambi l'indole degli uomini nel volgere di poche ore!»

«Si dice bene, e io non voglio essere la causa della caduta di un uomo come Enopio!» corroborò, determinata. «Perciò, corri! E, se puoi, vola!»

«Volerò!» la rassicurai, e corsi a prendere quanto necessario per affrontare i boschi.


Fui avventato, lo ammetto: io, Kedalion, il figlio del fabbro, aiutare Orion… Ripensandoci oggi, mi sembra tutto così spropositato! Ma in quel momento ero animato dal solo desiderio di rimettere a posto quella situazione, per Orion ingiustamente condannato, per Opis ingannata dall'uomo al quale si era affidata, per Enopio vittima dell'età, per il villaggio che ancora aveva bisogno della sua guida… Quante cose dipendevano da me, poco più che un ragazzo!

Afferrai quelle cose che i cacciatori portano sempre con sé e mi gettai nella foresta, inseguendo le tracce di Orion, il cui passaggio era chiaro.

Il passaggio era chiaro, ma il gigante aveva un passo che normalmente non avrei potuto eguagliare: nonostante procedesse a tentoni, privo della vista, nel tempo tra la sua cacciata e l'inizio del mio inseguimento aveva già percorso molta strada, e più di una volta credetti che non sarei mai stato in grado di raggiungerlo.

Poi, giunta la sera, quando già stavo per approntare un rifugio sui rami di un albero per evitare di essere aggredito dalle bestie durante la notte, sentii un lamento lontano e, sebbene dovessi inoltrarmi nell'oscurità incipiente, mi risolsi a fare un ultimo sforzo e vedere chi si lamentasse in quel modo.

Raggiunsi Orion sulla riva di un fiume. Piangeva copiosamente, mentre era seduto su un enorme tronco d'albero caduto. «Opis, che ti ho fatto? Che mi hai fatto?» borbottava tra lacrime che non potevano restituirgli la vista.

Vedere quell'uomo così grande piangere in quel modo mi diede un'impressione profonda: che bisogno c'è, per fare la guerra, di usare le armi, se esistono forze persino più devastanti delle armi? Se maggior danno si può fare toccando gli affetti? Ma un senso di raccapriccio per la mostruosità che avevo pensato mi colse nello stesso istante in cui essa mi venne alla mente, e la rigettai all'istante: sarà crudele e sanguinaria la guerra, mi dissi, ma guerriero contro guerriero è almeno un gioco alla pari.

Mi avvicinai a Orion di soppiatto, cercando di non far rumore, ma io ero solo il figlio del fabbro, e lui forse il miglior cacciatore che sia mai esistito: appena appoggiai un piede sui ciottoli che orlavano il corso d'acqua, lui mi sentì. Smise di piangere. «Chi va là?» intimò. La sua voce tradì incertezza, ma l'uomo era pronto a battersi.

«Mi chiamo Kedalion», risposi. «Sono il figlio del fabbro. Mi manda Opis».

Lo sguardo vuoto di Orion, quei due occhi brillanti come stelle brancolarono nel vuoto davanti al suo viso cercando di dare un senso alla mia risposta.

«Come, “ti manda Opis”? Un bambino? Perché?» chiese.

«Non sono ancora un uomo», presi coraggio e mi feci avanti, «ma non sono più un bambino. Tutto il villaggio ha assistito alla tua cacciata e anch'io ero lì, ma ho visto il dubbio, il dolore nel volto di Opis, non per quello che tu abbia potuto farle, ma per la condanna che veniva inflitta al suo presunto aguzzino! Allora sono andato a chiederle lumi, e lei m'ha risposto».

«T'ha parlato? Opis t'ha parlato?» chiese, quasi fuori di senno. «Che t'ha detto?»

«Che non voleva farti del male, non voleva farti soffrire», ripetere tutte le insensatezze di Opis mi sembrò sciocco e penoso. Tagliai corto: «Che potrai ritrovare la vista quando ti avrò condotto da Eos, sua sorella!»

«Eos? Ma certo!» esplose lui, galvanizzato dalla notizia, poi rifletté: «Ma come ci arriviamo da Eos? È a giorni da qui, anche se sapessi in che direzione andare, e in queste condizioni…»

«Ha detto a me come arrivarci!» risposi con più fiducia di quanta non nutrissi davvero. «Sempre a Oriente, dove sorge il Sole! Lì Eos ha le capacità e i mezzi per restituirti la vista!»

«Mi sembra tutto bellissimo!» esclamò sarcastico. «Ma tu, piccolo uomo, figlio di fabbro, sai trovare l'Oriente nel folto del bosco? Cieco, io so perdermi da solo, e non voglio far perdere anche te con me. Inoltre, non hai nessuno che stia in pena per te? Tu sei il figlio del fabbro, quindi c'è almeno un fabbro!»

«Mio padre», tirai fuori una determinazione che ho poi sentito solo poche volte in tutta la mia vita, «dice sempre che un uomo deve fare quello che un uomo deve fare, e credo che questa cosa io la debba fare, perciò non tentare di rimandarmi al villaggio. Vediamo piuttosto come trascorrere questa notte, perché il sole è ormai già basso per proseguire».

«In effetti, comincia a far freddo», commentò Orion. «Ma immagino che accendere un fuoco non sarà compito difficile, per un figlio di fabbro!»

«Sei ottimista!» ammisi, provando un po' di vergogna, «ma per la gran parte del tempo il mio compito accanto al fuoco è tenerlo acceso, non riaccenderlo. A quello pensa sempre mio padre, e io non ho mai imparato l'arte!»

«Allora ascolta e fa' come ti dico, e presto avremo un bel fuoco!» mi rassicurò.


Nei giorni che seguirono, appresi da Orion molte altre cose sulla vita nei boschi. Da un cacciatore del genere imparai in poco tempo, e bene, grandi e piccoli trucchi per la sopravvivenza, e il rispetto per le prede.

“Tutto torna!” diceva. “Rispetta la vita prima di impartire la morte!”, “Riguarda la madre e i piccoli oggi, se vuoi una buona caccia domani!” Questi e molti altri consigli di moderazione, così apparentemente poco consoni a un uomo di quella statura e possanza, ricevetti in quei giorni, e ne appresi la ragione, sì che in seguito sempre mi riuscì di applicarli in maniera del tutto naturale.

Cacciavamo e viaggiavamo, o dovrei dire “viaggiava”. Orion aveva fretta di riacquistare la vista, e anch'io non avevo motivo per attardarmi lontano dal villaggio oltre lo stretto necessario, sicché facemmo subito un'ovvia considerazione: lui non poteva correre perché cieco, e io non potevo correre perché tanto più piccolo di lui. Decidemmo così che gli sarei montato in spalla, e da lì avrei guidato i suoi passi. Fu un po' come tornare bambino, come quando mio padre mi portava sulle proprie spalle.

In pochi giorni la fiducia reciproca crebbe, e ci raccontavamo spensieratamente aneddoti di casa nostra: lui degli iperborei e io dei Popoli del Mare, quali più allegri, quali più tristi, mentre dirigevo le grandi falcate di Orion sempre verso Oriente.

Appresi allora quanto sia ingannevole la vista, quanto essa ci distolga costantemente dai nostri pensieri, ora col volo di un uccello, ora con l'impronta di un animale, ora con un riflesso nell'acqua di un ruscello. A tutto questo Orion era immune, in quei giorni, e docilmente faceva tutto quello che gli dicevo, trovando persino molesto che io mi muovessi di qua e di là sulla sua spalla solo per scostare un insetto che lui, ovviamente, non poteva vedere.

«Che fai? Che succede, ora?» mi chiedeva.

E io: «Niente, un calabrone mi è quasi venuto addosso!»

«Va bene, però così fai cadere anche me!» mi avvisava.

«Scusa, scusa! Mi ero davvero spaventato!» cercavo di spiegargli.

Ma col tempo sembrò che Orion non avesse perso solo il senso della vista, bensì anche il suo ricordo. Un giorno che il Sole era già alto, dopo una lunga camminata durante la quale era stato particolarmente silenzioso come se assorbito in suoi pensieri, all'improvviso mi chiese: «Kedalion, cos'è questo calore intollerabile, qui sulla mia spalla destra? Brucia!»

«È il Sole!» risposi. «Oggi il cielo è limpido e il Sole splende in tutta la sua potenza!»

«Il Sole…» ripeté pensoso. «Il cielo… Ho come l'impressione di ricordare cosa fossero, cosa significassero, queste parole, ma ora… Cosa mi dice che non stai cercando di arrostirmi, Kedalion? E cos'è questa cosa che tu chiami “cielo”?»

«Orion, che ti prende?» gli chiesi, preoccupato. «Ricordi il Sole, vero? Quella sfera infuocata che illumina il giorno e dà luce e colori a tutto…»

«So cos'è una sfera per averla toccata», mi rispose, «e so cos'è il fuoco per essermici scottato, ma cosa sia il giorno, o la luce, o i colori… Io, Kedalion, non lo ricordo più!»

Tanto grande era stata dunque la magia di Opis, che lentamente anche il ricordo di quelle cose che gli occhi di Orion un dì avevano visto stava lentamente scomparendo.

Qualcosa nacque dentro di me: l'ispirazione che non dovessi permettere il diffondersi di quell'infermità. «Stai scherzando, vero?» chiesi al gigante. «Non puoi aver dimenticato ciò che hai visto».

«Perché no?» rispose lui, come se volesse rassegnarsi a quel triste destino. «In fin dei conti, è tanto che andiamo. Mi sto abituando a questo nulla che mi circonda, e sto imparando a cacciare anche senza vedere! Di che vantaggio può essere che veda cose lontane come il cielo, o il Sole, se non posso toccarle?»

«Non dire sciocchezze!» lo rimproverai. «Tu hai visto il cielo e hai visto il Sole, e hai visto i colori. E se non li ricordi ora, te li farò ricordare io!»

«Davvero?» Sbuffò una risata sarcastica. «E come farai, dimmi? Come mi spiegherai il bianco, o l'azzurro, o il verde, o il nero, ora che nemmeno più quello ha senso, per me? Tutto, ai miei occhi, che nemmeno ricordo perché li avessi, è uguale, ora».

«Perché li hai!» lo corressi. «Gli occhi, li hai!»

«Davvero?» Non mi piacque il tono amaro e di sfida che aveva assunto. «Questi due globi qui sotto la fronte?» Si portò una mano davanti alle palpebre. «Li tocco, guarda, li spingo… È come avere due pietre molli sotto la pelle. A che servono?»

«È quello che ti hanno fatto bere!» Ero terribilmente preoccupato per quello che Orion stava dicendo: se il suo morale si fosse ulteriormente abbassato, avrebbe potuto perdere anche me. Dovevo trovare il modo di fargli ricordare la luce e i colori!

«Ascolta», gli dissi, «senti il calore che ti sta bruciando la pelle sulla tua spalla destra?»

Riuscii a interrompere così quel profluvio di pessimismo che l'aveva colto. Orion tacque un istante, pensoso. «Sì, lo sento!» rispose.

«E senti lo stesso calore sulla tua spalla sinistra?» proseguii. Forse avevo trovato il modo di confortarlo.

«No, al contrario!» disse. «Anzi, se non fossi seduto tu sulla spalla, sentirei freddo, di qua».

«Allora ascolta», cercai di trovare in me un estro che mi liberasse dal panico, «apri la mano verso il caldo del Sole. Lo senti?»

Aprì il palmo verso mezzogiorno. Sentì la pelle essere inondata di calore benigno, la stese un paio di volte, la girò e la rigirò. «Lo sento!» esclamò emozionato.

«Metti la mano tra il Sole e il tuo viso!» gli intimai. «Senti che la mano nasconde il calore dal tuo volto?»

Fece come gli avevo detto: stava riprendendo fiducia nelle mie parole e seguì attentamente le mie indicazioni. Interpose la mano tra l'astro e il suo viso un paio di volte. Rise di sé, della propria disperazione. «Sì, lo sento. Posso quasi vedere la luce, e l'ombra! Kedalion, è come se potessi vedere l'ombra del Sole sulla mia pelle senza vederla! Luce e ombra, ci sono! Esse ci sono!»

«E i colori!» gli annunciai. «Anche i colori, ci sono! Simili a quando distingui una cosa dolce da una salata: luci di sapori distinti!»

«Li ricordo, i colori!» Rise e pianse incredulo. «Kedalion, io li ricordo! Ricordo il verde dei boschi e l'azzurro del cielo, e il diverso blu del mare, il tripudio delle corolle dei fiori…»

Era il momento di rendere irreversibile quel momento. «La pelle bianca di Opis, i suoi occhi, i suoi capelli!» dissi.

Si fermò, gelato da quelle parole, e deglutì lentamente. Il ricordo gli faceva male, ma era il più potente che potessi richiamargli.

«Dobbiamo affrettarci!» disse infine, freddo e determinato.

«Quanto manca?» non volevo fargli nutrire false speranze: erano giorni che andavamo avanti senza che io capissi di quanto ci fossimo avvicinati alla nostra meta, e avevo bisogno anch'io di certezze.

«Ci siamo quasi», rispose con una sicurezza che mi suonò estranea, subito dopo il suo momentaneo smarrimento.

«Che ti prende, Orion? Come mai questo cambio improvviso?» chiesi.

Sorrise, rimuginando su quanto aveva appena compreso. «Dovremmo tutti avere un piccolo Kedalion, immagino, in qualche momento della nostra vita», e non volle aggiungere altro.


Orion aveva ragione: di lì a poco giungemmo al villaggio dove dimorava Eos. Trovai sorprendente la somiglianza tra le due sorelle, e le loro differenze. Eos sembrava più pacata, matura, affidabile. Era una sensazione che trasmetteva coi suoi gesti, con la sua voce, mentre Opis mi era sempre sembrata sul punto di reagire in maniera imprevedibile, anche quando si dedicava a qualcosa di serio.

«Che hai fatto perché mia sorella ti cacciasse in questo modo?» chiese a Orion, non capacitandosi della disavventura occorsa al gigante, mentre gli puliva gli occhi con delle stoffe imbevute di essenze d'erbe.

«Lui non ha fatto niente!» intervenni io: Orion era rimasto interdetto da quella domanda che dava per scontato che la colpa di quella situazione fosse sua. «E probabilmente nemmeno Opis. È quel vecchio filibustiere del mio capo villaggio che dev'essersi messo chissà cosa in testa. Sai, l'età…»

«Se è vero quello che dici, la mia sorellina è in pericolo!» considerò Eos. «Quanto tempo fa avete lasciato il tuo villaggio? Ogni luna conta!»

«No, non sono due lune che siamo partiti, e se a Orion tornasse la vista, probabilmente potremmo tornare prima che finisca questa». Sapevo benissimo che Orion avrebbe avuto bisogno di tempo per riprendersi del tutto, ma visto che il tempo era così scarso…

Eos si fermò con le mani sugli occhi del gigante, applicandogli un impiastro sulla parte, e pensava. «Se partisse ora, resterebbe cieco ancora alcuni giorni, senza nessuno che gli applichi i giusti rimedi. E se aspettasse di riprendere del tutto la vista, potrebbe essere troppo tardi. E io non posso venire con voi: questo villaggio ha bisogno di me, qui. Sono combattuta».

«Potresti insegnare a Kedalion la cura?» chiese Orion, cavernoso. «Mi ha accudito fin qui e deve tornare anche lui al suo villaggio. Ormai sa come guidarmi, e posso portarlo in spalla come all'andata. Inoltre, non posso permettere a nessun altro di accompagnarmi: quando riacquisterò la vista, il mio passo sarà talmente rapido che nessuno potrebbe starmi dietro».

«È la soluzione più rapida, ma mi preoccupa lasciarti andare in queste condizioni», rispose la ragazza. «Se, come dite, Opis ti aveva affidato alle mie cure, verrei meno alla sua fiducia!»

«Opis si è anche affidata a me, ricordi? Vuole che tu mi curi perché io torni da lei guarito e nel pieno delle mie facoltà», tagliò corto il gigante. «Poco importa se la cura l'applichi tu o un altro, l'importante è far presto, ora!»

«È vero, Orion ha ragione», m'intromisi. «Opis stessa avrebbe applicato la cura, se solo ne avesse avuto i mezzi, mi ha detto, quando le ho chiesto di insegnarmi il rimedio».

La donna ci pensò su un po', valutò la situazione, e finalmente si lasciò convincere. «Va bene», disse, «ma devo preparare il farmaco e tu, Kedalion, mi assisterai, così capirai anche ogni cosa al riguardo di come applicarlo».

«Da figlio di fabbro ad apprendista di medicina!» Orion mi prese in giro. «Chissà cosa diventerai, prima che quest'avventura abbia termine!»

Non ci avevo pensato però sì, aveva ragione: stavo cambiando.


Eos ci mise due giorni interi per preparare tutti i decotti che avrei dovuto applicare. Dapprima le mancavano alcune erbe, per così tanti impiastri, e mi mandò nei boschi a raccoglierle, mentre lei lavorava di mortaio e pestello per amalgamare il rimedio con miele, oli e acqua sorgiva. Poi espose al vapore di una grossa pentola parte di ciò che aveva preparato e, quando gli umori dei fagotti da lei preparati cominciarono a gocciolare nell'acqua bollente, fermò il processo, estrasse i preparati da quei fumi e li lasciò raffreddare. Infine, avvolse ogni porzione di farmaco in un piccolo pezzo di stoffa. Mentre compiva ciascuna di queste operazioni, mi spiegava attentamente il perché e il percome, e cosa fare nel caso un fagotto si fosse sciolto, o danneggiato, o avesse cominciato a dare segni di muffa, cos'era bene o male che osservassi…

Non credo di aver capito molto di medicina, in quei due giorni: dovevamo fare tutto presto e bene per curare Orion, non perché io diventassi uno sciamano, ma era necessario che capissi un minimo, e da allora ho sempre avuto un chiaro metro per valutare la qualità di un medico: la sua conoscenza del paziente. Quanti sedicenti uomini-medicina, successivamente nella mia vita, hanno cercato di impressionarmi con considerazioni astruse su qualsiasi argomento! Sempre mi è bastato evidenziare le loro fallacie indicandogli il motivo per il quale erano stati consultati: una persona ferita, malata, sofferente, morente.

Eos così faceva: gli occhi di Orion, le lacrime di Orion, la vista di Orion. Tutto ciò che sceglieva e faceva era ricondotto alla cura del suo paziente, delle condizioni in cui avrebbe viaggiato, del cammino che avrebbe compiuto. Furono due giorni emozionanti, intensi, e finalmente, prima dell'alba del terzo mattino, eravamo pronti per tornare al mio villaggio.

Ci eravamo preparati di tutto punto, e avremmo approfittato della luce del giorno per coprire il massimo cammino possibile. Prima di partire, però, Eos volle salutarci presso una sorgente a Oriente del villaggio. Noi ci recammo lì e il Sole non era ancora sorto, ma Eos si stava bagnando in quel bacino riparato dalla corrente, totalmente nuda! Era di una bellezza che mi turbò, nonostante la mia allora giovane età.

Invitò Orion a entrare in acqua con lei e, quando il gigante le fu vicino, lei gli bagnò gli occhi.

Orion, dopo tanti giorni senza dar cenno di poter riacquistare la vista, mosse nuovamente i globi e le palpebre, e in quel momento il Sole sorse alle spalle di Eos.

«C'è luce!» esclamò sorpreso. «E tu… Eos…» Restò interdetto dall'intuire quella meravigliosa nudità. Quale poteva esserne il senso?

«Sono lieta che le mie cure stiano avendo effetto», commentò la donna, «e gli occhi ti sono stati dati per vedere, non per tenerli chiusi. Non vergognarti di ammirare ciò che è bello, perché la vita non si vergognerà di esporti ciò che è orribile. Ma se osservi con malizia o con cuore puro dipende solo da te: né dai tuoi occhi, né da ciò che osservi. La tua esitazione ha detto tutto di te. Ora va', ti affido la sicurezza di mia sorella, che troverai persino più bella di me». Uscì dall'acqua, coprendosi con abiti leggeri nell'aria del mattino ancora acerbo.

«E se ti avessi aggredito?» chiese Orion ancora nell'acqua, disorientato. «Perché hai corso questo pericolo?»

«Perché dovevo sapere se la condanna che ti hanno inflitto aveva fondamento!» osservò lei con semplicità. «Potevo io, nel pieno possesso delle mie facoltà, ridare la vista a colui che, nelle parole di un capo villaggio, ha osato aggredire mia sorella? Potevo permettergli di tornare a insidiarla?»

«Poteva essere pericoloso!» commentò lui.

«E tu avresti perso la vista per sempre!» annunciò Eos, con una tranquillità che contrastava così aspramente con la determinazione di quelle parole, da incutere timore.

«Ora, però, andate, e… Kedalion…» trasalii all'udire il mio nome. «Riguarda quest'uomo, e guidalo bene per sentieri dritti e rapidi fino alla salvezza di mia sorella Opis».

Feci un timido cenno d'assenso con la testa, lei si voltò e tornò al villaggio. Noi dovevamo partire.


Il ritorno verso il mio villaggio fu notevolmente più celere: ormai sapevo come guidare Orion e lui cominciava a distinguere sempre meglio gli ostacoli lungo il suo cammino, mentre giorno dopo giorno riacquistava la vista. Ci fermavamo di tanto in tanto per applicare gli impacchi e gli unguenti che Eos ci aveva dato, ma il solo pensiero di Opis alla mercé di Enopio era un pungolo troppo forte perché il gigante si attardasse benché minimamente.

Parlavamo ormai il minimo indispensabile: lui era tutto concentrato sul cammino da fare, e non voleva che gli dicessi altro che le indicazioni per tornare dalla sua promessa nel modo più rapido e sicuro possibile. Il nostro fu piuttosto tutto un “a destra”, “a sinistra”, “albero”, “radice”, “pietra”, intercalati da “coniglio” o “nido” quando dovevamo procacciarci da mangiare, o “campo” quando dovevamo fermarci.

Nel giro di dieci giorni la vista di Orion si era pressoché del tutto ristabilita, e anche quelle brevi parole lasciarono il posto al silenzio. Solo alle volte lanciavo ancora un avvertimento frutto dell'abitudine per un ramo basso o un possibile inciampo, ma il gigante procedeva per sua natura con passi che io non avrei osato, e sicuri come io non avrei pensato.

Arrivammo così tra i boschi che riconoscevo come quelli intorno al mio villaggio; neanche due lune erano trascorse dalla nostra partenza. Dissi a Orion che ce l'avevamo fatta, che Opis era lì e che presto l'avrebbe riabbracciata, ma lui s'incupì.

«Enopio, quell'uomo… Ho paura di quello che potrebbe fare a Opis, se riapparissi così all'improvviso», disse. «Inoltre, non sappiamo cosa può essere successo nel villaggio, e quanto può essere sicuro per noi… per te!… riapparire in questo modo. Credi che potresti sgattaiolare a casa e farmi sapere qualcosa?»

Apprezzai la preoccupazione nei miei riguardi ma, che aveva intenzione di fare? Che avrebbe fatto se la situazione fosse stata sfavorevole al suo ritorno?

«I miei saranno certamente stati molto in pena, e non vorranno che mi allontani un'altra volta, né credo che il mio ritorno passerà inosservato. Quindi credo che mi sarà difficile tornare a informarti di come vanno le cose al villaggio», ragionai. «Come potrò avvisarti, se fosse necessario?»

Mi guardò sorridendo, con sul volto l'apprezzamento per quello che ero: un ragazzo che un'avventura aveva reso uomo. Poi i suoi occhi si persero dietro di me, nel cielo. Mi voltai, e un filo sottile di fumo nero ascendeva lentamente: l'inconfondibile segno della forgia di mio padre al lavoro; ne provai nostalgia, poi mi balenò un'idea. «Aspetta!» annunciai galvanizzato. «Ho trovato!»


Non eravamo tornati un istante troppo presto: il villaggio mi accolse con sospetto, e d'altro canto potevo comprenderlo, giacché ero sparito insieme a Orion. Gli unici che si sentirono sollevati dal mio ritorno furono i miei genitori, che mi sottrassero provvidenzialmente alla curiosità di tutti gli altri. Tutti meno Enopio, che aveva occhi e orecchie dappertutto. Quando mio padre riuscì finalmente a ripararmi nella nostra casa, la bottega fu presa letteralmente d'assedio.

Mio padre non era mai stato esoso, ma il lavoro di un fabbro è caro, e la gente normalmente preferisce tirare avanti con oggetti anche in cattivo stato, piuttosto che affrontare una costosa riparazione. Perciò era strano che proprio quel giorno tutto il villaggio si fosse ricordato di dover riparare qualunque cosa, persino oggetti che sarebbero stati più utili come materiale di risulta! Ciascuno veniva alla bottega, chiedeva del fabbro, mostrava il proprio oggetto, e prendeva a chiacchierare come se non avesse niente di meglio da fare! Inevitabilmente, la chiacchiera volgeva su di me, sul mio ritorno, su cos'avessi fatto tante settimane lontano da casa, io, poco più che un ragazzo, magari alla mercé di quell'Orion…

È comprensibile se mio padre decise di chiudere la bottega assai prima del calar del sole: le domande non sarebbero terminate, e lui doveva lavorare. Preferì risolvere la questione a modo suo e venne a parlarmi in casa.

«Figliolo, come stai?» cominciò. «Vuoi raccontarmi qualcosa? L'hai visto: sembra che tutti vogliano sapere cosa ti è successo, ma credo che li stia mandando Enopio».

«Il capo-villaggio?» chiesi, fingendo stupore. «E perché dovrebbe chiedere di me, il capo-villaggio?»

Mio padre lavorava il ferro, ma la sua mente era duttile come l'oro; vide subito un'arguzia che non era quella del Kedalion che lui conosceva, nelle mie parole, e ne fu preoccupato.

«Il tuo amico è nei paraggi?» chiese. Poi, vedendo che mi ostinavo a non rispondere, spiegò: «Figlio, non so cos'avete fatto per due lune, ma devo avvisarti: Enopio è cambiato, dalla tua partenza. Tutti credevamo che avesse preso con sé Opis come una figlia, tutt'al più come un capriccio senile, ma l'arrivo di Orion ha destato in lui una fiera! È diventato ossessionato dal pensiero che la ragazza possa andar via, anche perché lei ha già tentato di scappare un paio di volte».

«Perché avrebbe tentato di scappare?» chiesi. «Scappare da chi? Dall'uomo che l'ha protetta?» insinuai, sarcastico.

«Parleremo un'altra volta di come si rispetta una donna», rispose, «ed è probabile che Enopio abbia dimenticato questo precetto quando ha visto un antagonista col quale non poteva competere. Ma se prima Opis gli ha fornito il modo per sbarazzarsi di Orion, poi s'è resa conto del proprio sbaglio. Diciamo che la vita nel villaggio è stata alquanto movimentata…»

Non disse di più, e così le mie preoccupazioni presero il sopravvento. «Niente di irreparabile, vero?»

Mio padre mi scrutò cercando di capire cosa intendessi. Dubbioso, rispose lentamente: «No, fortunatamente no, fin'ora». Che il suo ragazzo non fosse già più un ragazzo? Ma ciò che seguiva lo preoccupava persino di più. «Ma ora il vecchio ha deciso di sposare Opis. Ci pensi? Potrebbe esserne il nonno!»

La notizia mi gelò. «Ma… E Opis?» chiesi, frastornato.

«Che avrebbe dovuto fare? Le si è offerta un'opportunità di prendere tempo, e l'ha colta. Di questo, tutto il villaggio è certo: non cerchi di scappare come da un demone il giorno prima, e lo assecondi in tutto il giorno dopo! Inoltre, con una grazia davvero sottile, ha posto tutta una serie di condizioni al futuro sposo, così ritardando la cerimonia il più possibile».

«Padre», chiesi, colto da subita frenesia, «quando si terrà la cerimonia?» Avrei voluto trattenermi ma avevo preso a tremare, sapendo quello che c'era in gioco.

«Il terzo giorno da oggi», mi rispose, squadrandomi con attenzione. «Perché? Che vorresti fare?»

«Devo avvertire Orion, nient'altro! Lui saprà che fare».

«Avvertirlo?» si preoccupò. «Ma non hai capito che non puoi uscire di casa? Appena metterai il naso fuori dall'uscio, tutti ti saranno addosso! Qualcuno potrebbe seguirti fino da Orion! Se ci tieni, al tuo amico, tieniti lontano da lui!»

«Tranquillo, padre», placai i suoi timori, «Orion aveva già pensato a quest'eventualità e anche lui temeva per me. Vedi quanto è stato avveduto e responsabile? È un buon uomo, fidati, e Opis è la sua promessa!»

A quella rivelazione, mio padre sembrò rasserenarsi. «Immaginavo una cosa del genere, povero gigante!» esclamò. «Ma come lo avviserai, allora? Che ha pensato? Qual è il suo piano?»

«Non so quale sia il suo piano», risposi, «ma so come avvisarlo senza mettere a rischio me stesso o lui. Torna alla forgia!» gli ordinai.

«Alla forgia?» fu sorpreso dalla richiesta. «Perché? Che c'entra la mia forgia con…» E non terminò la frase perché aveva già immaginato una mezza risposta. «Va bene!» esclamò determinato. «Andiamo!»


Riattizzai il fuoco come solo io sapevo fare, e mio padre prese a battere il martello sull'incudine, più per giustificare il fuoco acceso che per qualunque altra ragione.

Naturalmente, un piccolo capannello di curiosi tornò alla bottega per cercare di carpire notizie su me e Orion, ma mio padre fu fermo: il villaggio era andato a chiedergli ogni tipo di lavoro tutto insieme, e se lui avesse perso tempo per intrattenersi a parlare con chiunque, non sarebbe mai riuscito a concludere tutto ciò che gli era stato commissionato. Ora era il tempo dell'incudine e del martello, non della chiacchiera facile!

Cominciò così a lavorare quelle cose che avrebbero richiesto più meticolosità, pinze e martello. E fuoco, tanto fuoco!

Il rapido riattizzarsi delle fiamme aveva mandato una nuvola di fuliggine nera nel cielo che si sarebbe vista da molto lontano: quello era il segnale per Orion che stavo inviandogli un segnale; nel frattempo, buttai tre ciocchi di legna fresca nel barile pieno d'acqua che mio padre usava per temperare il ferro. Poi, quando le braci divennero calde all'inverosimile, raccolsi il primo tronchetto, il più piccolo, che aveva già assorbito dell'acqua, e lo gettai nel fuoco: una nuvoletta di vapore ne uscì sfrigolando con violenza e si levò bianca nel cielo. Mio padre mi squadrò con rimprovero ma anch'io ero cosciente del pericolo che si correva in quel modo: gli umori e l'acqua potevano essere espulsi dal legno con velocità inaudita e avrebbero potuto ustionarmi, perciò avevo realizzato il gesto con rapidità e da lontano.

Lasciai che il legno perdesse gran parte della sua umidità e gettai altro carbone sul fuoco; il fumo tornò nero. Raccolsi il secondo tronchetto, il minore di quelli rimasti in acqua e, quando lo gettai sul fuoco, si produsse una nuvola più intensa della prima. Ripetei il procedimento una terza volta, e il tronchetto più grande fischiò i suoi umori con violenza. Infine, lasciammo le fiamme al loro fiero pasto.

Passarono così due giorni, due giorni d'attesa, con mio padre che cercava di far finta di niente mentre il villaggio si addobbava per la grande festa. Ero stupito da ciò che vedevo: persone che avevo sempre ritenuto assennate facevano di tutto per compiacere Enopio, preparando pietanze, addobbi, canti, abiti…

«Perché fanno così?» chiesi a mio padre, e lui:

«Perché Enopio è il capo, e anche se non può comandarli tutti, molti faranno ciò che dice, anche se si tratta di compiere ingiustizie e scelleratezze, e nessuno vuole soffrire angherie senza un valido motivo».

«Un valido motivo?» trasalii. «Non è un valido motivo, impedire un'ingiustizia?» Mio padre sorrise amaramente.

«Eccome, se lo è! Probabilmente il più valido di tutti! Ma rifletti: chi compie un'ingiustizia una volta, può compierla ancora. Se Enopio è diventato un dissennato, è inutile sperare nel suo buon giudizio. Prima la gente lo rispettava, ora lo teme. Non è la stessa cosa!»

«E tu, padre? Non lo temi?» gli chiesi, perché non mi sembrava si stesse dando molta pena per compiacere il capo villaggio.

«Se lo temo? Certo che lo temo!» rispose. «Non confondere la mia reazione con qualcosa che non è in me! Ma io so! So che là fuori, fuori dalla staccionata, un gigante iperboreo sta preparando qualcosa che né Enopio, né nessun altro nel villaggio s'aspetta! Il mio apparente “coraggio” è dato da qualcosa che io so, e loro no!»

Non sapevo se essere deluso da quell'ammissione o apprezzare la franchezza, e probabilmente me lo lesse in faccia.

«Kedalion, non essere troppo severo con me», pregò. «Che dovrei fare, se non sapessi? Dovrei espormi alle angherie di un vecchio per negargli un sogno della sua tarda età? Che viva i suoi ultimi giorni felice, e lasci tranquilli anche noi!»

«Padre, Opis potrebbe essere tua figlia!» osservai indignato. «Lasceresti che Enopio desse libero sfogo alle proprie voglie su di lei, se fosse tua figlia?»

«Siamo stati in pena per te, tua madre e io, per due lune!» Il suo tono era profondo e severo. «E sapevamo che non correvi nessun pericolo come quello che corre Opis. Abbiamo cercato le tue tracce dappertutto, ma quando hai cominciato a guidare Orion, lui è diventato irraggiungibile. Puoi chiedere a chiunque cos'avrei fatto, se l'avessi incontrato faccia a faccia nel bosco! Probabilmente non sarei sopravvissuto, ma non sarei rimasto inerte, puoi starne sicuro!» Mentre così diceva, accarezzava col palmo la testa del grosso maglio da forgia. «Ma tu, tu sei il mio sangue e la mia carne; Opis non lo è, checché tu possa chiedermi di immaginare che lo sia».

«Dunque, di questo si tratta?» Ero… deluso da quella motivazione così squallida. «A nessuno importa realmente di Opis perché non è affar loro? Tutto ciò che realmente importa nella vita di chiunque è solo ciò che ciascuno può chiamare proprio?»

Non rispose volentieri. Mi guardò come per chiedere scusa, un padre a un figlio, di quella che è la natura umana. Poi, finalmente, si espresse: «Ma non prendere questa come una lezione del tutto negativa. Usala, come un cieco può sentire dov'è il Sole grazie al suo calore!»

«E come?» ero fuori di me. Davvero diventare adulti era questo? «Come, se ciascuno pensa solo a ciò che ha?»

«No Kedalion, no: non a ciò che ha, ma a ciò che considera proprio!» mi corresse, e non capii subito.

«Tu, Kedalion, non sei mio», spiegò. «Un giorno vorrai andar via e non avrò alcun diritto di fermarti. Ma non avrei affrontato Orion se l'avessi incontrato? E Orion, ha forse Opis? Io ti dico che non l'ha, e lui lo sa, ma verrà lo stesso a fare quello che farà. E anche la follia di Enopio, che diciamo follia perché così la vediamo, non è fatta della stessa sostanza? Lui la considera propria al punto di tentare di sovvertire ogni buon senso. Un po' lo compatisco».

«Ma allora, se tanto Orion quanto Enopio sono mossi dallo stesso impulso, chi dei due ha ragione? E come posso usare io questa conoscenza che mi hai trasmesso?» chiesi, senza saper rispondermi da solo.

«Tra i due contendenti», sospirò mio padre, «solo Opis può stabilire chi abbia ragione, come dev'essere sempre! La ragazza potrebbe persino scegliere un terzo, persino nessuno! È suo diritto! Ma per quel che riguarda te, chiediti sempre per chi affronteresti qualunque avversità, qualunque asprezza, senza battere ciglio, senza pensarci, senza indugiare, con gioia persino, come se fossi mosso da qualcosa più grande di te!»

Lo guardai meravigliato, perché gli occhi, i gesti, la voce, esprimevano una dedizione totale. «È questo, che senti per la mamma?» chiesi con una punta di pudore.

Non mi aspettavo di leggere il senso di colpa, sul suo viso. «No!» rispose devastato dal rimorso, e subito dopo: «ma l'ho sentito per te. Posso consegnarti questa lezione perché io ho sbagliato, e vorrei che non cadessi anche tu nello stesso errore».

«Se mio padre ha sbagliato, e se io sono libero, perché non posso sbagliare anch'io come lui?» domandai.

E lui: «Non ti ordino di non sbagliare, non avrebbe senso, perché il tuo primo diritto è sbagliare! Il mio è solo un ammonimento: sii cosciente di dedicare te stesso a chi ami e, al primo dubbio, interrogati! Senti verso chi nutri esitazione, e da lì saprai che quella non è la tua scelta».

Tacque, e io con lui, riandando a me sulla spalla di Orion cieco, il Sole alla nostra destra. «Proprio come il Sole per un cieco…» borbottai.


Il terzo giorno dopo il mio ritorno al villaggio, l'aria di festa era palpabile. Se solo tutti avessero saputo quello che stava per accadere!

Di fatto, qualcosa di strano aveva turbato l'atmosfera festosa degli ultimi due giorni, dapprima in sordina, poi in maniera più evidente: la selvaggina era scomparsa dai dintorni. Non tutta, per carità, ma non si riusciva più a trovare nemmeno una bestia più grossa di una volpe. Ovviamente, ciò che aveva spaventato lupi e tassi non aveva lasciato indifferenti le bestie più piccole, anche quelle quasi del tutto introvabili, ma uccellini e tartarughe di terra non erano la pietanza tipica di un banchetto nuziale.

E poi c'era una particolare richiesta che Opis aveva rivolto al promesso sposo: tra la sua gente, il pretendente doveva dimostrarsi meritevole offrendo alla futura sposa un cervo, un cinghiale e un orso.

Quando mio padre mi raccontò della richiesta, trasalii. «Sono le stesse bestie che Orion aveva con sé quando giunse al villaggio!» osservai.

«L'ha ricordato anche Enopio», rispose mio padre, «ma quello sciocco ha accolto la richiesta come una legittimazione del suo desiderio, come se Opis avesse preferito lui a Orion… E gli è andata male: né lui è andato personalmente a caccia, come avrebbe dovuto essere, e molti pensano che Opis volesse sbarazzarsene in quel modo, né è stato possibile trovare alcuna delle prede indicate, con questo “misterioso terrore” che si aggira intorno al villaggio. Ma oggi è il grande giorno, e vedremo cosa porterà».

«Devo essere sincero, mi sento un po' spaventato», ammisi.

«Neanche io mi sento tranquillo», ricambiò mio padre, ma i nostri timori furono ingigantiti quando, dal lato del villaggio verso il fiume, cominciarono a provenire voci allertate, e la gente prese a radunarsi da quella parte. Anche noi andammo lì.

Dall'altro lato del corso d'acqua, Orion stava come il primo giorno che l'avevamo visto: alto, possente, col torace scoperto, e ancora una volta caricava sulle spalle un cervo, un cinghiale e un orso.

Aveva sul viso uno sguardo sprezzante e beffardo: quanto dovevamo sembrargli ridicoli, tutti noi del villaggio, ma invece di attraversare il fiume o gridare a gran voce, il gigante attese in silenzio. Attese che la riva di qua si riempisse e che tutti lo osservassimo attentamente, incutendo in noi paura e angoscia con la sua sola silenziosa presenza.

Quando vide che né Enopio né Opis erano venuti al fiume, allora chiamò, con una voce talmente forte e profonda che alcuni si gettarono a terra per lo spavento: «Opis!»

Con quel solo nome, aveva già escluso Enopio da ogni possibile dialogo: non era venuto per discutere con nessuno, era lì solo per la sua promessa!

«Opis!» urlò più forte, quando vide che né la ragazza né il suo aguzzino si facevano avanti.

Nel timoroso silenzio, una voce soffocata proveniente dalla capanna del capo-villaggio sembrò mugugnare qualcosa, poi ci fu l'urlo di un uomo: «Aaaaah!», e infine la donna gridò: «Orion! Sono qui!»

Il gigante non se lo fece ripetere. La sua ira si accese improvvisa come un fulmine, così evidente che la gente si fece da parte al solo leggergliela in volto. Io l'avevo visto muoversi rapidamente tra i boschi e gli alberi alti, ma quando Orion attraversò il fiume con due grandi falcate, lo fece senza badare a niente e a nessuno, spruzzando acqua sulla metà dei presenti, inarrestabile come un cinghiale alla carica, veloce come vento di borea.

I suoi passi facevano tremare il suolo, tanto che tutti ne furono spaventati e scapparono in ogni direzione; io e mio padre fummo tra i pochi rimasti lì a guardare quell'autentica forza della natura che si liberava, attoniti, affascinati dalla sua potenza bruta. In pochi istanti Orion raggiunse la capanna di Enopio, e non perse tempo a bussare alla porta o a chiedere di aprire, no, ma prese a svellere le travi del tetto, staccandole e sollevandole dalle pareti come se stesse smontando un giocattolo.

Opis gridò allarmata: «Fermati! Fermati, bestione! Che stai facendo? Crolla tutto!» La capanna, non costruita per resistere a quella furia, stava già cominciando a cadere in pezzi, e nella sua rovina avrebbe schiacciato chi era dentro. L'ira di Orion passò dal calore del fuoco al gelo dei ghiacci: doveva fermarsi, ma non ne era certamente contento.

Indietreggiò, allontanandosi dalla capanna un paio di passi, incrociò le braccia e attese. La capanna smise di scricchiolare e la porta si aprì; Opis ne uscì. Aveva delle funi intorno ai polsi e una benda intorno al collo. Il viso, tenuto basso per non incrociare lo sguardo di Orion, esprimeva rimorso. «Non immaginavo che mi sarei trovata così in pericolo» disse con un filo appena percettibile di voce.

«Come stai?» Orion non fece minimamente caso a quelle scuse: ora c'era lui e nessuno avrebbe potuto torcerle un capello. «Io…»

Una porta cigolò sul retro della capanna. Enopio stava chiaramente cercando di scappare, e il solo pensiero di quell'ignobile folle, un capo che cercava di sottrarsi alla responsabilità delle proprie colpe, riaccese la furia del gigante. Orion si lanciò di scatto oltre la capanna, ma Opis gli si parò davanti con le braccia aperte: «Sto bene! Sto bene!» urlò. Orion si fermò all'istante, mentre il pianto terrorizzato di Enopio si perdeva lontano.

Il gigante scrutò negli occhi Opis cercando di riconoscere in quello sguardo qualcosa che distinguesse verità da menzogna, e vi lesse solo spavento. L'abbracciò forte. «Va bene!» disse.

Lei si sciolse in lacrime come una bambina, quell'abbraccio la confortava. Per quanto tempo aveva nascosto i propri sentimenti? «Mi dispiace! Non volevo farti del male, ma quando sei arrivato io non mi sentivo ancora… E poi Enopio è impazzito! Non l'avevo mai visto così! Sembrava una persona buona! Ma poi…» Era un fiume in piena di emozioni represse che ora avevano via libera.

«Poi lui ti ha cacciato in quel modo, ingannevole, subdolo, e mi sei mancato!» lo disse come rivelando un mistero ancora incompreso.

Orion la guardava in volto e le lasciava dire tutte quelle cose come se ne sapesse già una buona metà.

Opis, che non voleva che quanto stava per dire fosse tenuto in poco conto, riprese: «No Orion, non era come quando mi manca chiunque altro. Era una sensazione fisica come quando sai che qualcosa esiste ma ti è sottratta! Come quando allunghi una mano per prendere l'arco, e l'arco non è lì, come se nel cielo dovrebbe splendere la Luna e al suo posto ci fosse un buco, ma sai che al posto di quel buco dovrebbe esserci la Luna!»

«Come se fossi cieco e sentissi il Sole splendere, e poi qualcuno te lo sottrae con la propria ombra, e senti l'ombra come qualcosa di freddo ed estraneo perché sai che il Sole esiste, e lo vuoi perché è quello che ti dà luce e calore…» suggerì Orion.

«Sì, sì! Era così!» esclamò lei, sgranando gli occhi. «Io non ti avevo mai sentito così, prima».

«E c'era bisogno di quest'alzata d'ingegno, di questa disavventura, per…» prese a commentare Orion scrollando il capo. «Ma l'importante è che ora stai bene. Sì?»

Lei annuì col capo. «Sì», rispose.

«Bene, allora posso tornare a casa più tranquillo!» annunciò il gigante. Opis ne restò sconcertata.

«Come “a casa”? E non vuoi restare qui, con me?»

«Opis, anche tu mi manchi, ed è per questo che sono venuto a cercarti e ho affrontato quello che ho affrontato. Ma io nutro anche sentimenti, per te, che tu non ricambi. Così non può funzionare. Sai dove trovarmi; se un giorno mi vorrai, vienimi a cercare, ma se vuoi vivere la tua vita, io devo andar via».

«Non voglio che vai via», rispose lei, nella quale si percepiva ancora dissidio. «Potremmo vivere qui, tra questa gente! Hai portato anche le offerte per il matrimonio, celebriamolo oggi, Orion!»

«Io credo di aver fatto la mia parte», le rispose appoggiandole le labbra sulla fronte, «ora tocca a te. Non darmi del cinico, perché avrei potuto esserlo diverse volte e non l'ho fatto. Io so cosa significa la mancanza che hai sentito, ma non sono sicuro che tu lo sappia. Perciò, quando lo saprai, sarai tu a presentarti con un cervo, un cinghiale e un orso. Non dovrebbe essere difficile, per una cacciatrice brava come te».

Si allontanò da lei arretrando, si voltò, e si diresse verso Nord, col passo lento e pesante dei venti carichi di pioggia. Opis lo guardò allontanarsi senza muovere ciglio, sebbene tutti sapessimo cos'avrebbe dovuto fare.

E infatti, quando Orion fu finalmente scomparso alla vista, uno sguardo truce e fiero le avvampò negli occhi, lei prese il suo arco e la faretra, un lungo coltello per buona misura, e vestì i colori della caccia. Mi chiamò: «Kedalion! Ho bisogno di una mano!» Accorsi.

«Questa pietra di sangue», disse, mentre mi mostrava una roccia rossa e friabile, «la usiamo nella mia tribù quando vogliamo dedicare la caccia a occasioni speciali. Ora tu mi disegnerai sulla fronte un occhio chiuso che guarda il Sole, va bene?»

Feci come mi aveva detto, in fretta, perché avevo capito il senso di quei segni e non volevo che si attardasse ulteriormente. «Fatto!» le annunciai, orgoglioso di quelle linee.

Lei si specchiò in un secchio d'acqua e sorrise soddisfatta. «Grazie!», disse, e mi arruffò i capelli sulla fronte, poi partì anche lei verso Nord, inseguendo la più ambita delle sue prede, certamente la cacciatrice più in gamba che il mio villaggio abbia mai conosciuto.