La buona scuola

di Marino Maiorino

Reksa, figlio-di-capo, si svegliò del solito umore: euforico tendente al “padrone del mondo”. Con sedici anni da poco compiuti e il fisico che si ritrovava, anch’io mi sarei sentito come lui: tutte le ragazze del villaggio gli morivano dietro e lui lo sapeva bene, ma Reksa aveva occhi solo per Herda; peccato che Herda non lo ricambiasse nemmeno lontanamente.

Amori giovanili, sono così, pensava la madre di Reksa, ricordando la propria gioventù nel figlio, una lunga catena di “amo qualcun altro”.

Com’era riuscita, lei, a farsi conquistare dal marito? Ah, sì, certo! Il ricordo la fece sorridere e arrossire.

Reksa, alzatosi dal pagliericcio, era sceso nel fumoso ambiente cucina e aveva visto le piccole uova di merlo nella scodella sul tavolo. Si sedette sullo sgabello e prese un uovo, ne picchiò la testa con l’unghia. Quando il guscio cedette, lui ne sollevò una scheggia, poi succhiò il contenuto. Prese un altro uovo.

«Reksa, che farete, oggi?» chiese la madre.

«Non lo so!» rispose il ragazzo, seccato. «Io non capisco perché devo sorbirmi tutti i giorni quel barbogio!»

«Come “Non lo sai”?» osservò la madre, sorvolando pazientemente sul commento poco rispettoso. «Possibile che il vecchio Wossama non ti abbia detto che farete oggi?»

«Sì, madre, lui lo dice, ma poi fa tutta un’altra cosa!» Reksa non ne poteva più di come Wossama, il saggio della tribù, lo sciamano, il maestro, l’uomo santo, teneva le sue lezioni. Quella discussione l’avevano affrontata già molte volte, il ragazzo e i suoi genitori, ma non sembrava ci fosse modo di mettere un po’ di buon senso nella testa di Reksa.

«I tuoi compagni non fanno tante storie!» La madre ripeté una frase che era già campionario. «Com’è possibile che solo tu, il figlio del capo, fai tanti problemi?»

«Magari, proprio perché io sono il figlio del capo!» rispose il ragazzo, con un misto di superbia e insolenza che avrebbe fatto perdere all’istante la pazienza a chiunque altro.

«Signorino!» la madre fu a tanto così dall’allungargli un sonoro ceffone. «Se ti sento ripetere una cosa del genere, andrai a lezione dai cinghiali!Essere il figlio del capo non ti rende migliore di nessuno dei tuoi amici, hai capito? Voglio che t’impegni e che segui con attenzione le lezioni di Wossama: ha educato tuo padre, me, ed educherà anche te! E se non ci riuscirà, sarà solo colpa tua! Perciò stasera, quando tornerai, voglio sapere cos’avete fatto, e cosa farete domani! È chiaro?»

Reksa l’aveva sparata grossa: raramente la madre si arrabbiava in quel modo, e la minaccia di andare a lezione dai cinghiali… Terminò il terzo uovo in silenzio e salutò la madre un po’ mogio. Lei, sperando che il figlio ricapacitasse, lo prese per i capelli e lo abbracciò con affetto.

«Mi raccomando, Reksa, è importante!» Lo lasciò andare.


Era bello, il mondo. Era bello il villaggio, coi suoi abitanti, i suoi animali… Era bello il sole nel bel cielo fresco e azzurro, tra belle nuvole cotonate spinte dal vento profumato di primavera. Erano belli gli alberi al limitare del villaggio, ed era bella oltre ogni dire Herda, ma Herda non degnava Reksa nemmeno di uno sguardo, tranne che quando Reksa cantava. Ma Reksa era il figlio del capo, non un cantore! Perché Herda lo guardava solo quando cantava?

Come al solito, arrivò in ritardo alla radura dove il vecchio Wossama teneva le lezioni per i ragazzi del villagio. L’anziano stava terminando il ringraziamento al sole con il rituale saluto all’astro. Si voltò verso i ragazzi e vide che anche Reksa era arrivato. Sorrise.

«Buon giorno, Reksa, figlio-di-capo», disse. «Che hai visto stamattina, mentre ci raggiungevi?»

A Reksa non importava se gli altri ridevano di sottecchi di quel teatrino quotidiano: lui era il figlio del capo e, quando sarebbe diventato capo, le risate sarebbero finite.

«Ho visto il sole salire nel cielo azzurro e illuminare il villaggio. Ho visto il vento spingere le nubi leggere. Ho visto gli animali del villaggio, e ho visto Herda!» L’ultima frase gli uscì di getto, senza poterla frenare, ma era colpa di Herda: ce l’aveva proprio davanti agli occhi, ed era così bella che a lui era sembrato ovvio aggiungerla alle belle cose che aveva visto quella mattina.

Herda arrossì un poco e si voltò, per non tradire di essere stata lusingata dal pensiero. Anche Wossama sorrise, ma chiuse gli occhi e si appoggiò al bastone col quale si aiutava ad andare. «Non temi che parlare di Herda accanto agli animali la offenda?»

Qualche compagno sghignazzò senza potersi controllare, Reksa si fece rosso in viso.

«Io… No, non volevo…» balbettò.

«Va bene, va bene, figlio-di-capo». Con questo suo modo di fare, Wossama lo metteva sempre a disagio: lo faceva sentire un bamboccio senza mai offenderlo. A volte avrebbe preferito le sberle del padre ma no: il vecchio riusciva a farlo sentire peggio senza averlo nemmeno rimproverato. «La prossima volta farai meglio con maggior attenzione».


Dovevano affrontare un’escursione nella foresta, come accadeva spesso, ma questa volta Wossama davvero non ne aveva anticipato il motivo. Infatti Ulrich, il ragazzino che spesso guardava Reksa come un mito da emulare, chiese ad alta voce: «Allora che faremo stamattina, Wossama?»

Rispose Nitur, l’apprendista dell’anziano: «Tranquillo, Ulrich. Lo vedrete sul posto. Nel frattempo, Reksa, perché non ci canti qualcosa?»

Il giovane fu imbarazzato dalla richiesta, come capitava spesso negli ultimi tempi. Oh, a Reksa piaceva cantare, molto! Avrebbe passato tutto il giorno, a cantare, e aveva anche una bella voce. Quando Reksa cantava, tutti ammutolivano; anche Herda lo guardava diversamente.

«Io… Non so», titubò il ragazzo. Aveva appena fatto una figuraccia, e cantare gli sembrava fuori luogo, in quel momento. E gli sembrava fuori luogo per un figlio di capo cantare senza un’occasione da celebrare.

Il vecchio Wossama dovette leggergli nella mente, perché subito propose: «Sì, figlio-di-capo, canta! Prepara il canto della vittoria!»

Quello sì! Quello era un bel canto! Quello gli si addiceva! Reksa prese a cantare a pieni polmoni mentre tutti ascoltavano deliziati quelle parole di valore e gloria conquistati con intrepido coraggio su sanguinosi campi di battaglia contro nemici spietati. Gli altri ragazzi restavano talmente rapiti dal canto di Reksa che spesso, Wossama l’aveva già notato in passato, dimenticavano la fatica di una lunga marcia o il freddo, quasi che il mondo si fermasse.

Il mondo forse si fermava, ma i loro piedi trottavano, e fu così che tutto il gruppo, una ventina tra ragazze e ragazzi di ogni età dai dieci ai sedici anni, avanzò nel folto del bosco con l’anziano e il suo apprendista fino a un guado che attraversava un impetuoso corso d’acqua. Lì, come altre volte, il vecchio tutore prese una lunga fune che portava sempre appoggiata di traverso su una spalla, vi legò un masso a un’estremità, lo fece roteare velocemente sopra la testa e lo catapultò dall’altro lato del torrente, dove la corda si avvolse diverse volte intorno a un ramo. Il vecchio tirò l’altra estremità della fune per assicurarsi che quella non si sciogliesse, e disse alla più piccina del gruppo di raggiungere l’altra sponda. «Forza, Freyda, oggi tocca a te!» e si diresse alle spalle del gruppo con l’altro capo della fune, cercando qualcosa per assicurarla.

Freyda non se lo fece ripetere: in fin dei conti, essere la più leggera aveva anche i suoi vantaggi.

Per Reksa la scena era ormai consueta, sicché non distolse i propri occhi da Herda nemmeno per un istante: non si curò del proprio turno, avrebbe attraversato quando sarebbe toccato a lui. Ulrich, al contrario, era tutto preso; se la sua vocina non fosse stata ancora troppo infantile, avrebbe gridato lui tutte le raccomandazioni del caso: «Stork, aiuta Freyda! Passale la corda nella cintola! Tienila tesa senza farla dondolare!» Stork era il più alto tra i ragazzi: grande, forte, docile e sveglio come un vitello, e con un cuore altrettanto grande.

Gli altri ripassavano le raccomandazioni già udite tante volte, Freyda si aggrappò alla corda e, muovendosi con la perizia di un bruco sullo stelo di un ramo, giunse sull’altra sponda, raggiunse il capo della corda e lo assicurò al ramo in modo che non potesse sciogliersi; poi la fune venne abbassata e lei mise i piedi a terra. Strofinò le palme delle mani sulla vestina e attese che gli altri la seguissero.

Herda si fece avanti. Anche lei fece passare la fune nella cintola e cominciò la traversata. Reksa la seguì con lo sguardo, imbambolato: quando Herda si stringeva la cintola intorno alla vita, poteva intravederne le snelle caviglie che sembravano chiedergli di cantare affinché lei potesse danzare.

Herda si aggrappò alla fune e si tirò per diverse braccia sul corso d’acqua, e all’improvviso vi cadde con un rumoroso Splunf!

Solo tre persone reagirono all’istante: di qua, Ulrich gridò con voce squillante «Reksa, no!» ma era troppo tardi, perché istintivamente il ragazzo si era già tuffato nell’acqua rapida e gelata; dall’altro lato, Freyda afferrò la fune e cercò di tirarla sperando di soccorrere Herda, ma la bimba era troppo piccola per lottare contro la forza della corrente, e presto cominciò a piangere disperata.

Reksa non aveva capito cosa fosse accaduto: aveva visto la corda scivolare via e lui era riuscito a non lasciarsela sfuggire tra le mani gettandosi di scatto, ma ciò non gli aveva impedito di finire in acqua, né aveva aiutato Freyda, anzi! La bimba, dall’altro lato della corrente, subì lo strattone dovuto all’improvviso peso di Reksa sulla fune finendo per terra e facendosi male. Lo slancio di Reksa non aiutò neanche Herda: con la cintola annodata intorno alla corda, il peso del ragazzo la tirò a fondo, e lei cominciò a ingoiare acqua senza poter respirare.

Ulrich capì che i compagni da aiutare erano tre ma non si perse d’animo: diede uno spintone con tutta la propria forza a Stork e lo riscosse: «Muoviti, bestione! Dobbiamo fare una catena umana! Tu sarai il primo!»

Così incitati dal ragazzino, i suoi compagni poco a poco entrarono in acqua cercando di raggiungere Herda. La mole di Stork gli impediva di essere trascinato dalla corrente, ma il letto del torrente era maledettamente scivoloso, e l’acqua dannatamente fredda. Una lunga catena di ragazzi attraversò poco a poco l’aqua impetuosa cercando di raggiungere Herda, che non riemergeva. Reksa, più a valle, non mollava la corda per non essere trascinato chissà dove, ma riusciva a restare a galla.

Freyda si rialzò, ma poco poteva, a parte gridare di fare attenzione: con due persone attaccate alla fune, Herda ormai incosciente e Reksa sbattuto dalla corrente, le era impossibile tirarla di un solo pollice. Ulrich, che si era posto a metà della catena di ragazzini, le ordinò di guidare Stork da fuori l’acqua affinché quello non inciampasse su pietre o in fossi sommersi.

In un tempo che parve un’eternità, ma che in realtà fu molto breve, Stork raggiunse finalmente Herda e la tirò per la cintola fuori dall’acqua. Più giù, Reksa la vide incosciente e gli sembrò che il cuore gli esplodesse nel petto. «Herdaaa!» gridò allungando la mano, e perdendo la presa della fune. La corrente se lo portò via.

Ulrich gridò a tutti: «Lasciatelo! È andato! Pensiamo a Herda, ora!» La voce ne tradì il pianto a singhiozzo.

Stork era esausto: aveva affrontato la corrente, aveva pescato dall’acqua tumultuosa Herda e se l’era caricata su una spalla, aveva visto Reksa sparire trascinato dai flutti, ma aveva anche lui solo sedici anni; s’impietrì senza poter fare un altro passo.

«Se ti fermi ora, siamo spacciati!» cercò di riscuoterlo Ulrich. Non era quello il momento di scoraggiarsi, ma Stork era perso, senza più fiducia in sé stesso: sarebbero finiti tutti come Herda e Reksa.

«Dannato bestione! Usa la fune! La fune è ancora attaccata all’albero!» gridò ancora Ulrich, e finalmente Stork si accorse che la salvezza era, letteralmente, a un palmo di mano.

Non era mai stato una cima, Stork, ma mentre quel pacioso pachiderma cominciò a tirarsi fuori dall’acqua con la corda, e a trascinare con sé tutti gli amici, prese anche a considerare alcune stranezze: la fune non si era sciolta dal lato di Freyda, ma dal loro! E dov’erano, ora, l’anziano Wossama col fidato Nitur? Loro, forse, avrebbero potuto evitare che Reksa… No, non ci doveva pensare! Ora gli altri dipendevano da lui, aveva ragione Ulrich. Ma la fune… la fune aveva ceduto dov’erano l’anziano e il suo apprendista! Come mai?

Lentamente, tirando la fune, incoraggiato da tutti, Ulrich in testa, Stork raggiunse l’altra sponda del torrente; scaricò Herda sul prato che lambiva la riva fangosa e scoscesa.

«Adesso reggiti alla fune, e aiuta prima i piccoli!» gli ordinò Ulrich.

Che avrebbero fatto, senza di lui? Il piccoletto aveva ragione: i più giovani stavano soffrendo il freddo dell’acqua, e sarebbe stato più facile per loro uscirne col suo aiuto. Stork avvolse la fune intorno al proprio avambraccio destro e aspettò che i bambini, in fondo alla catena, la percorressero tutta fino a mettersi in salvo sulla riva. Quando Ulrich gli passò addosso, lo abbracciò, lo guardò negli occhi con ammirazione e lo ringraziò: «Sei stato davvero grande!» gli disse, e prese terra.

Mentre i ragazzi raggiungevano la riva uno a uno, la piccola Freyda li aiutava: lei, la più piccola di tutti. Finalmente toccò a Stork, che si rivoltò semplicemente sulla sponda, esausto e infreddolito, stendendosi a pancia in su. «Che cosa è successo!?» chiese, volendo qualcuno con cui prendersela.


Reksa aveva perso la presa della fune e la corrente l’aveva trascinato via, facendolo bere un po’ e sballottandolo pericolosamente. Forse Herda era annegata, a che pro opporsi al fato? Il figlio di capo si abbandonò alla violenza dei flutti.

Poi, all’improvviso, un braccio possente lo prese per la collottola e lo pescò fuori dall’acqua quasi fosse stato un gattino caduto in una tinozza. «Che cavolo combini, figlio-di-capo?» gli rimproverò una voce.

«Per gli spiriti!» imprecò ancora la voce. «Ma ti rendi conto di quanto sei stato idiota e imprudente?»

Mentre così gli diceva, l’uomo lo trascinava risalendo il corso d’acqua, ma Reksa non capiva davvero cosa stesse dicendo: Herda era annegata, perché quest’intruso l’aveva salvato? Scartò di lato per gettarsi di nuovo in acqua, tanto era sconvolto, ma lo stesso braccio di prima lo riafferrò e lo costrinse prepotentemente a riprendere la marcia.

«Che credi di fare, ancora? E tu saresti il figlio del capo? Sembri un pezzo di scemo!» lo rimproverò ancora, e Reksa non lo tollerò più, si voltò divincolandosi e riconobbe Nitur!

«Buono, Nitur!» parlò pacata un’altra voce più avanti. «Non vedi che non capisce niente, in questo momento?» Reksa si voltò di nuovo, e lì era Wossama, il saggio, appoggiato al suo bastone.

Il ragazzo corse in lacrime dall’anziano e cadde in ginocchio ai suoi piedi: «Wossama! Herda…»

«In piedi! In piedi, giovane Reksa!» cercò di rincuorarlo lo sciamano. «Andiamo e vediamo: nessuno sa davvero ciò che crede solo di aver visto. Porteremo l’aiuto che sarà possibile. Piangeremo se sarà il caso».


Wossama, Reksa e Nitur percorsero il breve tratto che li separava dal resto del gruppo preda del dubbio. Reksa seguiva il suo tutore vinto dalla venerabilità di quello, ma si sarebbe piuttosto gettato a terra per lasciarsi morire d’inedia. Herda, la sua Herda…

Nitur non sembrava molto allegro, o almeno il suo cipiglio non lasciava sperare nulla di buono, ma gli adulti sanno nascondere le proprie emozioni. Wossama era imperscrutabile, come sempre. A tratti sorrideva, addirittura? Una vaga preoccupazione ne adombrava l’espressione, ma nulla più. Dunque non temeva per cosa poteva essere accaduto ai ragazzi posti sotto le sue cure? Ma lui era Wossama il saggio, le cui capacità erano state dimostrate tante volte: chi avrebbe osato muovergli alcuna rimostranza? Così pensava Reksa nel proprio modo ancora infantile di vedere gli adulti e le loro relazioni.

Ma Wossama era preoccupato, molto, sebbene non lo desse a vedere. Se ne sarebbe accorto anche Reksa, se avesse valutato la rapidità dei loro passi in quel momento: l’anziano sapeva che non c’era un istante da perdere, e la sua età avanzata non era una scusa buona per attardarsi.

Raggiunsero il gruppo in breve tempo, e la loro comparsa rincuorò i ragazzi. Alcuni stavano stretti tra loro per riprendere calore dopo l’acqua gelata; altri, come Stork, stavano supini sul suolo umido, sfiniti; Ulrich, in piedi, urlava a quei pochi con abbastanza energia di provarle tutte per far rinvenire Herda, immobile. Freyda, che andava qua e là cercando di aiutare tutti, fu la prima a scorgere l’anziano che tornava. «Wossama!» esclamò, e gli corse incontro piangendo un pianto liberatore. Tutti si voltarono da quella parte.

La bimba lo raggiunse e gli si aggrappò alle gambe, nascondendo il viso tra le pieghe della tunica. «Wossama, non è colpa mia! La fune non si è sciolta!» Piangeva e pronunciava terrorizzata frasi smozzicate.

«Lo so! Lo so, piccola Freyda», la consolò il vecchio, accarezzandole i corti capelli corvini. «Sono io, che ho sciolto la corda!» confessò, per liberarla da quel peso. «Hai fatto bene, sei stata brava. Ma ora dimmi, state tutti bene?»

«Herda! È Herda!» singhiozzò la bambina.

«Nitur!» comandò l’anziano, e l’apprendista si fiondò dalla ragazza stesa per terra. Reksa gli si trovò accanto senza nemmeno rendersi conto di aver corso come mai prima in vita sua. S’inginocchò e si tenne da parte, ma non riusciva a togliere gli occhi di dosso alla fanciulla.

Herda era livida, di un pallore ancor più spaventoso perché in così forte contrasto con l’oro dei lunghi capelli. Nitur le premette ripetutamente con impeto l’addome e un fiotto d’acqua le uscì dalla bocca, poi un altro, poi più niente. L’uomo la schiaffeggiò, le premette il torace, cominciò a strofinarle vigorosamente tutto il corpo per farle riprendere calore, ma Herda non si ridestava. Wossama si adombrò.

Ulrich aveva seguito la scena studiando le espressioni: la preoccupazione, la costernazione, il dolore, la resa. Rifiutò quello che tutti sembravano considerare un verdetto ormai stabilito gridando forte a Reksa: «Finiscila! Non piangere, fai qualcosa!» Lo scosse con violenza.

«Che posso fare?» piangeva Reksa, inginocchiato. «Che posso fare?»

«Canta!» fu la sorprendente e perentoria risposta di Ulrich. «Cantale quella canzone che stavi componendo per lei!»

Reksa guardò il ragazzino istupidito dalla richiesta. “Canzone”… Lo sarebbe stata, forse, un giorno. Per ora erano solo due strofe tenute insieme da una rima approssimata. Avrebbe dovuto essere la cosa più bella che Reksa avesse mai immaginato, che Herda avesse mai udito, e ora non l’avrebbe mai più udita. Con gli occhi cercò nel viso di Ulrich una spiegazione per la sua richiesta, e lesse solo la preghiera Fai qualcosa, qualunque cosa! Reksa prese a cantare.

Ma il ritmo di quello che avrebbe dovuto essere un canto nuziale allegro, veniva rotto dai singhiozzi e dal pianto, perché Reksa non riusciva a vincere il dolore, e ora gli sembrava di aver immaginato quelle strofe solo per torturare sé stesso.

Ci scalderemo al sole del nostro dolce amor,
e il fuoco del tuo riso sarà per noi liquor
del quale poi berremo per darci compagnia
e quando sarem bianchi, invecchierò con te…

La strofa terminò in un acuto ma il ragazzo non riuscì a chiudere la canzone, perché le ultime parole avrebbe dovuto cantarle lei. Si gettò con la testa sul corpo esanime di Herda piangendo e singhiozzando, inconsolabile.

Nessuno ebbe il coraggio di avvicinarglisi, perché sapevano del sentimento che il giovane provava per l’amica. Reksa pianse senza ritegno, senza alcun segno di volersi separare dal corpo della ragazza.

Poi, come esitando, le dita affusolate della destra di Herda, impercettibilmente, si contrassero, presero a muoversi, raggiunsero poco a poco la chioma di Reksa e s’intrecciarono coi suoi capelli, e lei sussurrò, cantando.

… e io, con te.

Reksa alzò il capo e incrociò lo sguardo di lei, che aveva gli occhi aperti, e lo guardava.

«Perché piangi, Reksa?» gli disse.

E lui prese a ridere tra le lacrime: qualcosa gli era esploso dentro, una follia irrefrenabile. «Chi, io? Piangere?» le rispose, si asciugò gli occhi e tirò su col naso. «Dev’essere di gioia: non vedi che sto ridendo?» E davvero rideva e piangeva allo stesso tempo, come quando un forte acquazzone si scatena col sole.

Tutti accompagnarono il riso di Reksa con un urlo di giubilo: Ulrich abbracciò Reksa gettandosigli al collo, Freyda saltellava strattonando la cintura di Wossama, Stork aprì le braccia in pace con il mondo: davvero il suo sforzo non era stato invano. Nitur restò seduto in ginocchio, sollevato e finalmente stanco; il vecchio Wossama si appoggiò al proprio bastone come se avesse appena terminato un’estenuante camminata, e il suo sorriso diceva quanta gioia provasse in quel momento.

* * *

Reksa si svegliò persino più euforico del solito: non era più il “padrone del mondo” del giorno prima ma, anche alla mia età, col suo nuovo sé appena conosciuto, io mi sentirei proprio come lui. E poi Reksa aveva Herda, e ora Herda lo ricambiava.

Amori giovanili, sono così, pensò la madre di Reksa, ricordando la propria gioventù nel figlio, infine sbocciano.

Reksa scese nel fumoso ambiente cucina e vide le piccole uova di merlo nella scodella sul tavolo. Prese un uovo, ne ruppe la testa senza tanti complimenti e ne succhiò il contenuto. Prese un altro uovo.

«Allora. Che farete, oggi?» chiese la madre.

«Faremo scuola, mamma!» rispose lui, entusiasta. «Impareremo qualcosa, suppongo».

«“Qualcosa”…» commentò dubbiosa la madre. «Non è un po’ poco per Reksa, il figlio del capo?»

«No mamma, non è poco, alla scuola di Wossama», ribatté sicuro. «E poi… basta con questa storia del “figlio del capo”: bisogna avere qualità, per fare il capo, che nessuna scuola può insegnarti. La buona scuola non è quella che ti insegna a fare quello che non sei e non puoi essere, ma quella che ti insegna a essere ciò per cui sei nato».

La madre lo guardò sorpresa: che maturo era diventato il suo Reksa in un giorno solo! «Quindi non pensi male di Wossama per la prova di ieri!?»

«Male? E perché?» rispose il ragazzo. «È vero, ha azzardato tanto e la cosa stava per sfuggirgli di mano, ma soprattutto a causa mia: ci aveva insegnato tutti i modi di soccorrere, e quando più serviva io li ho dimenticati tutti, a cominciare dall’essere prudenti. Se le cose fossero finite male, potrei averla fatta annegare io, Herda! Perciò, perché dovrei pensar male di Wossama?»

«In passato», rispose la madre, «molti hanno chiesto al vecchio di essere più… “morbido”, e meno fantasioso, con le sue prove». Evidentemente, stava ricordando momenti spiacevoli per la loro piccola comunità, perché il suo tono di voce si era incupito.

«Pensavo che andassimo a scuola per imparare a cavarcela!» osservò Reksa. «Che senso avrebbe, altrimenti? Non saremo mai pronti al peggio, sperando che il peggio non debba mai venire! E non sarebbe un bene per il villaggio, se il peggio ci trovasse impreparati!»

Sembrava un ragionamento assennato, ma la madre volle saggiare la solidità di quelle parole e assicurarsi che il figlio non parlasse così solo per lo spavento vissuto il giorno prima. «E allora dimmi, se non tu, figlio di capo, chi sarà il capo?»

«Di questo, non devi preoccuparti!» rispose sicuro Reksa. «Il giovane Ulrich ha dimostrato tutte le qualità per essere un capo eccellente! Quando ieri…» Il ricordo si risvegliò in tutta la sua drammaticità e lo fece sentire di nuovo impotente e disperato. Ulrich l’aveva riscosso da quello stato! « Lui ha pensato alla sicurezza di tutti! Lui ha stabilito cosa fare e come farlo! Lui è stato pronto e attivo e non ha ceduto alla paura, ma ha guidato gli altri! Io non immagino chi potrebbe essere più adatto di lui!»

«E tu, allora? Che farai tu?» chiese la madre, come se avesse perso un punto d’orgoglio.

«Io sarò cantore!» la guardò negli occhi con un misto di emozioni tra la sicurezza di aver capito chi si è, il dubbio del non essere più accettato da una persona cara, e quello di non sapere esattamente cosa una scelta di vita comporti.

«Anche Wossama mi ha detto che potrei fare bene. Dice che ce l’ho dentro, anche se non lo vedo ancora. E quello che è successo con Herda…» Lui l’aveva risvegliata col solo canto quando tutto era perduto. Provare quella strada, nuova, nemmeno immaginata prima, era certo più stimolante che limitarsi a essere Reksa, figlio di capo.

«E sia!» gli rispose la madre. «Ma qualunque cosa tu faccia, falla bene, intesi?» Lo baciò sulla fronte e lo abbracciò, il suo ragazzone. «E salutami Herda. Dille di venirmi a trovare, qualche volta». Aveva uno strano sorriso ammiccante, mentre gli diceva così.

Era bello il mondo. Era bello il villaggio coi suoi abitanti, i suoi animali… Era bello il sole nel bel cielo fresco e azzurro, tra belle nuvole cotonate spinte dal vento profumato di primavera. Erano belli gli alberi al limitare del villaggio, ed era la prima volta da molto tempo che non sarebbe arrivato tardi.

Ed era bella oltre ogni dire Herda, che ora lo guardava, che Reksa cantasse o meno.