Una stella, l'idea
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Una stella, l'idea
La luna di cromo e le stelle minute luccicavano nel blu di Prussia, senza sosta né titubanza, e accecavano le magre nuvole a mezz’aria e il prato oscuro sottostante.
Al centro del prato, accerchiato dalle betulle, si levava tra i fili d’erba un loft piatto, lungo, dalla facciata candida.
Una facciata che gli ingannevoli bagliori notturni, tra le torce e i falò, tingevano a fasi alterne di giallo ocra o di rosa confetto.
Mi trovavo all’interno del locale, in una porzione semibuia incastonata tra drappeggi di velluto e statue di gesso. Accucciato tra i cuscini di un divano e una spalla nuda, provavo finalmente a rilassarmi, assopendo la vista.
“Molti, al posto mio, parlerebbero d’amore” esordii, riallacciandomi a una confessione che avevo interrotto bruscamente una settimana prima. “Ma io non scomodo l’amore perché…”
“Perché? L’amore è fatto per essere scomodato. L’amore scomoda.” Martina mascherò la spalla. Il suo sguardo si assestava sul tappeto e le sue pupille erano infrante.
Proseguì: “Se non è amore, non hai motivo di parlarne: tutto nasce da lì”.
“Diciamo che il mio pensiero potrebbe dissociarsi dal concetto diffuso, erroneo, al quale alludi.”
“Non capisco.”
Mi adoperai per semplificare la questione, complessa da vivere, oltreché da enunciare. Era imprescindibile sorvolare sullo scarto tra l’ideale e il pratico, tra il poetico e il prosaico. Tra il perfetto e l’imperfetto.
La fusione era impraticabile, dato il divario insanabile tra le loro origini diametrali.
Decisi di limitarmi all’imperfetto.
“Vedi, non sarebbe neppure il caso di parlare di innamoramento. Forse è solo una cotta, sì. Ma la penso di continuo. Mi compare all’improvviso, quando meno me lo aspetto. Se la tua attenzione è occupata da qualcosa o qualcuno, non passa giorno che tu non ti imbatta in un particolare che rimandi a quel qualcosa o a quel qualcuno.”
Guardai Martina, ma lei non mi guardava: i suoi occhi si ricomponevano sugli arabeschi del tappeto.
“Se fisso il soffitto, il suo viso si staglia sul bianco della tinta. Di sera occupa la mia fantasia e di notte invade i sogni.”
“E nella realtà?” domandò Martina asciutta. “Che cosa fa questa figura nella realtà?”
“Che cosa fa?” ripetei al solo scopo di guadagnare tempo e modulare una replica convincente. Feci una pausa retorica ed enfatica perché non sapevo in che modo rispondere.
“Sì, che cosa fa?”
“Non fa” dissi smettendo di accarezzarle la spalla, ora protetta da uno scialle. “A dire il vero, lei sa ben poco di me. Cioè non sa che io vorrei… lei sa ben poco.”
“Mi dici che lei non sa che ne sei innamorato?”
Fui tentato, nello slancio di un istante, di specificare che lei non sapeva niente del mio sentimento, quale che fosse. Poi mi ricordai di aver scelto la strada agevole dell’imperfetto e dissi: “Non ho mai parlato di innamoramento, te l’avevo spiegato. Nemmeno una cotta, probabilmente”.
“Va bene, non ne sei innamorato; ma mi stai dicendo che lei non sa che… che in lei c’è qualcosa che ti piace?”
Annuii con lentezza, cristallizzato sulle sue fattezze. Mi aveva catturato il trasporto partecipe che timbrava il suo tono.
Martina si spostò dunque di circa venti centimetri. Ruotò il capo verso di me; domandò dura: “Io la conosco?”
Cavalcai l’onda di un’onestà priva di filtri: “Sì, e la conosci bene, molto bene”.
Le sue gambe ballerine tartassavano il tappeto su cui si riversavano i chiarori scialbi dei faretti. Dopo aver atteso invano nuove domande, riguadagnai lo spazio che Martina aveva creato tra di noi e ripresi ad accarezzarle la spalla, liberandola a poco a poco dalla seta. Ogni tanto le scoccavo un bacio sonoro sul collo o sulla fronte o sul naso.
“Hai un buon profumo” dissi. “Stammi ancora più vicino.”
“Perché non mi baci sulla guancia?” esitò, vagabondando tra il dispiaciuto e l’attonito. Non mancai di cogliere tracce di ansia nella sua voce.
“Ora non me la sento.”
“Mai io non ti piaccio nemmeno un po’? Non mi vuoi un po’ di bene?”
“Sì, certo.” Le pizzicai il mento. “Potrei baciarti sulla guancia e poi continuare ad accarezzarti la guancia e a sfiorarti il collo.”
“No” disse ritraendosi. “Devi volerlo, devi desiderarmi, altrimenti non va bene.” Aggiunse, cambiando registro: “Hai detto che io so chi è: vai avanti con la descrizione”.
“È, di fatto, un’amica uguale a te. E ho paura.”
“Di che cosa?”
“Di rovinare l’amicizia.”
“Non rischi di rovinare niente. Per te non è più un’amica: tu lo sai.” Continuò dopo una pausa in cui parve riflettere: “Da quanto tempo vi conoscete?”
“Un anno; non è poco.”
“Un anno? E sei rimasto immobile fino a oggi? Che cosa conti di fare?”
“Non sono stato immobile. Ho pensato a come agire studiando le sue reazioni.”
“Le sue reazioni al tuo niente, immagino. Che senso ha pensare a come agire se a un certo punto non scatta l’azione? Ora, e ti ripeto ‘ora’, che cosa conti di fare?”
“Vorrei prendere le distanze, allargare e allungare il campo visivo.”
Martina arricciò il naso.
“Non allarghi né allunghi un bel niente. Allontani soltanto l’obiettivo. È così difficile da capire? Perdi in un colpo solo quel che resta dell’amicizia e ciò che potrebbe trasformarsi in… ‘amore’. Sì, lo so, non hai mai detto di essere innamorato, lo so.” Nel fervore che le divampava dentro, la voce era quasi un grido. Imprecò.
“Sei un maledetto, un maledetto perfezionista.” E un attimo dopo, impulsiva e feroce: “Sei un traditore”.
Tacqui per una sequenza di attimi che mi sembrò eterna.
“Non trattarmi male” la pregai infine, ancora scosso e ferito.
Il suo viso si scioglieva duttile sotto l’influsso dei faretti. Abbozzò un sorriso tenero. “Non ti ho mai trattato male. Dovrei cominciare ora?! Però mi fai imbestialire.”
“Quando?”
“Mi fai imbestialire quando mi pesi le parole. Non sono brava come te, ma anche io so in che modo si costruisce un discorso. E poi mi fai imbestialire perché mi baci e mi accarezzi e giochi con me e mi parli di un’altra donna che io so chi è e che è un’amica uguale a me. Ma lei ti suscita cose che io non ti suscito…”
Non terminò la frase. All’improvviso, ostinatamente muta, si girò dall’altra parte, nervosa e impermalita, per non mostrarmi il viso. Intravidi il suo profilo levigato dalle luci artificiali e la sua pelle era un campo di grano incendiato dal sole. I capelli erano scombinati dall’affluire e defluire delle pulsioni.
“Perché mi guardi? Che ho detto di sbagliato?” si stizzì. Da lei irradiava un intento di sfida.
“Allora?! Dimmelo: che c’è?”
“Niente. C’è che sei bella.”
Martina si sollevò dal divano ma solo dopo avermi impresso uno schiaffo che mi stordì.
“Niente fumo negli occhi, per favore” disse puntandomi contro l’indice. Lo sguardo grintoso smentiva quel ‘per favore’ che aveva innestato alla fine.
“Io ti voglio bene” balbettai massaggiandomi là dove lo schiaffo aveva colpito.
Il suo indice avviò una parabola discendente; lo sguardo grintoso e l’annessa minaccia lo seguirono a ruota. In Martina erano tornate a prevalere la fragilità restia e la ruvida dolcezza che la distinguevano.
“Anche io te ne voglio” ammise.
Mi feci vicino e le detti un bacio sulla guancia. Con trasporto consapevole le cercai un angolo della bocca e lì indugiai.
Martina allibì, toccando a oltranza il punto esatto dove le nostre intimità si erano congiunte.
“L’ho fatto deliberatamente” dissi.
“Non so di preciso che cosa significa in questo caso…”
“Significa che ti voglio bene. Il bacio è un segno di affetto, non è sesso. È tutt’altro.”
“Io non ho mai baciato un amico sulla bocca” obiettò. “Sulla bocca ho sempre baciato i miei uomini.”
“Il bacio va oltre.”
“E lei, quella che conosco, dove vorresti baciarla?”
“Forse sulla bocca, ma con lei vorrei anche assorbire la notte. Assorbire la notte vuol dire distendersi l’uno a fianco dell’altra e soffiare il giorno agli sgoccioli verso il lenzuolo trapunto di stelle e almanaccare e contare i desideri, finché non ci si addormenta in pace, e nella stessa pace ci si sveglia all’alba. Assorbire la notte vuol dire che le dita si fondono da quanto si compenetrano; e il sonno, tra la quiete del corpo e la leggerezza dell’anima e le stelle che sovrastano entrambe, appartiene sempre e solo a due persone: è un atto che non sempre si ha la fortuna di sperimentare, neppure in una vita intera.”
“E con me non ci sarà mai una notte insieme?” chiese triste. Con un braccio la cinsi alla vita e la ricondussi sul divano.
“Non preoccuparti per questo” la consolai. “Tu e io siamo forti insieme: concentrati su questo”.
“Parlami di lei” incalzò.
“Non più. Ora soffriresti, e io non voglio che accada.”
“Io non sono innamorata di te, io non soffrirò.”
“Tu vorresti dormire con me, e io invece, vorrei dormire con lei. Però potremmo uscire da qui e raggiungere gli altri sul prato, stringerci intorno a un falò, sotto la luna, il cielo e tutto il resto.”
Martina era pronta a dire la sua; ma fece appena in tempo a schiudere le labbra, che il suo sguardo si spinse in direzione di una zona imprecisata situata dietro di me.
Mi girai per intercettare l’oggetto che aveva attirato la sua attenzione fino a sottrarle ogni parola.
Cercai un oggetto ma trovai un soggetto.
Flessuoso, plastico, discinto, un corpo si snodava su un’ottomana. La testa piegata su un lato, molle di miele e liscia di avorio, incorniciata da una selvaggia cascata di riccioli castani, alterati da riverberi soffusi e cangianti, per effetto della sovrapposizione dei fasci emanati dai neon e dai faretti sparsi sulle pareti; le braccia sostenevano quei riccioli in atteggiamento di capricciosa esibizione; il seno armonico scalpitava nel busto solido, e, incandescente, palpitava sopra di esso, quasi a volersene sbarazzare; il ventre galleggiava oltre le proprie linee di forza, difendendo con gelosa austerità il suo crisma; le ginocchia allineate sul margine dell’ottomana proteggevano le gambe, sfalsate nella geometria scomposta di una postura languida.
Mentre osservavo il corpo, ebbi l’impressione che fosse calato il sipario sul blu di Prussia che incombeva oltre le immense vetrate del loft.
Martina rapì la mia mano. Che tremava. O fremeva.
“È lei. Lo so. Ora l’ho capito.”
Aveva ragione.
“È bella, vero?” chiesi conferma in un attimo di incanto. Poi, scontrandomi di nuovo con il concreto, capitolai: “Non mi interessa”.
“Perché?” Un’incredulità bambina viziava l’inflessione della voce di Martina.
“Perché ho deciso di prendere le distanze da lei” spiegai. “È venuto il momento di agire. Lei mi sta tentando, anche adesso, anche qui. Lo fa per confondermi. Quando io mi avvicino, lei si allontana, e viceversa.”
“E tu la assecondi.”
“Il cuore mi fa andare da lei; il cervello, dalla parte opposta.”
“Il cervello, di solito, congela, taglia le ali; il cervello ci frega” soggiunse pacata, ai limiti della rassegnazione. Si ridusse al silenzio, dispensandomi sguardi circospetti che non seppi decifrare.
Le protesi una mano e lei la accettò.
“Stammi accanto.”
I nostri profili si agganciavano per poi separarsi, mentre annegavamo tra le forme flessuose e plastiche a pochi metri da noi.
“Devo andare” dissi all’improvviso, in preda a un impulso ignoto. Mi tirai su dal divano. Martina lasciò la mia mano e portò alle labbra l’indice con cui prima mi aveva minacciato. Ne inumidì il polpastrello con la punta della lingua; quindi, con ricamata leggiadria, fece planare sulle mie labbra quel bacio trasversale.
Abbandonai Martina sul divano e mi diressi verso il corpo. A metà strada, mi voltai e le sussurrai: “Grazie”.
Ricevetti un sorriso indulgente che mi aprì l’universo. Quello stesso universo che si spalancò nel momento in cui il corpo, ormai vicinissimo, si animò di acqua e di fuoco, per manifestarsi alla mia vista abbagliata in una pioggia di fiamme.
“Sono qui” disse la donna prigioniera di quella carne. “Fammi tua.”
Quando cercai la sua testa per sospingerla in direzione della mia, la donna non oppose resistenza: con fare cedevole, stregato, pareva concedersi in toto al mio volere.
Ma la delusione si impadronì di lei quando una forza misteriosa trascinò la mia bocca non già a contatto con la sua, bensì, in due tempi, dentro le orbite dei suoi occhi lividi.
Entrambe furono come succhiate e inghiottite da un imbuto famelico.
‘La mia creatura’ pensai poco più tardi, recuperata la sobrietà. ‘La mia piccolina…’ E poi, completamente soggiogato da una dinamica di soma e di psiche, dissi ad alta voce: “La mia idea”.
Non mi capacitavo di ciò che avevo detto, né mi curai di provare a farlo in seguito. Avrei compreso soltanto molto dopo, una volta che si fossero succedute e sedimentate le aurore, di aver scavalcato lo scarto per approdare alla testa di ponte dell’ideale, del poetico. Del perfetto che, erroneamente, credevo di aver concettualizzato.
Dischiusi gli occhi lucidi e mi congedai dalla donna, i cui contorni avevano iniziato a frangersi in una dissolvenza sfocata. Quando le voltai le spalle, mi resi conto che Martina non era più nel loft: il divano sonnecchiava, ozioso e vuoto, nel silenzio delle luci artificiali.
Uscii e raggiunsi gli altri nel prato.
Alcuni, ilari, additavano la luna scattando un’istantanea ricordo ai loro sorrisi ingenui e increduli, a futura memoria; altri, commossi, assaggiavano le lacrime scrutando il blu di Prussia che si preparava a stemperarsi nel pastello del giorno nascente. Non era calato nessun sipario sopra il prato.
Le torce erano state smorzate, i falò erano stati soffocati, e la facciata del loft era rifiorita candida.
Martina, in disparte, raggomitolata in una felpa, vagheggiava la notte languida.
La sorpresi alle spalle e le carezzai la testa, che profumava di petali e muschio.
“Che cosa fai?” domandai.
“Non mi chiedi che cosa sogno? Da te mi sarei aspettata questo.”
“Giusto.”
“Sogno di distendermi con qualcuno al mio fianco e di soffiare la mattina e di contare i desideri.”
Diresse un dito in alto.
“L’ho sempre chiamato ‘cielo’ e invece è un lenzuolo trapunto di polvere. È indispensabile per addormentarsi e per svegliarsi in pace; eppure è così materiale, terreno, quotidiano.”
Si voltò e non sorrideva; ma i tratti erano sereni, limpidi.
“Tornerai da lei?”
“Penso di no” dissi palpando una margherita recisa dal prato.
“Se non torni da lei, vai dalla tua stella.”
“Vuoi anche tu una tenerezza sulla guancia?” le chiesi dimesso. “Magari ti sfioro un angolo della bocca, come prima…”
“No, non sfiorare niente. Tu vai dalla tua stella, se esiste ancora, se esiste già. Se esiste. Io cercherò la mia, chissà.” Mi fissò e il suo sguardo era tornato indecifrabile. “Poi, forse” proseguì. “Ci ritroveremo qui, con gli stessi tagli di luce e avremo nomi diversi e sfumature tenui negli occhi e nuove, tenere voci. Ma saremo sempre noi. Ci ritroveremo dentro il loft, sul nostro divano, e magari non ci sarà nessuna ottomana occupata; oppure ci ritroveremo su questo prato, davanti alla margherita che hai strappato e tu mi darai un bacio sulla guancia e sarai certo della donna con cui desidererai dormire, sognare, assorbire la notte.”
La guardai ammirato: la mia Martina era irriconoscibile.
La luna esaltava la sua pelle perlacea; mentre le pupille, che si erano infrante e ricomposte con esattezza, emanavano strani, cangianti bagliori, tra il giallo ocra e il rosa confetto.
Le parole defluivano dalla sua gola graffiata dal rasoio di troppe parole, sofferte e deluse, come dettate da un suggeritore fantasma che veleggiasse tra gli anfratti della sua coscienza segreta.
“Ti voglio bene” le dissi. “Te lo dico adesso che non so più chi sei, né cosa sei.”
“Non sono una tua amica? Lo hai detto tu, o mi sbaglio?” Poi, in un sussurro solenne: “Vai dalla tua stella, ora”.
“E tu?”
“Io sono qui, mentre piove la polvere.”
“Quale polvere?”
“La polvere che piove dall’alto: quella delle stelle. Ricade su di noi ed è l’unico modo possibile per avere un contatto con ciò che non appartiene al nostro mondo né alla nostra natura. Il perfetto si sbriciola per noi macchiandosi di una parte delle nostre meschinità.”
Non trovai parole per replicare. Mi incamminai, confuso e inquieto, verso il centro del prato.
A breve mi sarei rifugiato al riparo dai suoni e dai colori, e da lì, tra i rami di una betulla, avrei contemplato in serafica solitudine le stelle, austere e inaccessibili.
Avrei alzato lo sguardo spingendolo sopra le nuvole, fino al limite fisico della vista. Chissà se avrei scorto le stelle integre, che talvolta si modellano in figure antropomorfi, pronte a imporsi mediante un’impalpabilità effimera; oppure la loro polvere, pronta a precipitare al suolo, come sosteneva Martina, a uso e consumo degli uomini.
Poi avrei abbassato lo sguardo e non avrei saputo se e cosa fosse successo nel frattempo.
Guidato da uno stupore molesto che mi braccava dall’interno, un dubbio sciabolò nella mia mente, mentre arrancavo in direzione della betulla.
“L’amore è perfetto, poetico, ideale, oppure è imperfetto, prosaico, terreno? L’amore accomoda, oppure scomoda? L’amore è in un volto che occupa la fantasia e invade i sogni, oppure è in uno sguardo grintoso e in un indice puntato contro?”
Avevo ventiquattro anni, allora, e la mia concezione dei sentimenti, dall’infimo al sublime, era in divenire, nonostante non ne fossi consapevole.
Ero certo di essere approdato alla testa di ponte del perfetto, dopo che quel corpo femminile aveva rivelato la sua natura essenziale scomponendosi sull’ottomana, e non mi ero reso conto di aver messo piede in un deserto orfano di vita.
Ruotai la testa in ogni direzione: non c’erano più i ragazzi e le ragazze, né le torce e i falò, né il loft, né Martina e la sua felpa. Mi accosciai presso la betulla e assorbii il giorno nascente.
“L’amore è stella o polvere?”
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Commento: Una stella, l'idea
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è scritto benissimo, senza refusi, ma con parole e frasi talmente ricercate da risultare a volte addirittura fastidiose.
non coinvolge il lettore, almeno secondo il mio punto di vista, ed è davvero, come hanno scritto altri, troppo sofisticato, quasi fosse stato scritto per una élite.
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Ottima prosa, ricercata, a tratti poetica, tratteggia un quadro dai tratti sfumati, flou; chiaroscuri che ho apprezzato anche senza sentirmi particolarmente coinvolto, mi lascia comunque l’impressione, positiva, di un bell’esercizio di stile.
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In ogni caso il protagonista è un ragazzo, solo anagraficamente, mentre il suo pensiero è molto maturo, fin troppo forse, trasformandosi in pura razionalità, in grado di ideologgizare la sua amica, che per lui è molto altro, in donna perfetta per lui, precludendosi così la possibilità di vivere il momento e di abbandonarsi ai sentimenti scaturiti dal suo cuore.
Mi è piaicuto tantissimo.
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Il ventiquattrenne protagonista e narratore del racconto, pur vivendo la migliore stagione dell'età possibile per essere preda, nonché attore, degli atteggiamenti sopra descritti, pur essendo all’interno di un loft piatto, lungo, dalla facciata candida che gli ingannevoli bagliori notturni, tra le torce e i falò, tingono a fasi alterne di giallo ocra o di rosa confetto, pur trovandosi in una porzione semibuia incastonata tra drappeggi di velluto e statue di gesso – ambiente che i più attenti e navigati lettori di certo avranno riconosciuto come quello di un bordello o di un club per scambisti – pur colto in posizione accucciata tra i cuscini di un divano in prossimità di una spalla nuda più che disponibile a lasciarsi dolcemente e mollemente accarezzare, sembra assolutamente immune dai comportamenti naturali che dovrebbero condizionarlo e ispirarlo, trovando peraltro aiuto e incoraggiamento proprio nella compagna Martina che ne sembra addirittura complice e gli fa da colpevole sponda.
Come ho detto all’inizio, l’autore è eccezionalmente bravo nelle descrizioni e nei dialoghi, come pure nell’introspezione dell’animo maschile e femminile, perlomeno di quello dei personaggi che ci ha regalato in quest’occasione. Tuttavia – e questo è un auspicio assolutamente personale – mi piacerebbe vederlo all’opera là dove il genere umano fornisce i migliori risultati in termini di pensieri, parole, omissioni e puntualizzazioni, vale a dire negli innumerevoli momenti delle crisi di coppia conditi da reciproche recriminazioni e accuse, estese anche ai familiari, affini e amici di ambedue i partner: racconti che potrebbero anche finire tragicamente con un delitto, aggiungendo interesse alla narrazione. Oppure potrebbe deliziarci con la puntuale descrizione di litigi dovuti a futili motivi – intendo quelli di tutti i giorni – dove la storia assumerà indubbi contorni umoristici. Per finire questo necessariamente lungo commento: molto bravo e a risentirci.
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Re: Una stella, l'idea
La Gara 5 - A modo mio
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"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.