Il cane kamikaze
Il cane kamikaze
Le gambe anteriori erano ormai ridotte a due pezzetti di legno legati tra loro con un laccio di stoffa azzurra e appoggiate al montante della carrozzella, mentre il resto del corpo, sostenuto dalla struttura, lasciava penzolare le gambe posteriori, permettendole di sfiorare il terreno in modo leggero, come per dargli la sensazione di correre come un tempo. Il levriero aveva gli occhi pieni di una luce mesta, colma della tristezza cosciente della sua situazione.
Quando li incrociò chiese loro se avesse le gambe rotte o malate. E’ vecchio, gli rispose uno dei due. Il trio continuò veloce nel percorso e Giobbe fece appena in tempo a chiedere come si chiamasse. Hector, dissero prima di svoltare l’angolo del palazzo e scomparire dalla vista.
Sentì gli occhi inumidirsi nel vedere quel povero animale andare incontro al proprio destino. In quella luce spenta rivide la tristezza che aveva letto sul volto di suo padre nell’ultimo giorno di vita. Se lo ricordava ancora nei minimi particolari quello sguardo che diceva, so tutto, tante ne ho viste e ora so che tocca a me. La coscienza era viva, seppur annebbiata dalle forze che lo stavano abbandonando. Un moto di compassione lo assalì ripensando alle corse di quel levriero, a quell’innata capacità d’involarsi, a quell’aspetto regale che sicuramente aveva suscitato tanta ammirazione.
Con l’animo in pace rientrò verso casa.
Era quasi sera e appena varcato il cancello del palazzo, sentì un leggero latrato e un muovere frenetico di sassi. Si girò all’improvviso e vide Jack, il cane di una vicina, che lo stava raggiungendo. Si mise subito in guardia, infastidito e impaurito, e chiamò a gran voce la padrona.
L’animale, un pincher marroncino, era ormai a pochi passi e abbaiava iracondo. Giobbe rimase fermo per la paura, poi lentamente arretrò. Il cane con una mossa fulminea lo toccò sulla caviglia.
“Ahi, ahi. Franca!”
La donna arrivò lentamente.
“Che c’è?”
“Jack mi ha morso” le disse toccandosi la caviglia.
Un piccolo segno rosso era visibile e con un po’ di saliva cominciò a massaggiare la zona colpita.
“Ma va, non è niente, è un segno da nulla.”
“Un po’ brucia. Non è che mi trasmette la rabbia?”
“Giobbe stai tranquillo. Non ti ha neanche toccato.”
“Scusa Franca ma questo segno da dove arriva secondo te?”
“Non è colpa di Jack.”
Per Franca in principio era il verbo, poi era arrivato Jack che aveva stravolto la sua vita. Ormai passava le giornate a inondare i social di foto del suo cagnolino, scatenando un iradiddio di risposte con cuoricini e cartelli di LOVE.
“Franca siamo alle solite. Il tuo cane appena mi vede mi attacca. Curalo, lo sai che ho paura.”
La donna rimase in silenzio e annuì. Si guardarono un po’ straniti per qualche secondo poi presero la strada verso le proprie abitazioni.
Rientrato in casa, si disinfettò subito la ferita. Era una riga di tre centimetri e per lenire il bruciore mise una pomata per i piedi. Si ripromise di parlarne con l’amministratore, perché quel Jack cominciava a divenire aggressivo. Altre due persone erano state avvicinate pericolosamente e la piccola taglia non diminuiva certo la sua aggressività. In sovrappiù Franca aveva l’abitudine di lasciarlo girare indisturbato per tutto il condominio, mentre era al cellulare a postare foto e commenti.
Quella sera prima di addormentarsi il pensiero corse a Hector, a quella regalità naturale che lo distingueva anche nella sera della sua vita. E pensò anche a Jack, al fastidio che gli procurava e alla paura di trovarselo di fronte da qualche parte del condominio.
Tutti i cani sono uguali, pensò, ma alcuni sono più uguali degli altri.
Il giorno dopo, come ampiamente temuto, i loro destini s’incrociarono.
Giobbe era sceso in garage con un grosso scatolone pieno di documenti. Aprì la porta con il gomito sulla maniglia e con la spalla la spinse per entrare nel locale. Pose a terra lo scatolone e si voltò per chiudere la porta quando, improvvisamente, se lo trovò davanti. Uno sguardo di sorpresa intercorse tra i due. In un silenzio assoluto Jack digrignò i dentini e cominciò ad abbaiare. L’uomo d'istinto arretrò dando campo alla bestia, che subito avanzò gradualmente guadagnando terreno.
Mille pensieri passarono per la sua testa. Si arrestò impaurito con il muro alle spalle.
La taglia di Jack era piccola, e la forza di Giobbe avrebbe dovuto avere il sopravvento, ma la paura gli congelava il sangue. Tentò un contrattacco, una finta cui il cane abboccò, facendolo saltare e grugnire, ma ognuno poi ritornò sulle proprie posizioni.
Giobbe si sentiva un tantino stupido con quel cagnolino davanti che poco alla volta lo costringeva ad arretrare. Ripeté la finta e il cane abboccò di nuovo. La situazione era di stallo e le vie d’uscita erano veramente poche.
Il confronto non era più rimandabile.
Con lo sguardo annebbiato lo abboccò con un’altra finta e subito fece partire un gran destro di collo pieno. Un colpo perfetto sul muso, un destro di rara violenza, un impatto con i denti di Jack plastico e preciso. Jack sbandò notevolmente, e dopo un piccolo volo planò pesantemente a terra. I mugolii sommessi testimoniavano un dolore lancinante.
Terrorizzato, gli si avvicinò, e vide che aveva gli occhi socchiusi e il muso gonfio. Era silenziato, quasi senza respiro. Il colpo era stato perfetto.
La bestiaccia era immobile. Un crollo simile l’aveva visto solo in un incontro di pugilato di pesi mosca.
E ora? Che fare?
Giobbe si sedette contro il muro e si accese una sigaretta. La stupidità del mondo lo stava circondando. Sentì una lacrima scendere lungo la guancia mentre guardava il corpo di Jack. Provò compassione per lui, sdraiato aderente al terreno, con la testa riversa in maniera innaturale, vittima del suo destino.
E ora come poteva dirlo a Franca? Con quali parole doveva spiegarle i fatti, le sue paure, la faciloneria della sua padrona che gli permetteva di gironzolare tranquillamente, sempre incustodito e sempre senza museruola. L’arroganza che ci metteva, quando commentava che Jack non era pericoloso, che era lui a trasmettergli la propria ansia.
Mi sbatterebbe in faccia la tessera dell’Arcaplanet, con allegata la pubblicità di croccantini al vitello e poi aprirebbe il cellulare per farmi vedere le duemilatrecentosettantasette foto dell’ormai caro estinto, commentò Giobbe a voce alta con un groppo in gola.
Nel condominio regnava un silenzio assoluto. Un classico giorno feriale estivo, alle tre meno un quarto.
Fantasticò sul proseguimento di quella maledetta storia. E se da ciò iniziasse un’escalation di reazioni non più controllate? Quel poco di cronaca che aveva letto gli insegnava che tutto avveniva in un secondo, dove c’era il prima e il dopo.
E la versione dei fatti sarà complessa da ricostruire, come diceva Rousseau. Ci sarà la versione dell’assassino, la loro, la verità e quello che veramente è successo.
Chiedi un autografo all’assassino
Guarda il colpevole da vicino
E approfitta finché resta dov’è
Toccagli la gamba, fagli una domanda
Cattiva
Spietata
Ah, splendido Samuele Bersani, con la felpata veemenza dei grandi poeti
Cominciò a progettare una via d’uscita.
Inizialmente vide una possibile soluzione nell’imballarlo in uno scatolone e spedirlo al canile. Pesava troppo però, inoltre avrebbe dovuto comunicare i dati personali allo spedizioniere.
Era triste e sentiva in bocca l’amaro sapore della compassione per la sua esistenza.
Accese un’altra sigaretta mentre uno struscio leggero sibilò nel locale.
Jack stava muovendo la coda seguendo il ritmo di guaiti dolci e malinconici.
Era vivo! Stordito, molto rintronato, ma vivo.
Giobbe esultò. Fece due passi per abbracciarlo e accarezzarlo ma si fermò. Non si sa mai, Jack aveva sette vite e avrebbe potuto morderlo. Staccargli un dito, nonostante avesse il muso gonfio e un occhio storto.
Doveva trovare una soluzione, spostarlo da lì in modo che nessun sospetto lo avrebbe potuto sfiorare.
Non si perdette d’animo e lì, nell’ora più assolata del giorno, gli arrivò l’illuminazione. La soluzione finale.
Stravolto e in preda a una folle idea, prese una serie di barattoli di metallo che trovò su una mensola, fece un buco con un cacciavite sul fondo e li legò con una corda alla coda del cane. In preda a un panico misto a esaltazione, aprì il cancello sull’esterno, prese il cane con la sua coda di barattoli e lo portò fuori.
L’orario di metà pomeriggio lo favoriva, perché non c’era in giro anima viva.
Rientrò in garage e si lavò le mani.
Tornò fuori; Jack era sempre disteso e mugolante. Sembrava ubriaco. Il respiro era affannoso, ritmato da continui scatti epilettici e la coda si muoveva lenta, come una piccola biscia. Era stordito ma non era in pericolo di vita.
Prese un secchio, lo riempì di acqua tiepida per evitargli una sincope, e glielo rovesciò addosso. Una cascata d’acqua investì il cane. Una sferzata di energia attraversò il poveretto, una scarica di adrenalina percorse il midollo in una frazione di secondo, il nervo vago fibrillò impazzito fino a che la povera bestia si alzò e fece qualche passo.
Quella sorta di elettroshock dava i primi risultati, e i barattoli cominciarono a fare rumore.
Questa era una pratica che si utilizzava per disturbare i comizi nei primi anni cinquanta. Si prendeva un cane, gli si legava alla coda una serie di barattoli che, una volta mossi, producevano un rumore metallico. Il cane a questo punto partiva come un razzo, e più la ferraglia cozzava e più il cane correva. Attraversava la piazza, disturbando il comizio e scatenando l’ilarità dei presenti.
Così fece Giobbe, memore dei racconti di suo nonno. Jack sentì uno strano frastuono, rincoglionito dalla pedata e rinvigorito dalla secchiata, si stava risvegliando, e i suoni metallici dei barattoli ormai erano penetrati nelle orecchie e nel cervello. Si sentiva inseguito da un essere invisibile che con la lunga lingua di fuoco gli lambiva il didietro.
Il cane cominciò a correre, piano, poi più forte, più forte, sempre più forte con il clangore che lo inseguiva e in breve sparì.
Ritornato in casa, si sdraiò esausto sul letto, preparandosi un alibi, laddove ce ne fosse stato bisogno. Doveva chiudere gli occhi perché se li sentiva aperti sino all’inverosimile, una tipica reazione per i comportamenti da Arancia Meccanica.
Dopo una decina di minuti andò allo spioncino. Non vide nessuno. E nulla sentì provenire dalle scale. Nessuna voce concitata, nessuno scalpiccio.
Ridiscese in garage, dove incontrò Lucia con appresso la figlia Carla. Un saluto, due parole per tastare il terreno, ma con una certa sorpresa scoprì che tutto era tranquillo.
Tornò in casa e si chiuse il mondo alle spalle.
Al risveglio il giorno dopo cercò di immaginare cosa fosse successo a Jack. Non ne aveva la minima idea. Non sapeva se il nodo con i barattoli avesse retto nella corsa, né se il suo cuore fosse stato così forte da reggere a una maratona così esasperata per sfuggire al drago misterioso.
Uscì alla chetichella nella tranquillità condominiale.
La sera rientrò sempre guardingo. Vicino all’ascensore incontrò Lucrezia. Quel giorno Giobbe la guardò con gli occhi speranzosi di un sospettato in cerca di buone nuove.
“Hai sentito di Jack?” gli disse sogghignando la donna.
“No” le rispose esitante.
“È finito sotto una macchina. Correva come un disperato, e ha cercato di attraversare la statale a folle corsa. Il conducente ha frenato, ma non ha potuto evitare d’investirlo.”
“È... morto?”
Il cuore batteva all’impazzata, incontrollabile.
“Fortunatamente no, se l’è cavata con una forte botta sul posteriore ed è riuscito a salvarsi. Ora l’hanno portato dal veterinario” lo informò la donna.
“Meno male, ma che gli è preso?” chiese Giobbe con uno stranguglione.
“Non si sa, il guidatore ha detto che sembrava un kamikaze, come se si volesse suicidare. Un cane kamikaze.”
“Oh mio Dio, questa è bella, anche i cani hanno un’anima allora!” Rispose Giobbe, rianimato un po’ dalla sequenza d’informazioni e tenendo un contegno da onesto cittadino. Mentre rispondeva, pensava, e sperava, che nell’impatto avesse perso i barattoli legati alla coda.
Passarono un paio di giorni e il mondo taceva.
Giobbe sperava di farla franca, dopotutto nessuno lo aveva visto, e nessuno avrebbe potuto accusarlo. Se poi non fossero stati trovati i barattoli, il cerchio si sarebbe chiuso perfettamente. E, in fondo, era contento che la povera bestia avesse salvato la pellaccia.
Qualche giorno dopo, mentre usciva per comprare le sigarette, trovò Jack con Franca.
Gli stava facendo delle foto e subito notò la camminata zoppicante e ondivaga; evidentemente doveva ancora riassorbire la botta ricevuta. Era proprio messo male.
“Jaaack, che hai fatto? Mi hanno detto che ti volevi suicidare” gli fece una specie di festa Giobbe.
“Sì” gli rispose la donna guardandolo sospettosa “un gesto strano, per fortuna si è salvato povero il mio amore, voleva fare il cane kamikaze.”
Jack guardò Giobbe e tentò di abbaiare. Il cagnaccio era intelligente, e la memoria era ancora funzionante, nonostante i traumi fisici e psichici. Non era però il solito Jack, sembrava sconvolto, qualcosa in lui era cambiato. Il latrato era divenuto flebile e intermittente e lo sguardo dell’unico occhio sano, era assente, acquoso. Si arrestò, si strofinò impaurito e tremante, nascondendosi dietro le gambe della padrona.
Giobbe ringraziò l’uso della mascherina, dove poteva celare l’imbarazzo dell’attore dilettante.
“Adesso è diventato timido, poverino… vedrai che dimenticherai in fretta questa storia, amore mio” disse Franca con dolcezza.
Un sentimento puro di affetto e di giustizia si diffuse nel cuore di Giobbe. Ora Jack non era un cane più uguale degli altri, era rientrato nel gruppo, come tutti gli animali sin dai tempi dell'Arca di Noè. E Franca, chissà, magari avrebbe cominciato a controllarlo e a mettergli la museruola.
“Forza Jack, in gamba! Qualche volta ti porto in cantina a giocare a palla” sorrise Giobbe, allontanandosi con sguardo assassino.
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Il mio giudizio è sicuramente positivo.
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dà spunti per riflessioni e lascia spazio a considerazioni personali sul suo significato. Perché non ho dato il massimo dei voti? Per non considerarlo un punti d'arrivo ma un punto di partenza. Non ho ancora avuto tempo di leggere altro di tuo. Credo che lo farò. Il titolo riprende una parte del racconto: io sarei stata più sul generico. Ti ho dato solo 4.
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Qualche virgola in più, qua e la, non guasterebbe, si eviterebbero al lettore delle piccole maratone per arrivare alla fine delle frasi.
Veniamo alla storia.
Chissà quanti appassionati di cani si saranno scandalizzati davanti alla spietata violenza di questo Giobbe. In barba al suo nome, di pazienza ne aveva davvero poca. Era solo un gran fifone, oltretutto sadico al punto di condannare il povero cagnolino a una morte crudele, o una vita da invalido, come in effetti è successo.
Trattare il povero animale, tanto amato dalla sua padrona, con un minimo di dolcezza?
Non sia mai detto!
Il duro logorio della vita moderna non lascia spazio alla gentilezza: troppo complicato e impegnativo!
Veniamo alla critica letteraria sul contenuto.
L’incontro con il levriero Hector su una carrozzella e il ricordo del padre morente indirizzerebbe il lettore verso una vicenda totalmente diversa dall’effettivo nocciolo del racconto e non capisco quali finalità avesse.
Voleva forse farci intuire che anche Giobbe aveva un cuore? Non si sa, o almeno io non l’ho percepito.
In un racconto così lungo, invece, un bravo narratore ci avrebbe riferito qualche cosa in più sul nostro Giobbe.
Era sposato? Aveva figli?
Oppure era uno scapolo cinquantenne e passa, indurito da una vita in eterna competizione con il prossimo?
Tutto questo e molto altro manca in questo racconto, che rimane un buon esercizio di scrittura, e poco altro, mi dispiace.
Per la bravura come scrittore ti avrei dati volentieri un cinque, ma devo mediare con le tue doti di narratore, mi auguro qui soltanto inespresse, ma ben presenti nella tua cassetta degli attrezzi.
Ecco perché mi trovo in imbarazzo nell’assegnarti un misero 3. Meriteresti di più, lo so. Sarà per il prossimo racconto che spero non tarderà ad arrivare. Fammelo sapere. Ci conto.
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solo la formattazione del testo andrebbe rivista.
storia ben esposta, scorrevole. non afferro il rapporto tra Hector e il pincher, se devo essere sincero.
posso comprendere invece il comportamento del protagonista: quando si ha paura dei cani, che sia un pastore maremmano, un labrador o un chihuahua non cambia nulla.
non mi ha coinvolto più di tanto.
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Ho apprezzato molto la scelta di chiamare il cane Jack. Un nome d'uomo. Perchè è tutto lá. Lo stile mi è piaciuto, molto adatto al tema.
Non sono un amante delle citazionini nel testo, ma vedo che qui ci stanno bene. In alcuni momenti, forse, il ritmo cala, ma il racconto è riuscito a trattenermi.
Bello svolgimento, il finale ci sta tutto
Gara d'Estate 2021 Sorriso di Rondine
Sono anche su Inchiostrodiverso!
E su DifferentTales!
Illustrazioni: @novelle.vesperiane
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La Gara 5 - A modo mio
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A cura di Manuela.
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A cura di Giorgio Leone.
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"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
Di Mario Stallone
A cura di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.