La colonna Diamanti
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La colonna Diamanti
La guerra lontana si avvicinava sul piroscafo diretto a Massaua, sul finire di quell'agosto del trentacinque.
Ludovico e Manfredi ebbero tutto il tempo di riflettere su quel che li attendeva, e sul perché la possente Ananke li avesse spinti fino ai confini della sperduta terra di Punt.
Attraversarono lo stretto braccio di mare sovrastato dalle dune accecanti del Sinai scrutando curiosi i gesti concitati dei piloti arabi e le tuniche luminose di arcani cavalieri cammellati librarsi placide lungo i crinali come vele nelle acque agitate di un mare giallo zolfo, tra il ronzio fastidioso delle mosche e la calura opprimente del deserto.
Navigarono per i laghi Amari fino a Ismailia, scintillante di cupole bianche e azzurre, dove il canto melodioso dei muezzin fluiva dall'alto dei minareti, denso nell'aria come la corrente nel fiume.
E infine il Mar Rosso, annunziato dal colore purpureo della barriera corallina appena sotto il pelo verde del mare e dalla trasparenza del cielo, mentre l'oceano si frangeva sulla sabbia ocra in una eterna lotta senza sconfitti né vincitori.
Giunsero in Eritrea il ventotto di agosto del 1935. A tutti appariva pacifico come il destino dell'Italia in Africa Orientale presto si sarebbe compiuto. Sia a Manfredi quanto a Ludovico fu chiaro che tra le montagne dell'acrocoro etiopico i loro dubbi sarebbero presto svaniti o divenuti realtà.
Massaua era angusta quanto il suo porto, inadatto a un traffico d'emergenza: una città assopita e ipnotizzata dal sole onnipotente dell'equatore, con la sabbia finissima del deserto dei Dancali a spingersi ovunque sospinta da un monsone che non è il Monsone a rivivere nel cielo in sottili strisce di vermiglio, porpora e vermiglione.
Le operazioni di sbarco si protrassero per dei giorni: in cui le truppe furono costrette a restare a bordo ostaggio del caldo equatoriale e di lamiere arroventate. Parimenti la vita in colonia si rivelò languida, complice l'estate senza fine della latitudine zero, con giornate della stessa lunghezza a offrire l'idea dell'infinito, e l'attitudine della popolazione al riposo piuttosto che al lavoro. Unico svago le acque cristalline e le donne splendide, né arabe né negre, frutto di chissà quali antichi incroci tra la miriade di razze avvicendatesi in quei posti antichi quanto il tempo.
Ludovico e Manfredi, entrambi con il grado di centurione della Milizia, furono posti al comando di due diverse compagnie del medesimo battaglione: anelavano la guerra, ma la guerra per il momento si stava combattendo altrove, sui tavoli delle cancellerie di Roma, Parigi e Londra, tra assurdi scambi di favori, tra avances e placet "l'Abissinia in cambio dell'Africa del Nord-Ovest", tentativi di accordo e minacce di annessione.
«Vivere significa errare» rifletté Manfredi un giorno, alla fine della lettura del Tempo, citando Goethe. «Sarebbe più onesto attaccare subito senza timore delle conseguenze, piuttosto che rimanere mesi inerti a cercare un compromesso. Non si fanno le rivoluzioni con la diplomazia» sostenne.
«Forse il fascismo non è una vera rivoluzione» ammise Ludovico, quasi senza riflettere su ciò che diceva.
«La faremo diventare noi una vera rivoluzione. La rivoluzione necessita di sangue» aggiunse tetro Manfredi modulando il tono della voce.
Bighellonarono quanto rimaneva di quell'estate equatoriale per le sonnolente vie di Massaua prima e dell'Asmara dopo, avviliti dalla noia della vita di caserma, con l'unico diversivo di gridare ordini ai fieri ascari eritrei, gli antichi e valorosi Basci Bazuk di Sangiak Hassan. E ogni giorno navi colme di materiali continuavano a rovesciare sulle banchine il contenuto delle loro profonde viscere d'acciaio: camion, cannoni, antiaerea, munizioni, viveri, e uomini destinati a edificare l'Impero. Il sogno di grandezza pace e prosperità scomparso dal suolo italico dai tempi dell'imperatore filosofo sembrava destinato a divenire realtà e a passare per quello sperduto lembo di terra africana. Eppure, in quelle lunghe settimane d'attesa, Ludovico avvertì i segnali di una disillusione, lenta ma inarrestabile, iniziare a mutare i rapporti con Manfredi. Il quale da parte sua, quasi dopo aver messo piede sul suolo d'Africa, aveva cominciato a mostrare segni d'insofferenza per il modo comprensivo e condiscendente con cui gli italiani conducevano i loro affari nella colonia. Per la maniera inerte e viziata di concepire e trascorrere la vita. E quest'insofferenza presto si riversò anche su Ludovico. Il quale pareva aver assunto il ruolo del buon maestro, specie con quelli che amava definire "gli incolpevoli indigeni".
«Abbiamo il dovere di essere duri con loro, anzi d'esser feroci» gli rimproverò Manfredi una sera, al ritorno dal cinema Impero in cui avevano assistito insieme all'ennesima, mielosa e insipida, pellicola con il divo Amedeo Nazzari. «Non devi ringraziarli mai questi negri! Prendi ciò che è tuo per eredità di razza, per superiorità di pensiero, per diritto di civiltà, per supremazia di potenza» proruppe serio, con uno strano sorriso a illuminargli il volto tetro e due occhi scintillanti simili a stelle dell'inferno.
«Dobbiamo quindi comportarci come ladri?» Provò a scherzare Ludovico.
«Dobbiamo comportarci da veri uomini» lo corresse Manfredi. «Hai così velocemente dimenticato le nostre letture di Nietsche? Wille zur Macht! Non siamo qui per ripetere gli stessi errori commessi in patria, ma per costruire un Ordine Nuovo. Di più, un'umanità nuova, dove esseri umani finalmente liberi da ogni fede, da ogni scienza, da ogni verità, da ogni vincolo, dominano il mondo guidati unicamente dal filo di Ananke! E in questa putrida colonia, invece, non si fa altro che scimmiottare i vizi e le virtù della madrepatria. Anzi solo i vizi, la decadenza, in questo continuo vivere come circondati, costretti a un inutile assedio che condurrà tutti a una sicura disfatta.»
«Sai quanto ami Nietsche, e sai come la volontà di potenza sia in gran parte un'impostura postuma» gli obiettò Ludovico, nel tentativo di fuggire la sua furia e ricondurre la discussione su di un piano dialettico.
«Non è con la violenza che otterremo ciò che ci spetta. Il disegno del filosofo è contenuto nella Nascita della Tragedia Greca. È da lì necessario partire… »
Ma non ottenne risposta, solo un gesto nervoso della mano a evidenziare l'apertura di una crepa nella loro amicizia.
Nei giorni successivi Manfredi, forse seguendo la traccia dei suoi pensieri si distaccò dai suoi vecchi e nuovi commilitoni, in modo particolare da Ludovico, e prese a frequentare alcuni coloni stabilitisi fuori città. Con loro organizzò e condusse alcuni safari in Sudan. Tramite loro fece conoscenza con alcuni junker tedeschi in Eritrea ufficialmente in veste di turisti, ma in realtà da tutti conosciuti come osservatori del Reich.
Poi, il 3 ottobre del 1935, l'Esercito e la Milizia ricevettero l'ordine di portarsi sul confine etiopico e di varcarlo: l'invasione era iniziata.
La "23 Marzo" oltrepassò, in assetto da battaglia, il letto semi asciutto del Mereb: le sue tre legioni andarono a occupare alcune alture di là del fiume e nella loro marcia sotto il sole formidabile dell'equatore non incontrarono molta resistenza se non l'azione di qualche banda non organizzata di indigeni farli segno di alcuni colpi di fucile a distanza, sempre seguiti da una precipitosa fuga, protetta e agevolata dalla boscaglia rigogliosa tra le rocce brulle delle ambe.
Dopo averle a lungo desiderate, davanti ai loro occhi di europei si innalzavano le montagne verdi e sterminate dell'acrocoro etiopico. Nei lunghi mesi precedenti l'invasione avevano studiato in modo approfondito la conformazione geografica dell'Etiopia sulle carte militari e avevano quasi accarezzato con le dita le vette smisurate cingere e difendere il paese: quella formidabile muraglia alpina che lo separa dall'infuocato deserto della Dancalia e dall'Ogaden a oriente, dalla giungla equatoriale e dalle steppe sudanesi a occidente. In mezzo, tra il corso irruento del fiume Awash — la culla dell'umanità — e la catena degli altissimi picchi che stringe ai fianchi il gigantesco lago Tana (il padre generoso da cui scaturisce l'acqua trasparente del Nilo Azzurro), si erge, a duemila e più metri, uno straordinario altipiano punteggiato da numerose cime nevose sfioranti i cinquemila metri di altezza.
Ludovico trovava impossibile narrare, nelle lettere inviate a casa, la selvaggia bellezza di quel paese e la sua immensa eterogeneità. Descrisse le profonde spaccature della terra le quali, per la continua azione dell'acqua e del fuoco, erano diventate tanto ampie da trasformarsi in vere e proprie pianure, grandi come e più la val padana, sul cui fondo fertile scorrevano corsi d'acqua imponenti sufficienti ad alimentare i fiumi di mezza Africa. Descrisse le ambe, profondissimi canyon dai contorni impervi a impedire l'avanzare di ogni esercito, insieme al pericolo d'essere di continuo esposti ad agguati e imboscate, garantiti solo dalla paura dal nemico per la loro superiorità tecnologica.
«Non attaccano ancora» commentò deluso, dopo diversi giorni di pesante marcia, Ludovico.
Era buio e scaldatosi al fuoco, in quella fredda sera di fine novembre resa quasi luminosa dalle migliaia di astri dei due emisferi ad affollare il cielo terso, rifletté su quanti eserciti prima di allora avessero inutilmente percorso gli stessi sentieri nel tentativo d'invadere il paese. La guerra stava perdendo ai suoi occhi ogni fascino e non trovava più nulla di romantico o di eroico in ciò che stava facendo: solo polvere e fatica. E in quel momento, a migliaia di chilometri da casa, insieme a due ufficiali piemontesi come lui provenienti dalle fila dell'esercito e come lui spinti dalla Necessità di fare la loro parte nella costruzione dell'impero, non provava altro sentimento che la voglia di tornare a casa. Non nutriva altro desiderio se non quello di ritornare alla sua vita di sempre. Non conservava altra speranza se non quella di ritornare alla sua Rosa.
«Hanno paura» commentò il console Cairoli, già veterano della Cirenaica sotto Graziani, dove aveva assistito alla cattura di Omar al Mukhtar. «Non hanno mai visto un esercito moderno, forte di aerei e carri armati e hanno paura; aspettano in silenzio un nostro passo falso, che avanziamo troppo in fretta o allunghiamo le nostre linee di rifornimento. Aspettano il nostro addentrarci in questo immenso paese per poi saltarci addosso; ma dalla loro parte hanno soltanto il numero e la conoscenza del terreno. Non possono vincere in campo aperto, ma possono renderci la vita molto dura se vogliono… »
«Ma no, fra tre mesi saremo ad Addis Abeba» lo contraddisse il seniore Cavicchi, «credetemi, non riusciranno a sferrare un solo attacco degno di essere ricordato. Un esercito medievale nulla può contro un esercito moderno.»
Le previsioni si rivelarono esatte entrambe.
La "23 Marzo" avanzò per giorni in territorio nemico senza incontrare alcuna resistenza e, attraversata la regione di Enticho, muovendosi a ridosso del confine, si adoperò per fortificare una zona di sicurezza a ridosso della frontiera e un'eventuale linea di resistenza. Poi i genieri iniziarono la costruzione di una strada in grado di collegare la colonia con l'entroterra etiopico. Fu un'opera colossale che portò la camionabile ad attraversare la sella a est dell'Amba Adi K'eharis, superando un dislivello di oltre mille metri, mettendo per la prima volta nella storia in comunicazione la regione di Adua con quella di Adigrat, lungo la zona settentrionale della Rift Valley etiopica. Un'impresa tanto eroica quanto lunga, così da costare al maresciallo De Bono il comando della spedizione, accusato dal Buce di Piazza Venezia di essere troppo guardingo e di perder tempo a costruire piuttosto che a combattere.
Quindi il ventotto novembre, sotto un nuovo comando, la divisione iniziò il suo lento spostamento verso Hausien da dove, a ranghi serrati, il sei dicembre partì alla volta di Macallé. Quel nome risuonava ancora nelle orecchie degli italiani come un'onta da lavare, il luogo al di là del quale ogni altro luogo era terra incognita. E invece fu poco più d'una passeggiata: la storica capitale della regione del Tigré, nonché antica capitale dell'Etiopia sotto l'imperatore Johannes IV, venne conquistata quasi senza sparare un colpo, in poche ore. Anzi, a Macallé gli italiani vennero accolti dalla popolazione non come conquistatori, ma come dei liberatori, tra due ali di folla acclamante in un tripudio di gente festante e sinceramente contenta di vederli lì. E Ludovico sentì, per la prima volta da quando era giunto in Africa, che v'era qualcosa di reale da fare in quel lontano angolo di mondo, e il suo trovarsi in quel preciso posto poteva non essere un inutile gettone di presenza. Che gli abissini volevano gli italiani per ricevere da loro i doni di quel progresso e di quel benessere troppo a lungo loro negato da un'aristocrazia ferma all'alto medioevo. E trovò sollievo quando, di nuovo, i guerrieri si trasformarono in costruttori e le legioni nere, invece del combattimento, vennero impiegate nei lavori di sistemazione stradale e idrica di quella zona. Segno inequivocabile di come in quel paese vi fosse più bisogno di edificare che di distruggere. Ciò nonostante, giorno dopo giorno, divenne certo a tutti, compreso Ludovico, l'inevitabile avvicinarsi dello scontro con l'esercito del Negus, il quale prima o poi avrebbe rotto ogni indugio e affrontato quello italiano in campo aperto. E quel momento infatti arrivò, la sera del diciotto gennaio 1936. Dopo tre mesi di marce e di estenuanti scaramucce in terra nemica, l'esercito etiopico prese coraggio e iniziò a farsi sentire con radi e imprecisi tiri di artiglieria sulle linee di avanguardia italiane. Il console informò gli ufficiali che la divisione Sila si doveva concentrare su Macallè, mentre alla "23 Marzo" sarebbe toccato il compito di schierarsi nella piana del Gebat per impedire al nemico di attaccare in massa scendendo dall'Amba Aradam, nel tentativo di isolare l'esercito italiano dall'unica strada che lo collegava alla colonia.
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All'alba del venti gennaio 1936, sotto un diluvio monsonico che pareva un'imitazione di quello universale, Ludovico e Manfredi si trovavano al comando delle rispettive compagnie temporaneamente distaccate al comando della divisione "28 Ottobre".
Il duca di Pistoia Emanuele Filiberto di Savoia li aveva personalmente raccomandati al generale Somma per la loro audacia, pregandolo di dar loro l'occasione di stare in prima linea per ingaggiare il nemico. Ubbidendo questi li aveva aggregati ad alcuni battaglioni eritrei al comando del generale Diamanti. Così iniziarono la marcia verso Abbi Addi, lungo le rocche dell'Amba Debra, per ingaggiare le avanguardie etiopiche di Ras Kassà. Il ventuno gennaio Ludovico ricevette dal generale Diamanti l'ordine di rinforzare le difese e di preparare dei ripari asciutti per le mitragliatrici. Manfredi era entusiasta, ansioso di scontrarsi finalmente con il nemico, di ricevere il suo battesimo del fuoco. Anche Ludovico si sentiva meno ansioso del solito, pensando che uno scontro aperto avrebbe permesso a lui e a tutti i suoi compagni di capire da che parte tirasse il vento, di distinguere finalmente quale dei due contendenti meritasse la preda. L'esercito etiope comandato da Ras Kassà, cugino del Negus, ma uomo di chiesa più che di guerra, approfittò della notte senza luna per avvicinarsi non visto alle posizioni italiane, lanciando un poderoso attacco contro la linea del gruppo Diamanti in cui si trovavano Ludovico e Manfredi. L'assalto fu impressionante e selvaggio: decine di migliaia di uomini dalla pelle color dell'ebano, vestiti di semplici tuniche bianche o completamente nudi, spesso armati solo di un vecchio moschetto ad avancarica o addirittura della sola lancia e dello scudo di cuoio, si riversarono correndo a piedi nudi sulle linee italiane trincerate dietro mucchi di sassi e sabbia. Malgrado il fuoco continuo e dirompente delle mitragliatrici i guerrieri abissini riuscirono ad arrivare di slancio sulle postazioni italiane ed eritree trucidando i serventi con i loro lunghi coltelli ricurvi. Il combattimento, il massacro, continuò per l'intera mattinata, mentre anche le camice nere cadevano a decine travolte dalla massa urlante e senza forma degli abissini, che sembravano volere sfogare sugli italiani una rabbia vecchia di millenni. Ma l'organizzazione e soprattutto le armi fecero la differenza, se per ogni italiano a cadere dovevano immolarsi almeno cento abissini. Senza più acqua a spegnere la sete, ormai isolati dal resto della divisione, le camice nere ressero l'urto della marea avversaria. In mattinata in loro aiuto arrivò l'aviazione: dai trimotore Savoia Marchetti e dai Caproni iniziarono a esser scaricate tonnellate di iprite sugli abissini i quali, accecati e in preda alle convulsioni, si videro costretti a ritirarsi sulle posizioni iniziali.
«Se ne vanno» esultò Ludovico rivolgendosi ai suoi legionari «cessate il fuoco, cessate il fuoco» ordinò e si scoprì d'essere tutto un tremore, ricoperto di sangue e frammenti di carne umana.
Davanti ai suoi occhi smarriti, dilatati dall'adrenalina, si stendeva la valle inondata dal sangue di migliaia dei suoi figli.
«Non immaginavo potesse esser un tale massacro» urlò al tenente Raniero Della Valle, il quale insieme a lui aveva diretto il fuoco dell'unico pezzo da 65mm che aveva frantumato le ondate avversarie.
Mentre si guardavano intorno inorriditi, da lontano Ludovico vide arrivare Manfredi su di un cavallo nero seguito di corsa da due ascari scalzi che faticavano non poco dietro di lui.
«Chi è il traditore che ha dato l'ordine di cessare il fuoco» gesticolò fuori di sé, rivolto ai due ufficiali che lo osservavano dal basso.
«Sono stato io, Manfredi» provò a calmarlo Ludovico.
E afferrate per il muso le briglie del cavallo aggiunse: «Si stanno ritirando, ne abbiamo lasciati migliaia sul campo, non lo vedi… abbiamo vinto!»
«Sei pazzo» gemette Manfredi in preda all'ira. «Li dobbiamo sterminare, non siamo venuti qui per dispensare buoni propositi e opere di bene, ma per conquistare un impero. Chi non uccidiamo oggi ce lo troveremo in armi domani! Chi non fermiamo oggi massacrerà coloni domani. L'impero dev'essere solo italiano. A loro non rimane che scomparire dalla faccia della terra» tuonò, mentre agitava la pistola in aria.
Anche il giorno seguente fu inondato dal sangue e dal vomito che procura l'iprite in chi la respira. Il 204° Battaglione, in cui sia Ludovico che Manfredi comandavano la terza e la quinta compagnia, appoggiato dalla 135a batteria di artiglieria, l'unica armata con i pezzi da 65 millimetri, uscì dalle posizioni in cui il giorno precedente aveva sostenuto l'attacco di un'intera divisione etiope e scese nella valle del Gebat attaccando frontalmente il nemico per costringerlo a uscire dai suoi ripari e spazzare le postazioni antistanti. L'attacco, anche questa volta, fu cruento. Venne condotto allo scoperto sotto il tiro dell'avversario e causò numerose perdite tra le camice nere. Ma l'azione, supportata dall'artiglieria e dall'aviazione, non venne mai interrotta e alla fine l'intero battaglione scalzò gli abissini dalle posizioni che tenevano e le ultime resistenze vennero annientate alla baionetta. A metà pomeriggio gli obiettivi prefissati erano stati completamente raggiunti e l'esercito abissino era stato messo in fuga con perdite considerevoli.
I cadaveri giacevano ovunque nella valle del Gebat, divorati dalle mosche e dagli avvoltoi che scendevano con ampi giri dalle ambe coperte dalla boscaglia, per poi tuffarsi in mezzo a quel banchetto loro inaspettatamente offerto dalla crudeltà e dalla stupidità dell'uomo.
Ludovico si aggirava in mezzo a quella moltitudine di sofferenze per vedere se poteva soccorrere qualche ferito, ma ne trovò decine, centinaia, agonizzanti invocare pietà, acqua, o un ultimo gesto di misericordia mentre flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, color dello zafferano e del sangue, s'avventavano l'una dopo l'altra a battaglia.
Dietro suo ordine i legionari presero a soccorrere chi potevano e iniziarono a scavare delle fosse comuni con le ruspe per dare almeno una sepoltura alle vittime ed evitare il diffondersi di epidemie.
All'imbrunire di quel giorno terribile e memorabile, nel momento in cui il sole tramonta ma l'oscurità non ammanta ancora ogni cosa; nel momento in cui le creature della terra sembrano osservare in silenzio il prodigio della scomparsa della luce, l'eterno ritorno. In quel momento, Ludovico intravide in lontananza, nascosto dalle fronde di un albero dalle forme sconosciute, un uomo. Sganciò l'automatico della fondina e afferrò la Beretta 34 d'ordinanza con la mano destra. Si avvicinò lentamente, senza far rumore, come a voler sorprendere un ladro in casa.
«Che fai?» Domandò con voce sommessa, non appena fu così vicino da accorgersi chi aveva dinanzi.
«Ti avevo sentito arrivare, non credere» rispose Manfredi, e si voltò verso l'amico continuando il suo pasto sotto un grosso sasso riparato da un albero dalle fronde rade e vermiglie. «Non credere di avermi sorpreso. Non potresti mai… » aggiunse con un sorriso che mutò in un ghigno.
Aveva il viso imbrattato di sangue e masticava con calma, quasi ad assaporare ogni boccone mentre il sangue ancora caldo gli colava giù dal quel rictus spalancato come una scura voragine. Ai suoi piedi giaceva il cadavere di un ragazzo abissino girato sul dorso. Ludovico si accorse che il cadavere era stato mutilato in più punti. Vide nella destra di Manfredi il lungo coltello ricurvo usato dagli etiopi e nell'altra un brano di carne.
«Hai perso il senno e il tuo onore. Lascia quel ragazzo, per carità di Dio» gli intimò e irrigidì il braccio che gli puntava la Beretta carica addosso.
«Va' via» lo zittì Manfredi. «Tu sei un debole. Hai già perso questa guerra prima di cominciarla, come tutti gli altri tuoi commilitoni! Commetterai gli stessi errori già commessi in passato. Non bisogna avere pietà nella lotta per la supremazia. Il più debole viene sconfitto e il più forte vince. È sempre accaduto nella storia umana, nella storia della Terra, in quella dell'Universo. E così sarà… per sempre. Oggi ne abbiamo avuto la prova. Vincere significa dominare, prendere anche la carne del nemico se occorre, per nutrirsi del suo sangue e dare un senso alla sua sconfitta. Siamo venuti per questo e io ti credevo diverso. Ma tu non sei come me: tu non hai capito nulla. Finché si è trattato soltanto di parole mi hai seguito; ma la natura non s'inganna. Sei quel che sei nato: figlio di tuo padre, figlio del tuo tempo e di quest'Italia indolente, arruffona e pressappochista: di più, sei un povero borghese pieno di buoni, falsi, sentimenti. Oggi abbiamo vinto, ma non abbiamo imparato nulla. Siamo stati forti, ma presto qualcuno lo sarà più di noi.»
«Ti sbagli» lo biasimò Ludovico, senza abbassare un sol attimo la semiautomatica. «Siamo venuti qui per portare la civiltà, per edificare un mondo migliore e rendere tali anche noi stessi insieme a questi poveri cristiani. Siamo venuti qui per portare il diritto e il progresso. La nostra vera conquista sarà la pace di Roma.»
«Sei solo un povero illuso» gli rinfacciò Manfredi.
E sfidando la canna della pistola avvicinò la lama del suo coltello ricurvo alla gola dell'amico.
«Siamo qui unicamente per portare la nostra forza e la nostra ingordigia, la nostra avidità, la nostra innata lussuria. Adoperiamo aerei e carri armati, cannoni e iprite per dei selvaggi armati a malapena di lance e spade. Dov'è l'onore del combattimento? Rispondimi? Dov'è la civiltà? Dov'è il diritto? O dormivi negli ultimi giorni? Noi portiamo soltanto la giustizia del più forte, il diritto di uccidere e di saccheggiare, la civiltà della violenza e dello stupro. La furbizia del ladro, le menzogne dell'assassino, la lascivia dello stupratore. Noi siamo qui per prenderci tutto senza chiedere il permesso. Siamo dei ladri, siamo aguzzini di un popolo innocente. Questa è l'unica verità. Una verità che fai finta di non vedere e di non capire, che tutti voi borghesi fate finta di ignorare o, peggio, nascondere dietro buoni propositi infarciti da parole gentili. Miserabile ipocrita! I nostri comandanti hanno usato i gas alla minima difficoltà, pur di non subire perdite: abbiamo violentato le donne, abbiamo divorato i loro uomini… »
«No, Manfredi» lo interruppe di slancio. «Tu hai stuprato e mangiato uomini! Io non sarò mai come te, hai ragione. Adesso lascia quel ragazzo» e lo allontanò con forza da sé per riprendere a minacciarlo con la pistola puntata dritta verso di lui.
«Altrimenti cosa farai? Vuoi denunciarmi al comando? Allontanerebbero te e non me: darebbero del pazzo a te e non a me: saresti un vigliacco tu e non io: saresti un infame tu non io. O forse mi vuoi uccidere? Spara, avanti, che aspetti? Ma se lo farai non saresti migliore di me e mi daresti ragione, perché assassineresti tuo fratello. Io sono tuo fratello, Ludovico» ribadì sereno, e allargò le braccia facendo cadere il coltello in terra, mentre si inginocchiava ai suoi piedi. «Che aspetti? Vieni a prendertelo il tuo negro a pezzi» lo incitò con rabbia.
E un colpo secco echeggiò nell'aria.
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Re: La colonna Diamanti
Dovresti limare una 50ina di battute, così è in regola
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Re: Commento
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Re: Commento
Ciao! Perdonami, ma credo che devi correggere il titolo. Deve essere semplicemente Commento. Altrimenti anche il tuo voto non è valido.Nuovoautore ha scritto: 03/04/2022, 21:25 Una pagina della nostra storia, poco edificante, stupendamente narrata. La descrizione dei luoghi, dei fatti storici, e infine i due protagonisti che vivono e assorbono in modo diametralmente opposto gli orrori della guerra; tutto mi è piaciuto del tuo racconto, che sarà pure lungo ma quando inizi a leggerlo non lo molli più e arrivi in fondo sin troppo in fretta. Bellissimo! Massimo dei voti. Ciao.
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Re: La colonna Diamanti
Mi piaceva riportare il brano di Calasso che ho dovuto omettere per poco spazio disponibile. Il Tempo come figlio della Necessità. Non aggiunge o toglie nulla al mio testo, è un omaggio al grande scrittore da poco scomparso.
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Re: La colonna Diamanti
Domenico, confesso che anch'io ho un debole per Conrad. L'ho letto e riletto, spinto forse dal mio amore per gli spazi marini e la frequentazione in gioventù di barche a vela e traversate. Sottovalutato, ritengo, e più profondo di quanto la vulgata comune non voglia.
La cronaca e la storia. Avevo la necessità di inquadrare il racconto in un contesto coerente e chi conosce come scrivo sa che sono un maniaco dei particolari. Credo che la maggior parte di chi lo leggerà abbia poca o nessuna dimestichezza con le vicende belliche di quel periodo per non dire di quel paese e quindi ho sentito la necessità di creare un minimo di contesto in cui poi far svolgere la storia; ma mi rendo conto che in un racconto di queste dimensioni la delineazione del contesto finisca per risultare eccessivo. Ma, soprattutto, ho voluto far rivivere una pagina della nostra storia patria, l'episodio realmente accaduto della colonna Diamanti, non mi sono inventato nulla, è tutta cronaca. Da italiano e siciliano ritengo che il nostro passato sia di continuo oggetto di un processo di mistificazione. La storiografia repubblicana ha cancellato quanto avvenuto nel ventennio attraverso un espediente narrativo, che è quello della Repubblica nata dalla Resistenza. I nuovi italiani, attraverso la Resistenza al nazifascismo hanno potuto purgare le loro colpe in modo quasi indolore e hanno potuto guardare al presente, e al futuro, senza sensi di colpa. Ma la Repubblica non è nata dalla Resistenza quanto da una bruciante e motivata sconfitta morale e materiale. Gli italiani erano fascisti per la maggior parte e a migliaia partirono per edificare l'Impero come dopo per la guerra in Spagna. Noi eravamo quelli che sganciavano l'iprite daglia aerei, erano quelli che bombardavano dall'alto un esercito medievale, quelli che hanno invaso saccheggiato e stuprato. Però tutti questi orrori e quelli successivi, come quelli precedenti (ricordo brevemente Omar al Mukhtar e le nefandezze di Graziani in Libia negli anni Venti), sono stati rimossi da un processo di autoassoluzione che ancora continua. Noi ci consideriamo infatti brava gente, viviamo in un bel paese, abbiamo il campionato più bello del mondo, costruiamo le macchine più affascinanti e costose, siamo il popolo più creativo, abbiamo il cibo migliore, il vino più straordinario. In una mai interrotta necessità dl evitare ogni forma di autocritica incensiamo noi stessi come popolo dell'eccellenza.
Però noi siciliani eravamo fascisti fino al 9 luglio '43 e già ad agosto ci trovavamo tutti separatisti e gridavamo l'evviva a Andrea Finocchiaro Aprile. Salvo diventare democristiani fino al midollo qualche anno dopo.
Quanto a Nietzsche, un altro punto che hai ben colto. L'ultima volta che ho iniziato a parlare della Nascita della Tragedia Greca in un sito web sono stato fatto oggetto di un intenso fuoco di sbarramento, dunque sarò breve: la tua disamina è corretta, era proprio l'intento che mi proponevo. Chi è il vero carnefice tra Manfredi e Ludovico, che tra la borghesia furbetta e accaparratrice der Pasticciaccio e gli araldi truffaldini della Volontà di Potenza delle 120 giornate di Salò? Chi tra il socratico e il dionisiaco, con tutto quel che ne discende?
Non amo Socrate, è vero, ma il discorso a proposito finirebbe per essere troppo lungo. Ma ho cercato anche di contrapporre il Nietzsche della Nascita della Tragedia Greca con quello della Genealogia della Morale. Va beh, prima di rivelarmi per il piccolo borghese velleitario che sono mi taccio. Gli italiani alla fine sono sempre quelli de In nome del popolo italiano di Dino Risi.
Grazie per esserti soffermato con tanta cura. A presto.
Commento
Un saluto
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Re: La colonna Diamanti
Ciao Andr. Graziani era un macellaio di prim'ordine, è vero. Ma si sa, gli italiani sono tutti brava gente, baciati dal genio leonardesco, incapaci di compiere porcate. Quanto agli ipocriti, hai ragione, mi pare che anche in quest'occasione la nostra classe dirigente non abbia perso occasione per mostrarsi di gran spessore. Ipocriti che parlano di pace e poi armano sia gli uni che gli altri, l'uno direttamente e l'altro indirettamente. Senza contare che fanno a gara per dimostrarsi più realisti del re (americano) sbandierando terribili sanzioni (che mi pare facciano male solo a noi che siamo un paese esportatore) ed espulsioni, mentre potevano quanto meno provare ad abbassare i toni come hanno fatto Turchia o Ungheria cercando di intavolare delle trattative di pace. La medesima classa dirigente che ha permesso con grande lungimiranza negli ultimi sei anni l'aumento di un terzo delle importazioni di gas dalla Russia a cui dobbiamo la metà del nostro conto energetico. Quello che mi ha colpito di questa guerra in Ucraina è la rapidità e l'intensità delle devastazioni causate da ordigni sempre più potenti. È bastato un mese per distruggere ciò che si è costruito in millenni. Spaventoso. Senza contare che l'uso di armi nucleari non sia più considerato un tabù, se ne discute come di aspirine. Le profezie di Lenin sull'imperialismo dei capitalismi avanzati si stanno avverando. L'Europa prova a suicidarsi in ordine sparso mentre alla Germania viene consentito di riarmarsi. Per fortuna sono vecchio.
Un caro saluto
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Come dire: "bastan le parole" e queste sono ben usate e non feriscono, suggestionano e invitano la lettura.
- Marino Maiorino
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L'atmosfera che hai creato è immaginificamente ineccepibile, ma la retorica della narrazione ne affligge la lettura. In qualche caso, anche la scrittura (più giù ti risolvo quest'apparentemente inesistente dicotomia). Caterve di nomi, di date, di eventi, che contribuiscono a realizzare un senso di localizzazione spaziale e temporale, ma subito spostati per altre date e luoghi: in una serie di eventi concitati non ci solo nomi, ma solo eventi. Luoghi e date si confondono, si sovrappongono; solo il cronachista sarebbe capace di distinguere l'oggi dal domani e questo villaggio da quello: lo stupro rivoltante, il ragazzo ammazzato a sangue freddo sono eventi molto più rilevanti di qualunque posto e qualunque tempo, anzi, quel luogo e quel tempo esistono perché è lì e in quel tempo che sono avvenuti gli eventi che sono il nocciolo di qualunque narrazione.
Non sarei arrivato a tanta "prospettiva" se non avessi affrontato anch'io lo stesso deserto. Certo, la tua può essere una scelta deliberata, che a quel punto devo solo rispettare perché qui l'autore sei tu.
Nondimeno, sulla scrittura analizzo un tuo paragrafo come esempio di quanto la retorica abbia inficiato la godibilità della narrazione:
"All'imbrunire di quel giorno terribile e memorabile, nel momento in cui il sole tramonta ma l'oscurità non ammanta ancora ogni cosa; nel momento in cui le creature della terra sembrano osservare in silenzio il prodigio della scomparsa della luce, l'eterno ritorno. In quel momento, Ludovico intravide in lontananza, nascosto dalle fronde di un albero dalle forme sconosciute, un uomo."
"All'imbrunire di quel giorno terribile e memorabile" - usa termini (soprattutto "memorabile". "Memorabile" de che? Memorabile per la Patria! Per il cronachista dell'Istituto Luce!) che fanno chiaramente riferimento alla retorica fascista, e si contrappone in maniera stridente col mezzo paragrafo seguente "nel momento in cui il sole tramonta ma l'oscurità non ammanta ancora ogni cosa" che è un affondo nella poesia. Uso la parola "affondo" perché stai chiaramente "strofando": usi "momento" in tre frasi di seguito, e ti abbandoni a un idillio che ha dell'insano, soprattutto in considerazione della scena che stai per descrivere. "l'eterno ritorno"...
Vedi, è che ci sta, ci sta tutto che il tuo personaggio si abbandoni a godere questi momenti dopo una battaglia furibonda, ma allora ci si abbandona sul serio, mi prende il momento e ne fa un carme senza tempo!
Quando la scena torna sul reale "fronde di un albero dalle forme sconosciute" lo fa con scarsa grazia. Non mi riferisco al fatto che debba legare o meno con la scena che segue (hai spaccato la narrazione una volta, puoi tornare all'abominio con la stessa irruenza), ma che ti sei lasciato condurre per mano dalla scrittura lì dove non dovresti essere: a "sconosciute". "Esotiche", "estranee", "voluttuose", quellochettepare, ma non "sconosciute", altrimenti non è nemmeno un albero: è qualcosa che il personaggio non capisce che è. Ma è il prezzo da pagare per aver indugiato nell'ancora poetico "dalle forme". Ecco perché dico che ti sei lasciato trascinare per mano dalla scrittura: hai permesso che essa scrivesse per te e hai perso di vista il tuo personaggio.
Anche in questo caso può trattarsi di scelta deliberata, ma il mio sentire dice che se stai facendo vivere personaggi, se ripercorri la loro storia, sono loro che te la devono raccontare, non la tua scrittura.
Perciò, pur apprezzando moltissimo di questi spaccati della nostra storia, peraltro raccontati con dovizia di particolari frutto di un'evidente ricerca documentale, dal punto di vista letterario non riesco a godere appieno la vicenda. Non volermene.
Racconti alla Luce della Luna
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Re: La colonna Diamanti
Credevo fosse chiaro, questo doveva esser chiaro, ma evidentemente il messaggio non è arrivato.
Rimane poi la lettura filosofica del testo, tanto bene descritta da Domenico nella sua recensione. Là sapevo che in pochi sarebbero arrivati, ma non era certo il mio intento primario quello di raggiungere tutti.
Insomma l'uso del linguaggio è in questo testo volutamente artefatto al fine di illuminare lo iato tra ciò che è e ciò che appare, caro Marino.
Mi spiace non esser stato compreso.
- Marino Maiorino
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Re: La colonna Diamanti
di accademico, in quanto ti ho scritto c'è molto poco: la mia preparazione accademica nel campo della scrittura è pressoché nulla, scrivo a spanne e a gusto. Quando "critico", esprimo solo il mio personale gusto e credo che questo sia l'intendimento tra tutti, qui. Se sembro capace di usare certi termini è solo per spirito d'analisi che mi viene da un campo assai più freddo delle belle lettere, ed è probabile che l'impostazione purtroppo scorra qui. Ma vorrei che la prendessi in bene: non esprimo pareri dettati da una qualche forma di animosità, ma solo da quello che mi è sembrato dell'opera.
Ho colto molto di quello che hai voluto trasmettere, il messaggio È arrivato, la mia non era una critica al messaggio, ma un avvertimento a fare attenzione a come hai contrapposto la retorica alla realtà, al peso che hai dato a entrambe nella tua scrittura e alla cura a quella zona di transizione che nella tua opera è così spesso necessaria.
Il fatto che durante tutta la tua opera rimandi alla retorica del ventennio diventa assordante. Non ho criticato l'uso di quella retorica in sé, o della storiografia, ma il loro abuso. Personalmente (ancora una volta) non sento la necessità di utilizzare quest'artificio per tutta l'opera, perché una volta che hai fatto calare il lettore nel tempo e nella mentalità, basta Manfredi a ricordarci, nella sua grettezza, qual è la mentalità di certe deviazioni. E se penso che questi brani siano parte di un'opera più grande, la cosa non mi fa sentire meglio. Dici di voler illuminare lo iato tra ciò che era propaganda e ciò che era il sentire comune, benissimo, non contesto questo, ho però espresso la mia perplessità al riguardo del fatto che (ancora secondo il mio personalissimo metro) hai caricato troppo sul fronte della propaganda, al punto che spesso manca proprio il contraltare umano, con l'aggravante che la tua non è un'opera comica come "Fascisti su Marte", dove evidentemente TUTTA l'opera è una paraculata della retorica del ventennio.
Ti faccio un esempio concreto: il film "Le Vie del Signore Sono Finite". Manca la retorica? No, è lì, agghiacciante, e detta molti episodi nel film, ma resta spesso sullo sfondo, dimodoché possiamo apprezzare la vicenda dei protagonisti umani pur contestualizzando e contrapponendo.
E ad ogni modo, non fai un gran servizio alla tua scrittura pensando che alla lettura filosofica del tuo testo ci sarebbero arrivati in pochi: qual è il senso di esprimersi se "tanto, mi capiranno in pochi"? Di critiche feroci a certe storture ne abbiamo bisogno, soprattutto ora, e dovrebbero essere urlate alla luce del sole e nella pubblica piazza! Io credo che hai la grande possibilità (tu perché la scelta del tempo e del modo è tua) di dire qualcosa di forte e di dirlo a quanta più gente possibile.
Con sincero apprezzamento.
Racconti alla Luce della Luna
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Re: La colonna Diamanti
"E ad ogni modo, non fai un gran servizio alla tua scrittura pensando che alla lettura filosofica del tuo testo ci sarebbero arrivati in pochi: qual è il senso di esprimersi se "tanto, mi capiranno in pochi"?" mi permetto di riportare un tuo passaggio. Mi sono fatto ormai convinto che scrivere sia un lavoro solitario e autoreferenziale. Quella dello scrittore, a differenza delle altre pratiche mestieri professioni, è attività che non necessita di esami, permessi, licenze, controlli, verifiche, corsi da frequentare e superare, titoli di studio da esibire; ma è un luogo che vive totalmente nel sé e al di fuori del consorzio umano. Lo scrittore è un eremita, uno che preferisce scrivere piuttosto che vivere, star solo a rimuginare sulle proprie fantasie piuttosto che impiegare il proprio tempo a confrontarsi. Lo scrittore deve star solo per poter proiettare se stesso sulla carta. Pertanto lo scrittore è il re dei superbi e il suo isolamento un gesto di totale disprezzo per l'umanità, un atto di assoluta autoaffermazione che non necessita di un consenso esterno. Chi scrive rifugge condizioni e termini e ogni eterodirezione.
Non chiedermi quindi che servizio faccio a me stesso se penso che in pochi mi capirebbero. Anche se non mi capisse nessuno, se non mi leggesse nessuno, come poi per il novantanove per cento di ciò che scrivo accade, a me va benissimo.
Ricordo un mio conterraneo, Gesualdo Bufalino, il quale dovette essere pregato come un santo per anni da Sciascia e da Elvira Sellerio prima di ammettere che sì, aveva un romanzo nel cassetto.
Questo non significa che non abbia apprezzato il tuo intervento. Ti sono grato per esserti così a lungo fermato su quanto io ho scritto. E non pensare che non ami il confronto. Ma lo scrittore che è in me, quello non ha bisogno di qualcuno che gli indichi la via, perché nel momento in cui ascoltasse un qualunque consiglio sul come scrivere per farsi meglio leggere finirebbe per tradire se stesso.
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Re: La colonna Diamanti
mi è prezioso quanto osservi, e lo rispetto. Grazie a te per aver chiarito la tua impostazione, della quale terrò maggiore (e, spero, migliore) considerazione in futuro.
Io no, non riesco a vedermi così. Per me lo scrivere è mio, ma il pezzo di carta scritto è un messaggio sul quale dialogare a caldo, è qualcosa di vivo, come un figlio che vive di vita propria, che devo mettere in grado di affrontare il mondo. Evidentemente proietto sugli altri lo stesso atteggiamento, e dimentico che non dovrei.
Almeno due cose mi aiutano in quest'impostazione: il mio filone principale NON è autobiografico/personale, e personalmente AMO l'umanità, nonostante l'umanità
Rileggerti presto sarà un piacere.
Racconti alla Luce della Luna
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Sono tendenzialmente d'accordo con Maiorino anche se fatico un po' a capire quello che scrivono tutte e due.
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Re: La colonna Diamanti
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Commento a La colonna Diamanti
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Per ultimo, concordo in pieno sul fatto che lo scrittore debba scrivere in piena autonomia e sincerità.
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racconto scritto in modo impeccabile, come sempre. Ti ringrazio per avermi fatto conoscere questo evento della nostra storia, che in qualche modo ricorda altri due episodi altrettanto se non ancora più tragici, quali sono le battaglie di Adua e dell’Amba Alagi del secolo precedente. Ho trovato le descrizioni dell’ambiente particolarmente realistiche e coinvolgenti, credo che non sia un caso che tanti italiani, al di là degli aspetti propagandistici del tempo, fossero sinceramente affascinati da questi territori africani, in primis Amedeo duca d’Aosta, il futuro (rispetto al tempo del racconto) viceré d’Etiopia. Per certi versi ho trovato un parallelo tra quest’ultimo e il personaggio di Ludovico, quanto meno nell’intento di portare civiltà e progresso nella popolazione indigena. Questo al netto di tutte le contraddizioni ottimamente evidenziate nel racconto: credo che i buoni proponimenti dei singoli siano sempre apprezzabili, pur nella disumanità di tante, come questa, situazioni complessive… Ho trovato interessante anche il dibattito tra te e Marino: vorrei solo aggiungere che ritengo sia abbastanza normale, soprattutto nel caso di testi di una certa complessità e di un certo spessore come questo, che ci siano vari livelli di lettura, alcuni dei quali non verranno poi raggiunti da tutti i lettori (da me in primis…). Ma al di là di quello che si propone l’autore, intendo di rendere più o meno intellegibili i suoi messaggi, penso che sia poi il lettore a fare la differenza, nel senso che sarà quest’ultimo, in base al suo background culturale, al suo percorso di studi e di lavoro, alle sue esperienze in termini di letture, o anche semplicemente al suo grado di affinità con l’autore, a fare la differenza e a cogliere o meno i vari significati del testo.
Puntualizzo infine che nel racconto, almeno in base al mio giudizio, è stato mantenuto un giusto equilibrio tra cronaca storica, necessaria per contestualizzare la narrazione, e lo sviluppo della stessa.
Per me voto massimo.
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Re: La colonna Diamanti
Sono sicuro che tu non abbia avuto difficoltà ad inoltrarti nel racconto, a ogni livello. E sono sicuro che proprio tu possa comprendere quanto sia difficoltoso scrivere e descrivere in ambito storico, per non parlare della necessità di inquadrare il contesto geografico. Bisogna leggere decine di testi compresi i resoconti di chi vi sia stato per davvero lì per raggranellare materiale decente e sufficiente per scrivere un raccontino di venticinquemila caratteri. Le vicende della Colonna Diamanti non le ho inventate, naturalmente. Quella battaglia, in quelle forme e dimensioni e con quei reparti impegnati, avvenne realmente in quei luoghi e in quel momento. Con buona pace del flusso creativo e della forza dell'improvvisazione. Le divise, le armi, gli oggetti, le auto, i particolari dell'abbigliamento, i film proiettati, fino al linguaggio sono importanti quanto parole e pensieri quando si scrive di un contesto lontano nello spazio e nel tempo. Pensare che sia facile e immediato come descrivere quel che si è fatto ieri è fuorviante. E più risulta facile e scorrevole la lettura maggiore sarà stato per l'autore il tempo trascorso a studiare e a scrivere. Va beh, lasciamo perdere.
Per un mio racconto in libera lettura " I demoni, l'acciaio e le magnolie" ho rintracciato la descrizione delle divise dei Reali Carabinieri del 1910, il tipo di giberna e le armi di ordinanza, le sigarette in commercio e via discorrendo. Io non c'ero nel 1910 e scrivere a caso non mi è mai piaciuto.
Per La Medùse ho letto per intero il resoconto diario del medico di bordo Savigny, nell'unico testo disponibile, e cioè in lingua francese e via discorrendo.
Grazie ancora.
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L'attenzione, nella cornice del contesto storico, si focalizza sul rapporto fra Ludovico e Manfredi, entrambi uomini d'armi ma con sensibilità e approccio diversi alla guerra, che a me, per certi versi ha ricordato (perdona la mia mania di ricercare echi e analogie nelle mie letture) quello fra D'Hubert e Feraud de "Il duello: racconto militare" di Conrad e del notevole film di Ridley Scott.
Ottimo racconto, dicevo, non potrebbe essere da meno, vista la tua cura nella ricerca bibliografica e la tua "penna" da sapiente narratore.
https://chiacchieredistintivorb.blogspot.com/
Intervista su BraviAutori.it: https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =76&t=5384
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Ti faccio i miei complimenti, come con Babi yar hai dimostrato il tuo valore e la tua cultura.
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La spina infinita
"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
Di Mario Stallone
A cura di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
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Vedi ANTEPRIMA (215,03 KB scaricato 136 volte).
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A cura di Massimo Baglione.
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Gara di primavera 2024 - La cantautrice calva - e gli altri racconti
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