Schiaffi
Schiaffi
Alta una settantina di centimetri, aveva foglie lunghe a getto d’acqua e due tronchi rugosi, uno più piccolo, pieni d’increspature. Incuriosita dalla novità presi tutto il necessario (vanghetta, concime, liquido anti-insetti) e ogni giorno cominciai a dedicarle il mio tempo libero nel pulirla e accarezzarla.
La mattina, prima di andare a lavorare, la guardavo tutta orgogliosa, rapita da quei fusti lussureggianti.
Giorgio mi guardava sempre più stupito, sorridendo a volte sincero a volte un po’ imbarazzato.
A marzo del 2020 arrivò la pandemia. Tutti chiusi in casa, con mille paure di ammalarsi e di perdere il posto di lavoro. Penso sia stata una situazione che nessuno ha dimenticato, perché eravamo carcerati e naufraghi allo stesso tempo.
I primi giorni furono indimenticabili. Giorgio ed io avevamo finalmente tempo per noi, senza impegni di lavoro, senza quella socialità obbligata e un po’ noiosa. La regola diceva che poteva uscire solo una persona per nucleo familiare, gli dissi di occuparsi della spesa mentre io avrei cucinato. E vai di pizze fatte in casa, dolci su dolci, torte dalle ricette inventate che passavamo ai vicini di soppiatto, mascherati e inguantati.
Fu proprio in quel periodo che cominciai a curare la pianta di yucca come fosse una persona della famiglia.
Ogni mattina passavo un paio d’ore a pulire le foglie, a innaffiarla lentamente a goccia a goccia e a parlarle. Le raccontavo tutto ciò che mi passava per la testa, era lo stimolante per i pensieri di una reclusa. Giorgio continuava a guardarmi con interesse sempre meno crescente fina a che un giorno sboccò.
Martina, che sei impazzita? Tutto il giorno attaccata alla pianta, ormai cucini il minimo. Sono tre settimane che non facciamo più l’amore, ma ti rendi conto, mi disse.
Uff, risposi io, lasciami stare.
Le giornate proseguivano tutte uguali, poco dialogo, noia mortale. Con Xenia, così l’avevo chiamata, era un’altra cosa. Lei era capace di tirar fuori la parte migliore di me.
Passavano i giorni lenti come lumache mentre con Giorgio i rapporti erano sempre più tesi.
Un giorno lui uscì letteralmente dai gangheri, era completamente impazzito mentre io continuavo a guardarlo docile e sognante. Non capivo il motivo di tanto nervosismo. Fammi tornare bambina, pensavo, lasciami fantasticare, viviamo momenti così difficili, abbiamo bisogno di leggerezza, di qualcosa che c’ispiri fiducia nel futuro. Avevo voglia di rimanere sola, stare per i fatti miei a sognare le cose più disparate.
Fu la prima volta che vidi il suo istinto prevaricatore: pieno di rabbia repressa si avvicinò minaccioso e mi diede due schiaffi, uno di dritto e uno di man rovescio. Fu il primo a farmi più male, perché Giorgio era sempre stato gentile con me e quel primo schiaffo fu una sensazione sconvolgente. Non saprei come spiegare la sorpresa, lo stupore, la delusione.
La metto sul ballatoio vicino all’ascensore, urlò.
No, ti prego. Perché sei così? Gli risposi con la voce strozzata dalle lacrime.
Basta! Gridò paonazzo.
Prese la pianta e uscì dall’appartamento.
Io lo seguii disperata.
Una volta fuori sul pianerottolo vidi Giorgio saltare come un invasato tre gradini alla volta per scendere la mezza scala che dava sull’ascensore. Feci per fermarlo ma lui con uno strattone si liberò e mi cacciò indietro.
Avevo gli occhi inondati dalle lacrime quando lo vidi barcollare, annaspare come un vero naufrago alla ricerca di un illusorio filo di lana. Fece gli ultimi sei gradini a testa in giù. Sbatté la fronte contro il muro e subito un rivolo di sangue bagnò il pavimento. Xenia, non ho mai capito come fosse potuto accadere, era sana e salva. Aveva finito la sua corsa sul penultimo gradino e a parte un po’ di terriccio fuoriuscito dal vaso, non aveva subito conseguenze.
Sorrisi al pensiero e subito glielo dissi sottovoce. Aveva scampato un pericolo grosso come una casa. Poi mi avvicinai al povero Giorgio. Non si muoveva, non reagiva neanche agli scossoni più decisi. Il rivolo di sangue si era fermato e non sapendo cosa fare urlai a squarciagola.
Accorsero subito alcuni vicini, poi arrivò l’ambulanza che lo portò all’ospedale.
In seguito vennero a interrogarmi i Carabinieri. Mi dissero che dovevano solo eseguire un sopralluogo. Poi però cominciarono a tempestarmi di domande. Dicevano che non avevano ben compreso la dinamica della caduta.
A un certo punto mi portarono in caserma. Signora, è solo per tutelarla, le consigliamo di prendere un avvocato. Chiamai i genitori di Giorgio che gentilissimi ne trovarono uno.
L’ispettore era un uomo grande e grosso con strani baffi a manubrio. Come detto poco fa insisteva sulla dinamica della caduta. Inoltre continuava a farmi domande concernenti il livido che avevo sullo zigomo destro. Era dovuto al man rovescio di Giorgio, il secondo schiaffo. Le nocche della mano avevano incocciato l’osso facciate e la zona era diventata grigia. Mi faceva male premendo ma soprattutto sentivo tantissimo bruciare la pelle che aveva assorbito le mie lacrime. Io per il quieto vivere gli risposi che avevo urtato un’anta del bagno mentre lo pulivo a fondo.
Alle due di notte mi lasciarono andare, intimandomi di rimanere a disposizione e di non uscire dall’Italia.
Giorgio due giorni dopo fu seppellito nel cimitero principale. C’era tantissima gente e tutti furono carini. Mi compativano perché ero rimasta sola. Povera Martina, coraggio, hai ancora una vita davanti. Io piagnucolavo neanche tanto convinta perché tutta quell’umanità mi dava fastidio.
Passarono i giorni e non ricevetti nessuna comunicazione dell’ispettore. L’avvocato alla fine mi disse che il caso era stato archiviato, com’era giusto che fosse.
A quel punto pensai di lasciare Xenia sul pianerottolo in ricordo di Giorgio. Ogni grande fatto della storia è ricordato con un monumento e così feci io. Senza scendere in dettagli e in modo anonimo avevo il mio monumento vivente, istituito senza celebrazioni.
L’umanità però è cattiva e non sta mai ferma. E così una sera qualcuno per dispetto tranciò di netto tutte le foglie. Me ne accorsi al rientro dal cinema. Erano rimasti solo due tronchi nudi e tutto il verde lasciato a terra.
Dio mio, pensai, che scherzo bastardo.
Dalla scomparsa di Giorgio i rapporti con i vicini erano diminuiti progressivamente. Percepivo una certa freddezza, mi dava terribilmente sui nervi lo sguardo indagatore che tutti avevano nei miei confronti, neanche fossero l’ispettore con i baffi.
Cominciai a pensare di chi fosse quella mano stupida. Avevo due o tre sospetti, feci piccoli appostamenti per controllare i movimenti di alcune persone. Non so perché mi comportavo così, diciamo che l’ingiustizia subita, la blasfemia verso quello che era il mio monumento al ricordo, mi aveva scosso moltissimo.
Delusa e arrabbiata regalai le foglie a Ludmilla, che aveva un pollice verde gigantesco ed io mi accontentai dei due tronchi nudi di Yucca.
Gli orfani del quinto piano, li chiamai così. Non spostai nulla, levigai le protuberanze del tronco e aspettai per vedere se succedeva qualcosa.
Un giorno di luglio incrociai sulle scale l’inquilino del piano di sopra. Avevo l’embolo in posizione giusta, lo guardai dritto in quegli occhi enormi dietro lenti che sembravano cocci di bottiglia. Era uno dei miei sospettati.
“Bernardo, hai visto che belle le mie piante? Aspetto che ricrescano le foglie.”
L’uomo rimase sorpreso soprattutto perché mi ero sempre rivolta a lui con deferenza e dandogli del lei.
Mi guardò con aria strafottente e fece per passarmi davanti.
“Bernardo, non mi dici niente?” lo incalzai.
Si fermò e mi disse con voce grossolana.
“E cosa dovrei dirti?”
“Qualcuno ha avuto la mala intenzione di strappare le foglie. Ne sai qualcosa?”
Bernardo accusò il colpo, divenne rosso in viso e mi venne incontro. Stavo due gradini sotto la sua posizione. Mi guardò con cattiveria, ed io sostenni il suo sguardo con provocazione. Alzò velocemente la mano e fece partire uno schiaffo. Io ero pronta, fulminea mi spostai contro il muro mentre la mano di Bernardo volteggiava nell’aria. Privo di qualsiasi punto d’appoggio lo vidi avvitarsi, fare un gradino con il passo del gambero e capitombolare giù, sul pianerottolo sottostante. Un “Aahhh” strozzato terminò all’improvviso, quando la fronte di Bernardo colpì il muro. Un rivolo di sangue scese sul pavimento, davanti ai miei occhi sorpresissimi. Non si muoveva più.
Rimasi di sasso lo spazio di un paio di secondi poi rientrai veloce nell’appartamento, perché non avevo nessuna voglia di essere interrogata da quello strano ispettore con i baffi a manubrio.
Mi appoggiai alla porta, al sicuro da un mondo malato, passando le dita sul viso che ancora bruciava. Il mio pensiero, con il cuore che pompava a mille, corse a tutte le donne che nella storia avevano trovato uomini-bambini con l’abitudine di maneggiare coltelli o pistole, o usare mani sporche con cui strangolarle.
Io ero stata più fortunata, perché sulla mia strada avevo trovato individui che utilizzavano gli schiaffi per colpire e offendere, persone dall’abilità discutibile e dall’equilibrio precario.
Quella lacrima che scendeva mentre cercavo di riprendere fiato, era per tutte loro.
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La violenza domestica è un tema molto attuale, qui si risolve con un karma quasi istantaneo a danno dei carnefici, forse a causa dell’inettitudine degli stessi e delle armi che usano, gli schiaffi al posto delle pistole, come dici tu.
Racconto gradevole, con qualche incongruenza di forma (i dialoghi che passano dallo stile Saramago a quello consueto, con le virgolette), ma comunque apprezzabile.
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Come ha scritto Roberto i dialoghi sono però un problema. Non perché passano dallo stile Saramago (nei romanzi di Saramago - che amo alla follia - i discorsi diretti non sono accompagnati da cornici citanti e sono delimitatai soltanto da virgole... ma sempre discorsi diretti sono) a quello usuale, ma perché hai utilizzato dapprima il discorso indiretto (Martina, che sei impazzita, mi disse) e nel finale quello diretto ("Bernardo, non mi dici niente?"lo incalzai). Con un errore successivo nella cornice citante. Il cambio, in genere, non è consentito, ma è appunto un errore. Potevi benissimo continuare col discorso indiretto, andava benissimo e riportare i discorsi diretti in modo indiretto.
A rileggerti.
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Come già segnalato il passaggio dal discorso indiretto a quello diretto risulta una stortura. Andava bene sia uno che l'altro, ma uno solamente.
A presto.
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"Non facciamo l'amore da tre settimane!" si lamenta Giorgio... Mi ha ricordato un romanzo di fantascienza nel quale un'astronauta donna accudisce la pianta che le è nata dopo una missione nello spazio dove è rimasta impollinata (letteralmente) da un alieno vegetale. Il suo compagno umano ne è geloso e finisce male (per lui).
Lo stranimento negli alveari urbani, indipendentemente da cosa lo provochi, conduce a questo: nella mancanza del rapportarsi in maniera sana con altri esseri umani, si sostituiscono soggetti altrimenti impensabili (una pianta, in questo caso) a quelli che sono gli oggetti naturali delle nostre emozioni. La protagonista cura la pianta (il gatto) come il figlio che non ha ma Giorgio, che non sente suo quel "figlio", e certo non lo vede come un bambino, sfoga sul vegetale la propria gelosia, il proprio primitivo senso di possesso della donna.
Né la protagonista è del tutto "a posto", anzi!
Cosa rimprovero al racconto? Che nel suo svolgimento surrealista e allucinato possono nascondersi i malesseri di tante persone che in un condominio ci vivono, e allucinano come e peggio della protagonista.
Racconti alla Luce della Luna
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numero 33 “che” in 136 righe
propongo un esempio di come si possa evitare l’uso del che:
“diciamo che l’ingiustizia subita, la blasfemia verso quello che era il mio monumento al ricordo, mi aveva scosso moltissimo.”
- ma l’ingiustizia subita e la blasfemia verso quel mio monumento al ricordo, mi avevano scosso moltissimo.
“Una volta fuori sul pianerottolo vidi Giorgio saltare come un invasato tre gradini alla volta per scendere la mezza scala che dava sull’ascensore. Feci per fermarlo ma lui con uno strattone si liberò e mi cacciò indietro.”
- - - Concordo con le perplessità dell’ispettore. Lo scontro è avvenuto sulle scale, ma Giorgio deve essere già sceso di almeno nove scalini, altrimenti come poteva saltare come un invasato tre gradini alla volta? Poco credibile che lei sia riuscita comunque a raggiungerlo sulle medesime scale e poi essere cacciata indietro. A questo punto Giorgio cade, ne fa altri sei a testa in giù e si ferma sull’ultimo gradino. Ma quanto era lunga questa mezza scala? Fai bene a dire che non hai capito come si sia salvata Xenia, infatti è impossibile, a meno di far scendere in campo illogici poteri soprannaturali.
Concludendo: la faccenda non mi convince e non avrei archiviato il caso, ma, al posto dell’Ispettore, ti avrei sbattuta in galera con una bella accusa di omicidio.
Concordo con l’appunto relativo ai dialoghi di Namio Intile.
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Questo racconto contiene diversi possibili percorsi narrativi e alla fine, per me abbastanza inaspettata, tutto si risolve nella violenza di genere, con ben due morti ammazzati, ma uomini in questo caso.
Voto 3
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"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
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A cura di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.