Una fine ingloriosa
Una fine ingloriosa
Un paio d’ore dopo quel tormento quotidiano, Antonio girava lungo la strada che attraversava il paese, aveva bevuto tre caffè e attendeva il momento opportuno, intabarrato in un cappotto marrone abbastanza grande da coprirgli la giacca nera stazzonata e la cravatta gialla.
Verso le dieci vide Carolina, la figlia maggiore di Anna Mescuti, entrare in casa per farle la solita visita. La madre aveva da poco compiuto ottantatré anni ed era ancora in gamba. Aveva quel tipico sorriso delle signore anziane, un che di bonario e amorevole che le facevano amico tutto il vicinato. Le ragazzine del quartiere la chiamavano nonna Anna, e lei distribuiva a piene mani caramelle e dolci preparati con le sue mani, insomma un'atmosfera serena come nei film del dopoguerra. Era sempre vissuta in quella grande casa che aveva visto passare tre generazioni. Recentemente era stata ristrutturata, una ventata di fresco e di nuovo dopo la morte del marito.
Antonio aveva abitato in quella zona dell’alta Brianza tanti anni prima, e da un po’ di tempo tornava per fare qualche colpo.
Si travestiva con facilità. Il suo campionario di abbigliamento era composto di un paio di tute da lavoro e un completo molto vissuto giacca, pantalone e cravatta. La tecnica con il tempo si era affinata; si presentava nel bel mezzo del mattino nelle case delle sue vittime, spacciandosi per tecnico di una fantomatica società che gestiva l’energia elettrica. Oppure in giacca e cravatta provava a vendere degli improbabili computer.
Le vittime erano sempre anziane, e ci voleva ugualmente una certa tecnica per imbrogliarle. Parlantina veloce, sguardo fisso e richieste che cercavano sempre una risposta immediata. In gioventù, dopo aver visto offuscare la luce dei sogni e aver silenziato la coscienza, aveva fatto qualche colpo in banca, ma sette anni di prigione gli avevano fatto cambiare idea. Le rapine erano diminuite perché non giravano più contanti come un tempo, e i trucchi delle polizie erano diventati troppo difficili da evitare.
Allora era passato a questi imbrogli che fruttavano ancora bene. Il fatto di non avere un’arma, gli garantiva una pena minima nel caso qualcosa fosse andato storto, Ogni colpo, ne riusciva in media uno ogni sei tentativi, fruttava dai cinquecento ai mille euro. Né armi né violenza, il suo bazooka era la lingua. Veloce, avvolgente, amica, pronta a dare consigli su come difendersi dal freddo o dal caldo.
Le sue vittime le coccolava, prima di arrivare al plot dell’azione, chiedeva loro lo stato di salute, se la famiglia stesse bene, se i nipotini studiassero a scuola. Riusciva ad avere in poco più di cinque minuti la fiducia di questi anziani. Certo, pensava Antonio talvolta, questo tipo di truffa aveva qualcosa di meschino. Però lui doveva sbarcare il lunario, e si convinceva che le sue vittime fossero benestanti e che non avrebbero subito troppi danni da quelle piccole somme sottratte loro con l'inganno. Naturalmente degli aspetti psicologici che ne seguivano dopo ad Antonio non gliene fregava quasi nulla.
Quel giorno aveva già calcolato tutto. Una volta vista la figlia salire in macchina e allontanarsi, si avvicinò alla casa. Si sistemò la cravatta e la giacca, si ravviò i capelli. Estrasse dalla valigetta ventiquattrore il foglio che rappresentava la fattura da incassare e suonò il campanello.
Dopo circa due minuti Anna aprì la porta principale.
Faceva freddo.
“Buongiorno signora, sono Alessandro Manzoni. Vengo da parte della Ergas per farle vedere una fattura non ancora incassata” le disse a voce alta per farsi sentire meglio.
La donna lo guardò e aprì il cancello d’ingresso. Antonio entrò osservando circospetto la zona. Non vide nessuno e proseguì con passo più veloce.
“Sa che lei somiglia tanto a mio cugino Giorgio. La stessa altezza, lo stesso portamento, la stessa voce.”
Era tipico che le vittime riconoscessero qualcuno nella persona che avevano davanti. Era uno strano meccanismo psicologico che Antonio non aveva mai compreso appieno, ma che spesso si trovava ad affrontare. Facilitava il dialogo e la vicinanza, rendeva intimo ed eterno un incontro che sarebbe durato una decina di minuti al massimo.
“Oh bene signora Anna, una buona notizia. Lo vede spesso questo Giorgio?” chiese incuriosito.
“Ora molto meno, abbiamo la stessa età e tanti acciacchi, ma abbiamo compiuto tanti viaggi insieme“ le rispose Anna.
“E dov’eravate stati di bello?” insistette Antonio.
Era necessario far parlare la vittima, rimanere attenti e colpire nel momento di stasi della conversazione.
“Allora, mi faccia pensare. A Parigi, Londra, Berlino, New York e tante altre città, la lista sarebbe lunghissima.”
Antonio cominciò a pensare che sarebbe stata un osso duro. La signora era troppo ciarliera e lucida. Aveva voglia di parlare e introdurre l’argomento non sarebbe stato facile. Doveva passare subito all’azione, perché non poteva dilungarsi troppo nella conversazione.
“Ecco signora, le spiego il motivo della mia visita. Sono qui per incassare una fattura della Ergas, la società che eroga il gas a casa sua. Come sicuramente si sarà accorta, o glielo avrà detto sua figlia, l’ultima bolletta non è stata addebitata in banca. Poco male, non si preoccupi, non le è sospeso l’allacciamento, soprattutto con questo freddo! Sono cinquecentoottanta euro riguardanti il bimestre di ottobre e novembre. Meglio se mi paga in contanti, perché l’azienda non incassa assegni. Sa com’è, tutte le spese bancarie ci mangiano il guadagno” disse tutto di un fiato.
Le sottopose una fattura con riportato il suo nome, una serie di numeri, riquadri colorati e il totale in fondo ben evidenziato in rosso.
La signora lo guardò incuriosita.
“Come sempre Carolina non mi ha detto nulla. Le dico di tenermi al corrente di tutte le spese, sì mamma, non preoccuparti. Ecco invece cosa succede. Adesso la chiamo.”
Antonio diventò rosso in viso. La situazione era già oltre il limite giallo del pericolo.
“No signora” intervenne a precipizio “non la disturbi. Legga la fattura, è tutto chiaro.”
“Ah.” La donna divenne pensierosa, era rimasta ai ricordi del cugino e ora si ritrovava con un bel problema da risolvere. I debiti le avevano sempre fatto paura, tutto, anche i grandi lavori di manutenzione, li aveva sempre pagati subito, senza cambiali e scadenze che le avrebbero tolto il sonno.
“Il problema è che non tengo soldi in casa. Mi sono rimasti solo cento euro.”
Antonio intuì che aveva trovato un bel pollo da spennare ma era stato sfortunato. Maledì la figlia e disse alla signora.
“Facciamo così: prendo i cento euro e le lascio un biglietto che lei terrà come ricevuta di acconto. Settimana prossima passerò per il saldo. Intanto lei avrà parlato con sua figlia e potrà sistemare tutto. Non la chiami adesso per una cosa così semplice.”
Anna lo guardò stranita, accennò un andirivieni indeciso, poi gli sorrise, aprì il cassetto del tavolo da cucina e gli mise davanti i cento euro. Antonio prese un foglio dalla valigetta e le rilasciò una ricevuta. Per completare l’opera riportò anche il numero della fattura.
Mise i cento euro nel portafoglio e si apprestò a salutare la signora.
“E la fattura? Non la prende?”
“Oh, che sbadato. Grazie signora, è stata gentilissima. Ci vediamo settimana prossima.”
”Va bene signor Alessandro. Buon lavoro” gli disse accompagnandolo alla porta. Lui uscì a passo molto spedito, si girò un momento e vide che la signora lo salutava con la mano.
Fuori faceva freddo, il vapore dalla bocca usciva come fumo da una ciminiera. Antonio aveva studiato tutto nei minimi dettagli e l’azione era stata precisa e senza tentennamenti. Purtroppo, non tutte le ciambelle uscivano con il buco, si disse mentre saliva in macchina imprecando a voce alta. Poteva essere una grande giornata, e invece si era rivelata un mezzo fallimento. Ormai la piazza era diventata terra bruciata, e per i prossimi colpi avrebbe dovuto spostarsi di una cinquantina di chilometri. Aveva dei basisti che gli passavano le informazioni. Ma questo non era sufficiente, perché toccava a lui controllare la zona, seguire gli spostamenti dei parenti per poi apprestarsi a sferrare l’attacco. Ci voleva tempo e i rischi aumentavano. Forse anche quel tipo di truffe avevano i giorni contati.
Uscì dal paese e imboccò la tangenziale. Viaggiava a velocità di crociera rimuginando l’accaduto. La signora era sveglia e attiva, però aveva pagato senza il minimo dubbio. Si congratulò con se stesso per essere stato così convincente. Perlomeno aveva rispettato tutti i tempi e i modi dello schema prefissato.
Si fermò in un bar. Si sedette vicino all’entrata e nell’attesa dell’ordinazione prese a leggere il giornale. Politica e sport erano gli argomenti principali. Antonio era informatissimo, perché aveva già sentito una decina di giornali radio. In fondo a destra, nella cronaca locale, lesse di alcuni misteriosi personaggi che ipnotizzavano le persone anziane per poi derubarle. Lì per lì non fece caso che questi non erano altri che suoi colleghi. Fu il barista, arrivato con il panino su un piatto e un bicchiere di vino in mano, che glielo fece capire.
“Bastardi, come si fa ad avere il coraggio di approfittare degli anziani. Ne trovassi uno, lo appenderei subito a quell’albero.”
Antonio lo guardò, intimorito dalla mole possente del suo fisico e addentò il panino.
“È vero.”
Il barista continuò nella sua invettiva.
“Pensa amico, a tre chilometri da qui abitava un ometto di novant’anni. Leggeva il giornale, camminava, beveva ancora il suo bicchiere di vino, era una leggenda vivente. Un giorno due bastardi sono entrati in casa e con una scusa si sono fatti consegnare l’oro che era appartenuto a sua moglie defunta. Quando lui si è accorto di esser stato fregato è andato in crisi. I figli hanno cercato di distrarlo, ma lui da quel giorno non si è più ripreso. Tu cosa faresti a simili disgraziati?” gli domandò a voce alta.
Antonio trangugiò il boccone e bevve un sorso di vino. Si sentì quasi preso in causa.
“Hai ragione, sono cose che non si fanno.”
“Non si fanno? Io li appendo per i coglioni e poi do fuoco alla pianta!” urlò l’uomo.
Antonio era rosso in viso, posto peggiore non avrebbe potuto trovare. Si sentiva confuso, l’energia e la verità di quell’uomo lo mettevano con le spalle al muro. Finì in fretta il panino. Si alzò lentamente, sorrise e chiese il conto. Il barista era lanciato nella sua parabola, spiegava per filo e per segno ai pochi avventori, dove li avrebbe portati, cosa gli avrebbe detto e le torture che avrebbe inflitto.
“Se ne trovassi uno!” urlò ad Antonio nel porgergli lo scontrino. Antonio era terrorizzato, sembrava che l’uomo sapesse qualcosa sul suo conto. Pagò in fretta con i cento euro e scappò via, salutandolo frettolosamente.
Arrivò alla macchina con il cuore in gola. Tanta era la fretta di lasciare quel bar che si era dimenticato di bere il caffè.
Accese il motore per riscaldarsi e cominciò a fumare nervosamente. Le parole dell’uomo sembravano gli avessero aperto un pertugio nel petto e cominciava a respirare a fatica. Scese dalla macchina e camminò un po’. Stava bene, quell’ansia crescente creata dal dubbio che giaceva da tanto tempo, dormiente ma mai definitivamente scomparso, si era acquietata. Ripensò al vecchietto della storia e cominciò di nuovo a sentirsi male. Vomitò tutto quello che aveva velocemente mangiato in quel bar. Con la gola arsa si accese un’altra sigaretta. L‘ansia saliva forte sino a spezzargli il fiato. Non riusciva a riempire tutta la cassa toracica. Arrivato a un certo punto, non poteva più inspirare. Ripensò alla vecchietta della mattina. Anna, magari anche lei sarebbe caduta in depressione. Doveva assolutamente allontanarsi il più possibile dalla zona.
Ripartì sgommando. Tanta era la tensione, da non riuscire a controllare la macchina. Si sentiva solo, un verme che strisciava nel mondo a infettare le persone per bene. Un essere senza scheletro, mucillaginoso, che si attaccava agli anziani per portargli via quel poco che avevano, smidollandoli poco alla volta, con astuzie di quarta serie approfittando del loro essere indifesi.
La strada era dritta tra le montagne innevate. Accese la radio. La spense. Guidando si ricordò di un numero di telefono che in un giorno di crisi aveva chiamato. Era un ente dove c’erano operatori che ascoltavano depressi, malati e tante altre persone con problemi vari. Telefono amico o qualcosa di simile. Si fermò in una piazzola di emergenza, e guardò nel portafoglio. Sudava. Trovò il numero, lo aveva conservato per i giorni peggiori. E quello lo era. Era partito carico e sicuro, e ora si ritrovava sull’orlo di una crisi.
Si diresse verso l’ospedale più vicino. Lì avrebbe potuto comprare una tessera e chiamare dal telefono posto nell’atrio. In tutti gli ospedali ce n’era almeno uno, pensò. Parcheggiò nel piazzale. Erano le cinque del pomeriggio e la luce si era oscurata, attendendo la sera. Faceva freddo. Il termometro segnava meno sei.
Cinquanta chilometri più in là Carolina entrò in casa della madre.
“Mamma, perché non rispondi al telefono.”
“Uff, l’u minga sentì (non l’ho sentito).”
Carolina capì che la madre era emozionata. Ogni volta che accadeva qualcosa di insolito, un guasto, una visita improvvisa, un qualcosa che interveniva a interrompere la rigida quotidianità, sua madre cominciava a parlare in dialetto.
“E’ successo qualcosa?”
“E’ sta chi vun ch’el vuleva i danè d’una buleta. Vurèvi ciamàt, a la fin gu dà cent euro (E’ venuto uno che voleva i soldi di una bolletta. Volevo chiamarti ma alla fine gli ho dato cento euro.)”
“Mamma, dovevi chiamarmi. Era un truffatore. Ti ha preso qualcos’altro?”
“Ma no, el me parèva un disperà. Savevi no se fa, per mandal via ghi u dà. L’è ‘ndà cumè un can levrè. (Ma no, mi sembrava un disperato. Non sapevo cosa fare, per mandarlo via glieli ho dati. Se n’è andato via di corsa.)”
“Mamma, non farlo più, mi devi chiamare!” protestò Carolina.
Antonio entrò nell’ospedale. Il bar era ancora aperto. Prese un caffè e una tessera da venti euro, non voleva che la comunicazione s’interrompesse per mancanza di credito. Il verme dentro di lui cominciava a strisciare sempre più ambiguo. Ne sentiva l’acre odore, il suono delle piccole squame dentro il suo corpo era continuo e forte, copriva anche le voci delle persone che gli passavano accanto. Non aveva neanche la forza di telefonare dal cellulare, perché tutto doveva restare anonimo. Chiese alla ragazza dietro il bancone dove ci fosse un telefono a scheda. Gli rispose che era al quarto piano, nel pianerottolo antistante al reparto di medicina.
Prese l’ascensore insieme a tante persone che andavano a trovare i malati. Udiva i loro discorsi, le loro speranze. Alcuni erano più rassegnati, con lo sguardo sincero guardavano il led che riportava i numeri dei piani. Correva lento l’ascensore. Dentro qui sono il peggiore, pensò Antonio.
Finalmente arrivò a destinazione. Uscì e subito vide la sua ancora di salvezza. Si sedette su una sedia e fece il numero. Il verme si era fermato.
Dovette ritentare un paio di volte, perché trovava sempre occupato. Poi finalmente una voce femminile rispose.
“Buonasera, sono Anna.” La voce che risuonava nella cornetta era giovane e nel sentire il nome Antonio trasalì.
“Buonasera, mi chiamo Alessandro e volevo parlare un po’.”
“Buonasera Alessandro, com’è andata la giornata?” cominciò Anna per metterlo a suo agio.
“Non lo so, oggi è tutto terribile. Innanzitutto voglio dirle che mi sento un verme. Un essere spregevole che cammina la notte, strisciando radente i muri. E sento un verme che corre dentro di me, nelle budella, poi sale in gola e ridiscende nella pancia.”
“Alessandro, non si butti giù così.”
“Anna, quello che sto per dirle farà schifo anche a lei.”
“Mi dica, fuori il rospo e vedrà che starà meglio” lo incitò la voce.
“Anna, ha un bel timbro, la sento serena.”
“Alessandro, per favore, non tergiversi. Ci sono molte persone in coda. A me fa piacere parlare con lei, però dobbiamo seguire una linea.”
La voce ora si era indurita. Tante, troppe persone avevano scambiato quel numero per una chat erotica.
“Va bene. Devo dirle subito che mestiere faccio. Io sono un truffatore, della peggior specie.”
“In effetti la truffa è un furto senza scasso, un’opera dell’ingegno diabolico. Non è una bella cosa.”
“Ha ragione Anna. Io sono un truffatore seriale. Ho fatto tanti danni e da qualche tempo mi sono specializzato nel circonvenire gli anziani. Mi travesto da operaio con tanto di tuta o mi agghindo in giacca e cravatta, presentandomi come l’uomo di fiducia che deve riscuotere la bolletta non pagata. Non guardo in faccia a nessuno, povero, ricco, malfermo sulle gambe o nella testa. Sono diventato un professionista, freddo e duro come il ferro.”
La tecnica era la stessa, quello che aveva memorizzato nel cervello veniva espresso a parole con velocità doppia rispetto al normale.
Dall’altra parte ci fu un momento di silenzio. La voce non rispose per un minuto. Antonio attese paziente, felice di aver sparato tutte le sue cartucce. Si sentiva la coscienza libera, come se si fosse tolto un fardello insopportabile da portare.
“Amico, così non va bene. Hai chiamato per cercare una parola d’incoraggiamento, non per lavarti la coscienza. Sei un pezzo di merda, ecco quello che sei. Pensa solo se quei vecchietti fossero i tuoi genitori. Che cosa penseresti? Oltre al danno materiale hai sfregiato la loro esistenza. ”
Antonio ascoltò quella voce con supponenza, erano pensieri che già avevano percorso in lungo e in largo il suo cervello.
Rimase in silenzio.
“Smettila brutto verme. Vai a restituire la somma che hai estorto questa mattina, e chiedi scusa. E non farlo più. Mai più. Vaffanculo brutto stronzo.”
La voce interruppe la comunicazione.
Antonio si era immaginato Anna come una dolce ragazza che lo avrebbe ascoltato per fargli capire che sbagliava. La veemenza della sua reazione lo aveva lasciato interdetto. Ripose la cornetta e si appoggiò allo schienale della sedia con lo sguardo perso sulla porta d‘entrata della corsia.
Fuori era buio.
Rimase seduto tanto tempo. Vedeva la gente passare dinanzi a lui come ombre senza volto. Ripensò a quando era bambino, a sua zia che lo portava all’ospedale a trovare sua madre. Così piccolo, era impaurito dalle infermiere con il camice bianco e intontito dal gran caldo che regnava in quelle stanze. Da lì sua madre non ne sarebbe più uscita, sconfitta da un tumore al seno. Cominciarono a scendere delle lacrime sul suo volto, e lui non faceva nulla per fermarle. Erano una sorta di liberazione da tutta la tensione accumulata nell’ultima parte di quel pomeriggio da tregenda.
Uscì sul piazzale del parcheggio. Erano le nove di sera e il led della temperatura posto su un palo all’esterno riportava meno otto. Era un freddo inverno solitario. Si accese una sigaretta e si diresse verso la macchina. Stava per spegnere il mozzicone per terra, come sempre incurante dei tanti avvertimenti ecologici. La telefonata con Anna lo aveva messo sottosopra.
Aprì la portiera dell’auto e la mise in moto, regolando il riscaldamento al massimo, poi tornò verso l’atrio, dove trovò un portacenere. Le lacrime scendevano copiose lungo il viso. Ritornò verso la macchina. L’asfalto era ghiacciato. Camminava a piccoli passi. Fece per salire, quando un piede scivolò via. Perse il contatto con il terreno, sfiorò la portiera e cadde di schiena picchiando la nuca sul pavimento dell’auto. Fu un colpo fortissimo. Una frazione di secondo, dove avvertì il dolore e poi più nulla. Tentò di muovere le gambe per alzarsi, provò a usare le braccia per prendere il cellulare e chiamare aiuto.
Niente da fare, era completamente bloccato. Sentiva il freddo penetragli nelle ossa e sorrise amaramente. Anche il verme dentro di lui se n’era andato. La luna lo guardava dall’alto, vedendo un uomo immobile, con gli occhi sbarrati che fissavano il cielo stellato. Non passava nessuno. Il gelo ormai lo aveva avvolto in un abito bianco luccicante, mentre stava attraversando il confine del mondo dei morti.
La mattina successiva gli infermieri del primo turno lo ritrovarono nella medesima posizione. Ricoperto completamente di bianco e rigido come un manichino. Un rivolo di sangue era fuoriuscito dall’orecchio, e alcune gocce avevano tinto di rosso la superficie biancastra dell’asfalto. Chiamarono subito un medico. Questi accorse e accertò la morte per assideramento. Lo trasportarono all’obitorio, dove avrebbero svolto l’autopsia.
Tagliarono tutti i vestiti, sfilandoli da quel corpo rigido. Ora era nudo, come il verme che il giorno prima girava dentro il suo corpo.
In tasca, tra i vestiti umidi e spiegazzati, trovarono un foglio. Una fattura di euro cinquecentottanta, ben segnalata con inchiostro rosso.
Il suo triste testamento.
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Re: Una fine ingloriosa
"Nella realtà, però, questo fatto non accadeno mai: i ladri si comportano come tali e non si ridimono mai".
"Nella realtà, però, fatti simili non accadono: i ladri si comportano come tali e non si redimono mai".
Che poi: sicuro? Nessuna possibilità di cambiare? Ricordi Pulp Fiction?
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Diciamo comunque che si fa leggere, nonostante io veda una serie di problemi con la punteggiatura, almeno due errori di grammatica e qualche frase da ristrutturare proprio.
Il fatto che lo abbia comunque letto d'un fiato mi fa capire che sia avvincente il giusto e che, verosimiglianza o meno, meriti.
Voto: 4
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Con questo goal segnato forse io il racconto l'avrei chiuso là, senza pena, senza peccato e senza peccatore.
Nel finale hai invece cercato una sorta di giustizia divina vetero testamentaria. in una morte sfacciatamente casuale per essere veramente casuale. Forse sei più credente di me, che non credo affatto e sono sicuro che la giustizia dell'altro mondo sia solo un ecamotage per non farla mai nel nostro.
Un ottimo racconto.
Ciao, Athos, a rileggerti.
Re: Una fine ingloriosa
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Commento Una fine ingloriosa
Sarà scritto benissimo, ma 72 “che” sono troppi, anzi, a tratti sono una vera tempesta.
Esempio. “un lampo che il cuscino assorbiva per la notte successiva.” – trasformabile in un più leggibile – “un lampo assorbito dal cuscino per la notte successiva.”
Esempio: “delle signore anziane, un che di bonario e amorevole che le facevano amico tutto il vicinato” - quel tipico sorriso delle signore anziane, bonario e amorevole, capace di farle amico tutto il vicinato”
Ci sono molti altri passaggi con il “che” assai ravvicinato, mi limito quindi a un paio di casi.
“sorriso delle signore anziane, un "che" di bonario e amorevole "che" le facevano amico tutto il vicinato”
Se il soggetto è sorriso, direi “che le faceva”
“e un completo molto vissuto giacca, pantalone e cravatta.” – direi che manca un “con” -- e un completo molto vissuto, con giacca, pantalone e cravatta.
In generale ci sono vari passaggi in cui la punteggiatura, a mio parere, sarebbe da rivedere.
Ci sono anche, a mio parere, dei “perché” troppo ravvicinati.
Undici avverbi in …mente, in un paio di casi sono troppo ravvicinati.
Mi fermo qui.
Condivido tutti i commenti. Tra tutti, come al solito, quello di Namio.
Ottimo racconto? Potrebbe anche esserlo se tu seguissi gli ottimi consigli di Namio, e forse anche i miei, modestia a parte.
Voto sospeso.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
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