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Gennaro a scigna
Comodi eh! Case pulite, cameriera, televisore, telefonini, pasti caldi...
Dovreste provare a vivere nel quartiere più pericoloso e malfamato della città. Uno stramaledetto buco, dimenticato dal padreterno, rovente d’estate e gelato d’inverno, e poi ne riparliamo.
Mammà mi chiama Austiniello, il padre io non l’ho mai visto. Mammà dice che sta in America a faticare per noi. Balle! La verità è che non sa nemmeno lei chi l’ha messa incinta, e ho detto tutto!
Mammà è di Napoli, ma io sono nato qui a al nord, in una borgata di palazzoni scalcagnati, cassonetti strapieni e puzzolenti, abbandonati per mesi prima del loro ritiro, buche con brandelli d’asfalto intorno. Noi bambini siamo costretti a giocare in mezzo a catorci di macchine gibollate, subire violenze dai più grandi, e da genitori ubriaconi che sfogano su di noi le loro frustrazioni. Come cazzo credete che possiamo venir su?
O impariamo da subito a cavarcela da soli o crepiamo. Qui la regola è solo una: menare per non farsi menare. Oppure, se a uno mancano le cosiddette, meglio mettersi a leccare il culo al più stronzo del quartiere, che di solito è anche il più grosso e il più violento…
Se dopo aver fatto a botte per anni, uno pensa sia meglio farsi furbo, cosa gli resta da fare? Scegliere il più forte e ruffianarsi con lui, ammesso che uno vinca la concorrenza e lui decida di accettarlo.
Gennaro ‘a scigna’ mi piaceva. Da ragazzino era un mago nello scavalcare cancelli, arrampicarsi sui muri e infilarsi nelle abitazioni per rubare, e poi aveva la faccia giusta, quella del delinquente fatto e finito! E per me un vero delinquente ha l’occhio truce e la cicatrice di una coltellata sulla guancia. È sempre incazzato e pronto a menar le mani.
E in più Gennaro ripeteva sempre quel “facimm ambress prim ca me girino e pal”, che era il suo marchio di fabbrica.
«Vieni fuori che ti spacco il muso…» oppure: «Se mi freghi rischi grosso…» e via così. Ma il suo capolavoro è come faceva scappare negri e zingari. «Fila! Facimm ambress prim ca me girino e pal, che se ti prendo ti ammazzo…»
Gennaro era proprio un bastardo. Vigliacco e razzista di merda, proprio il tipo giusto da scegliere come eroe.
Lui e l’Umberto, il suo compagno di merende, erano i mastini del quartiere. Chiodo, Levi’s 501 e Kawasaki, non avevano rivali.
«Chi non è razzista alzi la mano, perdio. A chi non dà fastidio vedersi invasi da questi musi neri? Come campano? I più pecoroni si lasciano schiavizzare, e mi va anche bene, ma gli altri? Rubano, stuprano e sporcano!»
Tra me e loro due c’erano almeno dieci anni di differenza e dovetti subirne di prove prima di essere accettato.
Non ero alle prime armi. I furtarelli in chiesa erano la mia specialità. Avevo un metodo semplicissimo, tramandato da generazioni di ladruncoli. Mi procuravo un bastoncino di una certa lunghezza. A una delle estremità ci appiccicavo del vischio, lo calavo nella cassetta delle offerte e le banconote venivano su che era un piacere. Anche nei supermercati mi ero organizzato da tempo, con dei tasconi nascosti all’interno di un vecchio impermeabile. Roba piccola, ma di valore. Ovviamente sapevo individuare e staccare gli adesivi magnetici che avrebbero fatto suonare l’allarme. Per gli scippi alle vecchiette, quel degenerato di Gennaro utilizzò un paio di baldracche del quartiere che accettarono di farsi scippare per finta. Per i furti con scasso negli appartamenti dei facurtusi fuori quartiere, fu lui in prima persona a insegnarmi il mestiere. Abile come lui non diventai ma alla fine entrai nella banda.
Gennaro era uno di poche parole, bestemmie perlopiù. L’Umberto, invece, era una testa fina. Aveva una spiegazione per tutto. A chi gli domandava perché era giusto rubare, lui aveva sempre la risposta pronta:
«Il nostro mondo di merda è diviso in due. Da una parte ci stanno i ricchi che rubano ai poveri!»
«E quando i poveri sono rimasti in mutande?» chiedevo.
«Semplice! Comincia la guerra tra ricchi!»
«Dall’altro lato,» proseguiva, «ci stano i poveri che rubano ai ricchi, se ci riescono, ma spesso preferiscono rubare ai poveri. Sono molti ed è più facile farli fessi.»
L’Umberto sì che era un figo!
Ti avvinceva mentre parlava.
Amava completare i discorsi del Gennaro, aggiungendoci del suo.
Cazzi tuoi se non hai le palle per scegliere da quale parte stare. Sai come finisce? Ti rubano a destra e a sinistra e ti becchi pedate nel culo dagli uni e dagli altri.
Gran mostro di saggezza, l’Umberto.
Un peccato che dovesse campare in questo schifo di quartiere, altrimenti chissà. Io ci avrei visto un filosofo coi fiocchi.
Una sera, stufo della solita vita da ladro di polli, il Gennaro se ne uscì con una pensata delle sue.
«Qui ci dobbiamo trovare uno in gamba che ci faccia allargare gli affari. Sono stufo della solita roba da pezzenti!»
«Già! E come lo troviamo uno che faccia al caso nostro? Appendiamo i manifesti in piazza?» disse l’Umberto.
«Ma va là!» lo rimbrottò Gennaro. «Ce l’ho io l’elemento giusto. Si chiama Rino!»
«Rino? Ma sei matto? Avrà si e no sedici anni e sputa ancora latte quando parla.»
«Umberto, parli troppo come al solito! Mica sono scemo. Se ti dico che va bene mi devi credere. Domani si va al solito posto, gli metto in mano la mia 38, e vedrai che sa sparare meglio di te.»
«Rino, prendi questa 38 e fai vedere all’Umberto come sai sforacchiare quel bidone là in fondo. Facimm ambress prim ca me girino e pal.»
«Stai attento, Umberto, adesso ti stupisco.» disse Rino, piazzando i sei colpi nel bersaglio.
Troppa bravura non piacque a quel bastardo del Gennaro e dovette subito dimostrare di essere lui il più bravo. Da buona carogna scelse un bidone più grosso e meno male che non fallì, altrimenti per il povero Rino finiva a botte.
«Per tirare a un bidone siete tutti bravi, ma freddare un cristiano?» osò dire l’Umberto a Gennaro.
Gennaro, zuccone com’era, certo non sapeva come fare, ma glielo spiegò il ricettatore del quartiere.
«Mannaggia a Bubbà! E dove lo facciamo il colpo?» disse l’Umberto, «Qui le gioiellerie sono tutte in centro! Io conosco Tradate e andrei là!»
«Ok! Figlio ‘e ‘ntrocchia!» rispose Gennaro. «Si va in treno! La gioielleria la scelgo io!»
Due giorni dopo la Prealpina riportava la notizia della rapina.
Scene da film quelle vissute nel pomeriggio di ieri in pieno centro.
Tre banditi hanno assaltato e rapinato la gioielleria di Corso Bernacchi, si legge nel rapporto della Polizia. Uno di loro ha finto di essere un cliente qualsiasi e ha bussato alla porta. Appena dall'interno hanno aperto, sono spuntati due complici. I dipendenti e un cliente vero sono stati immobilizzati con delle fascette di plastica ai polsi e chiusi in uno stanzino, mentre i ladri hanno svuotato la cassaforte che sembra fosse aperta. Poi la fuga, con orologi e gioielli per 800 mila euro.
Il giornale parlava di orologi e gioielli, ma loro cosa se ne facevano? Mica potevano comprarsi i vestiti con quelli. Insomma, il lavoro non li aveva soddisfatti, e Gennaro dovette riparlare con il ricettatore. Semplice disse lui, io vi ritiro la roba e vi dò il denaro. Brutta faccenda. Solo cinquantamila euro, mannaggia ‘a miseria! Troppo poco per il rischio che avevano corso.
«La prossima sarà una banca, lì ci sono i contanti, non gli stramaledetti gioielli, e facciamo tutto per conto nostro…» disse Gennaro.
«Ho detto che faremo da soli, ma progetteremo il colpo come dio comanda,» continuò Gennaro, «ho studiato il piano con “Gigi mano lesta” che di queste cose se ne intende. In cambio, ha preteso il dieci per cento del bottino. Mannaggia a pucchiacca!»
«Per il giorno del colpo Gigi ha suggerito il prossimo giovedì, data di inizio mese, perché la sera prima arrivano i portavalori con il rifornimento di denaro contante, necessario a pagare le pensioni. Si sa, i pensionati vogliono vedere il colore dei soldi, e non sanno che farsene di un anonimo foglietto con il saldo del conto corrente.»
«Useremo un migliaio dei miseri cinquantamila per procurarci tre parrucche e una barba finta, più un vestito da donna per il nostro Rino. Per me, visto che il Covid ci è tornato per le palle, basterà una mascherina e la parrucca. Barba e parrucca anche per Umberto.»
«Questa volta cambiamo città,» decise Gennaro, «Saronno va benissimo.»
«Ho già controllato con “Gigi mano lesta” che la direttrice anticipa l’arrivo al mattino di un buon quarto d’ora, avremo dunque tutto il tempo per costringerla a farci entrare. Subito dopo giunge il capo cassiere con le chiavi della cassaforte e metà della combinazione. La seconda parte la conosce la direttrice. Aperto il forziere colmo di mazzette da centomila, legheremo con le fascette cassiere e direttrice, e li chiuderemo nei cessi. ci riempiremo le borse e ce la svigneremo. Le cassette di sicurezza non ci interessano, non vogliamo altri gioielli per farceli poi fregare in cambio di pochi spiccioli. Mannaggia ‘a culonna!»
«Austiniello, rimasto fuori, appenderà sulla porta un cartello con la scritta: OGGI LA FILIALE APRE ALLE NOVE, e se la batterà a gambe levate. Probabile che la cosa solleverà un certo subbuglio e dovremo agire lesti, prima che mi girino…
I primi a stupirsi per il cartello saranno i due impiegati arrivati nel frattempo, ma tranquilli, i bancari davanti alla prospettiva di potersi fiondare al bar di fronte non si faranno troppe domande. Una mezzoretta di intervallo extra non guasta mai.
I pensionati, invece, faranno capannello davanti alla porta, voleranno parole grosse, qualcuno griderà allo scandalo ma cosa potranno fare? Sospetti quel cartello non ne potrà suscitare. Molti, invece, inizieranno a maledire le banche, ma prima di telefonare alla Polizia passerà almeno un’ora, e noi ce ne saremo già andati da un pezzo, con le borse piene, passando dalla porta sul retro, dove ci aspetterà Umberto a motore acceso.»
«È un buon piano, Gennaro,» disse l’Umberto, «e per me si può fare. Tu avrai la tua Beretta, ma anch’io ne voglio una seconda. Metti che, mentre vi aspetto in macchina, un cretino si mette a trovar da ridire perché sto lì con il motore acceso, devo pur avere un’arma per fargli capire che si deve togliere dai coglioni.»
«Allora ne voglio una anch’io,» disse il Rino. «Devo tenere a bada cassiere e direttrice mentre tu riempi le borse. Secondo me, nei cessi li chiudiamo non appena saremo pronti a svignarcela. Meglio non correre rischi prima, perché non sappiamo se nei cessi c’è un sistema per dare l’allarme, non ti pare?»
«Macchina, pistole, parrucche e vestiti,» ci disse “Gigi mano lesta”, «ve le devo procurare io. Troppo imprudente farlo voi! Mai seminare tracce, capito?»
«Tenghe capite!» rispose Gennaro, «Ma facimm ambress prim ca me girino e pal. Il colpo lo facciamo giovedì prossimo.»
«La velocità si paga. Me devi sgancià sùbbito cinquemila! Capito?»
«Tenghe capite! Mannaggia a pucchiacca!» rispose Gennaro.
“Gigi mano lesta” fu di parola con la consegna del materiale e la mattina di mercoledì Gennaro ci riunì per le ultime istruzioni:
«A letto presto questa sera. Vi voglio svegli e pimpanti per domani mattina. Ognuno andrà per suo conto alla banca. Orologio alla mano tutti lì per le otto. Io e Rino davanti all’ingresso. Austiniello poco lontano con il cartello da attaccare, appena entra il cassiere. Tu Umberto sistemi la macchina in posizione strategica nel posteggio riservato ai clienti, e fai finta di preparare delle carte. Adesso andate, facimm ambress prim ca me girino e pal.»
La fortuna dei principianti ci aiutò ancora una volta. Tempo venti minuti ed eravamo già lontani con quattrocentomila euro nel borsone.
La riuscita del colpo e tutto quel denaro, mai visto prima, diede alla testa al Gennaro. Convinto di essere diventato un padreterno, cominciò a comportarsi da bastardo più ancora di quanto già lo fosse.
Pretendeva di farsi chiamare “il boss” e minacciava di sparare in bocca a chi non lo faceva. Era spesso ubriaco e fatto di cocaina.
Se incrociava un nero sulla sua strada erano urlate e minacce di sparargli alle gambe.
Gli zingari scappavano appena lo vedevano. Nel quartiere la sua parola doveva essere legge, e finì con attirare le attenzioni della Polizia, che fino a quel momento aveva chiuso un occhio. Aveva troppi soldi per le mani e la faccenda insospettiva.
Umberto assisteva alla metamorfosi di questo gradasso e si preoccupava sempre più delle sue spavalderie.
Umberto non voleva rischiare di finire in galera perché Gennaro era uscito di senno.
Ancora un ultimo colpo e cambierò città, mi disse. Me ne voglio andare il più lontano possibile da questo posto maledetto e da questa gente disgraziata e rabbiosa. Questa volta, però, l’affare lo voglio organizzare da me.
L’idea che gli frullava in testa era quella di una rapina in una villa di Tradate. Lui se la intendeva da tempo con Marisol, la domestica e, chissà con quali promesse, l'aveva convinta a lasciare l’allarme disinserito e una finestra aperta.
Solamente anni dopo venni a conoscenza dei suoi veri propositi. Al momento lui ci garantì soltanto che i rischi erano minimi e, da informazioni ricevute da un amico, abitante nella stessa strada della villa, i due anziani proprietari custodivano in casa molto denaro contante.
Gennaro aveva già finito i soldi e non vedeva l’ora di riempirsi nuovamente le tasche. Io e Rino ci fidavamo molto più di Umberto, e fummo d’accordo. Il piano prevedeva che Umberto, Gennaro e io saremmo entrati, mentre Rino avrebbe sorvegliato dall’esterno.
Entrare nella villa alle due di notte fu un gioco da ragazzi.
Umberto guidava la spedizione. Rovistammo nei cassetti del salotto senza risultato. Dentro un vaso in cucina trovammo appena un migliaio di euro. L’ultima possibilità era la presenza di una cassaforte, forse nascosta dietro a un quadro, e in effetti ce n’erano molti un po’ dappertutto. Umberto iniziò da quelli in salotto, ma senza risultato, come pure in corridoio. Gennaro era furioso e lo divenne ancora di più quando trovò in un angolino il quadro giusto, scoprendo che la cassaforte era aperta e vuota. Imprecando in silenzio fece cenno a Umberto di avvicinarsi.
«Maledizione,» bisbigliò Umberto, «qualche figlio di puttana ci ha preceduto! Meglio svignarcela!»
Naturalmente non disse che la cassaforte l’aveva già svuotata Marisol, d’accordo con lui.
Ma quell’idiota del Gennaro volle cercare ancora. Scese nel seminterrato, seguito da Umberto, ed entrò nella camera sbagliata, quella della domestica. Marisol, quando la porta si aprì, accese la luce, e trovandosi davanti uno scalmanato, cacciò un urlo.
Spaventato a morte, mi avvicinai anch’io per capire cosa cavolo fosse successo, in tempo per sentire Gennaro strillare:
«Cazzo. Ma è una negra! Mi ha visto in faccia, la dobbiamo far fuori questa negra di merda!» abbaiò, premendogli una mano sulla bocca.
Gli occhi agghiacciati della povera ragazza, vagavano da uno all’altro implorando aiuto.
«Sparagli, Umberto!» ordinò, vedendo che stringeva il revolver, estratto appena si era accesa la luce.
«Tu sei pazzo!» rispose lui. «Leghiamola e andiamocene.»
«Cazzo! Umberto, con cosa ragioni, col culo? Ci denuncerà! La dobbiamo far fuori, ora!» insistette, digrignando i denti.
«Lo sparo sveglierà tutti,» rispose Umberto, «non ci hai pensato?»
Nemmeno Gennaro se la sentiva di sparare, ma gli venne la voglia matta di approfittare della situazione, saltandole addosso per violentarla. Marisol combatteva furiosamente e allora decise: se non si poteva soddisfare l’avrebbe strozzata con le sue mani. Fu in quel momento che Umberto capì che questo stronzo di Gennaro bisognava fermarlo a ogni costo.
Prese la mira con l’intenzione di ferirlo a una spalla, ma la pallottola lo colpì alla testa e Gennaro stramazzò all’istante.
Umberto reagì d’istinto.
«Piantiamo tutto e diamocela a gambe!»
In strada trovammo Rino preoccupatissimo dallo sparo.
«Il colpo è fallito e Gennaro è morto.» gli disse Umberto, «Scappiamo prima che succeda il casino.»
La Polizia non riuscì mai a chiarire come si erano svolti i fatti.
Marisol disse che un bruto era entrato in camera sua mentre dormiva e aveva tentato di strozzarla. Subito dopo, un secondo uomo gli aveva sparato uccidendolo. Della cassaforte aperta e svuotata, nulla sapeva.
La Polizia concluse che erano stati i ladri ad aprirla e fuggire con il denaro in essa contenuto, quasi un milione di euro.
Ulteriori indagini non portarono a nulla. Impronte di gente estranea non ne furono trovate. Del mancato allarme e della finestra aperta, non avendo prove, conclusero per una dimenticanza dei proprietari.
Oggi Umberto fa il pizzaiolo a La Paz con Marisol, ma non si è dimenticato dei suoi compagni. Ogni tanto ci manda qualche bolivar che la stessa banca della rapina ci cambia in euro, riprendendosi a suon di commissioni i pochi denari lasciateci da Gennaro.
Rino si è dedicato con successo al tiro a segno, diventando campione nazionale, e forse parteciperà alle prossime olimpiadi.
Io ho incontrato don Luigi. Gli ho confessato le mie malefatte e lui mi ha detto che a quindici anni non si è veramente colpevoli. L’unica possibilità per meritarmi il perdono era cambiare completamente vita.
Ci sto provando. Ma non è semplice...
Ultima modifica di Alberto Marcolli il 19/10/2023, 17:23, modificato 3 volte in totale.
È il mio primo tentativo di scrivere un noir (o quasi). Commenti e suggerimenti sono graditi.
(ho anche catturato qualche idea da racconti presenti su Bravi Autori, chiedo venia)
Beh, beh, devo dire non male. Il noir c'è, anzi si può quasi dire sia un noir mediterraneo, e dal buon Alberto non me lo sarei aspettato mai: il protagonista è l'antieroe Agostino, emarginato metropolitano di matrice napoletana, e la banda a cui si accoda è composta da personaggi scalcagnati quanto lui, la schiuma della società. All'inizio il narratore protagonista esordisce con una critica sociale, dall'evidente pregio di ben inquadrare la situazione in cui i protagonisti si muovono. Ben fatto. Il tono è vagamente satirico, tanto che il personaggio di Gennaro viene quasi messo alla gogna per la sue attitudini ominine. Umberto alla fine si dimostra un antieroe, ma forse diventa eroe quando salva Marisol e ammazza Gennaro (e forse salva non solo Marisol, ma tutti loro dall'avidità di Gennaro la scimmia). La critica sociale presente nei dialoghi con Umberto permette al lettore di metabolizzare la divisione della società in classi chiuse e il tentativo del gruppo di forzare la chiusura. Manca, in un certo modo, l'ambientazione giusta. Si dovrebbe vedere il mare. E forse manca anche il finale. Moraleggiante, almeno in parte. Perché si capisce che Umberto ha fregato tutti. E questi tutti, Agostinello compreso, invece di provare a fargli le scarpe, si dimostrano dei campioni di redenzione.
Che Agostino sapesse poi della tresca tra Umberto e Marisol, è, secondo me, un non senso logico. La voce narrante dovrebbe quantomeno informare il lettore che della cosa il protagonista è venuto a sapere parecchio tempo dopo, per vie traverse, o perché Umberto gliel'ha confessato (ed è forse il senso di colpa che lo costringe a inviare ancora soldi alla vecchia banda).
Il noir, come il giallo, va molto curato dal punto di vista logico, o, meglio, delle cause e dei loro effetti.
Il punto debole è invece, secondo me, un altro: il linguaggio.
Il napoletano in tuo possesso mi pare traballante, te lo dico da siciliano, sia chiaro. Quel tenghe capite che sarebbe? E lestu? Ma il punto è un altro: il linguaggio, in generale, specie nei dialoghi, è troppo ricercato. Forse lo dovresti un po' abbrutire. Non dico di far parlare la tua banda come i camorristi di Gomorra (senza sottotitolo), ma almeno dare l'impressione, provare a calcare un po' più la mano, senza esagerare, come nella citata Gomorra.
Ad esempio, questa serie di dialoghi:
«E tu cosa ne sai. Signor ammazza galline! L’hai mai fatto?»
«Nessuno di noi l’ha mai fatto, grazie al cielo.»
«Adesso siamo una banda e se serve si farà anche quello.» tagliò corto Gennaro.
Mi pare un confronto tra vecchie signorine più che tra delinquenti, con quel ammazza galline e grazie al cielo.
Un noto ricettatore del quartiere si offrì di spiegare il sistema migliore per rapinare una gioielleria, con poco rischio, e Gennaro si convinse che, se ci erano riusciti tanti altri, potevano farcela anche loro.
Anche la voce narrante, non ti pare un po' troppo edulcorata? Agostiniello dovrebbe essere uno duro, o almeno uno che ci prova.
«È una pazzia fare il colpo in città,» spiegò l’Umberto, «Le gioiellerie sono tutte in centro, ed è impossibile fuggire senza destare sospetti. Io farei il colpo a Tradate, perché conosco molto bene la cittadina.»
Quel conosco molto bene la cittadina, sa di incontro tra due anziane amiche dalle parti di piazza Statuto a Torino e dei vicendevoli ricordi di passati giri turistici in zona.
Insomma, la ricerca del linguaggio giusto non è cosa da poco. A questo tema ho dedicato abbastanza spazio in Officina, facci un giro, se ti capita. Lo trovi in Analisi del Discorso, laddove tratto dei dialoghi, se la memoria non mi prende in giro.
Un ottimo tentativo, Alberto. Direi di continuare a farlo.
Concordo pienamente con la disamina di Namio, non avrei saputo spiegarlo meglio di così. Non sono particolarmente appassionata di noir (perché, purtroppo, in giro ce ne sono troppi e con la stessa trama, stucchevole, stesse conclusioni, stesso tran tran) ma questo corto l'ho apprezzato molto. Avrei voglia di approfondire questo tipo di racconti ma non trovo quasi nulla di interessante (si accettano consigli di lettura!).
Si, sul dialetto diciamo che si sente che non sei napoletano ma comunque credo tu abbia fatto una ricerca ben strutturata al riguardo.
Lestu dovrebbe essere "veloce veloce" in siciliano. Ma un napoletano direbbe sicuramente facimm ambress o ambress ambress prim ca me girino e pal. Non sono napoletana ma amo quel posto e ogni anno mi prendo almeno una settimana per andare.
Voto 4
A rileggerti
Namio Intile ha scritto: 17/10/2023, 16:41
Direi di continuare a farlo.
Sei stato utilissimo. Come pure Maria Spanu. Ho tentato di calcare la mano, spero non troppo, mannaggia ‘a miseria!
Continuare? Mah! vedremo.
grazie ancora!
Maria Spanu ha scritto: 17/10/2023, 17:16
Concordo pienamente con la disamina di Namio, non avrei saputo spiegarlo meglio di così. Non sono particolarmente appassionata di noir (perché, purtroppo, in giro ce ne sono troppi e con la stessa trama, stucchevole, stesse conclusioni, stesso tran tran) ma questo corto l'ho apprezzato molto. Avrei voglia di approfondire questo tipo di racconti ma non trovo quasi nulla di interessante (si accettano consigli di lettura!).
Si, sul dialetto diciamo che si sente che non sei napoletano ma comunque credo tu abbia fatto una ricerca ben strutturata al riguardo.
Lestu dovrebbe essere "veloce veloce" in siciliano. Ma un napoletano direbbe sicuramente facimm ambress o ambress ambress prim ca me girino e pal. Non sono napoletana ma amo quel posto e ogni anno mi prendo almeno una settimana per andare.
Voto 4
A rileggerti
Ho tentato di calcare la mano, spero non troppo, mannaggia ‘a miseria!
Grazie di cuore! A buon rendere. Spero!
Devo dire che come primo tentativo il nero non è affatto male. Hai provato a cambiare il tuo cliché e direi che ci sei riuscito bene. Premetto che il genere non è il mio preferito ma comunque sei andato ok! Il dialetto, che ovviamente comprendo sia necessario, non mi piace molto e non sono capace di giudicarne la correttezza o meno. La storia invece è anche divertente, i personaggi ben costruiti. Quindi continua, mi sento di suggerirti: andrai ancora meglio. Voto 4
Un buon racconto noir che, come già evidenziato, ha il limite principale nel linguaggio. E' un grande problema, risolvibile se si conosce bene il dialetto (o il tipo di linguaggio) scelto, altrimenti c'è il rischio di sembrare artefatti, troppo "puliti". In un mio racconto precedente, Namio Intile è stato così gentile da tradurre in (vero) siculo la parlata di un mafioso, e in questo caso suggerisco all'Autore di chiedere la consulenza di un napoletano verace. la storia è comunque godibile; Umberto, il traditore ora pizzaiolo a la Paz, ha dei rimorsi? Improbabile, ma non impossibile.
Io non lo definierei proprio un noir. In realtà non saprei come definirlo questo testo, lo trovo un racconto interessante e ben scritto, ma non mi ha comunicato emozioni, forse è la dura realtà che si scontra con l'alata fantasia…
Il tuo racconto mi ha convinto anche se credo che tutto succeda troppo alla svelta, ma d'altronde i caratteri sono quelli e hai gestito bene il limite di un concorso per storie brevi.
Non mi è dispiaciuto neppure il punto di vista che hai usato, anche se la prima persona avrebbe reso meglio. Fossi in te proverei a trasformare questo racconto in un romanzo breve, ne uscirebbe qualcosa di davvero interssante.
Per ora 5
Trentun paia di gambe hanno pedalato con la loro fantasia per guidarci nel puro piacere di sedersi su una bicicletta ed essere spensierati, felici e amanti della Natura. A cura di Massimo Baglione. Copertina e logo di Diego Capani.
"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo. Di Mario Stallone A cura di Massimo Baglione.
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