Accadde un giorno a “La Pulce”

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Alberto Marcolli
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Accadde un giorno a “La Pulce”

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Con l’arrivo del nuovo millennio, il mio trentennale impiego bancario si era modernizzato, evolvendosi in quello del promotore finanziario: una professione al passo con i tempi, come l’aveva magnificata il mio capo filiale, e certamente rispettabilissima, ma assai poco confacente alle mie scarse doti d’imbonitore.
Ecco la ragione principale che mi spinse ad accettare, senza rimpianti, la proposta della Direzione per una sorta di pensionamento anticipato.
Giovane cinquantenne qual ero, godevo la mia fantastica età oziando, esplorando, inseguendo sogni e, soprattutto, azzardando i primi passi verso un amore antico, capace di rigenerarmi nel profondo: la scrittura.

Tra i numerosi luoghi che andavo scoprendo, ne rammento uno in particolare, da me bazzicato con singolare insistenza.
Il posto si chiamava “La Pulce”. Mi è difficile descrivere quei locali disadorni, recuperati da decrepiti capannoni, un tempo sede d’instancabili attività. Ci avevano lavorato operai di mille contrade: conciavano le pelli, le coloravano, le tagliavano e cucivano con mani esperte, producevano borsette, valige e cinture che erano state il vanto della nostra provincia, bagnata dai sette laghi.
“La Pulce” non si poteva definire un negozio vero e proprio, perché la gente ci andava per acquistare, ma anche per vendere, e non era nemmeno un punto di ritrovo, pur incontrandovi tanti individui, a volte bizzarri, sovente forestieri, spinti da queste parti da una comune condizione di povertà e bisogno. In cambio di pochi quattrini da destinare a necessità più pressanti, rinunciavano a qualche oggetto personale, magari non indispensabile, permettendo ad altri di procurarsi quelle stesse cose a prezzi accessibili.
Da ultimo non mancavano dei clienti, tra i quali anch’io, semplicemente divertiti dalla novità di quel traffico arruffato di mercanzie usate.
Visitavo “La Pulce”, ripeto, vestendo i panni di un qualunque curioso, a onor del vero, piuttosto originale; il mio interesse, infatti, era rivolto non tanto alle cose in mostra, quanto alle persone.
Girovagando in spazi angusti, tra scaffali polverosi, traboccanti di piccole e grandi carabàttole, la speranza era quella d’imbattermi in qualche buona fonte d’ispirazione: il tempo non mi mancava e la pazienza nemmeno.
Fu così che una mattina di marzo, durante il mio consueto giretto, mi capitò di assistere all’ingresso di una donna molto avanti negli anni, che trascinava, a fatica, una voluminosa valigia.
Vestiva con un’eleganza d'altri tempi, vagamente dimessa, il viso minuto ornato di candidi capelli, raccolti con cura. Tradiva un turbamento leggero, da me associato, lì per lì, al naturale imbarazzo causato in chiunque si fosse trovato, per la prima volta, in questo luogo caotico.
D’istinto mi avvicinai, aiutandola a posare la valigia sul gran bancone riservato alla verifica degli oggetti in consegna per la vendita. La donna mi ringraziò e poi, con esitazione, aprì il suo scrigno: era pieno fino all’orlo. C’erano riviste, bicchieri, una tazzina, una sveglia, un binocolo, una lente, una scatola di bottoni, dei ferri da maglia, un orologio a muro, delle bambole di stoffa, dei soprammobili, dei vasetti di vetro colorati e molto altro ancora, tutto riposto con precisione. Nulla di costoso, ovviamente. Soltanto piccole cose, compagne discrete dell’esistenza di ciascuno, ma per lei memoria palpabile di un’intera vita.
A una a una iniziò a estrarre quelle reliquie. Le contemplava un ultimo istante e le posava davanti alla giovane commessa che, con piglio professionale, le catalogava nel suo computer per tipologia e quantità.
Per le descrizioni, era prassi alla “Pulce” lasciare al venditore la libertà di definirle, e mai come in questo caso l’incombenza fu più spinosa. Impreparata, eppur decisa ad assolverla, la signora rigirava nelle mani un piattino dipinto o una teiera sbeccata, tentando di cavare una frase coerente dalle sue indecifrabili elaborazioni mentali.
Io sorridevo, a dispetto della solennità del momento, mentre la ragazza, impassibile, ascoltava, registrava e infine suggeriva abilmente il prezzo di vendita.
A quel consiglio interessato l’anziana nonnina annuiva incerta, lo sguardo malinconico di chi non avrebbe mai voluto separarsi dal suo tesoro.

Era entrato, nel frattempo, un attempato signore dall’aria distinta. La sua era una presenza abituale; altre volte l’avevo notato indugiare, quasi sempre tra gli scaffali straripanti di libri usati. Li accarezzava e sfogliava con affetto, quasi fosse dispiaciuto per la desolazione in cui giacevano. Non mancava poi di riunirne alcuni, sborsare soddisfatto i pochi spiccioli richiesti alla cassa, e allontanarsi col suo fardello di capolavori strappati alla rovina.
Osservò la signora intenta al suo ingrato compito e la riconobbe: meravigliati entrambi dall’incontro inatteso, i due si salutarono con la familiarità di vecchi amici.
Chiaramente, questa imprevista evoluzione aveva arricchito la mia già abbondante curiosità e, fingendomi attirato dalla raccolta di orologi, custodita sotto chiave a lato del bancone, mi fu possibile ascoltare i loro discorsi. Discorsi, oltretutto, forse a causa dell’età e di una probabile debolezza d’udito, pronunciati a voce alta, dai quali appresi che i due erano stati compagni di scuola.
Frugando distrattamente tra le mille cose allineate, l’uomo aveva intravisto un libro sul quale avevano studiato assieme. Si mise dunque a cercare con maggior impegno.
Ogni cosuccia riconosciuta si trasformava allora in un ripasso della remota gioventù.
«Sai Angelina,» le disse, «mi sembra di riconoscere l’astuccio della quarta elementare. E poi... cosa vedo? Il fermaglio che da ragazzina portavi nei capelli. Ed ecco la bambola, regalo di tua mamma per la promozione di quinta… Perché dai via tutto?» «Parto,» rispose lei, con un groppo alla gola, «vado a Montreal, in Canada, a raggiungere il mio unico figlio, sposato laggiù. Io vivo sola e lui mi vuole con sé. Capirai, tante cose non me le posso portare fin là.»

Senza che se ne accorgessero, si era avvicinata una bambina. Il visino smunto e l’umile abitino ne tradivano la modesta condizione, forse straniera. Afferrata una bambolina e due collanine di perle colorate, era corsa dalla mamma, chiedendole in dono.
Angelina, così l’aveva chiamata il suo compagno, colse soltanto il finale della scena, rimanendo dubbiosa sul da farsi, ma di fronte all’esitazione di quella mamma, nell’evidente impossibilità di spendere del denaro per l’innocente capriccio della figlia, il suo volto si intenerì all’improvviso.
«La bambola e le collane sono tue,» disse Angelina alla bimba, «tienile pure! Promettimi soltanto di conservarle con amore, come ho fatto io, fino ad oggi.»

Terminato l’inventario, il computer stampò la lista degli oggetti consegnati e Angelina, scorrendo in fretta quei fogli, chiese timidamente: «Signorina, mi potrebbe dire, per favore, quanto ci vorrà per vendere tutto? Io dovrei partire a breve, e questi pochi soldi mi sarebbero d’aiuto per l’acquisto del biglietto. Sa, andare in aereo fino in Canada costa parecchio!»
La ragazza, presa alla sprovvista, abbozzò un: «Non saprei… può darsi un mese, forse due… non dipende da noi, ma da chi acquista.»

La faccia già triste di Angelina diventò di cera e per un attimo temetti che stesse per piangere.
Contagiato dal buon cuore di Angelina, volli seguirne l’esempio: era giunto il mio momento d’intervenire.
«Signorina,» sussurrai alla commessa, imbarazzato dall’insolita spontaneità della mia scelta, «compro il contenuto della valigia in blocco. Se per cortesia mi calcola la somma, posso pagare subito, in contanti.»
Pochi minuti e l’operazione fu conclusa, mentre Angelina, ignara, continuava a spolverare ricordi con l’amico di un tempo.
«Per favore,» pregai di nuovo la commessa, «mi potrebbe custodire il tutto in deposito? Domani provvederò al ritiro.»
La ragazza, contagiata pure lei dall’atmosfera benevola che le aleggiava intorno, comprese al volo le mie intenzioni e annuì prontamente.

Riposto il portafogli, mi avvicinai ad Angelina, le sorrisi e mi allontanai silenzioso.
Nell’atto di uscire, mi volsi ancora per un attimo; il viso di Angelina, segnato dal tempo, era pieno di stupore, e solitaria una lacrima le rigava la guancia.
Il suo spirito, colmo di gratitudine, non avrebbe mai immaginato l’importanza del dono da me ricevuto: una concreta dimostrazione di quanto grande sia il dolore provocato in noi dall’abbandono delle nostre radici, non importa in quale misura siano nobili i motivi che ci spingono a farlo, e di come sia la bontà la ricetta più efficace per migliorare il nostro mondo.

Quel giorno, passeggiando verso casa, avvertii con sollievo come quella penosa malinconia di vivere, che ancora non avevo imparato a sconfiggere, stesse magicamente svanendo.
Yakamoz
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Commento

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Scusa se scrivo di notte, Marcolli.

letto! Sì, bel racconto! Tenero, nella sua conclusione: penso di natura "biografica". Scrittura sempre limpida e precisa… (senza troppi "che" relativi!). Ma che te lo scrivo a fare? Lo so che sei molto preciso e attento quando scrivi. Infatti, c'è sempre qualcosa da imparare leggendoti, e non si tratta di piaggeria o di complimenti vuoti, solo di verità. Noto, ma forse è una mia impressione, che a volte la tua scrittura assume quasi toni giornalistici, seriosi, come da cronaca, nella sua compostezza, piuttosto che da scrittura "creativa". Ma sappi che chi ti sta commentando, cioè io, usa pure la triplice aggettivazione e molti avverbi e complementi predicativi del soggetto/oggetto; perciò è una "leggera critica di parte", perché i nostri stili sono un po' agli antipodi. Noto, ancora e inoltre, che esiste sempre una morale "buona" alla fine dei tuoi racconti: perché? I cattivi ti fanno tanto ribrezzo? Un racconto deve essere sempre una sorta di "parabola" educatrice e moraleggiante? Ti lascio con queste domande e mi congedo dal mio commentare.

Ti auguro, a te e alle persone a te care, un sereno Natale e un anno nuovo ricco di gioia,

Antonio

P.S. C'è un refuso dove c'è scritto "«Sai Angelina, » le disse, «mi sembra di riconoscere… " manca la virgola, essendo un vocativo.

Voto 5/5: perché il racconto è scritto bene, ha un buon ritmo… etc. etc. Insomma, mi è piaciuto!

Per ora il "sistema" non permette di votare, ma appena si sblocca, ti voto.
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"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
Di Mario Stallone
A cura di Massimo Baglione.

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"Human Take Away" è un racconto corale dove gli autori Alessandro Napolitano e Massimo Baglione hanno immaginato una prospettiva insolita per un contatto alieno. In questo testo non è stata ideata chissà quale novità letteraria, né gli autori si sono ispirati a un particolare film, libro o videogioco già visti o letti. La loro è una storia che gli è piaciuto scrivere assieme, per divertirsi e, soprattutto, per vincere l'Adunanza letteraria del 2011, organizzata da BraviAutori.it. Se con la narrazione si sono involontariamente avvicinati troppo a storie già famose, affermano, non era voluto. Desiderano solo che vi gustiate l'avventura senza scervellarvi troppo sul come gli sia venuta in mente.

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