Indice:
La gara
Gara 19
UN INCIPIT DA RE
FEBBRAIO 2011
antologia per BraviAutori.it
A cura di Miriam Mastrovito
Supervisione e aggiustamenti: BraviAutori.it
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Prefazione
"Si comincia con uno spazio bianco". Così si apre il celebre romanzo di Stephen King "Duma Key" ma in questo stesso modo inizia il viaggio di chiunque voglia avventurarsi nel mondo della scrittura.
Che si scelga il percorso lungo del romanzo o l'emozione condensata del racconto breve, l'incipit è quasi una formula magica. Racchiude il potere di sfidare il vuoto del foglio bianco e, spesso, detiene anche la responsabilità di scoraggiare o catturare l'interesse del lettore.
I partecipanti a "Gara 19" hanno ottenuto un bonus sulla linea di partenza. Esentati dal confronto/scontro con la pagina intonsa hanno avuto ben sette incipit già confezionati da cui prendere spunto per scrivere i loro racconti.
Facile?
Non esattamente se si considera che gli incipit in questione sono tutti firmati dal RE.
Misurarsi con un genio della narrativa come King sicuramente richiede un pizzico di coraggio così come eludere il tranello dell'emulazione presuppone il possesso di una certa personalità e una buona dose d'inventiva.
I nostri Braviautori hanno dimostrato di possedere l'uno e l'altra.
Ben ventuno scrittori hanno accolto la sfida contribuendo così alla realizzazione di una raccolta che sorprende per varietà di stile, generi e contenuti.
Una casa che si espande e divora i vivi, un negozio in cui si vendono sogni, il coraggio e la speranza di una schiava, un futuristico manuale di istruzioni, un uomo perseguitato dalla terribile suocera, una scrittrice tormentata da una temporanea mancanza di idee. Tutto questo e molto più vi attende "in una stanza non lontano da qui: anzi, vicinissima, quasi quanto la pagina successiva.
Vogliamo andare?” [1]
Miriam
[1] Citazione da “A volte ritornano” di S. King
La limonata
(racconto vincitore)
Skyla74
— Si comincia con uno spazio bianco. Non dev'essere necessariamente carta o tela, ma secondo me deve essere bianco. Il nero è un non colore: come tale è inferiore.
Miss Patch era l'insegnante di pittura, ma la sua perorazione non sarebbe sfigurata in bocca al banditore dell'asta degli schiavi, giù al porto.
"La creazione a uso degli schiavisti" oppure "Come Dio decise che i neri erano inferiori".
A questo pensava Zuna, la schiava congolese che sorreggeva il cavalletto. Aveva sedici anni appena compiuti e aveva già partorito due volte. Il secondo figlio nemmeno lo aveva visto: era piaciuto così tanto al padrone della piantagione di zucchero che lui se l'era portato via, lasciandole il seno gonfio di latte e un senso d'indefinibile vuoto in grembo.
— Quelle sono come cagne, si accoppiano di continuo — dicevano le donne additando i ventri gravidi delle schiave. Che ne sapevano loro delle violenze che si consumavano nei capanni, dei padroni ubriachi che la notte venivano a cercare carne fresca? Le donne… avrebbero dovuto essere pietose, invece erano peggiori degli uomini, nella loro crudeltà. Era come se quei denti di balena che stritolavano i loro seni, i corsetti, ne avessero dilaniato per sempre i cuori.
Cristo se quella tela pesava! Quella grassona di Miss Patch avrebbe potuto appoggiarla al cavalletto, ma quel mattino si era svegliata di malumore, convinta che Zuna la guardasse con occhio malevolo. Negli Stati sudisti si stava spargendo la notizia della sanguinosa rivolta di Saint-Domingue, di come il sacerdote Boukman e il suo vudù avessero aizzato migliaia di schiavi. I francesi se la facevano nelle braghe, le loro case erano date alle fiamme! A Zuna sarebbe piaciuto essere là, nella jungla, a fianco di quei valorosi combattenti neri; gli schiavi della piantagione non parlavano d'altro.
Zuna sentì un brivido correrle giù per la schiena. C'erano trenta gradi sotto la pergola che profumava di glicine, grappoli così turgidi che a stringerli tra le dita sarebbero esplosi come acini d'uva. Cristo, se aveva fame!
Le dieci piccole alunne di Miss Patch chiocciavano allegre in attesa della limonata. I loro abitini di cotone bianco-virginale erano sporchi del sangue degli schiavi che morivano nelle piantagioni, ma alle bimbe non interessava e, forse, nemmeno lo sapevano. Perfino la celebrata tela immacolata di Miss Patch grondava sangue.
Zuna si scrollò il sudore dalla fronte con un deliberato scatto della testa. La vista le si annebbiò, le ginocchia si fecero molli. Dal parto erano passati solo tre giorni.
— Sta' ferma, schifosa! — Gridò Miss Patch e le colombelle scoppiarono a ridere.
Una di loro aveva già terminato il suo lavoro. Ninfe tra i fiori, zampilli di fontane: il paradiso terrestre così com'era insegnato alle giovinette, un luogo idilliaco che Zuna non avrebbe mai visto, essendo priva d'anima al pari di un cane o una capra. Così dicevano.
Lei lo aborriva. Quello era l'Eden delle donne senza cuore, degli uomini che violentavano le bambine, delle fruste taglienti e delle lingue nerastre degli schiavi impiccati.
Ma non ne poteva più…
Zuna poggiò la tela sul cavalletto, prese pennello e colori. Miss Patch la tirò per i capelli ma lei resistette.
— Sangue! — Gridò un'alunna ed era proprio sangue quello che le scorreva tra le gambe, la ferita che il suo padrone le aveva inferto nello strapparle via il bambino.
Zuna disegnò il verde smeraldo della foresta pluviale, il giallo fangoso del Congo, il velluto delle montagne coperte di nebbia così come le era stato descritto dalla nonna. Allungò una mano, s'impiastricciò di colore, lo leccò. Il distillato acidulo era così simile alla rugiada sulle foglie…
Quando cadde a terra Miss Patch la prese a calci, ma Zuna, ormai, aveva finito di soffrire.
Dormiva su un pasticcio di colori cangianti, di macchie succulente come frutti proibiti.
Miss Patch coprì l'obbrobrio con un lenzuolo e portò le bimbe a bere la limonata.
Che disdetta, le sarebbe occorsa un'altra schiava.
Luisiana 1800
Pioggia
Exlex
"Cut my life into pieces, this is my last resort."
(Last Resort, Papa Roach)
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo nebbia. Era una sensazione ormai familiare, anche se non proprio piacevole. Aveva la funzione esclusiva di anestetizzante, non leniva l'atrocità del dolore che provavi allora e che adesso si è accentuato. Lo facevi con la musica, ti distendevi sul letto alle tre di notte, talmente sfinito dalla vita che non eri in grado di muovere gli arti. Un palo scheggiato ti trafiggeva il petto, poco più a sinistra dello sterno. Ma lo sentivi sempre meno man mano che quella nebbia scendeva diffondendosi nei meandri della tua mente e ti donava un riposo tormentato.
Sei ancora alla costante ricerca di questa sensazione di pace vuota e fittizia che eri capace di indurre ai tuoi sensi mesi fa.
Adesso il dolore nel petto è soltanto acuto, pulsante, straziante. Come se il tuo cuore si fosse spaccato in due, aperto e ridotto in una poltiglia sanguinolenta.
Non sai come lenirlo. Puoi scivolare nell'acqua gelida sotto di te, puoi lasciarti morire sulla riva del lago, puoi prendere un coccio di vetro lasciato da qualche ubriaco e tagliarti i polsi.
Oppure puoi prendere lo scooter e lanciarti a velocità folle sulla strada verso casa. Una roulette russa. Se arrivi a casa bene, altrimenti pazienza. Nessuno sentirà la tua mancanza.
Grosse gocce di pioggia ti fanno alzare lo sguardo al cielo notturno. Sta cominciando a piovere. L'acqua sarà l'elemento che determinerà la tua vita, o la tua morte.
Una morsa ti attanaglia il petto tanto che vorresti urlare. È un peso, un peso terribile quello che grava sul tuo cuore.
Coperto da un giubbotto malconcio, stai seduto lì, su un tronco marcio, mentre la luna che prima lambiva l'acqua cupa viene offuscata.
Questo tuo presente è un eterno trascinarsi, arrancando fino al giorno in cui qualcosa succederà. Non sai cosa e non sai quando, ma sai che nulla rimane uguale e tutto cambia. Ma adesso… sei bloccato qui. Le gocce sono uguali, i tuoi istanti pure.
Decidi di farla, quella roulette russa contro te stesso. Ti alzi, recuperi il casco.
Lo scooter ti aspetta, imperlato dall'acqua impura del cielo.
Fai partire il motore, e il rumore viene subito cancellato dal rombo di un tuono. Stanotte sembra che la natura non ti voglia qui. Fa di tutto perché tu vada a casa, perché tu venga annullato, per riderti in faccia. Accetti l'invito di andartene, e speri che stavolta sarà per sempre.
I fari di un'auto proiettano fastidiose colonne di luce che ti accecano per qualche istante. Sollevi la visiera del casco: non vedi niente con quelle perle liquide che rendono tutto così offuscato.
Corri. Vai veloce, forse troppo, ma d'altra parte è quello che vuoi. Le gocce trafiggono il tuo viso, pungono le labbra, facendoti sentire vivo. Ne hai un immenso bisogno, perché ti senti morto dentro. L'acqua scorre a rivoletti dalle sopracciglia mescolandosi alle lacrime, che riconosci solo dal sapore salato sulle labbra.
Senti il petto sollevarsi a ogni respiro, sempre più velocemente. Sembra sollevarsi anche la tua anima. Le cuffiette dell'iPod sparano musica altissima bruciandoti le orecchie, e va bene così, vuoi distrarti dalla tua vita. Vuoi fuggire dal tuo gesto.
È stata un'azione così veloce, così improvvisa, così pregna del tuo terrore cieco da essertene reso conto solo dopo.
Solo quando tuo padre ti ha fissato con gli occhi sbarrati, lasciando cadere il bastone.
Solo quando c'era un rivolo scuro che t'impregnava le dita rendendole scivolose.
Solo quando tua madre è entrata urlando, anche se tu non l'hai sentita perché ti percepivi fluttuare in un luogo che non era la realtà.
Sei caduto, le tue ginocchia hanno ceduto sotto un peso inesistente.
Ma quando l'ha fatto tuo padre, hai avuto la forza di alzarti e di scappare. Di uscire di casa, di correre il più lontano possibile.
Anche quella notte pioveva.
Ti sei fermato solo quando le articolazioni hanno ceduto di nuovo. Ma stavolta era sotto la fatica della corsa, le fitte al torace per i lividi delle botte, ma soprattutto il peso dell'azione che avevi compiuto.
E sei svenuto.
Quindi si risolve così, l'equazione della vita. Piena di incognite, segni positivi o negativi, risultati errati dopo cancellature su cancellature.
Si risolve cancellando l'equazione stessa.
Come stai facendo tu, in questo momento, mentre voli sull'asfalto color pece spazzato dal vento impetuoso.
Percorri un tratto di strada fiancheggiato da fossi, non c'è illuminazione.
Ti chiedi se sia la strada giusta.
Sì, sì, è giusta: qualsiasi strada tu faccia lo è, perché in qualsiasi strada ci sarà una curva, o un tratto sdrucciolevole, che ti procurerà il biglietto solo andata per la pace.
Non credi nel Paradiso, credi solo che qualsiasi cosa ci sia dall'altra parte, sarà meglio dell'uncino che ti rimescola crudelmente le viscere.
Pensi a questo, mentre hai la sensazione che il volume dell'iPod si sia abbassato di colpo, che il mondo ti si rovesci addosso, che il tuo fianco poggi contro qualcosa di duro, che qualcosa di caldo ti coli sulle sopracciglia.
Ultimi granelli di sabbia di una clessidra
Ser Stefano
Quasi tutti pensavano che l'uomo e il ragazzo fossero padre e figlio. Il primo aveva circa cinquant'anni, sessanta forse, l'altro sembrava averne la metà. Si somigliavano anche. E poi, quello più vecchio, inveiva spesso contro il giovane. A dire il vero, inveiva qualsiasi cosa il giovane dicesse.
Questo attirava le occhiate divertite dei clienti del Gerald Cafè, che era un po' distributore di benzina, un po' tavola calda, un po' supermercato, un po' bar. Tutto in base a quello che ti serviva un po'. E di sicuro qualcosa ti serviva visto che era l'ultimo punto di ristorazione prima del grande deserto.
Il vecchio finì la sua seconda porzione di bistecca e patatine fritte e chiese il conto. Il giovane aveva ancora davanti a sé buona parte del suo cheeseburger. Sembrava non aver appetito. Quello che tutti consideravano il padre, pagò sbottando non si sa cosa sull'incapacità dell'altro, poi si diressero entrambi verso un antiquato furgoncino azzurro con un'enorme faccia di clown stampata sul cofano.
Mentre uscivano dal parcheggio del Gerald Cafè, i pochi avventori del pomeriggio notarono divertiti che i due stavano ancora discutendo animatamente.
Il giovane si guardò intorno — Era questo quello che volevi?
Avevano guidato nel nulla ardente della sabbia per più di un'ora finché gli era stato chiesto (ordinato?) di fermarsi. Poggiavano entrambi la schiena sul parafango ammaccato del furgone. A torso nudo perché faceva un caldo schifoso.
Il vecchio annuì piano e un angolo della bocca si sollevò appena in un sorriso — Niente rumore. Niente macchine. Niente persone, politici, tasse, musica, smog, cani, dottori, avvocati, donne, mocciosi, pillole, pensieri, tv…
— Niente — disse il giovane interrompendolo di proposito per evitare che continuasse all'infinito.
— Niente — gli fece eco l'altro.
Si guardarono un attimo, abbagliati dalla luce cocente dell'inferno giallastro che li circondava. Scoppiarono a ridere, fragorosamente. Risero a lungo, per quel 'niente'.
Il vecchio riuscì a smettere solo quando le lacrime gli scivolarono sul rugoso viso come spericolati snowboardisti.
Finì con un sospiro che, solitamente, voleva dire tutto quello che pensavi volesse dire.
Restarono entrambi in silenzio, aspettando l'avvicinarsi lento della sera e che il calore della fornace in cui stavano si facesse meno insopportabile.
Il giovane tirò fuori dal taschino un pacchetto di cartine e una bustina d'erba. Cominciò a rullarsi con esperienza una canna.
Il vecchio lo notò subito: — Dannazione Tommy — esclamò arrabbiato, ma sembrava troppo stanco per dare enfasi alla frase che di solito dava inizio a una paternale — Anche oggi — Mettendosi in bocca l'amatoriale sigaretta, alzò le spalle. L'accese e inalò l'acre fumo scuro.
— Non esagerare con quella roba.
— Tanto cosa cambia? — il giovane lo fissò sfidandolo.
— Ti farà morire…
I due si fronteggiarono con lo sguardo, poi entrambi si misero a ridere come poco prima. Due perfetti imbecilli nel bel mezzo di un deserto a fare discorsi senza senso.
Il vecchio gli strappò la canna dalle mani e sotto gli occhi sbigottiti di Tommy, diede una lunga boccata. Un colpo di tosse accompagnò l'uscita del fumo ma l'espressione del viso era vagamente compiaciuta.
Fumarono a turno, in silenzio, fino a che non restò che un piccolo mozzicone che bruciava le dita. Il vecchio lo schiacciò sotto il tacco della scarpa.
Tommy sembrava stesse per dire qualcosa ma ci ripensò, abbassò la testa e giocherellò un po' con la sabbia sotto il sedere — Sai… — Si interruppe subito. Le parole che cercava non volevano farsi prendere e dovette rincorrerle — Sei stato. Sì insomma. Sei uno in gamba — Il vecchio lo guardò con un mezzo sorriso, e gli occhi gli si fecero subito lucidi. Poi tornò a fissare la distesa desertica che passava lentamente dal giallo al marrone, a mano a mano che il sole scendeva.
— E non è facile dirlo per me. Sì insomma. Tu mi conosci. Sai come sono. Io sono la pecora nera. E ne combino poche, di giuste. Di tutta la gente che ho conosciuto, di tutti quelli che ho visto. Sì insomma. Sei il migliore.
Il giovane cercò di ignorare il groppo in gola che raschiava come carta vetrata. Sospirò — Mi mancherai — tirò su forte col naso — Mancherai a tutti papà.
Non riuscì più a trattenersi ed esplose in un forte pianto sprofondando la testa tra le ginocchia. Temeva che il padre lo avrebbe ripreso per l'ennesima volta ma non proferì parola, neanche il solito sospiro che diceva tutto e niente.
Alzò la testa e lo guardò. Se ne stava lì a fissare il tremolante orizzonte, e quel mezzo sorriso che non sapeva se fosse per quello che aveva detto, o per la canna. Tommy notò le pupille, fredde e buie. Capì che suo padre non c'era più. Sentì nel petto un tale vuoto da fargli sembrare che la terra sabbiosa fosse scomparsa da sotto i piedi e stesse precipitando in un buco senza fine.
Si piegò verso di lui e appoggiò la fronte sulla sua spalla. Rimase così per un periodo che gli parve lunghissimo, ma che forse non lo era affatto. Avvolto da centinaia di pensieri, ricordi, parole, scene.
Poi si ridestò, con la sensazione che provava quando faceva un bel sogno ed era così difficile lasciarlo andare.
"Un giorno" ripensava alle parole del padre mentre prendeva la pala dal furgone.
"Qui nascerà un fiore" iniziò a scavare nella sabbia.
"E allora sì, anche la morte avrà un senso"…
Bachman uscì dal Gerald Cafè che era ormai sera. Ubriaco, quindi moderatamente felice.
Vide il camioncino azzurro passare veloce davanti alle pompe di benzina. Era quello dei due che avevano dato spettacolo nel pomeriggio all'interno del locale.
Sorrise, pensando che erano proprio lo stereotipo di padre e figlio. E improvvisamente, ebbe una gran voglia di andare a trovare il suo, di figlio…
Con le mani
Arditoeufemismo
Con le mani, se vuoi, puoi dire di sì.
(Zucchero "Sugar" Fornaciari)
Siede nell'angolo e cerca di estrarre aria da una stanza che fino a pochi minuti fa ne era piena e ora sembra non averne più. Inspira. Espira. Inspira. Espira. Tenta di calmarsi. L'acme è passato. Il parossismo critico scema. Le immagini davanti a lui si focalizzano. La parestesia degli arti regredisce. I battiti cardiaci rallentano. Tutto sta tornando alla normalità. Tutto rientra nella funzionalità fisiologica. "Nella norma" avrebbe scritto se stilasse ancora referti. Ma i referti non può più scriverli. Radiato. Radiato dall'albo dopo che le crisi si sono fatte troppo frequenti. Dopo che ha perso due pazienti sotto i ferri. La commissione interna, al termine di un sofferto consulto, gli ha diagnosticato una marcata forma di turbe neuro distonica che genera un incontrollato tremore essenziale e violenti attacchi di panico. Si asciuga la fronte. Gli organi interni hanno tutti gli stessi colori. Non ci sono razze o etnie. Un fegato è un fegato. Un cuore è un cuore. Anche se batteva nel petto di un negro. In genere gli portano dei "raccogli pomodori". Giovani nordafricani robusti. Ma non stavolta. Stavolta deve prelevare due mani. Quando ha visto il "donatore" lo shock è stato enorme. Si tratta di una giovane donna. Probabilmente indiana, considerando il puntino rosso al centro della fronte. È di una bellezza sconvolgente. Doc non può fare a meno di sperare che lei si svegli e apra gli occhi. Immagina due meravigliosi gioielli scuri. Due laghi neri in cui cadere e perdersi. Ma la ragazza è sotto anestetico. A giudicare dalla puzza di cloroformio, l'espianto va effettuato con estrema sollecitudine. Se va bene, la ributteranno in un fosso orrendamente mutilata. Dalla porta qualcuno bussa — Doc, hai fatto? — Non risponde. Il bisturi affilato taglia. Il cauterizzatore brucia. Doc è seduto e stringe tra le gambe una sega chirurgica oscillante. Un urlo straziante. Le mani guantate gli cadono in grembo. Si sente svenire. Stavolta l'aria sembra sia finita per davvero. Doc chiama flebilmente aiuto. Nella sala operatoria clandestina irrompe un uomo enorme. Non ha la faccia di chi si fa impressionare facilmente eppure rimane inebetito alla vista di Doc che si è amputato le mani che giacciono sanguinanti sul grembo dell'ex medico e continuano a vibrare di un tremore inumano. L'energumeno si gira di scatto e fa appena in tempo a notare la bellezza della donna scura e a inorridire per le quattro braccia di questa. Come un fulmine una lama mozza di netto la testa dell'uomo. Doc vaneggia. Si ritrova sdraiato sul tavolo chirurgico. Tra la nebbia dei sensi che vanno e vengono vede una donna indiana bellissima. Sente le sue quattro mani carezzargli il volto, tergergli la fronte. Quattro mani. Non è possibile. La giovane non parla ma a Doc sembra di sentire una voce dolce — L'abominio che hai compiuto m'ha evocato, sono Kalì, la parte guerriera di Parvati. Le mie braccia simboleggiano la distruzione e la purificazione. Volevo essere la tua nemesi, e lo sono stata. Ti sei punito per i tuoi orrori. Hai pagato la pena. Ora dormi.
Quando rinviene Doc si trova in un grande letto bianco. La stanza è inondata di luce. Enormi finestre scoprono alla vista l'oceano. Doc porta le mani al volto, ma quelli che alza sono moncherini fasciati. Seduto sul letto cerca di estrarre aria da una stanza che fino a pochi minuti fa ne era piena e ora sembra non averne più. Inspira. Espira. Inspira. Espira. Ora davanti a lui si focalizza l'immagine di un viso bellissimo. Due enormi laghi neri, due occhi gioielli gli sorridono. Il respiro di Doc torna normale. Due mani di donna, affusolate gentili e armoniose, si prenderanno cura di lui.
Porco Dighel!
Mastronxo
Siede nell'angolo e cerca di estrarre aria da un stanza che fino a pochi minuti fa ne era piena e ora sembra non averne più. Ansima e sbuffa come un facocero femmina in calore.
— Porco di quel porco. — sbuffa e ansima. — Quello mi spacca le ossa, Capo.
Il Capo gli getta spruzzi d'acqua in faccia con un asciugamano zuppo. Un tipo grosso gli massaggia i muscoli delle spalle e delle braccia.
Lui invece sbuffa e ansima, ansima e sbuffa. Sputacchia nel secchio e guarda la faccia paonazza del Capo che gli inonda le guance di saliva. Finge di ascoltarlo con attenzione.
— Al fegato, cazzo, al fegato! Quando viene avanti, parti col jab in faccia, ti abbassi, carichi il ginocchio e via un destro al fegato! — La faccia paonazza diventa viola.
— Capo… Secondo te puzzo?
Il Capo si blocca e gli alita in faccia.
— Puzzi? PUZZI?! Ma che cavolo c'entra! Certo che puzzi! Ma stai sentendo quel che ti dico?
— Io… Puzzo. Il pugile ha un tono rassegnato. Abbassa lo sguardo e si porta i guantoni al viso. Inizia a piangere.
— Che cazzo fai! Razza di cretino, che diavolo di cazzo stai facendo! — gli mugugna il Capo nell'orecchio guardandosi intorno, terrorizzato che la folla si metta a ridere nel veder frignare Frullaossa (Frullaculi per gli amici) come una lesbica ballerina piagnucolante gnè gnè.
— Puzzo… Puzzo… — Le lacrime si mescolano al sudore di Frullaculi mentre mormora quel dato di fatto, immerso in una improvvisa, triste rivelazione.
FUORI I SECONDI!
La voce nasale dell'arbitro soverchia gli oscuri pensieri del Capo. Sta per suonare il gong della sesta ripresa.
— Senti, razza di demente — la mano del Capo stringe la nuca rapata di Frullaculi. Sembrano due amanti fricchettoni. Amanti fricchettoni gnè gnè, si sarebbe detto. — Non me ne fotte un cavolo se puzzi, se sai di balsamo di tigre o se NON sai di vasellina perché io ti inculo SENZA, se non ti dai una svegliata! Prova a fregarmi, schifoso ritardato, e ti sbatto in strada a far compagnia alle puttane zoppe e con le fiche raggrinzite come prugne disidratate! Ora alzati e…
Frullaculi si alza. Oh, se si alza, lo vedono tutti.
E lo sentono.
Dalla sua gola prorompe un urlo talmente profondo da sembrare un rutto fenomenale. La platea tiene il respiro, la moglie di Frullaculi, in prima fila e vestita di ermellino e poco altro, cade svenuta o finge di esserlo, l'avversario di Frullaculi (detto dagli amici Spaccaballe) rimane immobilizzato con la guardia levata come fosse una rancida e sudata scultura di cioccolato. Viene dal Bangladesh, Spaccaballe.
Frullaculi urla, urla, non smette. — Puzzooooooo! IO PUZZOOOOOO! — e allora accade proprio quel che il Capo temeva. Inizia un grassone che si sbrodola sul pacco con una Cola, il malanno contagia una coppia di distinti inglesini coi capelli imbalsamati e i portafogli paradossalmente vuoti, la pestilenza si propaga alle ultime file di spettatori, che sembrano soffocarsi con le mani ancora affondate in barili di pop-corn, e alle poche donne presenti nel Palazzetto, sorprese dai germi implacabili della ridarola con i nasi ancora immersi fra le mutande dei loro amanti esagitati.
L'Universo intero ride di Frullaculi, pugile forte e deficiente, e del suo allenatore conosciuto nell'ambiente come Il Capo, esperto quanto luridamente orgoglioso ex-guantone d'oro pesi libellula.
— Noooooo, cosa fai razza di coglione decerebrato! — il Capo lo colpisce al petto e al ventre con pugni che paiono carezze sulla mole muscolosa e fremente di quello che era il suo pupillo. — Mi hai rovinato, mi hai rovinato, deficiente deficiente DEFICIENTE PUZZONE CHE NON SEI ALTRO!
E intanto ridono tutti, anche quelli che a scuola erano soprannominati Sbrodolina e Cicciobello; anche quelli che il giorno prima hanno ammirato le traslucide cosce delle loro mogli avvinghiarsi ai ventri bianchicci e pelosi dei loro colleghi, colleghi che sfottevano sempre al momento della cena; anche i disoccupati che alle undici del mattino del giorno dopo si sarebbero ritrovati a casa a guardare la televisione con una Bud calda di disperazione e fallimento tra le mani.
Ridono di Frullaculi per non piangere di sé stessi, ridono del Capo per dimenticare i propri errori, ridono del mondo fuori per non guardare il marcio che hanno dentro e che non riescono più a togliersi di dosso.
— IO PUZZOOOOOOO — urla ancora Frullaculi, seppellendo le risate e le lacrime e i rivoli salati che gli cadono negli occhi e bruciano più delle ferite che ha sul volto, — NOOOOOO — urla il Capo tempestandolo di legnate per non prendere a bastonate la propria vecchiaia e la propria inutilità, — ROCKYYYYY! — urla una donna baffuta in mezzo al pubblico in festa.
Frullaculi si ferma.
Una manata si posa per l'ultima volta sul trapezio del pugile, risuona potente lo schiaffo umido nel rinato silenzio.
Centinaia di facce si voltano a sinistra, altrettante a destra, decine guardano in basso, poche di meno si voltano e mirano la folta peluria facciale della giovane donna.
— Rocky! TI AMO! La donna baffona si scaccola e fa per fiondarsi sul ring, si fa trasportare da onde di braccia i cui proprietari hanno smesso di ridere per veder meglio quel che potrebbe accadere.
Frullaculi tira un ceffone al nanerottolo che ha di fronte e il Capo decolla di lato, colpendo Spaccaballe sui testicoli e facendolo piegare in due.
Certo non per il ridere.
Rocky detto Frullaossa, per gli amici Frullaculi, ha lo sguardo sognante di un bimbo che rivede la mamma perduta.
— Rocky! Ti amo perché PUZZI! Non lo capisci, PORCO DIGHEL!
Rocky trucida la propria faccia con un ebete sorriso.
— ADRIANAAAAAAAAAA! È un grido talmente profondo che i più giurano tuttora fosse un osceno atto digestivo.
La psicosi dei blocchi di ghiaccio
Vit
In provincia, l'apertura di un negozio fa notizia.
Io e Alberto contavamo tantissimo su questo quando abbiamo pensato di aprire un'enoteca nella più depressa provincia danese, nello Jutland, in una cittadina sperduta dove una volta, molti anni prima, si era esibito Dario Fo. Speravamo nella curiosità della gente per un'enoteca di vini italiani gestita da italiani. Speravamo.
Sono tornato dalla Danimarca una domenica mattina. A casa non c'era nessuno. Avevo detto che sarei rimasto là per sempre: dopo 16 giorni ero tornato.
Sono andato in cucina a leggere il quotidiano della mia città. Ho cercato gli arretrati di quei 16 giorni. S'era diffusa in tutta Italia la "psicosi dei blocchi di ghiaccio". Tutto a un tratto grossi pezzi di ghiaccio, delle dimensioni di palloni da calcio o di teste umane, avevano iniziato a cadere misteriosamente dal cielo. C'erano stati anche dei feriti. Il fenomeno sembrava inspiegabile e qualcuno aveva tirato in ballo le profezie degli ultimi tempi, robe apocalittiche. Scienziati e pseudoscienzati avevano avanzato ipotesi scientifiche e pseudoscientifiche:
Scherzi di Carnevale (Ufficio Centrale di Ecologia Agraria)
Vapori di combustione prodotti dai Jumbo (Enrico Bianchi, Centro Naturale di Galceti)
Esperimenti militari
Neve ghiacciata dei carrelli di atterraggio degli aerei (Giorgio Fiocco, Istituto di Fisica, Università La Sapienza)
Anomali chicchi di grandine
Pezzi di comete
Scarichi dei WC dei jet, ovvero escrementi congelati
Bombe di ghiaccio scaricate da palloni meteorologici (Eugenio Casella, Prof. Di Fisica)
Sfere infuocate inviate per distruggere il mondo ma raffreddate dall'atmosfera terrestre (Mago Alex, Genova)
Un monito da parte di forma di intelligenza extraterrestre (Eufemio Del Buono, contattista, Roma)
Residui del processo di raffreddamento dei motori dei dischi volanti (Alfredo Lissoni, segretario del Centro Ufologico Nazionale)
Anche dalle mie parti era successo e ogni giorno il giornale locale pubblicava foto di gente che era stata sfiorata o colpita da un blocco. C'era sempre il blocco in primo piano. Accanto il miracolato, sorridente, che in posa da foto-ricordo indicava il ghiaccio spappolato a terra.
Hanno pubblicato in prima pagina una vignetta dove una signora in bicicletta sta per essere colpita da un blocco di ghiaccio. La donna urla con le braccia al cielo, sta cadendo dalla bicicletta mentre l'enorme meteorite avanza impietoso ad altissima velocità.
Stavo perdendo tempo. Avevo delle cose da fare. Cose orribili: come spiegare a tutti perché ero tornato.
Racconto astratto
Yle
Si comincia con uno spazio bianco. Non dev'essere necessariamente carta o tela, ma secondo me deve essere bianco.
Il peso dei colori è importante. Io ho passato anni a esercitarmi solo su questo, sul peso dei colori, perché il peso dei colori è importante. Il colore ha un odore, un sapore, un suono. Il bianco è silenzio. È il silenzio che prelude a un suono. Perciò, secondo me, all'inizio dev'esserci il bianco. Ma non puoi passare dal bianco magari al rosso, così, di botto, non va…
Penso che lo si possa circondare di blu, partire con gli archi… un blu ancora chiaro…
Il blu scuro mi ricorda Wagner. Non puoi passare dal bianco a Wagner, a meno che tu non sia Wagner e, non io, no, non lo sono. Nel blu puoi far comparire piccoli accenni, comparsate, che preparino al passaggio successivo. Un po' di rosso qui, un po' di verde lì e molto nero, che faccia sembrare il blu ancora più blu.
Che squillino le trombe! Arriva il giallo. Con una grossa macchia rosa, con tanti pallini colorati per ridurre la superficie gialla, perché troppo giallo può fare male, troppo giallo diventa follia, tu diventi pazzo, pazzo! Ti serve il blu, una bella cornice di blu, più chiaro e più scuro, più rilassante e più travolgente, tragico, forse, ma di un piacere tragico già catartico, che ti libera delle macchie di pazzia che ti sono rimaste in testa.
Il blu mi ricorda Wagner. Ma non tutte le tonalità di blu, no, ce n'è una precisa, è un blu scuro, saturo, è un blu molto blu, mi sembra di avercelo davanti agli occhi, sai? Eppure, non l'ho mai visto.
Però quando chiudo gli occhi mi ricompare davanti… il bianco, prima, il blu (non quel blu) poi, il giallo e poi, allora sì, quel blu… e tutte quelle macchie… palle di colore. Quando chiudo gli occhi il bianco è imprigionato dai colori.
Ma quando li riapro, il bianco è dappertutto. Non è carta o tela, no, è intonaco, è un bianco che non si può strappare e io non posso mai colorarlo. Sta lì e mi fissa. Il bianco è il silenzio che prelude a un suono. Non qui. Qui il suono non arriva mai. Lo aspettiamo (il bianco e io) ma non arriva mai.
Vengono delle infermiere, ma sono vestite di bianco. Anche i loro volti sono bianchi, sono silenzio assoluto, come i muri. Il cibo è bianco e i piatti sono bianchi.
La colpa è del giallo. Non sono riuscito a contenerlo col blu. Non finché ero in tempo. Ci riesco adesso, quando chiudo gli occhi… il blu incornicia il bianco… il blu incornicia il giallo…
Ma non sono riuscito a incorniciare il giallo e ora non posso incorniciare il bianco e non c'è il blu o il verde o il rosso o il rosa… Non c'è Wagner! Non c'è neanche l'esile suono di un flauto.
Non ci sei tu, la macchia rosa, sei stata inghiottita dal giallo prima che il bianco cancellasse tutto.
Se fosse tela o carta (ma anche ceramica o vetro) ci si potrebbe disegnare sopra il mare e il cielo, e l'orizzonte… forse una barca. Potremmo salire sulla barca e andare via, e il giallo sarebbe solo nel sole e il bianco solo nella luna. Potremmo andare in un posto tutto verde…
Io sarei il verde e tu l'arancione e saremmo entrambi sopravvissuti al giallo. Il bianco sarebbe alle nostre spalle, prima della nota di inizio, del violino e della campana.
Un foglio bianco, un fiore bianco, uno squalo bianco (sarebbe una triste ironia se ci mangiasse mentre cerchiamo di scappare in barca! Il bianco vince sempre).
Un cigno bianco, un martini bianco, il monte Bianco, il Mulino Bianco, il cioccolato bianco, il tartufo bianco, l'oro bianco, il muschio bianco, l'orso bianco, il pane bianco, il vino bianco, il velo bianco. Penso che potremmo lasciare qualche macchia di bianco nel nostro disegno (l'orso e lo squalo no, non si sa mai…). Un macchia bianca per una rosa bianca. No, per un vestito bianco, quello che hai sempre voluto. Un nuovo inizio.
È anche ironico essere circondato dal bianco, perché non sei stato capace di un nuovo inizio. Sarebbe più onesto essere circondato dal nero, dal silenzio finale… ci arriverò…
Sei già lì? Oppure no? Non so più niente di te qui. Tutto è silenzio.
L'altro giorno ho sognato che ti infiltravi tra le infermiere per farmi evadere. Nessuno si accorgeva che il tuo camice era rosa, che il tuo volto era rosa, che non eri silenzio. Scappavamo via su una nuvola viola… io non ho mai usato il viola. Non si può controllare, il viola. Così adesso mi è venuta una gran voglia di viola. Di viola e di rosa.
Un mazzolin di rose e di viole…
Da dove spunta fuori il mazzolin, adesso? Devo ricordarmi di metterlo nel disegno… Adesso, appena chiudo gli occhi. Eccolo, è lì, in mezzo al blu. Nel nostro posto verde, mentre suonano i violini (sulla spiaggia, di notte, con la luna? Che cliché!) avrai un mazzolin di rose e di viole, lo so, non esiste, perché non fioriscono insieme, è una licenza poetica. Ma anche nel nostro posto verde ci saranno le licenze poetiche… ecco… metto una bella isola verde nel blu. In basso a destra, un verde calmo, sazio, rilassato. Un signore panciuto che fa la pennichella dopo pranzo.
Mio padre era verde? Chissà, all'improvviso mi sembra di sì, dire che l'avevo sempre visto grigio o marrone… Anzi, ora nel disegno ci metto una bella palla marrone che ci guarda dall'alto, sìsì.
Per par condicio metto un quadrato rosso… pensavi di esserti risparmiata la suocera innamorandoti di un orfano? Ho sempre pensato che il rosso fosse il colore più bello. Che ci faceva un quadrato rosso con una palla marrone, poi… Che ci faceva una macchia rosa con una macchia gialla? Avremmo avuto dei figli arancioni? Degli umpa-lumpa! Come, non è divertente? È colpa del bianco, non mia. Io adesso posso usare il blu, l'ho detto alle infermiere, ma penso che non mi credano, perché annuiscono per farmi star zitto e tutto rimane uguale. E anche adesso, dopo il nostro discorso, tutto è rimasto uguale, il blu il giallo il verde il rosa il marrone il rosso sono nella mia testa ma non cambiano il bianco che c'è là fuori e che entrerà, lo so, anche dentro.
Silenzio.
Lo specchio del tempo
Emma Saponaro
"Aspettiamo che ritorni la luce
di sentire una voce
aspettiamo senza avere paura, domani."
(Lucio Dalla, Futura)
Quasi tutti pensavano che l'uomo e il ragazzo fossero padre e figlio, probabilmente per la straordinaria somiglianza che li univa.
Era una fredda mattina di febbraio. Il cielo era terso e il sole diffondeva un piacevole calore. Seduti in un bar dell'aeroporto, parlavano uno di fronte all'altro sorseggiando caffè. In quel momento la radio stava trasmettendo la voce graffiante di Lucio Dalla che cantava Futura. Nessun'altra colonna sonora sarebbe stata più adatta a quella situazione.
— Non devi partire, dammi retta. — Disse l'uomo, rivolgendosi al ragazzo con tono persuasivo.
— Io devo partire. In Giappone farò carriera. — Obiettò il ragazzo, ma, non ricevendo risposta e dopo un momento di esitazione, continuò: — Ammesso che io ti creda, cosa dovrei fare?
— Non devi partire e basta.
— Ma perché?
— Perché la perderai definitivamente, e non te lo perdonerai mai. Nessuna donna che incontrerai sarà come Matilde. Maledirai questo giorno, credimi.
— Follia! Questa è pura follia. — Sussurrò il ragazzo, voltando lentamente il capo da una parte all'altra, con espressione tetra e inebetita allo stesso tempo.
— Voglio sapere di più!
— Lei si ammalerà. Sposerà, pur non amandolo, un tipo insulso che le offrirà una sicurezza economica. Matilde, schiacciata dalla solitudine, si farà convincere, non foss'altro per non far crescere sua figlia senza un padre.
— Hai detto "sua figlia"?
— Te lo ha detto che è incinta, giusto?
Improvvisamente, il ragazzo fu pervaso da un tremore che aumentò il disagio. Respirava a fatica e, con un gesto rapido, si tolse la sciarpa che gli dava la sensazione di soffocamento. Era stupito, ancora incredulo, ma anche curioso, spaventato. Finalmente il coraggio arrivò e riprese il dialogo: — Sì, me lo ha detto, ma ha aggiunto che il momento è sbagliato e non ha intenzione di portare avanti la gravidanza.
— Balle!
— Scusami, non mi sento molto bene. — Si lamentò il ragazzo che bevve un bicchiere d'acqua.
— So che è difficile, ma ora devi credermi. Ascolta, Matilde ti ha detto così solo per paura che ti sentissi intrappolato. Sa benissimo quanto tu tenga a questa dannata carriera, che un giorno maledirai per averti fatto perdere tutto, tutta la tua vita. E poi, ciò che ti ha detto Matilde voleva essere una specie di test.
— Test?
— Sì, per vedere come avresti reagito, e invece tu cosa hai fatto? Hai detto che aveva ragione e che non avresti voluto rinunciare alla tua promozione. Coglione!
— Vero, esattamente questo, ma…
— Niente ma. Ora spero che tu sia convinto di come stanno realmente le cose.
Il ragazzo continuava ad avvertire capogiri e ora anche un leggero senso di nausea. Aveva la sensazione di vivere in un sogno, ma questo non gli tolse la forza di continuare a parlare.
— Dimmi di più. Cosa succederà?
— Non voglio farti del male.
— Voglio saperlo, per Dio! — Urlò, sbattendo un pugno sul tavolo e attirando l'attenzione dei presenti.
— Ok, ti dirò tutto. Non resisterà. La depressione prenderà il sopravvento e la spingerà al suicidio. Si getterà dal quinto piano della sua abitazione. Cadrà sul tetto della Volvo di suo marito, non morirà subito ma non farà in tempo ad arrivare all'ospedale.
— E la bambina?
— Lei, la piccola Aurora, avrà solo due anni quando la mamma morirà. Il marito è un noto chirurgo e, contrariamente a quanto voleva far credere a Matilde, non gli piacciono i bambini, così la scaricherà ai suoi genitori, due notai tutti d'un pezzo che non sapranno dimostrare affetto alla dolce Aurora. Lei fuggirà dai nonni e se la caverà lo stesso: si laureerà in economia con il massimo dei voti, diventando broker a Londra.
— Santo cielo! — Il ragazzo si accasciò sul tavolo, poggiando la testa sul braccio. Le emozioni che percepiva erano intense, troppo, e lo annichilirono fino a trascinarlo in un pianto disperato che servì a liberarlo dalla tensione che aveva fin lì accumulato. Lentamente cominciò a intravedere una luce, una speranza, una via d'uscita e chiese all'uomo: — Ma tu?
— Io cosa?
— Come hai vissuto in tutti questi anni?
L'uomo ordinò un cognac, che bevve in un sol sorso. Ingurgitare tutto d'un fiato significava bruciare e cancellare ciò che era stato e che poteva essere diverso.
— Non ho vissuto, mi sono lasciato trascinare dalla vita. Purtroppo, o per fortuna, non ho avuto il coraggio che ha avuto Matilde, ma sapessi quante volte ho pensato di porre fine alla mia sofferenza. Ho conosciuto donne, tante, belle, intelligenti. Non ho mai dormito con nessuna. Pensavo solo a lei. Sono trent'anni che penso a lei e che maledico quel giorno.
— Dov'è? — Chiese il ragazzo, acquistata la giusta lucidità per reagire.
— Se non ricordo male, oggi ha un'udienza, ma per il pranzo è libera.
Il ragazzo si alzò di scatto e andò via di corsa, dimenticando la sciarpa sul tavolino.
Arrivò in taxi davanti al tribunale, e lì aspettò trepidante Matilde per un'ora e mezza, non distogliendo mai lo sguardo da quel portone angusto, fino a quando la vide uscire. Indossava un cappotto doppiopetto, lungo e nero, che a lui piaceva tanto. Lei si voltò come se avesse sentito un richiamo e lo vide. Dapprima i loro sguardi si incrociarono, rimanendo così per lungo tempo, fino a quando anche i loro corpi ebbero modo di incontrarsi.
— Sono stato uno stupido. Lasciarti per la carriera!
Matilde non rispose. Aveva gli occhi inumiditi dall'emozione inaspettata. Ma nel suo sguardo si leggeva tutta la felicità che stava provando, per un amore che pensava perduto per sempre.
— E, naturalmente, la frugoletta la terremo, no?
— Che ne sai che sarà una femmina? — Domandò Matilde divertita.
— Lo so e basta.
— Sai anche come si chiama?
— Sì, la chiameremo Aurora, e sarà bella come la mamma.
Era tutto deciso. Era riuscito a cambiare il corso della sua vita e a dargli un senso. Tutto questo per merito di sé stesso. Sarebbe stato un segreto che non avrebbe mai potuto svelare a Matilde: il segreto di un incontro con sé stesso più vecchio di trent'anni.
Lo scambio
Angela Di Salvo
Una vecchia Ford azzurra entrò quella mattina nel parcheggio sorvegliato: pareva un cagnetto stanco dopo una lunga corsa.
Vincenzo chiuse la macchina e si avviò verso il commissariato che conosceva bene.
Entrò tranquillo salutato da tutti con i sorrisi e la simpatia di sempre. Chi gli dava una pacca sulle spalle, chi si avvicinava per chiedergli come mai fosse lì, chi gli ricordava della partita che si doveva giocare la sera al campetto. Ma non attaccò conversazione con nessuno.
Tirò dritto verso la stanza del commissario Giardini. Bussò e gli fu detto di entrare.
— Bassetti, che c'è? Ma non era il tuo giorno libero oggi? — gli chiese il commissario appena se lo trovò davanti.
— Sì, questo è un giorno di libertà in tutti i sensi per me — rispose soddisfatto.
— Volevi dirmi qualcosa? — aggiunse il capo osservando la sua faccia che non gli piaceva per niente.
— Sì, sono venuto a costituirmi, ho ucciso mia moglie — disse calmo Vincenzo posando la sua pistola d'ordinanza sulla scrivania — con questa.
— Stai scherzando? — farfugliò il commissario allibito, alzandosi dalla sedia di scatto. Non toccò l'arma ma si sentiva ancora l'odore della polvere da sparo.
— Niente affatto. Posso darle l'indirizzo dove troverà il suo corpo crivellato dai proiettili partiti da questa pistola. — Continuò a parlare Vincenzo con la stessa pacata serenità.
E mentre il commissario lo guardava incredulo e sbalordito per il modo in cui proferiva la sua terribile confessione, tutto gli passò velocemente nella testa come le sequenze di un film.
Aveva ancora le chiavi dell'appartamento e aveva messo in atto il suo piano, prima che Gabriella avesse deciso di cambiare la toppa per impedirgli di tornare a casa.
Era stata sua moglie per ventidue anni e gli aveva dato due figli, Virginia che aveva da poco compiuto diciotto anni e Andrea che ne aveva undici. La grande era tutta sua madre, gli stessi occhi grandi e i lunghi capelli rossi, mentre il piccolo assomigliava a lui, un morettino molto vivace che ne combinava di tutti i colori.
Aveva lavorato notte e giorno per campare la sua famiglia e come risultato cosa aveva ottenuto? Quello di essere cacciato in malo modo di casa e andare ad accomodarsi a vivere in un bugigattolo lontano dai suoi figli, mentre sua moglie se la spassava cambiando uomo ogni settimana.
Come aveva fatto a non capire che aveva sposato una donnaccia? E che fine avrebbero fatto i suoi figlioli con una madre del genere?
La rabbia lo martoriava da mesi, poi si era trasformata in odio implacabile e infine era diventata un bisogno vitale e irrinunciabile di vendetta
Alle 10 in punto era entrato cautamente in casa dirigendosi verso la cucina. I ragazzi a quell'ora erano di sicuro a scuola e Gabriella doveva essere a casa, c'era la sua macchina posteggiata davanti al palazzo. Nell'appartamento era tutto in ordine e non si udiva nessun rumore che provenisse da qualche parte dell'abitazione. Possibile che fosse uscita? Aveva ispezionato in silenzio tutte le camere finché era arrivato davanti alla porta di quella che era stata la loro camera da letto. La porta era semiaperta, le persiane socchiuse lasciavano trapelare solo una luce soffusa che non permetteva di discernere bene gli oggetti e i mobili della camera.
Pian piano i suoi occhi si erano abituati alla penombra.
Adesso distingueva bene la sagoma di Gabriella che se ne stava a letto immobile, sentiva il suo respiro regolare e vedeva la lunga chioma fluente sparsa per il cuscino.
La puttana dormiva ancora, di sicuro aveva fatto le ore piccole e l'immaginazione galoppava al pensiero di quali roventi amplessi avesse consumato nella notte.
Impassibile e determinato, le aveva scaricato addosso i proiettili che erano nel caricatore della sua pistola, non sapeva quanti fossero ma erano andati a segno quasi tutti.
Il corpo aveva sussultato diverse volte senza che si sentisse un gemito né un lamento.
Poi era uscito dall'appartamento con calma. Non c'era fretta e non gli importava se qualcuno avesse sentito gli spari, non aveva nessuna intenzione di scappare o di rivolgere la pistola contro se stesso.
— Ma sei impazzito? Un poliziotto che commette un omicidio! Tu devi andare a farti curare! — gridò furibondo il commissario, scuotendolo dalle immagini che scorrevano vivide nel suo cervello — non posso credere che un poliziotto in gamba come te abbia fatto una cazzata del genere!
Vincenzo non si scompose né insistette per farsi credere, tanto l'avrebbero scoperto che aveva confessato la verità.
Poi suonò il telefono, il commissario uscì fuori dalla stanza precipitosamente per rientrarvi poco dopo molto agitato e con un'espressione tesa e tormentata sul volto paonazzo.
— Sai chi ha chiamato? — gli disse, contenendo a stento la sua ansia.
Non gliene importava niente di chi avesse chiamato, quindi aspettò che glielo dicesse lui.
— Era tua moglie.
— Mia moglie? Ma cosa sta dicendo! Mia moglie è morta, ne sono sicuro — rispose convinto.
— Invece era uscita per andare dal medico.
— Ma era a letto! — insistette Vincenzo, sicuro dei fatti suoi.
— No, c'era tua figlia a letto. Stava male e aveva la febbre alta, per questo aveva passato la notte nel letto assieme alla madre. Hai ammazzato tua figlia, idiota! — gridava il commissario amareggiato scuotendo la testa — E quella poveretta urlava come una pazza al telefono! Mi viene ancora la pelle d'oca! Una volante si sta recando nell'appartamento e ci vanno pure quelli della scientifica…
— Non è possibile balbettò Vincenzo mentre un lampo di intenso dolore paterno si accese per qualche secondo nei suoi occhi stralunati — La mia Virginia… non è possibile…
— Hai ammazzato un'innocente, ti sei rovinato la vita, e per cosa? Ma ti rendi conto di quello che hai fatto? Non posso credere che tu abbia fatto una cosa così orribile… — imprecava rabbioso Giardini che non si dava pace per quell'atto terribile e insensato e fino che punto fosse arrivato uno dei suoi uomini migliori.
Mentre lo portavano via, Vincenzo aveva il volto privo di espressione e si era spenta nello sguardo appannato anche la luce del dolente sentimento di poco prima. Era stato soffocato dalla soddisfazione che gli procurava la visione della moglie in preda alla sua folle disperazione accanto al cadavere della figlia coperto di sangue. In fondo, lo scambio non gli aveva rovinato per niente il gusto della vendetta. Poi si era rivolto al commissario con una voce che non pareva più la sua:
"Forse non ho commesso un errore, commissà. È stato un bene che sia morta Virginia. Con la madre scellerata che aveva, avrebbe fatto di sicuro una brutta fine…"
Il negozio dei sogni
Carlocelenza
In provincia, l'apertura di un negozio fa notizia. Marta l'aveva saputo il giorno prima dalla sua amica più fidata, Leonora, bassa e grezza tanto quanto lei era alta e curata. Ripensò alle sue parole con curiosità, il Negozio Dei Sogni, così si chiamava, ma dalle risatine che Leonora faceva mentre ne parlava, doveva vendere qualcosa di sottilmente peccaminoso.
La sua amica non si era spiegata molto il giorno prima, ma aveva sentito i pettegolezzi che già si facevano strada nel paese trascinandola nella sua curiosità.
Si erano date appuntamento per quel pomeriggio per una passeggiata in centro, Marta sapeva che la sua amica l'avrebbe condotta fino al negozio a curiosare, ma non glielo aveva detto esplicitamente, temeva un suo rifiuto, quindi lei non si meravigliò quando una volta in strada si diresse da tutt'altra parte. Leonora sapeva tutto di tutti e parlava in continuazione, ma andare con lei, anche se a volte le sue chiacchiere continue potevano risultare pesanti, le dava la scusa per uscire, si sarebbe sentita in imbarazzo a farlo da sola, come un affronto al suo defunto marito.
Circa un'ora dopo, al termine di un largo giro pieno di saluti e brevi soste, sulla strada del ritorno verso casa, passarono finalmente davanti alla piccola vetrina del nuovo negozio. Si fermarono assieme ad altre signore che, casualmente, parlavano tra loro proprio lì davanti e tra una chiacchiera e un'altra, senza mostrare grande interesse, diedero più che un'occhiata alle piccole scatole di velluto nero, illuminate dai faretti della vetrina.
Un'estate ai Carabi, Luna di miele in Costarica, Viaggio in India, i cartellini rossi sotto le piccole scatole parlavano chiaro, ogni scatola conteneva un sogno. Dai discorsi che giravano aveva capito come funzionava, in ogni scatola c'era un anello, bastava metterlo al dito per vivere il sogno ogni volta che si voleva.
— C'è anche una vacanza sulla neve? — chiese alle altre — Non l'ho mai fatto, ho paura del freddo, ma l'ho desiderato molte volte.
— Oh, penso che sia bellissimo — rispose una di loro mentre Leonora la guardava sorpresa.
— Abbi pazienza Leonora, mentre tu chiacchieri vado a dare un'occhiata all'interno, ti dispiace?
— No, no fai pure — rispose lei ancora più sorpresa. — Io torno a casa, si è fatto tardi, domani mi racconti — finì con un sorriso.
Fu grata all'amica per la sua delicatezza, e lasciate le altre entrò nel negozio con una vaga ansia nel cuore.
La accolse una signorina molto elegante, fasciata in un lungo abito di velluto celeste dal collo alto, che le illustrò sorridendo lievemente tutti i passaggi necessari per acquistare un sogno prima di farle provare un piccolo assaggio del loro prodotto. La seguì accomodandosi in una saletta riservata su una comoda poltrona e prese dalle mani della commessa un anello di rame che, le stava dicendo la signorina, sarebbe stato gettato via dopo la sua prova.
— Questi sono anelli usa e getta — le spiegò la signorina — se comprerà uno dei nostri prodotti l'anello vero resterà suo anche se ci restituirà il sogno. Potrà cambiare prodotto in qualunque momento quando sarà stanca di quel che ha preso, ma l'anello resterà suo, cambierà solo la scatola che contiene i dati, l'anello è solo un'interfaccia.
Appena la commessa si allontanò Marta infilò l'anello al pollice come le era stato detto e in un attimo si trovò proiettata su una spiaggia tropicale. Sentiva il calore del sole, l'odore del mare arrivare fino a lei e camminò nell'acqua limpida fino a che strabiliata non se lo tolse dal dito.
Attese qualche minuto prima di richiamarla, era sconvolta.
Prese in mano il depliant con l'elenco di tutti i prodotti e lo scorse fino a che non incontrò quel che si aspettava di trovare, " Una notte con Brad Pitt ", numero centododici, la commessa non avrebbe mai saputo cosa avesse scelto, la privacy era ben tutelata in quel negozio.
Pagando il conto, guardò fuori dalle vetrine, il piccolo capannello si era sciolto, nessuna domanda imbarazzante a cui rispondere, era fortunata.
A passo veloce, tornò a casa e si chiuse dietro la porta sospirando sollevata, con la piccola scatola ancora stretta in mano.
Calma, si disse, prima metti tutto in ordine.
La casa in cui viveva da sola era già in perfetto ordine, nessuno doveva venirla a trovare, non aveva motivo di aspettare ancora. Dirigendosi verso la camera da letto cominciò a sbottonare il vestito e si infilò sotto le coperte poggiando la piccola scatola sul comodino.
Prese infine l'anello d'oro con mani tremanti e se lo infilò al dito.
Davanti a lei due uomini uscirono da un nulla fatto di latte e lei li riconobbe all'istante. Il suo idolo, magro e sfrontato come un gatto selvatico e di fianco a lui Mario che la guardava con curiosità.
Brad si avvicinò a lei e la abbracciò baciandole il collo, ma il suo sguardo era fisso su Mario che la guardava.
— Vattene accidenti, è il mio sogno questo! — gli sibilò
— Infatti ci sono anche io come ogni notte.
— E guarda allora!
Da quel momento in poi non ebbe remore e si concesse a ogni fantasia, dando al suo nuovo amante anche quel che a Mario non aveva mai dato.
E fu miele caldo e colante la sua anima, sinuosa come un serpente avvolto in spire oleose.
Lentamente Mario sparì e lei gettò un sospiro, chiuse gli occhi e pianse.
Leonora la guardò con sorpresa il giorno dopo, mentre lei le apriva la porta per farla accomodare in soggiorno, non aveva mai visto la sua amica in vestaglia da notte.
— Tutto bene Marta? — le chiese una volta seduta ammiccando da dietro le trine del suo cappellino.
— Bene bene, Leonora cara — rispose Marta sporgendosi verso di lei per batterle gentilmente con la mano sulle gambe.
— Ti vedo diversa oggi, è successo qualcosa di bello?
— Oh si cara — rispose tendendo timidamente la mano per mostrarle l'anello che ancora teneva al dito.
— Racconta.
— Pazienza amica mia, adesso vado a prepararmi e ti racconto tutto per strada — e mentre si allontanava aggiunse — è proprio vero cara mia, ci vuole un bel sogno per scacciare un incubo.
Il podere sulla collina
Roberto Guarnieri
Quasi tutti pensavano che l'uomo e il ragazzo fossero padre e figlio. Sono arrivati una mattina presto, risalendo la ripida strada verso il podere con un fuoristrada macchiato di fango. Si è saputo poi che erano di una impresa edile del capoluogo, lui il titolare e il ragazzo il suo geometra. Si erano messi in mente di comperare il podere per ristrutturarlo, si figuri. Avranno parcheggiato vicino al muro di cinta, immagino, per entrare nel parco abbandonato. Poi sono scomparsi. Non li ha più visti nessuno né qui né a casa loro. Nemmeno l'auto hanno trovato e, mi creda, la polizia ci ha lavorato su per un bel po'.
Il bambino? Sì, è vero, c'è chi dice di averlo visto, con la testa infilata tra le sbarre arrugginite del cancello, nelle giornate di pioggia invernali. Ha il volto bianco, grandi occhi neri e sorride, con la bocca piena di sangue. A volte il sorriso si deforma e si trasforma in una risata. Isterica e stridula che riempie l'aria con un suono che arriva sin in città. Esagero? Proprio no! Lo sanno tutti che parecchi curiosi che gironzolavano lassù sono scomparsi nel nulla. In paese nessuno parla volentieri del vecchio podere sulla collina. Non tanto per queste storie un po' paurose, mi creda. No, è anche per la sua forma. È malsana. L'edificio principale non avrebbe in fondo molto di strano. Vecchio, con i mattoni chiazzati dal tempo e dall'umidità e con dei rami d'edera che se lo mangiano pian piano. Sono le strutture che stanno attorno che non sono normali. Piccole casupole, muretti storti, bozzoli di muratura venuti su come tumori maligni. Senza un senso o uno scopo aumentano di mese in mese. Chi li costruisce? Non si sa. I vecchi dicono che ogni volta che capita qualche incidente, nella collina, il giorno dopo cresce un nuovo pezzo di casa.
— Sono tutte tombe — mormorano nelle osterie la sera d'inverno — Le fa la casa stessa. Si nutre di uomini e li usa per crescere lentamente. Si espande come un cancro e vuole riempire l'intera cima della collina.
Le sembra una sciocchezza? E no, le dico! I mattoni delle parti nuove sono consunti e sbriciolati. E chi si metterebbe a costruire una cosa così con dei pezzi antichi? Mi dia retta, li genera il podere, come tanti piccoli feti.
E il parco? Pieno di verde, vero? Non immagina nemmeno le creature che ci vivono dentro. Frusciano e scricchiolano, spezzano rami e ringhiano. Io magari non le ho mai viste ma i lampi di luce gialla e le ombre che schizzano tra le finestre vuote, quelle sì che posso raccontarle.
Sì, lo so, sono d'accordo con lei. Non sembra una casa stregata di quelle che si vedono al cinema. È solo un vecchio podere di contadini disabitato. Ce ne sono molti simili qui attorno, ma nessuno è come questo. E poi, li vede gli alberi? Saprebbe descrivermi la specie? Sembrano pini, ma sono deformi. Ritorti su sé stessi, con rami a cinque punte che assomigliano a delle mani aperte. Di notte. Perché al mattino, le giuro, sembrano pugni chiusi. I rovi crescono bassi sui muretti di cinta e lasciano solo uno spazio sul vecchio cancello. Non va mai nessuno lassù, ma quello si apre. Da solo, dicono. Cigola nel buio per far passare gli abitanti del podere, e poi si richiude lentamente, spinto dalle mani bianche del bambino.
— Mi deve credere — ansimò il vecchio riprendendo fiato — quello che le ho detto è vero. Possono sembrare storie di osteria, ma noi qui ci crediamo.
Il forestiero fissò in silenzio la piccola collina avvolta di alberi.
— Cosa? Se voglio accompagnarla lassù? — Il vecchio rabbrividì — Non ci penso neppure. Non di certo a quest'ora, al tramonto. Io non so chi l'abbia convinta a comperare quel podere, ma dia retta a me, non lo faccia.
Fece una pausa e abbassò la voce come se non volesse farsi sentire: — Non è il primo, sa, che pensa di acquistare quella casa. Ogni tanto le agenzie riescono a convincere qualcuno che si tratta di un affare — sorrise stancamente — ma alla fine se ne vanno tutti. — Perché le agenzie cercano di venderla? Beh lo capisce da solo, no? È una bella posizione, anche panoramica — il vecchio si grattò la barba — però le dico una cosa. A noi, in paese, non piace molto l'idea che qualcuno venga qui e acquisti il podere. Come? Se fosse veramente stregato ci farebbe un favore a togliercelo di torno? Ma, insomma, lei che ne sa? Mica è nato qui. Noi non vogliamo problemi — strizzò l'occhio — e se qualcuno lo butta giù, magari per farci una villetta o un residence, chissà mai cosa potrebbe accadere. Dove andrebbero le creature che vi abitano, secondo lei? Occuperebbero altre case, altre cantine, ce le troveremmo accanto anche di notte. Bella fregatura. In che senso, sono tutte favole? Lo dice lei, perché non ascolta. Io gliel'ho detta, come sta la storia. Poi faccia pure, se ha coraggio.
Il vecchio decise che era abbastanza. Si girò e lasciò il forestiero solo all'inizio della ripida stradina infangata. Avrà ben da pensarci, rifletté soddisfatto, e alla fine si leverà dai piedi come tutti gli altri.
Lo straniero indugiò solo un attimo e poi si incamminò per la salita, verso il podere. Arrivò che scendeva la sera, con le prime volute di nebbia che sgorgavano dal terreno avvolgendosi attorno ai rovi. Si fermò davanti al grande cancello arrugginito, aspettando.
Il bambino spuntò all'improvviso dal buio del parco. Bianco come la morte, si muoveva come se scivolasse sull'erba. Con le piccole braccia si aggrappò alle sbarre corrose fissandolo con occhi spalancati.
Il forestiero si tirò su il bavero della giacca e sorrise. Un sorriso ampio che scoprì i canini aguzzi luccicanti di saliva. Quel posto gli piaceva proprio. Pace, riservatezza, cibo in abbondanza e persino un buon clima.
Il giorno dopo avrebbe fatto portar su anche la sua bara.
La ballerina
StillederNacht
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo nebbia.
La realtà scompariva lentamente come se nuotassi sott´acqua verso il fondo, e i rumori intorno erano un'eco lontana e distorta.
Camminavo senza meta per le strade della città, mentre il mondo mi aveva ridotto all´obbedienza, sotterrandomi, bollendomi con le sue stupide leggi.
La luna piena irraggiava tutta la città di una luce invidiosa, quasi volesse rivendicarsi col sole d´essere nata nelle tenebre.
I pugni serrati, la rabbia nelle ossa, non mi aiutavano di certo a vivere, ma come della scritta "il fumo nuoce alla salute", io continuavo a dimenticarmene.
"Fa come credi".
Quelle sue ultime parole distanti rintoccavano nella mia testa come il suono triste di campane funebri in un piccolo paesino disperso.
Entrai in una birreria, e dopo aver ordinato qualcosa da mangiare, mi misi a sedere su di una sedia. Come vinta dalla stanchezza, mi rilassai e chiusi gli occhi.
In un teatro buio, danzavo un tango convulso con un essere oscuro, una forma indefinita, il demonio; a ogni passo, sentivo le sue braccia di serpente avvolgermi freneticamente: strisciavano a scopo di condurmi, assaporarmi, tentarmi.
Il mio cuore, come una ragnatela, si lasciava tessere di passione e di vita da quel ragno, che baciandomi, diffondeva in me quel suo veleno, un´onda scura, vigorosa, che si propagava nelle mie membra.
Dall´oscurità profonda proveniva una dolce musica di piano, quasi fosse un´ombra, un compositore dannato a suonarla.
Leggeri come le corde di un violino, volavamo e danzavamo come le piume di un cigno su di un quieto specchio d´acqua.
Un fulmine in piena notte, grottesco e atroce, mi svegliò di colpo da quel mio strano sogno.
Aprii gli occhi, scoprendomi di nuovo sola, ma con la fronte madida di sudore, come se quel ballo fosse stato reale.
La voce del cameriere m'invitava con insistenza a prendere il panino ordinatogli.
Lo presi, e insieme al silenzio, iniziai a dargli qualche morso.
Aborrivo la mia vita: la sicurezza di tutti i giorni, il lavoro e tutti quei fottuti soldi.
Pagai lasciandogli una mancia cospicua.
Avevo riempito la mia vita di vane e inutili cianfrusaglie, come uno scaffale pieno di libri mai aperti, mai vissuti, mai letti.
Ero una donna morta, una dottoressa inetta.
Come la maggior parte degli studenti, che attraverso l´acquisto di libri matematici s'illude di poter veramente imparare, anch´io avevo studiato medicina, così come buttare giù dello Xenax nell´esofago, inutilmente senza saperlo. Pillole di sapere inghiottite frettolosamente e in abbondanza per guarire in fretta da un male immaginario.
Allo stesso modo, avevo abbandonato danza.
Intanto, i miei denti annientavano e disintegravano quella carne morta, riscaldata, condita fra due fette di pane.
Masticavo, inghiottivo: un gesto meccanico e insipido come la mia esistenza.
I miei pensieri. Uno scaffale pieno di sogni estranei e illusioni trasparenti come utopie.
Delle fragili bolle di sapone che scoppiavano senza lasciar traccia nella memoria.
Ogni volta che sentivo la parola "danza", era come se mi si versasse del tè bollente in faccia; più ne sentivo parlare e più le ustioni mi dolevano, rendendomi ancora più brutta di quel che credevo.
Forse, per questo non riuscivo più a guardarmi allo specchio.
Se solo l´anima mia non fosse nata ballerina, forse, avrei potuto anch´io gustare della voluttà di tutti i giorni.
Invece, mi persi come nella vista di uno splendido quadro, attonita dai miei insuccessi, sprofondando in uno spirito di abnegazione, cadendo nel vuoto dell´apatia.
Ricusai come i ricchi dei sentimenti, e la passione per i soldi m'intorpidì le gambe, il cuore.
Impugnai pigramente la beretta 418 nella mia borsetta.
La pistola in bocca e poi… tutto sarebbe finito "aus die Maus"…
Un gesto rapido e indolore.
— No, non può finire così! — Mi dissi.
Volevo uscire di scena con una morte pulita, nitida.
Avrei voluto davvero spararmi in bocca, senza prima essermi lavata i denti?
Il pensiero di pezzi di cibo spappolati, mischiati al mio corpo esanime al suolo, mi diede la nausea.
Ripresi il panino e ne ordinai un altro.
Dopotutto, in mezzo al dolce torpore dei soldi non si stava poi così male, e il suicidio della ballerina poteva aspettare.
Il canto degli uccelli
Arianna
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo la nebbia. E finalmente arrivava il nuovo giorno.
C'è un momento magico, in cui anche un cieco capisce che sta giungendo l'alba. Gradualmente tutti i rumori della notte sembrano cadere nel sonno, esausti. Non si odono più voci né passi di persone che rientrano a casa o escono per trascorrere la notte altrove. Il silenzio raggiunge la sua armonica completezza. Solo in quell'istante gli uccelli iniziano a cinguettare. Sembra un momento di festa, celebrato con un canto dolce e crescente, quasi volessero dire che finalmente è finita la notte piena di affanni. La melma si è depositata in basso, stagnante, immobile. L'aria è leggera. Nessuna tensione è percepibile, solo il piacere della pace. La fine del dolore, che Lucy deve fingere sia piacere, ogni notte. Quando il canto degli uccelli rompe il momento del silenzio, lei sa che può attraversare la strada e tornare a casa. La nebbia le apre uno spazio, nell'incedere lento verso la sua auto. Sale e si siede. Respira. Chiude gli occhi, per poco. Anche l'assenza di immagini non basta a staccarla da ciò che è stato. Potrebbe già aver dimenticato perché ormai per lei non significa più niente. Ma gli odori che si sente addosso, quelli sono un'impronta che deve cancellare con un bagno caldo e profumato. Avvia il motore, procede con calma verso casa. Fa scendere il vetro del finestrino, perché il suo corpo è impregnato di umori. Sudore, saliva, sperma. Diverse combinazioni di questi elementi che le danno la nausea. Solo questo le fa schifo del suo lavoro. Sentirsi sporca, quando tutto è finito. Guardarsi allo specchio, con il trucco disfatto dopo sesso e sesso. I suoi abiti sgualciti, a volte strappati. Le calze sudate, i piedi stanchi di quelle scarpe dal tacco da dodici centimetri e la voglia di camminare scalza. La pianta dei piedi martoriata dalle fessure delle calze a rete, brucia. Nel momento della pace, desidera solo liberarsi da ogni traccia di quella notte finita. Una parentesi, prima di tornare sulla strada, ad aspettare il primo cliente. È il suo preferito. Perché è l'unico che la troverà pulita, profumata, come a un appuntamento con il suo amato. A lui sorriderà, fresca e serena.
— Ciao amore — gli dirà, appena lui si avvicinerà.
Sarà accarezzata dal suo sguardo colmo di passione e desiderio, e lei fingerà che sia lui, il suo primo cliente a cui aveva donato la sua verginità. Quando aveva visto di essere sporco di sangue, l'aveva guardata in silenzio. Lei aveva aspettato un commento, ma i suoi occhi sembravano scrutarla nel fondo dell'anima. Dopo essersi rivestito, le aveva scritto un assegno che lei credeva di non aver letto bene. Ma alla luce del lampione, dove la lasciò dopo averle detto che non l'avrebbe mai dimenticata, vide bene. Aprì un conto in banca. Quando capì di essere incinta, non lavorò più. Fece nascere il bambino, e quando i soldi stavano per finire, tornò in strada, fra le sue vecchie amiche passeggiatrici. Lui non tornò più. Ma è bello conservare un ricordo e un'illusione. Con il primo, finge sempre che sia lui. Il primo è sempre il più bello. Gli altri, sono incubi crescenti. Hanno bevuto, e cercano l'emozione prima di andare a dormire. Esaltati, animali; poi, hanno sonno ma non vogliono cedere. Chiedono piacere, ma quasi sempre non riescono ad averne. Poi si arrendono, e pagano. Finalmente, il canto degli uccelli annuncia che può tornare a casa. Non passa più nessuno, nel momento della magica tregua. E Lucy può inebriarsi del caldo della sua casa. Ha acquistato un attico dal quale può guardare l'alba illuminare le strade di Roma. Ma prima si affaccia nella stanza di suo figlio, che ancora dorme. Poi, il suo bagno ristoratore. Deve ritrovare il suo odore, e far scorrere via tutti gli altri. Solo allora, si abbandona all'abbraccio delle sue lenzuola, per dormire. La baby sitter svolge il ruolo di amorevole madre, nella sua assenza. Lucy incrocia suo figlio solo in poche ore del pomeriggio. Ma questa vita durerà ancora pochi mesi. Ha acquistato la licenza per una profumeria, e quando il negozio sarà avviato, dimenticherà tutti gli anni dei cattivi odori, e le fragranze di cui sarà circondata saranno le dolci carezze che non ha mai ricevuto.
Il suono di un clacson la distoglie dalla scia dei suoi pensieri. Guarda nello specchietto retrovisore, e vede un'auto dietro di lei. L'uomo che la guida le fa un cenno. Lo ignora, spinge con più forza sull'acceleratore per distanziarsi da lui. Poco dopo la macchina di lui è affiancata alla sua. Ancora suona. Tira giù il finestrino. Semaforo rosso.
— Bella, è arrivato il mio turno?
Lo riconosce. Aveva discusso con un suo cliente, arrivato poco prima di lui, e lei se n'era andata con l'altro.
— Torna stasera, tesoro. Ora vado a dormire.
— No, bella. Ho aspettato che finissi con gli altri ma adesso tocca a me. Parcheggia e scendi.
Avere il potere di decidere, per una volta, sarebbe lecito. Sopportare ogni richiesta, sorridendo, era il suo lavoro, ma non adesso. Non poteva accettarlo. Non nel momento della liberazione.
— Tesoro, torna stasera, dai.
Le due auto proseguono lentamente, affiancate.
— Ti ho detto di no. Non fare la stronza e fermati.
Lo maledice, nella sua mente.
Affonda il piede nell'acceleratore. Il bastardo fa altrettanto.
Le strade sono deserte e si odono solo gli echi dei loro motori. Le prime corse dei mezzi pubblici riprenderanno a funzionare fra non molto, e il silenzio ancora regna. Non c'è preavviso, prima dell'inizio della guerra. L'esplosione inauguratrice arriva inaspettata.
Lucy non ha più sonno, ma con quello lì, no. Ha sufficiente benzina per attraversare tutta la città. I semafori sono ancora gialli, chissà fino a quando ancora. È divertente oltrepassarli chiedendosi se da un momento all'altro diventeranno rossi. Lui non si arrende, sempre più vicino dietro di lei. Guardando nello specchietto laterale sinistro, lo vede molto vicino, ormai. Forse si dovrebbe fermare. Ora lui sta occupando la corsia del tram, contromano. Il conducente, da lontano, ha visto la scena. Pensa come sarebbe, iniziare la giornata con una scarica di adrenalina, per svegliarsi. Per correttezza suona, ma senza frenare, di fronte a quell'idiota. Aspetta di vedere la sua testa fracassata nel vetro anteriore dell'auto.
Una stanza tutta bianca
Tania Maffei
M. — Si comincia con uno spazio bianco. Non deve essere necessariamente carta o tela, ma secondo me deve essere bianco.
P. — Ma dove sei ora, ti prego dimmelo.
M. — Non lo so esattamente neanche io.
P. — Il bianco ti acceca, ti riempie la testa, ti toglie la forza di respirare.
M. — No, mi da la forza, il coraggio di agire anche se l'azione mi ripugna. La mia mente ha deciso così e io non posso più tornare indietro.
P. — Ne sei proprio sicuro?
M. — Sì.
I suoi genitori non lo avevano voluto, come non si vuole un foglio di carta bianca senza forma che si lascia lì in un angolo. Il nome, Massimo, era stato scelto dal calendario quando era arrivato in orfanotrofio, appena nato. A tre anni stava sempre da solo in quelle grandi stanze dipinte di bianco. I letti, tutti allineati, con lenzuola dure ricoperti con una stoffa grezza, scricchiolavano sotto il peso di quei piccoli corpi. Massimo, con le mani attaccate alle coperte, non riusciva a dormire e osservava la luna che, gigantesca, sprofondava nella stanza. Quelle notti erano un incubo che non terminava mai. L'unico modo per sopravvivere era stato far diventare la mente uno spazio bianco.
Trascorsero gli anni, Massimo si avviava verso l'adolescenza. Di media statura non era diventato né bello né brutto. Viveva in uno spazio bianco dove nulla poteva entrare e nulla poteva uscire: era completamente apatico.
Un giorno gli dissero:
— C'è una coppia che forse ti prenderebbe — Si trattava di due persone anziane.
— Vuoi venire con noi? — Gli domandarono. Mentre quei due gli sorridevano non provava nulla, anzi, quando la donna cercò di accarezzarlo avvertì un certo disgusto.
Si ritrovò in una casa grande, all'apparenza accogliente. La sua stanza aveva un'orribile tappezzeria a fiori e chiese loro se potevano dipingerla di bianco. Fu accontentato.
Mangiava bene. Dormiva molto. I vecchi provarono ad avere con lui un rapporto. I risultati furono deludenti. Era estate. Promise loro che presto sarebbe andato a scuola. Forse sarebbe scappato. Non sapeva neanche lui cosa sarebbe accaduto. Passava ore seduto sulla riva di un fiume vicino alla casa.
Lì conobbe Antonio.
M. — Ciao — gli disse.
A. — Chi sei?
M. — Vivo dai Martini. Mi hanno adottato.
A. — Io vivo qui di fronte. Vado a scuola ma i miei genitori e gli insegnanti dicono che capisco poco.
Antonio piacque subito a Massimo perché non faceva troppe domande.
M. — Hai mai pensato di andartene?
A. — E dove?
M. — Via.
A. — Ma sono un ragazzino.
Gironzolando per casa Massimo si era accorto che i vecchi erano ricchi. La donna possedeva parecchi gioielli mentre l'uomo aveva una cassaforte con dentro un bel gruzzolo.
M. — Nella mia casa ci sono un sacco di soldi e di gioielli.
A. — E cosa intendi fare?
M. — Rubarli e scappare.
A. — Ma ti riprenderanno e dovrai tornare in orfanotrofio, anzi, in riformatorio.
Passava delle ore a guardare il soffitto bianco della sua stanza. Le mosche formavano degli strani disegni che cambiavano in continuazione dal momento che gli insetti si muovevano sempre. Una volta entrò una grossa libellula verde che sbatteva le ali dappertutto. Quella era lui. Ne era sicuro. Una povera bestiola che non trovava il modo di uscire da quella camera.
Il vecchio era un cacciatore. Teneva in casa dei fucili. Massimo gli chiese di insegnargli a sparare. Piano piano imparò e ci provò gusto.
M. — Ho trovato la soluzione.
A. — Quale.
M. — Una sera prenderò tutti i gioielli e il denaro e li nasconderò in cantina.
A. — E dopo?
M. — Dirò che degli uomini hanno cercato di derubarci e nel tentativo di farlo hanno ucciso i due vecchi.
A. — Tu devi essere pazzo.
M. — Forse lo sono.
Dopo aver elaborato il piano, fece quello che aveva detto. Rubò i soldi e li nascose e trovatosi di fronte ai vecchi col fucile in mano cominciò a sparare all'impazzata. Questi però gridavano disperatamente e lo scongiuravano di smettere e di salvare loro la vita. Lo spazio bianco non aveva previsto tutto questo e la mente si accartocciò su se stessa.
Lo trovarono lì disteso accanto a quei due col fucile in mano. Non aveva neanche provato ad alzarsi. Continuava a ripetere sempre la stessa frase che nessuno capiva: "Si comincia sempre con uno spazio bianco…".
In manicomio.
P. — Da piccolo ti hanno abbandonato. Negli orfanotrofi il soffitto, le luci, il lenzuolo, il letto, il colore dei vestiti delle infermiere, dei medici sono tutti bianchi.
M. — Il colore bianco è il primo che ho visto da quando sono nato. Non te ne accorgi ma da quel momento il bianco ti acceca, ti riempie la testa, ti toglie la forza di respirare. Tu stesso sei bianco. Non hai un tuo colore e sai che non lo avrai mai.
P. — Perché lo hai fatto?
M. — La mia mente ha deciso.
P. — Ne sei proprio sicuro?
M. — Sì. Ma ormai è tutto finito. Il foglio si è tinto di rosso. Il mio animo per la prima volta piange. È consapevole di aver fatto una cosa orribile. La mia mente finalmente riesce a scorgere altri colori.
Legenda:
M. Massimo
A. Antonio
P. Psichiatra
Caleb ti saluta
Giuseppe Troccoli
Si comincia con uno spazio bianco. Non dev'essere necessariamente carta o tela, ma secondo me deve essere bianco. Altra cosa importantissima è l'ambiente circostante: non eccessivamente luminoso né arredato. È quasi sempre meglio una stanza spoglia da ogni elemento non indispensabile.
Una volta compiuto questo primo passo, servono alcune confezioni di arachidi, un paio di bottiglie d'acqua e due o tre pastiglie di acido taminico.
La vista occupa un ruolo fondamentale per la preparazione, per questo l'unica cosa di fronte a te dev'essere d'un bianco vivo. Dopo circa cinque minuti dovresti notare bagliori iridescenti al limite del campo visivo: è questo il momento di chiudere le palpebre, rilassarti, e avviare il processore neurale.
Benvenuto nei meandri delle tua mente.
Ho premura di ricordarti che le uscite di sicurezza sono tutte inaccessibili fino alla totale metabolizzazione dell'acido. Se dovessi cercare di forzare un'uscita di servizio, gli effetti sul tuo cervello sarebbero devastanti.
Prima di cominciare a spiegare i controlli avanzati, ecco alcuni consigli per principianti.
Innanzitutto devi ricordare che il nervo ottico è collegato al processore neurale, e che sei in grado di leggere ogni informazione senza dover aprire le palpebre. In caso di necessità puoi visionare il manuale base del tuo processore semplicemente pensando alla parola "guida".
Potresti avvertire una certa sete durante la seduta, per questo consiglio di tenere le bottiglie d'acqua a portata di mano. Evita l'uso di droghe prima e durante la seduta, il processore potrebbe interpretare male alcuni segnali, e l'esito della seduta potrebbe essere compromesso.
Per concludere, puoi personalizzare l'intensità dei segnali, la visualizzazione dell'interfaccia e le scorciatoie neurali, accedendo al pannello principale, pensando alla parola "controlli".
Adesso possiamo cominciare lo studio dei comandi più delicati. Ricorda però di modificare con cautela i parametri cerebrali, in quanto un piccolo cambiamento potrebbe variare definitivamente l'apparato percettivo e il carattere.
Per accedere alla banca dati dei tuoi ricordi, pensa alla parola "memoria".
La prima volta che aprirai il database, ti sarà chiesto di indicizzare i ricordi. L'indicizzazione è molto importante per la ricerca, in quanto si basa su un algoritmo che permette di raggruppare in ordine cronologico, di soggetto o emotivo.
A indicizzazione finita, i tre comandi basilari sono "rivivi", "modifica" e "dimentica". Per dovere di cronaca sono tenuto a precisare che l'eliminazione e la modifica dei ricordi è vietata dal Codice Etico Universale (CEU) e dalle costituzioni di novanta Confederazioni.
Fai attenzione a eliminare i tuoi ricordi, svaniranno subito dopo la conferma e non potranno essere recuperati.
La parte che seguirà è rivolta a un utente esperto, quindi, se non ti ritieni tale, sarebbe meglio evitare di sottoporre il tuo cervello allo stress che ne deriverà.
L'utilizzo più nascosto del tuo pico processore è la connessione piconeurale diretta a un altro apparato cerebrale. Questo tipo di connessione è molto pericolosa per il tuo cervello, in quanto implica il superamento dei dispositivi di sicurezza del processore del destinatario.
Le disfunzioni derivanti dall'essere fermato da uno schema di sicurezza vanno dalla perdita delle funzionalità del processore alla paralisi totale. Si sono tuttavia riscontrati casi di morte cerebrale, arresto cardiaco e disintegrazione sinaptica.
I comandi diretti per la connessione sono stati rimossi dall'interfaccia neurale dopo che la Riunione delle Confederazioni ha decretato questa azione un crimine interplanetario. Sarà quindi necessario aprire la consolle e pensare a due cavi che si uniscono. La successiva richiesta dell'interfaccia è semplice: bisognerà indicare a quale processore mandare la richiesta di connessione diretta.
La ricerca dell'identificativo univoco viene effettuata automaticamente partendo da dati noti come il nome o l'attaccamento emotivo alla persona ricercata.
Dal momento della connessione, dovrai affrontare prove estenuanti che si basano sulle tue paure, sui tuoi limiti, perciò tentare una connessione sotto l'effetto di altri psicostimolanti sarebbe mortale.
Un consiglio universale, tanto banale quanto fondamentale, è non perdere mai il senso della realtà. Ciò che vedrai sarà plasmato sui tuoi ricordi: quindi se tuo nonno, morto una decina d'anni fa, ti chiederà di portargli il giornale o soltanto di fare quattro chiacchiere, non ascoltarlo. Più ti spingerai all'interno del pico processore ospite, più le prove saranno dure e difficili da superare.
Prima di terminare, è indispensabile per te sapere come uscire dalla mente alla quale ti sei collegato: il processo è più facile di quanto sembra, e consiste nel ripercorre la strada che hai fatto all'interno della tua immaginazione. Che sia l'ingresso di una grotta o una scala a pioli, dovrai tornare indietro e staccare i cavi che troverai.
Note finali.
L'acido taminico è illegale. Questa registrazione è illegale.
Ricorda di non rivelare a nessuno ciò che hai scoperto, la PicoPro ha agenti ovunque.
Adesso puoi mangiare le tue arachidi.
La registrazione è conclusa, Caleb ti saluta.
Trasloco
Bludoor
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo nebbia.
E rabbia, per una situazione che ancora non riuscivo a capire, per le tante parole non dette al momento opportuno, per i suoi silenzi complici, per la mia incapacità.
— Stupido! — continuavo a ripetere nella mia mente, seduto su una panchina con aria assente; e la mente ritornava sempre a quel momento, al giorno in cui l'incubo era cominciato.
Ero ancora immerso in quella fase di dormiveglia che precede il risveglio, quando una suoneria familiare mi aveva di colpo riportato alla realtà.
Istintivamente avevo allungato la mano verso il comodino, cercando di afferrare il cellulare. E come sempre mi era caduto sotto al letto. Ne avevo già rotti quattro in quel modo.
Il telefono continuava a suonare con insistenza.
Tre volte aveva squillato a lungo, e per tre volte avevo cercato vanamente di sporgermi dal letto, restando avvinghiato al materasso con acrobazie da circense, per cercare di recuperarlo.
Prima di sentire il tonfo del mio corpo sul pavimento avevo finalmente assunto una posizione più stabile, sedendomi per riordinare le idee.
Individuato e recuperato il telefono, il fastidioso oggetto aveva miracolosamente smesso di squillare.
Mentre cercavo di capire chi mi avesse chiamato con tanta insistenza a quell'ora antelucana ecco un altro bip bip, sms in arrivo.
— Vienimi a prendere subito! La mia casa è allagata e vengo… — gli occhiali si appannarono leggermente mentre tentavo di leggere il seguito di quelle righe lapidarie. — a stare qualche giorno da voi. Mamma.
Per un attimo rimasi senza fiato, quasi in apnea, prima di dare un senso a quel che avevo appena letto.
Lo rilessi ancora, con un'espressione tra l'inebetito e il terrore puro, sperando di aver compreso male. "Vengo a stare qualche giorno da voi", diceva proprio così, purtroppo.
Dalla mia reazione atterrita avrete compreso che il messaggio non proveniva da mia madre, che peraltro non ha neanche il cellulare, ma dalla mamma di mia moglie, ossia la tanto temuta "SSuocera" (la doppia esse non è un refuso e capirete perché!!).
Non crediate che sia una di quelle signore tranquille, che prima ti sorridono dolcemente e poi appena entrano in casa cominciano a criticare ogni cosa che dici o fai, a dare consigli a sproposito a tua moglie sul menage familiare. O che sia di quelle che difendono sempre la loro amata bambina dall'orco cattivo che ha sposato (di certo senza il suo consenso) facendole pesare ogni giorno la sua scelta dissennata.
No, lei è molto, molto peggio…
Ogni volta che viene a casa in visita, lei ne assume il pieno controllo; come un esperto generale prussiano occupa militarmente ogni spazio vitale con una strategia impeccabile.
Prima la cucina; per lei di certo sua figlia non saprà mai cucinare, suo genero neanche a parlarne.
Solo lei conosce tutti i segreti della sana alimentazione, i cibi più salutari, stabilendo le porzioni ideali, gli orari dei pasti e persino la tovaglia più adatta per ogni cibo.
Poi, mentre tu lavi i piatti per non sentirla lamentarsi del suo mal di schiena perenne, lentamente si insedia nel soggiorno, occupando il posto migliore sul divano e appropriandosi dello strumento del potere, il telecomando.
Da quel momento addio film, partite, spettacoli vari, persino i cartoni per i ragazzi sono a rischio.
Solo telenovelas, reality e programmi lacrimevoli.
Inutile cercare rifugio in un'altra stanza. Con la scusa che non sente tanto bene, il suo televisore è sempre almeno venti decibel al di sopra della soglia limite; praticamente copre anche il rumore dei martelli pneumatici e tutto il vicinato è costretto a subire i suoi programmi preferiti.
Quando il televisore è spento parte la sua voce stridula che continua a martellarti incessantemente i timpani, aggiornando la famiglia sui pettegolezzi del quartiere e i gossip sui personaggi più noti.
A metà pomeriggio comincia a sonnecchiare, facendo intendere di aver bisogno di un giaciglio su cui riposare. Per tenerla buona per un po' le offri generosamente il lettino del figlio che studia fuori sede, pensando speranzoso "finalmente adesso se ne starà un po' zitta".
Ma il letto è stretto e scomodo. Fastidioso per la sua schiena… E se poi si sentisse male di notte?
In pochi istanti ha occupato anche la tua camera da letto, il tuo bel lettone matrimoniale, privandoti anche del morbido abbraccio di tua moglie, costretta d'ora in poi a dormirle accanto.
E tu… beh, chiaramente c'è il lettino di tuo figlio, sperando che non torni all'improvviso.
Arriva la sera e tu, tristemente adagiato nel lettino, cominci a pregustare finalmente qualche attimo di silenzio. Pia illusione, dalla stanza accanto parte un rumore che ricorda vagamente una motosega, alternato da frasi sconnesse. Incredibile! Non riesce a star zitta neanche nel sonno!
Tua moglie lo sa e si è premunita con dei tappi per le orecchie. Tu no e comunque non potresti farlo. Potrebbe squillare il telefono di notte; qualcuno dovrà pur rispondere.
Solo per qualche giorno si può fare un sacrificio per l'unità familiare — direte — e infatti sono più di sei mesi che lei si è stabilita saldamente in casa nostra, prolungando la permanenza con mille scuse.
Muratori e idraulici le hanno praticamente rifatto la sua vecchia casa, ma non vuole andar via…
Per non vederla più ho cominciato a trattenermi di più al lavoro, a fare tutti gli straordinari, i turni festivi e notturni; in pratica ormai vivevo in azienda. Ci mancava solo che andassi anche a dormire in ufficio, o che pensassero che avessi un'amante.
Due giorni fa ho deciso di affrontare la situazione; ho preso da parte mia moglie, mentre sua madre ronfava rumorosamente sul divano, e abbiamo discusso a lungo, a bassa voce, per non svegliarla.
— Adesso basta, questa situazione è insostenibile! — le ho ripetuto con fermezza, dopo un'arringa degna di Perry Mason. — Devi scegliere! O lei o me! — ho concluso con aria di sfida.
Adesso cerco casa, se qualcuno può offrirmi un alloggio per un po'… gliene sarei molto grato.
Basta poco
Lucia Manna
Siede nell'angolo e cerca di estrarre aria da un stanza che fino a pochi minuti fa ne era piena e ora sembra non averne più.
È tornato nuovamente quel male che i medici chiamano attacchi di panico e Giada si sente soffocare.
Chiude il libro che fino a poco fa stava leggendo, seduta sulla poltrona di velluto grigio posta vicino alla finestra che ha fin da quando era una bambina: si alza per affacciarsi, sperando di riuscire a prendere un po' d'aria, ma non ce la fa.
Le tremano le gambe, si sente svenire e pian piano a queste già orribili sensazioni si aggiunge la paura di morire.
Sente che qualcosa di brutto le sta per accadere: ne è convinta, per lei non ci sarà nessun domani.
Un pensiero atroce l'assale: morirà e nessuno se ne accorgerà, fino a lunedì quando non si presenterà a lavoro e lei non manca mai a lavoro a meno che non ci sia un valido motivo.
Comincia a sudare freddo e sente il cuore in gola; si accascia sul letto, ha la testa ovattata e non riesce più neanche a pensare.
Trascorre tutta la notte in compagnia di queste tremende angosce.
Dalla finestra della sua stanza s'inizia a intravedere il sole che pian piano fa capolino fra gli alberi in fiore e anche se i vetri sono chiusi, s'incominciano a sentire gli uccelli cantare.
A Giada piace sentire il loro cinguettio, ma ora no, vive quel canto come un suono fastidioso.
Comincia a piangere, non sa neanche lei per quale motivo lo stia facendo, ma piange, piange e non riesce a calmarsi.
Finalmente, dopo quelle lacrime liberatorie, arriva anche il sonno.
Si sveglia che è già domenica pomeriggio; si sente meglio, anche se un po' stordita.
Non è la prima volta che si sia sentita così male.
Quando, tempo prima, il medico l'aveva visitata, aveva dichiarato:
"Sono attacchi di panico, non c'è nulla da fare; quando si sente così prenda questi ansiolitici".
Quelle parole le erano suonate come una condanna.
Giada ormai è stanca di quella medicina che ultimamente sembra anche non farle effetto: ma cosa può fare mai? D'altronde chi l'ha visitata è un illustre psichiatra che sa bene il suo mestiere.
Accende il pc: a lei piace scrivere e navigare su internet e, proprio navigando su internet, trova la pubblicità di un numero verde; la scritta parla di un gruppo di psicologi, che hanno deciso di fondare quest'attività destinata a persone con problemi che vogliano anche solo parlare per sfogarsi un po'.
Si appunta il numero e anche se non crede tanto a queste cose, è tentata di chiamare: cosa avrebbero mai potuto farle per telefono?
Il giorno successivo, Giada dopo essere tornata dal lavoro decide di telefonare.
Le risponde una signora dalla voce dolce.
Incominciano a parlare e Giada le racconta dei suoi problemi; la conversazione dura circa un'ora e Giada subito sente sollievo; non sa per quale motivo, ma quella donna le ispira fiducia.
Una volta riagganciato, si chiede quando le capiterà più che le risponda lei, a questi numeri non risponde mai una sola persona e in più aveva anche letto che il servizio era gestito da più medici.
Ma quella chiacchierata l'aveva fatta sentire davvero bene, al punto che dopo un paio di settimane ritelefona.
A risponderle è sempre la Dottoressa dell'altra volta; la riconosce subito.
Cominciano a chiacchierare e la dottoressa Sandra Bellini, è questo il suo nome, le spiega che il lunedì pomeriggio risponde sempre lei.
È stato un caso che Giada abbia chiamato sempre di lunedì, ma la casualità le ha portato fortuna e il lunedì è diventato un appuntamento fisso per Giada telefonare alla Dottoressa per parlare del più e del meno.
Finalmente, dopo qualche mese, le due donne fissano un appuntamento nel piccolo bar del centro e quando s'incontrano, a entrambe sembra essersi sempre conosciute.
Da allora è nata una bella amicizia: le due donne sono diventate inseparabili e Giada non soffre più di attacchi di panico.
A volte dove non arrivano i medici e la scienza, arrivano altre cose che con le medicine non hanno nulla a che fare.
Perché in certi casi basta davvero poco a rischiarire le notti nere, basta trovare un amico, una mano tesa, un sorriso che ti cambia la vita.
Nebbia
Hellies15
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo nebbia. Ma lei vagava; lei continuava a vagare dentro quella coltre bianca e umida. Non era sola: fino a un istante prima l'aveva sentito, ne era certa. Il suo piccolo Tommy cantava, da qualche parte in mezzo a quella nebbia. Lei sapeva esattamente verso quale direzione proseguire: anche se ormai solo un grande silenzio la avvolgeva, il suo istinto le dava suggerimenti. L'istinto di una madre; l'istinto che non si perde mai, nemmeno in mezzo alla nebbia.
Il dolore non c'era più, no. Anche quello era sparito, lentamente. Ma le lacrime erano ancora lì, a rigare le sue guance come sentieri di montagna, come ruscelli su un pendio, come le righe blu di un pastello. A Tommy piaceva disegnare. Disegnava case, disegnava soli, disegnava lei. Ma soprattutto, disegnava righe blu. La sua firma. Chissà, forse se avesse osservato bene avrebbe riconosciuto qualcuna di quelle righe, tra i fitti puntini invisibili di quella coltre bianca. Nel frattempo, però, continuava a vagare, perché l'istinto di una madre non si perde mai. Non si perde mai in mezzo alla nebbia.
Lei vagava, ma non aveva molte cose con sé. Quello che aveva addosso non era un vestito, e quelli che aveva nella testa non erano ricordi. Erano impressioni. Erano immagini. Erano frammenti di tempo e di spazio a cui voleva rimanere aggrappata. C'erano i suoi capelli biondi. C'era il suo sorriso, quello sì. C'erano pure tante, tantissime righe blu. Il resto, però, era una palude, dove ogni immagine perdeva colore vittima del proprio immobilismo. Dove c'era nebbia; pure sopra la palude nella sua testa c'era nebbia.
Alzò gli occhi e le sembrò di riconoscerla. Era la luna quella che la osservava dall'alto. Era la luna ed era terribilmente vicina. Non c'era nulla di grazioso in quello che vedeva. Il sole, in quel paesaggio, era un ospite indesiderato. E la luna, senza il fratello sole, è solo una palla piena di buchi e priva di luce. La luna, senza il sole, è completamente inutile; un corpo celeste condannato a girare su sé stesso. Lei provava un forte disgusto per la luna, e allo stesso tempo si rendeva conto di esserle molto simile. Anche lei era un corpo vuoto, privo di spirito; un corpo che, da quando se n'era andato il suo Tommy, aveva perso tutta la sua luminosità. Un corpo che, intanto, continuava a vagare nella nebbia.
La felicità non si può comprare e non si può neanche prendere in prestito. Lei aveva provato; in tanti avevano provato a farglielo fare. Ma un corpo vuoto è un corpo vuoto. Non si può far brillare un corpo privo del suo spirito; privo di quel fuoco che accende e non brucia. Non si può far brillare la luna senza il sole. E lì c'era solo nebbia; un'interminabile, infinita nebbia.
La solitudine era la sua sola compagna di viaggio. Se ne stava lì, seduta, e la osservava a ogni passo che non lasciava impronte. Perché un corpo morto non lascia impronte; lascia scie che si confondono con la nebbia, che non hanno senso di esistere. Del resto, nessuno avrebbe provato a cercarle, perché la solitudine era la sua sola compagna di viaggio. Ma le sue gambe continuavano a muoversi, lentamente, fino a quando non sarebbe finita quella terra fatta di nulla e di nebbia.
A un tratto si sentì sospesa. No, stava volando. Il vento le accarezzava le guance, le faceva scivolare le lacrime verso l'alto, la faceva sentire viva. Se ci fosse stato uno specchio, lì di fronte, avrebbe visto un sorriso all'altezza della sua bocca. Un sorriso che non vedeva da tempo, dimenticato in chissà quale porzione della palude dei suoi ricordi. Uno specchio, però, lì non poteva esserci. Lei non stava volando: stava precipitando nel vuoto. In un vuoto fatto di nulla e di nebbia. In un vuoto che, forse, stava aspettando da tempo, perché solo in quel vuoto, finalmente, avrebbe ritrovato suo figlio. Avrebbe ritrovato i suoi capelli biondi, il suo sorriso e tante, tantissime righe blu. E forse, chissà, avrebbe ritrovato anche sé stessa, perché oltre il vuoto non c'era il nulla, ma il tutto. Oltre il vuoto non c'era la luna e non c'era la solitudine. Oltre il vuoto, ne era sicura, ci sarebbero stati lei e il suo Tommy, e sarebbe finita, la nebbia.
La battaglia
Manuela
"A volte è più difficile privarsi di un dolore che di un piacere."
(Francis Scott Fitzgerald)
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo nebbia.
Era successo tutto così in fretta. Flavio era arrivato, mi aveva sorriso senza guardarmi e mi aveva detto che non poteva rimanere a lungo, che il giorno dopo aveva da lavorare tanto.
— Ci beviamo una birra? — gli avevo chiesto.
— Sì, certo.
Ho sempre trovato Flavio bellissimo: il suo modo di muoversi lento e con gesti improvvisi. Avevamo accostato le bottiglie per brindare non si sa a cosa e ci eravamo seduti sul divano, quasi simultaneamente. Lui era altrove, me ne ero accorta subito. Sembrava fosse venuto per un obbligo non detto; lui vedeva qualcun'altra, amava qualcun'altra, si portava a letto qualcun'altra, lo sapevo bene. Però volevo sentirmelo dire in faccia. Doveva guardarmi mentre mi uccideva.
Ho ripensato a tutte le volte che l'avevo aspettato e che non era venuto. A tutte le volte che gli avevo detto che avevo capito, che non faceva niente, i suoi impegni erano importanti; no, non ero arrabbiata anche se non aveva nemmeno potuto avvisarmi. E lui non lo sapeva che ogni volta mi ero vestita, truccata, profumata e avevo atteso ore con la testa appoggiata al vetro della finestra in cucina. E non sapeva niente del dolore lancinante che ogni volta mi prendeva allo stomaco, come se vi fosse appoggiato sopra tutto il peso del mondo. Ma io non sono Atlante, non sarei mai riuscita a sorreggerlo.
Mi aveva chiesto come stavo e gli avevo detto "bene", anche se non ne ero sicura. Gli avevo detto che ero solo un po' stanca, lui mi aveva risposto che ero sempre un po' stanca.
— Vedi qualcuna? — gli avevo chiesto all'improvviso, senza schermi di protezione.
— Vuoi la verità? — aveva replicato lui.
E nel momento esatto in cui aveva pronunciato queste parole io sapevo già qual era la verità. Gli avevo fatto di sì con la testa, come una bambina.
— Va bene, a te posso dirlo, perché mi fido di te, perché ti voglio bene, perché sei speciale… — e aveva sorriso.
Mi era venuto in mente che allora c'era pure qualcun'altra a cui non poteva dirlo, ma ero rimasta zitta. E poi io sono speciale, no?
— Ho conosciuto una donna. Credo di esserne perdutamente innamorato. Non pensavo potesse succedere, ti giuro, non pensavo…
Ero morta all'istante. Inghiottita dalle sabbie mobili. Non riuscivo a parlare, avevo la bocca piena di sabbia. Non riuscivo a respirare, la sabbia era nei polmoni; e in un istante, era arrivata al cuore.
Ero morta.
Mi ero alzata, mi ero avvicinata alla porta di casa e avevo chiuso a tripla mandata. Poi avevo tolto le chiavi dalla toppa, e le avevo lanciate di sotto, dalla finestra del salone: otto piani di volo a planare e un tonfo sonoro. Lui avrebbe voluto chiedermi qualcosa, ma non gliene avevo dato il tempo; mi ero seduta di nuovo più vicina a lui e gli avevo detto che dovevo terminare di bere la birra.
Lui era appena impaurito, me n'ero accorta, nessun'altra al mondo avrebbe potuto accorgersene, nemmeno quella puttana di cui diceva di essere innamorato, perdutamente innamorato, aveva detto.
— Mi dici chi è? — e lo avevo chiesto senza espressione.
— Ma non è importante…
Anche lui parlava senza espressione, con calma, troppa calma, sembrava lo facesse apposta per non farmi innervosire. Ma io non ero nervosa, per niente, e poi non sono scema, mi ero accorta di tutto, è solo che ero morta, mica lo voleva capire.
— Tesoro, invece è importantissimo!
— Domani, te lo prometto, appena ho finito con quel lavoro vengo qui e ne parliamo, parliamo di tutto quello che vuoi, adesso apri quella porta, dove sono le chiavi?
— Le ho buttate le chiavi, hai visto, no? Non ti arrabbiare, devi solo rispondere a una domanda piccola piccola.
I suoi movimenti veloci che amo tanto, adesso mi facevano ridere. Pensava di spaventarmi? Voleva farmi paura. Voleva fare paura a me? E come avrebbe potuto? Non potevo avere paura, io ero morta.
— Si chiama Giovanna, contenta? — e mentre lo aveva detto gli si era addolcito lo sguardo.
Giovanna è proprio un nome del cazzo, avevo pensato, ma qualunque nome avesse avuto la sua innamorata, sarebbe stato lo stesso. Ora era Giovanna che lo aspettava. Chissà se lei conosce Atlante.
— Com'è? Bella?
— E smettila, dai, che senso ha?
Aveva ragione, ma ne avevo bisogno. Ero assetata e la birra non bastava. Volevo sapere chi era e cosa faceva la donna che era riuscita ad avere l'uomo che non era mai stato mio. Fa niente. Serviva anche questo. Perfezionare le proprie conoscenze e trarne profitto.
Mi ero sentita sconfitta e gli ero saltata addosso, l'avevo picchiato, con tutta la forza che avevo. E prima di rendersene conto lui aveva fatto lo stesso con me. Eravamo a terra, uno di fronte all'altra, due guerrieri in combattimento. Il mio respiro era affannato, la rabbia in salita, il dolore acuto mi faceva serrare la bocca.
Flavio parlava, diceva che tutto si sarebbe aggiustato, che avrei capito. Non riuscivo a comprendere tutto quello che diceva.
Ogni tanto i suoni si affievolivano, come il dolore, e allora restava solo nebbia.
Poi, lentamente, il dolore ha cominciato a calmarsi e la nebbia a diradarsi e mi sono sentita all'improvviso come quello della canzone che fa: "… si sentì un coglione, perché più in là non si poteva conquistare niente…". Ma non è che avessi voluto conquistare chissà cosa, mi sono sentita così proprio perché io non ho mai voluto conquistare niente, nessuna conquista merita una battaglia.
— Non ancora — gli ho detto e ho sorriso.
— Non ancora cosa? — ha chiesto lui.
— Non sono ancora morta.
Mi sono alzata, ho ripreso a respirare regolarmente, mi sono avvicinata al mobile dell'ingresso, ho aperto il cassetto e ho preso le chiavi di scorta che ho lì dentro. Ho spalancato la porta e gli ho fatto cenno di uscire, con un inchino plateale. E lui, con meno entusiasmo di quanto mi sarei aspettata, se ne è andato.
Liberandomi.
Il foglio bianco
Pia Barletta
Si comincia con uno spazio bianco. Non dev'essere necessariamente carta o tela, ma secondo me deve essere bianco.
Ma allora va bene anche un documento word? Anche quello è bianco di base e spesso tale rimane fino alla fine. Temo che sarà il mio caso: il cestino è stracolmo di file quasi completamente bianchi, ma per fortuna sono solo virtuali e svuotarlo richiederà un secondo. Sì, un documento sul pc è meno ingombrante, sul desktop non rischio di non fare centro e ritrovarmi fogli appallottolati dappertutto, sebbene a volte ridurre un foglio a una pallina funzioni come antistress. Un documento word rimane lì, al suo posto, come una persona bene educata o molto timida, e non è stropicciato, anzi, è liscio come se l'avessi appena stirato. Posso scrivere e cancellare senza lasciare nessuna traccia, posso cambiare colore senza impazzire a cercare la penna rossa, o la verde, o la blu. Posso scrivere grande, in corsivo, in neretto, comunque faccia si capirà sempre, altroché. La mia grafia fa talmente schifo che non riesco a interpretarla nemmeno io, figuriamoci se scrivessi una lettera a qualcuno! E poi c'è il correttore automatico: se scordo una letterina lui mi sistema la parola, non sempre, ma almeno qualche possibilità in più di fare bella figura ce l'ho. Quando ho finito posso conservarlo dove mi pare, tanto lo troverò sempre con la funzione "cerca sul pc". Certo, bisogna che prima gli dia un nome, e soprattutto poi mi devo ricordare il nome che gli ho dato, altrimenti perdo un casino di tempo, esattamente come con i fogli che si attaccano l'uno all'altro e quello che cerco, guarda caso, è sempre appiccicato sotto. Non finisce la carta e nemmeno l'inchiostro, quindi un risparmio notevole, oltre che essere ecologico come sistema, insomma non c'è paragone, molto più comodo usare il computer!
Come se non bastasse, posso spedire tutte le lettere che voglio senza spendere un centesimo, non devo andare alla posta, non devo comprare francobolli né buste, basta un semplice clic su allega file e in pochi minuti il mio messaggio arriva a destinazione.
E ho cominciato così, con tutte queste considerazioni, con un raccontino piccolo piccolo, per una garetta tra amici, poi un concorso che sembrava fare al caso mio… è come cadere in un buco nero, anzi bianco, perché alla base c'è sempre quello stramaledetto spazio bianco. Bianco perché non riesco a riempirlo, mi blocco, penso, mi sembra che stia arrivando un'idea, ma quando sto per afferrarla, eccola che sbiadisce, tutto a un tratto non mi sembra più così carina, è scema, no, diciamola tutta: è una stronzata. Vado oltre, penso ad altro, ma in mente ho solo cazzate. Vado a farmi un caffè, magari insieme a una sigaretta mi si snebbia il cervello. Scuse, sono soltanto scuse, la realtà è che sono bloccata. Ho il famigerato blocco dello scrittore e non voglio ammetterlo, sono fregata!
Magari provo un altro incipit? No, ne ho già provati tre!
Eppure King dovrebbe ispirarmi, ho letto tutti i suoi libri, è il mio scrittore preferito…
Divago, fumo, ingurgito caffeina, lo spazio era bianco all'inizio e bianco è ancora dopo ore, ma non mi rassegno. Inizia anche a piovere forte, lampi e subito dopo boati, il temporale è qui, forse ci sono: la pioggia mi ispira! Mi rianimo subito e non mi importa il fatto che sia andata via la luce, con la tastiera retroilluminata e una candela l'atmosfera è ancora più ispirante, uno dei vantaggi dei notebook è che si possono usare con la batteria.
Le dita iniziano a volare sui tasti, a stento noto un messaggio sulla barra in basso a destra, che dice? Che rottura, ora che mi sono sbloccata… leggo: livello batteria basso, passare alla rete elettrica?!?!! Noooooo, caz…
La tela bianca
Michele
Si comincia con uno spazio bianco. Non dev'essere necessariamente carta o tela, ma secondo me deve essere bianco. Poi si continua con una linea, è il momento più difficile perché dopo quella è solo un banale susseguirsi di segni, ma la prima linea è la più difficile: da lì inizia tutto. A volte passano minuti, ore o addirittura giorni prima che si tracci la prima linea. Non è come quando si nasce, lì è un attimo e non ce ne ricordiamo nemmeno, ma la prima linea è tutt'altra cosa. Bisogna iniziare bene altrimenti ci si perde, e tutto ciò che volevamo rappresentare rimarrà a metà, come un amore perduto all'improvviso.
Quanti tentativi aveva fatto Michele, ma il suo foglio era ancora bianco, da giorni si recava sulla collina in cerca della prima linea, aveva cambiato foglio, matita, cavalletto, ma la sera tornava sempre col suo foglio bianco. Un maestro gli aveva detto un giorno che l'inizio è più importante della fine, si può iniziare in mille modi ma si finisce solo con la morte.
Anni prima era giunto in paese dichiarando di essere un pittore, voleva immortalare il paese visto dalla collina, tutti si erano incuriositi. L'aspetto professionale di Michele dava l'impressione di un artista importante, i paesani con trepidazione aspettavano l'opera. Anche il sindaco, euforico della possibilità di rendere famoso il proprio comune, aveva messo a disposizione vitto e alloggio per l'artista. Il tempo passava, e tutti i giorni Michele si recava sulla collina, rimaneva lì per ore a fissare il paesaggio, spesso inchiostrava il pennello ma senza tracciare alcunché. La sera se ne tornava in paese, dove un nutrito gruppo di persone lo aspetta curioso di vedere l'opera. Col tempo però la curiosità si era affievolita, la gente era stanca di vedere sempre e solo un foglio bianco. Nelle sere di pioggia si poteva incontrare Michele alla locanda, seduto in un angolo a rigirare il cucchiaio nella minestra alla ricerca, forse, della sua prima linea. A volte, ubriaco, a stento riusciva a rientrare a casa, ma la mattina era sempre lì, sulla collina. Un giorno rimase sotto la pioggia per ore a fissare il nulla, come risultato si beccò una polmonite che lo costrinse a letto per mesi.
Col passare degli anni però, pochi facevano ancora caso a quel vecchio che, carico di tele e cavalletti, si trascinava su per la collina. I più non ricordavano nemmeno il suo nome e da dove veniva, tutti lo chiamavano semplicemente "il pittore". Di rado scambiava qualche parola. Quando poi le gambe non ce la fecero più a portarlo in cima, Michele passava le sue giornate alla locanda o nella piccola piazza del paese, ma per la maggiore se ne stava chiuso in casa.
Quando morì, successe in un giorno di sole, uno di quelli in cui la luce era ottima per dipingere, al funerale non mancò nessuno, c'era tutto il paese. Tra i tanti fiori qualcuno depose una tela bianca sulla bara, bianca come quelle che lui non era mai riuscito a dipingere.
Qualche tempo dopo arrivò in paese un uomo, diceva di essere un professore e di studiare non si sa quale teoria. Gli occorreva un posto tranquillo dove alloggiare. In paese l'unica soluzione era la locanda ma era troppo chiassosa. Così qualcuno gli indicò la vecchia casa del pittore ormai vuota, il professore accettò di buon grado: il posto sembrava tranquillo. Quando entrò in casa insieme a due facchini, restò di sasso, decine e decine di tele appoggiate su cavalletti erano deposte alla rinfusa, quasi non c'era spazio. Avvicinatosi a una delle tele, passò delicatamente la mano sulla superficie rugosa. Il volto di una donna fece capolino fra la polvere, continuò a pulire la tela, alla prima donna se ne aggiunsero altre intente a lavorare la terra, erano dipinte con una precisione straordinaria. Il professore, affascinato da quella scoperta, continuò a pulire le tele scoprendo i quadri più belli che avesse mai visto. Dimenticò completamente quella sua stramba teoria, si dedicò alla catalogazione dei quadri trovati e li portò in giro per il mondo esponendoli nelle gallerie d'arte più famose ottenendo un successo straordinario. Quando gli chiedevano del pittore, lui diceva semplicemente di non averlo mai conosciuto ma che chiunque egli fosse alla fine era riuscito a tracciare la sua prima linea.
Ringraziamenti
Ringrazio i Braviautori che hanno accettato di mettersi in gioco.
Giuseppe Troccoli e Arditoeufemismo per il prezioso aiuto con il conteggio dei voti e l'elaborazione delle statistiche.
Un grazie speciale all'amica Pia Barletta che ha collaborato all'editing dei testi e alla realizzazione dell'e-book e a Massimo Baglione senza il quale tutto ciò non sarebbe possibile.
Lunghi giorni e piacevoli notti a tutti voi…
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