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Indice:
La gara
Prefazione
Amore e grafite (…
Una piccola vittoria
Il ciclo 
Osservando dal fines…
L'ombrello
Fumo nel vento 
Le importanti conseg…
Le piccole cose non mi
Ricordi perduti
Il miglior amico del…
Le pulci 
La foresta pluviale 
Piccole grandi soddi…
Miguel 
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Una produzione

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La gara

Gara 20
L'INSOLITA BELLEZZA DELLE PICCOLE COSE
APRILE 2011
antologia per BraviAutori.it
a cura di StillderNacht
Ebook: Dario Maiocchi
Supervisione e aggiustamenti: BraviAutori.it
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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Prefazione

Cos'è mai una piccola cosa?
Ognuno di noi è una piccola cosa se paragonato a una sfinge o a una piramide: opere colossali. La Gara n.20 ha voluto mettere in evidenza le "piccole cose". I dettagli della vita quotidiana, particolari spesso dimenticati come delle nuvole di un cielo azzurro in giornata d'estate. Siete mai riusciti a fantasticare guardando un cielo limpido, privo di nuvole? Sicuramente no. Un cielo così è monotono. Eppure, l'uomo vi volge continuamente i propri pensieri. Vuole volare, innalzarsi verso di esso, con imprese uniche e degne di fama.
A cosa serve mai la fantasia se si può volare? Per fortuna ci sono le nuvole! Che rendono il cielo ogni giorno diverso e unico; nello stesso modo, le piccole cose salvano l'uomo dalla sua brama eterea e gli ricordano che non bisogna necessariamente volare, ma si può guardare semplicemente il cielo e le nuvole e fantasticare con i piedi per terra!
StillderNacht



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Amore e grafite
(racconto vincitore)

Exlex
 
 
Alvise mette tra le labbra la matita 2B, osservando il tratto che ha appena tracciato. Socchiude gli occhi. Sì, può continuare. L'ispirazione aleggia tra le sue dita e s'incanala nel pezzo di legno giallo e nero che ingloba l'argentea grafite.
Le sue mani agiscono come indipendenti dal cervello, fulminee, sicure, precise. In pochi tratti la sagoma del viso di Iris prende forma. Le proporzioni sono giuste, e l'artista comincia a inserire i dettagli e le sfumature. Cambia matita, serve un tratto più morbido e spesso, per valorizzare maggiormente gli occhi di Iris. Sono blu, come il mare, ma Alvise non ama disegnare con le matite colorate. Li vede nella sua testa, però. In modo così chiaro che potrebbe sfiorarle la pelle candida, osservarla sorridere e chiudere su quegli occhi il sipario delle ciglia nere e lunghe mentre l'imbarazzo della consapevolezza di meritarsi un uomo che l'ama le imporporisce le guance.
Quando li riapre, Alvise ci scivola dentro. S'immerge in quegli occhi.
Respira l'essenza di Iris attraverso di essi.
Segna le curve morbide delle guance, e per sfumare usa quel metodo che adoperava anche alle elementari, quando con la lama sottile del temperino grattava la punta della matita e minuscoli frammenti di grafite si depositano lievi sul foglio.
Alvise lo sa bene che è un metodo infantile e poco ortodosso, ma lui è affezionato a quella tecnica. Ha solo cambiato qualcosa: non usa più le dita, bensì del cotton fioc per sfumare i disegni.
Quindi mette la polverina grigio chiaro sul foglio e la uniforma ai punti d'ombra e di luce, dipinge sentendosi leggero, libero, capace.
Alvise non è arrogante, non si qualifica come un grande artista al di sopra della media, anzi. Lui è solo un umile disegnatore che cerca di fare una sorpresa alla sua bella.
A Iris.
Le piacerà il ritratto, ne è sicuro. Lei ha sempre adorato i disegni di suo marito.
Tocca alle labbra. Alvise indugia su esse, visualizzando il rosso vivo schiuso su un sorriso abbagliante. Vorrebbe riprodurlo su carta. Ma un disegno a matita non può accecare chi lo guarda.
La bacia. Pensare a lei è un'emozione talmente forte che sente le labbra morbide e dolci sulle sue. Vorrebbe usare la sanguigna per marcare il tutto, ma ha deciso che un disegno a matita della sua Iris deve rimanere puro. Niente armonia angelica spezzata dal rosso acceso.
Questa volta c'è bisogno di più polverina grigia: la bocca spicca scura sul candore della pelle e dei denti.
Alvise la sente ridere.
La sua Iris.
Il disegno è finito. Polverina grigia è stata avanzata. L'uomo raccoglie amorevolmente i rimasugli con un foglio di carta. Presta sacra attenzione, per non rovinare il disegno, per non perdere nemmeno un granello, e i granelli che rimangono li rimette dentro l'urna.
L'indomani sarebbe andato sulla riva del mare.
A respirare la salsedine che avrebbe respirato per sempre Iris.
E avrebbe sparso le ceneri di sua moglie.
 
 
 


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Una piccola vittoria

Tania Maffei
Apro la porta. Sento il rumore di una busta. Già lo so che è partito da casa con quel pacchetto in mano. Sulla metropolitana lo ha tenuto stretto pensando a lui perché non vedeva l'ora di fargli assaggiare uno dei suoi cibi preferiti.
So che ieri, domenica, dopo la partita, solo in casa, con indosso le sue vecchissime pantofole e la tuta acetata, la televisione accesa, gli occhiali sulla punta del naso, ha infarinato, impastato, immaginando Giulio che mangia le fettuccine "come le sa fare solo lui".
Allunga un piede sulla soglia di casa. Un mezzo ciao per me. Quasi mi scansa per vedere più in là. Mani a vassoio anti-caduta. Il pacchetto sopra come una corona reale. Valore inestimabile. Narici allargate da stupore in agguato. Fremito sulla punta del piede ballerino.
— Dorme?
(Penso: "Babbo buongiorno anche a te.").
— Sì.
— Gli ho portato le fettuccine che gli piacciono tanto.
(Penso: "Bacio. Non si da più?").
— Le ho fatte ieri in modo del tutto speciale.
(Penso: "Perché a me da piccola non le facevi?).
— Che bravo.
— Ho usato una farina buona, leggera, leggera.
(Penso: "Per me nulla?")
— Come le hai sistemate. Sembrano un nido di rondini. Ci sono anche gli gnocchi per me.
— Ah, sì, dimenticavo.
— Grazie babbo, grazie di tutto.
Giulio, due anni, mio figlio, ha la sindrome di down. In accordo con mio marito avevamo deciso di farlo venire al mondo e di accettarlo così com'era. Antonio non ce l'ha fatta e mi ha lasciata. Se non ci fosse stato mio padre non avrei saputo come fare. Giulio è un bambino adorabile ma non mangia. Fa i capricci, ha la bocca sigillata. Piange urla. Non vuole stare sul seggiolone, in braccio. Lancia tutto. Non vuole stare con nessuno. Poi arriva mio padre e il sole si illumina. Giulio si calma e riusciamo a farlo sedere sul divano incorniciato dai grossi cuscini. Dopo che il nonno ha acceso la televisione con i cartoni animati, ha preparato un vassoio pieno delle strane cose fatte da lui, Giulio inizia a mangiare. Fa degli strani segni toccandolo con le manine sporche. Intanto il nonno lo imbocca e fa "Ahhhmmm, Ahhhhmmm" mentre lui fa delle buffe smorfie con la bocca per la soddisfazione e io, per gioco, mi lamento degli sputacchi che mi arrivano in faccia.
La sala è un campo di battaglia. Giulio strizza gli occhi, ha sonno. Vuole stare in braccio al nonno che lo accarezza teneramente ma vorrebbe anche giocare. Sta cominciando a camminare con difficoltà. Trotterella e poi sbatte il sederino per terra. Lui e il nonno ridono sempre quando sono assieme. Li osservo dalla cucina e sorrido.
Dal momento che è arrivato Giulio la vita è cambiata. Prima la mia priorità era "dover fare tutto bene". Oggi sono felice se il mio bambino ha mangiato la sua strana pappa biologica, se mi ha detto una parola nuova o se, più semplicemente, non ha cominciato a piangere per un dolore che non sa spiegarmi.
Quando proprio non ce la faccio più, lascio tutto e tutti e corro al mare. Lì, trascinata dalle onde, comincio a urlare, forte, sempre più forte, finche la mia voce si spezza contro il vento. Nulla come il grido permette di tirare fuori l'animalità che è dentro di noi rendendoci completamente liberi.
A volte vengono anche loro. Il nonno dice che si diverte a far volare Giulio in aria mentre lo vede ridere come uno scimpanzè. A piedi nudi mi perdo nei sassi e nelle conchiglie sbriciolate sulla riva. Poi, guardo i piedi grassi, i buchi sulle strane mani di mio figlio e mi accorgo che potrei osservarli per ore. Pochi sanno che due linee di febbre per un bambino così possono diventare un inferno, che il suo cuore non batte come quello di chiunque altro, che i suoi occhi non riescono a distinguere bene le cose. I miei invece ridono sempre con due lacrime in fondo alle palpebre, anche se Giulio questo non lo sa.
Dorme profondamente.
Mio padre mi guarda.
(Pensa: "Posso restare qui stasera, così se Giulio si sveglia urlando perché ha sete potrò correre io al posto tuo?).
Sorrido.
(Penso: "Si grazie babbo ne sarei lieta").
Vado in cucina a fargli un caffè mentre lui prepara il letto in salotto. Le nostre voci si parlano mentre vorrebbero dirsi tutt'altro.
— Dove trovo le lenzuola?
(Pensa: "Abbi fiducia, questo bambino ti regalerà tante gioie. Devi solo avere pazienza").
— Nel cassetto della mia camera da letto.
(Penso: "A volte è così difficile. Se Antonio almeno non se ne fosse andato").
— Tranquilla ho trovato tutto.
(Pensa: "Giulio non ha un padre ma uno così a cosa ti sarebbe servito?").
Torni in cucina. Sempre in silenzio sorseggi il caffè e mi sorridi. Finalmente parli.
— Eri coraggiosa anche da bambina. Andrà tutto bene, vedrai. Andiamo a dormire è tardi. Buona notte figliola.
— Buona notte Babbo.
Guardo fuori dalla finestra. Il cielo è stellato. Un silenzio plumbeo è caduto sulla casa. La mia vita mi riserverà magnifiche sorprese, ne sono sicura. Non sono sola, questo è quello che conta.


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Il ciclo

GTrocc
Sento ancora il calore del fuoco dentro me. Strano. Pensavo che arrivato alla fine si fosse affievolito, estinto a poco a poco.
La mia vita sarà stata anche breve, ma dannatamente intensa. Non riesco neanche a ricordare a quanti tiri sia arrivato, mi ritrovo a rammentare il mio passato, aspettando il mio inevitabile destino.
La memoria mi riporta a quando ero giovane, appena nato. C'era un vecchio accanto a me, mi prese subito in simpatia.
— Ehi, ragazzino! — Mi disse, lanciando una scia di fumo nelle mie vicinanze. — Sono Gauloises, come ti chiami?
— Io… io sono… — non ero ancora pratico con i segnali di fumo, mi ci volle quasi un tiro per riuscire a rispondere al vecchio. — Sono Marlboro, — dissi alla fine, benché non ne fossi molto convinto — cosa stai facendo, Gauloises?
— Sto morendo, ragazzo mio. — quelle scie acri stavano per spegnere il mio fuoco, tanto erano inaspettate. Tuttavia il mio interlocutore non sembrava troppo triste della cosa. — Succede a tutti, l'importante è arrivare alla fine senza rimpianti, e io non ne ho.
— Ma… non posso fare niente per aiutarti? — provai a chiedere, intuendo già la risposta.
— Niente che non mi faccia stare peggio. L'unica cosa che puoi fare è ricordarmi, e magari raccontare a qualcuno del vecchio Gauloises il Blu.
Dopo circa un tiro partì per il suo ultimo viaggio, per non tornare più.
I viaggi, che gran cosa. Conservo ricordi meravigliosi di ognuno di loro, benché la migliore esperienza che mi sia mai capitata sia accaduta proprio in uno dei tanti "rientri".
La casa di fronte alla mia, che alla partenza era vuota, era stata popolata dall'essere più affascinante che avessi mai visto. Ci volle un po', ma presi coraggio e cominciai a parlare.
— Ciao, sono Marlboro, sei qui da poco? — chiesi educatamente, ammirando le linee sinuose della nuova arrivata, la sua bocca piccola e incandescente, la testa contornata da un rosso disegno.
— Sì, ho traslocato qualche tiro fa. Così abitiamo vicini… — il suo fumo aveva qualcosa di speciale. Mentre quello di Gauloises trasmetteva fiducia e simpatia, questo portava calore, passione — ah, ma che maleducata! Non mi sono neanche presentata, mi chiamo Diana, Diana Slim.
Diana Slim, l'unica e la sola. Bastarono quelle poche parole per capire che eravamo in sintonia come due metà separate alla nascita che si ritrovano. La sua bocca crepitò un poco, facendole assumere un'espressione di eterna dolcezza, dopodiché fu estasi di fumo che si univa, di calore che scioglieva l'anima e si trasformava in olio. Furono i più bei tiri della mia vita, accompagnati da viaggi solitari che rendevano ancora più intenso ed eccitante il ritrovarsi.
Mentre io invecchiavo lei restava giovane e bella, e forse è questo il motivo per il quale decise di andarsene, senza dire nulla.
Come la trovai così la persi, ovvero al ritorno da un viaggio.
Sono passati due o tre tiri da allora, ma sembra sia passato molto più tempo. Tentai il suicidio, più volte, ma qualcosa mi bloccò e mi impedì di uscire di casa e buttarmi nell'oblio.
Non so ancora se furono le parole di Gauloises, la paura di morire o il ricordo ancora troppo vivido di Diana. So soltanto che è arrivata l'ora del mio ultimo viaggio, e no, non puoi fare nulla ragazzo. Puoi solo ricordarti e parlare di Marlboro il Rosso agli amici che incontrerai, e mi raccomando, nessun rimpianto.


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Osservando dal finestrino un manovratore che andando ad obliterare un biglietto cade su una rotaia con un trolley

Lvwceg
Lo ammetto, per un attimo sorrido.
Non è una cosa bella, lo so, anche perché il poverino stava aiutando una signora, portandole la valigia e marcandole il biglietto, ma in questa Italia di Candid Camera e Paperissima è difficile non sorridere delle disgrazie altrui.
Sorriso fastidioso in questo momento, dato che mi allontana dal filo dei miei pensieri.
Per carità, niente di difficile da riallacciare, ma non mi piace perdermi per una scena del genere l'immensità di quello che c'è sullo sfondo.
Anche lì niente di oggettivamente speciale, però tutte piccole cose che per me particolari lo sono se paragonate a quello che ero abituato a vedere fuori dal finestrino fino a poco tempo fa.
La semplice idea di guardare e scorgere, in fondo in fondo, lontano, le montagne è per me sconvolgente. Mi riporta all'ora e all'oggi della mia vita, lontano centinaia di chilometri dal mio mare, dal mio Colosseo, dalla mia immensa e trafficatissima città natale. Non che rimpianga tutto, il caos eccessivo, il troppo smog… però mi fa ancora un certo effetto guardare fuori dal finestrino e trovarmi in un paese estraneo, guardare in alto e vedere un cielo diverso, ascoltare le persone e sentire la mia stessa lingua ma declinata in modo differente, come a sottolineare che questo in effetti è sia il mio paese, sia uno diverso.
Multiculturale, come la mia città. Mi da quasi un senso di familiarità sentir persone che parlano lingue diverse dalle mie e che non comprendo, allo stesso modo in cui succedeva quando passeggiavo fino a pochi mesi fa.
Il manovratore, gentilissimo, si è rialzato e senza curarsi dei sorrisi che sa di aver provocato si scusa con la signora per il capitombolo della sua valigia e, ligio al dovere, va a obliterarle il biglietto.
Un gruppo di ragazzini, appena usciti da scuola, con lo zaino in spalla e capitanati da un piccolo leader con un aria che non mi piace lo deride apertamente. Anche questo mi riporta a casa mia.
La signora è molto tranquilla invece, si preoccupa per l'incolumità del suo aiutatore, ha persino allungato la mano in un gesto di aiuto, come a voler per un momento invertire le parti e dimostrarsi lei utile, lei di sostegno a qualcuno e non viceversa.
Giro lo sguardo verso i miei estemporanei compagni di viaggio, nessuno guarda più fuori.
C'è lo studente che probabilmente non ha alzato lo sguardo neanche quando tutti hanno guardato fuori per non perdersi la scena, la coppietta persa nelle sue effusioni romantiche, il gruppo di signore che stanno commentando come non ci sono più le persone di una volta e gli studenti che, a seconda dello sguardo che hanno negli occhi, deridono o sostengono l'operato del manovratore, quasi accendendo un dibattito politico su chi sostiene l'importanza di aiutare sempre e comunque e chi sostiene che le cose vanno fatte solo se si è in grado di farle. È evidente che il loro discorso prescinde da quello che effettivamente è successo lì fuori e che si ripeterà, con toni e ironie diverse, ogni volta che fuori dal finestrino si vedranno scene non ordinarie.
Anche se non mi è facile dire se non ordinaria è stata la caduta, o se invece l'evento che ha segnato questo viaggio è stato il gesto disinteressato di aiuto da parte di quel lavoratore.
Torno a guardare fuori dal finestrino, il biglietto è obliterato, il manovratore sta tornando al suo lavoro, il trolley è in mano alla signora e le rotaie sempre lì, al loro posto, a fare il loro lavoro senza lamentarsi e senza dare mai una mano a chi si trova in difficoltà, portandolo a destinazione, guardandolo e in silenzio augurandogli buona fortuna.
— Scusi, è libero questo posto?
Torno per la seconda volta alla realtà, è la signora con il suo trolley che vuole sedersi accanto a me.
— Certo signora, è libero. Prego, dia a me la valigia che glie la sistemo io.


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L'ombrello

Angela Di Salvo
Simone era uno scrittore in crisi da tempo, ormai. Dopo il successo del suo primo romanzo di fantascienza "Muro d'acciaio", non era più riuscito a scrivere niente di decente.
Avrebbe potuto continuare a cimentarsi in quel genere che gli aveva portato fortuna e visibilità, ma la sua fervida fantasia continuava a cozzare contro un "muro d'acciaio" altrettanto resistente e invalicabile come quello descritto nel suo libro. Dopo mesi di notti insonni e di riflessioni sulla natura di quel blocco di idee che invadeva il suo cervello, realizzò che forse era meglio cercare altrove una fonte di ispirazione che gli consentisse di esercitare degnamente la sua penna e il suo talento.
E così, improvvisamente, una mattina si alzò dal letto con una martellante domanda: "E se invece di dar vita a mondi lontani, avventure apocalittiche e alieni inverosimili, avesse cominciato a guardarsi attorno e a trovare nelle cose semplici e negli uomini comuni della terra la chiave di accesso a un nuovo tipo di creatività?"
Il fatto è che le piccole cose, diceva fra sé, non sono molto interessanti per i lettori, ne hanno già le tasche piene di mediocrità, di oggetti usuali e di persone insignificanti. C'è bisogno di evadere, di sognare, di cavalcare l'immaginazione per fare un "volo" che offra nuovi stimoli mentali.
Per questo Simone stentava a intraprendere il suo nuovo progetto di scrittura, aggravando la crescente sfiducia nelle sue capacità di vero scrittore.
Viveva da solo in un appartamentino all'ottavo piano di un palazzone sito in una borgata di periferia, non aveva uno straccio di amico e, dopo l'ennesima relazione andata a male, aveva sviluppato una stabile misoginia.
Con l'avvento del pensionamento, l'unica cosa che si era messo a fare per tenere attiva la mente, era stata quella di scrivere.
L'insperato successo del suo primo lavoro lo aveva galvanizzato e gratificato oltre misura. Ma adesso l'euforia se n'era andata e doveva trovare qualcosa che gli ridesse energia e il convincimento inconfutabile di non essere il solito autore che nasce e muore nel suo unico libro.
L'idea di dare spazio alla realtà quotidiana, vista sotto una nuova luce, non lo abbandonava più.
Vagava per la casa e osservava oggetti e cose che potessero fargli accendere l'agognata lampadina. Aprì gli armadi, guardò le foto vecchie e recenti, scrutò i soprammobili e i quadri che coloravano il suo scialbo soggiorno. Gli pareva che i ricordi si fossero nascosti dietro le cose e che nella sua vita non ci fosse mai stato niente di così straordinario che valesse la pena di raccontare.
Delle donne conosciute non era rimasta alcuna traccia. Buttando ogni cosa nella spazzatura, si era liberato dei ricordi che costituivano le prove schiaccianti del totale fallimento della sua vita sentimentale.
Andò in bagno e si guardo allo specchio, scrutandosi. Vide il suo grande naso e si ricordò del complesso che aveva accompagnato la sua adolescenza. Avrebbe dato qualsiasi cosa per cambiare quel naso, ma se l'era tenuto a malincuore per tutta la vita. Osservò i suoi denti e gli venne in mente il conto salato che gli aveva consegnato il dentista dopo la cura. La cicatrice nel sopracciglio destro testimoniava la sua brutta caduta dalla bicicletta quando aveva dieci anni. C'era ben poco da recuperare dal suo passato.
Niente, "radiografando" la sua faccia e scavandosi dentro, non trovò proprio nulla che potesse diventare stimolante oggetto di narrazione, se pur condita da qualche fantasioso ricamo letterario.
Forse doveva uscire da quella casa e da se stesso, osservando gli altri e il mondo che lo circondava come mai aveva fatto prima.
Gli venne voglia di fare una passeggiata a piedi.
L'ascensore non funzionava. Per le scale incontrò l'anziana vicina che scendeva appoggiandosi al suo bastone. Il bastone, ecco! Poteva essere un'idea. Associare le cose alla loro specifica funzione. E anche il passeggino in cui troneggiava il viso paffuto del bambino della tizia del terzo piano era un ottimo esempio di oggetto funzionale allo scopo.
Le auto che sfrecciavano per la strada erano efficienti modelli di una tecnologia divenuta vitale per il genere umano. Ma come poteva trasfigurare questi oggetti per trovarne una nuova valenza?
Mentre rimuginava fra sé, lo colse un temporale improvviso. La pioggia si riversò a fiumi sulla città e Simone si pentì d'essere uscito frettolosamente di casa. Era già distante dalla sua abitazione, tornare indietro non era possibile, doveva trovar riparo da qualche parte se non voleva diventare una spugna. Non c'erano negozi aperti, non c'erano bar o portici nei paraggi, niente.
"Mi potevo portare un cazzo di ombrello" — pensò irritato — "È sempre così. Quando previdentemente me lo porto appresso, non piove. Se lo lascio a casa, piove".
A un certo punto, osservò il marciapiede deserto. In un angolo c'era un tale che si dava da fare per ripararsi sotto un grande ombrello colore arcobaleno. Aveva ammucchiato i suoi accendini e i suoi pacchi di fazzoletti da venditore ambulante che cercava di rifilare a fumatori smemorati e a raffreddati occasionali.
L'uomo che ci stava sotto lo guardò e gli fece cenno di avvicinarsi.
— Se vuoi, qui c'è posto… — farfugliò appena lo raggiunse.
Simone si rannicchiò accanto a lui e percepì l'odore sgradevole che proveniva dai vestiti del suo vicino dai tratti somatici orientali. Lo sbirciava e ne coglieva lo sguardo spento e rassegnato al peggio. Avrebbe voluto parlare, ma da perfetto cafone non riuscì neppure a dirgli "grazie".
Vicini sotto la tempesta, coperti da quel bizzarro ombrello variopinto, ascoltarono in silenzio il rumore della pioggia battente.
Poi tutto cessò.
— Bene — disse Simone — è ora che torni a casa…
L'uomo non rispose ma abbozzò un tenue e stiracchiato sorriso. Forse pensava alla sua casa lontana o a quella che avrebbe voluto avere.
— Senti, — aggiunse Simone istintivamente — se sei solo, ti posso offrire un bel piatto di ceci. Ne ho una pentola piena. Ci riscalderemo e faremo quattro chiacchiere. In fondo, devo pur ringraziarti per la tua gentilezza.
L'uomo gli puntò addosso due occhi spiritati, come se avesse udito la cosa più strana del mondo. Chiuse l'enorme ombrello e sistemò il suo arsenale di accendini dentro uno zaino scuro.
S'incamminarono uno accanto all'altro parlando di cose futili, tanto per sciogliere un po' l'imbarazzo dell'insolita circostanza. Simone non riusciva a staccare gli occhi dalla mano che teneva goffamente l'ombrello e che frusciava sul suo braccio come una carezza.
Ecco, forse aveva trovato una nuova prospettiva da cui osservare un aggeggio comune come l'ombrello: da "riparatore di pioggia" a "strumento di solidarietà".
Si rallegrò pensando alla zuppa di ceci fumante da divorare in compagnia e al suo primo racconto che avrebbe scritto di lì a poco, durante la lunga notte.


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Fumo nel vento

carlocelenza
L'auto ferma in mezzo alla campagna silenziosa e assolata, tanto lontana dal mondo che il telefonino non prende. Una grande villa bianca contornata di cipressi è l'unica speranza per chiedere di fare una telefonata.
Un uomo anziano mi apre la porta, indossa una vestaglia di seta blu su un corpo alto che conserva ancora l'immagine di un antico vigore.
Mi invita a entrare e mi accompagna al telefono, lo vedo prendere un taccuino dalla tasca e annotare qualcosa mentre parlo col meccanico tentando di spiegare dove sono.
Non potrà arrivare prima di due ore, spiego al mio ospite che sorride e aggiunge che sicuramente saranno tre.
— Le posso offrire un caffè mentre attende?
— Non vorrei disturbarla troppo, lei è già stato troppo gentile a farmi entrare in casa sua.
— Oh non si preoccupi, non viene mai nessuno qui, mi fa piacere scambiare quattro chiacchiere, le mie giornate ormai sono piuttosto noiose. — e si avvia per il corridoio facendomi segno di seguirlo.
Ha una di quelle macchinette elettriche a cialde e dopo pochi minuti siamo entrambi seduti a sorseggiare il caffè di fronte a un bel tavolo di legno massiccio dai bordi sbalzati.
Tocco con l'indice le volute floreali perfettamente lucidate e mi complimento con lui per la bellezza della lavorazione.
— Mi fa piacere che le piaccia, l'ho fatto io.
— È uno scultore quindi? — chiedo incuriosito, in fondo l'arte è il mio campo di lavoro.
— No, per carità, sono solo un buon artigiano con molto tempo a disposizione.
— Ha fatto anche altre cose?
— Certo, se vuole gliele mostro.
— Se tanto mi da tanto, le vedrò con molto piacere. — quell'uomo mi incuriosisce, ha l'aspetto di un vecchio Pigmalione, ma intuisco una strana tristezza in lui.
Mentre attraversiamo i lunghi corridoi mi mostra scatole finemente intarsiate, riproduzioni in legno di antichi busti marmorei e tanti altri oggetti che non rivelano certo l'estro dell'artista ma testimoniano una manualità eccellente, sono opere di scuola, niente di originale ma eseguite con tecnica magistrale.
— Lei è veramente molto bravo, complimenti, oggi di mani capaci di simili lavori se ne trovano poche. Ha mai fatto qualcosa di più grande?
— Certamente, ma ho timore a mostrargliele, non so cosa potrebbe pensare di me. — si schernisce sorridendo — Ma in fondo perché no? Venga con me. — e si avvia verso il fondo del corridoio.
Dietro una porta a doppio battente si apre un salone lungo forse più di venti metri in cui, addossati in file ordinate, come pezzi di un domino, stanno delle grandi cassettiere dalla strana fattura. Ognuna di loro ha dodici file di trentuno cassetti e in alto, sulla testiera sbalzata con volute di acanto, spicca una data. La prima che vedo porta il 1950. Il mio ospite è silenzioso, capisco che mi sta lasciando il tempo di capire quel che vedo. Ogni anno, ogni mese e giorno della sua vita. Ogni cassetto porta un piccolo tesoro di ricordi.
— Questa è tutta la sua vita? — gli chiedo voltandomi verso di lui.
— Da quando avevo quindici anni.
— Posso aprirne qualcuno?
— La prego, sono fatti per quello e sono curioso quanto lei.
— Posso scegliere?
— Apra quello che vuole.
Anno 1975, mese settembre, giorno diciotto. Apro il piccolo cassettino di legno scuro quasi timidamente guardando il suo viso, poi sposto lo sguardo verso l'interno del cassetto. C'è un fiore secco sopra una foto in bianco e nero di un bel soriano robusto e paffuto, un foglio da notes piegato in quattro. Guarda anche lui nel cassetto e il suo volto intristisce per un attimo.
— Sì, ricordo quel giorno, morì il mio gatto e lo seppellii in giardino. Sulla sua piccola tomba piantai dei gigli, ci sono ancora, si vedono dalla finestra. — dice indicando fuori, poi fa un gesto con la mano, come a dire che non tutti i ricordi sono piacevoli.
— Perché? — gli chiedo indicando tutt'attorno.
— A parte il fatto che posso ricordare ogni giorno della mia vita, non so darle una vera risposta. So che quel che ho fatto vivrà più a lungo di me, ma come un libro che nessuno può leggere. In fondo quei cassetti contengono tutta la mia vita ma solo io con essi potrò ricordare, nessun altro potrà farlo.
Aprimmo altri cassetti, rispolverammo vecchi ricordi, ma ormai quel che doveva esser detto era stato detto e andammo avanti per pura cortesia aspettando l'arrivo del meccanico.
La profonda malinconia di quell'uomo era entrata dentro di me e mi lasciava smarrito.
Riparata la macchina salutai il mio ospite e guidai lentamente per la campagna, una sorta di dolce tristezza mi aveva preso ricordando quell'uomo.
Ogni vita è un incomprensibile capolavoro e quel che ci resta di lei, il ricordo, svanisce assieme a noi come fumo nel vento.


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Le importanti conseguenze dell'assenza di un oggetto non considerato importante

Ser Stefano
Prima arriva il dubbio. Si insinua veloce come uno scoiattolo che mastica una nocciolina. Si erge sovrano dal pantano di nebbia che la notte mi ha lasciato in testa. Un caos di immagini e ricordi che non si dipanerà con la stessa rapidità dello scoiattolo di prima, ma che mi accompagnerà per buona parte della mattinata.
I miei occhi sono ancora socchiusi in due piccole fessure tanto che un cinese mi darebbe del cinese, perlustrano l'ambiente circostante.
"Niente" il dubbio si trasforma in angoscia. "Non c'è" l'angoscia si trasforma in malessere. "No, no, NOOO". Urlo, con un filo di voce stridula, il nome di mia moglie, ma il nulla mi fa eco. Dal marasma della mente emerge una fosca visione di lei che mi informa che questa mattina andrà a lavoro presto. Le sue delucidazioni solitamente entrano ed escono da un orecchio all'altro con la rapidità di uno scoiattolo impaurito (senza nocciolina). Strano che frammenti di questo ricordo si siano fermati, smaltati su qualche parete del mio cervello. "Quindi" penso tristo "Sono solo".
Guardo il mio operato, una massa informe e molliccia che ammorba furiosamente l'acqua sul fondo della tazza. La puzza mi spinge in gola un conato. Il mio intelletto superiore mi fa premere lo sciacquone ed elimino perlomeno un po' di quel letale odore.
Maledico mia moglie e me stesso per aver mangiato il polpettone coi fagioli, la sera prima. Ciò che ho prodotto è un insulto all'umanità e dovrebbe essere considerato alla stregua di qualsiasi materiale radioattivo, sepolto sotto cemento e piombo, nascosto al mondo per l'eternità.
Mi muovo piano sulla tavoletta. Sento che delle impurità sono rimaste attaccate, appiccicate disgustosamente a me. Impreco in lingue che non conosco, cercando ancora con lo sguardo sotto il lavandino o sopra la pensilina. Azioni inutili, non è caduta né è stata spostata. Proprio non c'è. "Dannazione" Sconforto. Paranoia. Frustrazione.
Con cosa posso pulirmi? Sto nel bagno di servizio e non c'è neanche il bidè.
Dovrei passare per tutto il soggiorno, salire le scale, passare per la camera e andare nel bagno di sopra. Neanche un super scoiattolo ci riuscirebbe.
E dal molliccio che sento fra le mie tutt'altro che scultoree chiappe, mi sembra un piano impossibile da attuare.
Dunque cerco alternative. Vicino a me c'è il N.A.S.F. 6, piacevole lettura nei momenti intimi. Rifletto un attimo sognante su tutte quelle candide pagine ma poi decido che sarebbe un sacrilegio. Potrei sempre limitare i danni strappando solo un racconto che non mi è piaciuto. No. Non posso proprio adoperare il Nasf. Se lo venisse a sapere Massimo sarei bandito a vita dal foro. Che posso fare? Sono già in ritardo…
Lo sguardo mi cade sul tappeto viola. I miei occhi spenti si scontrano con i suoi, vuoti. Il morbido pupazzo di Hello Kitty sembra contorcersi, pare abbassare la testa, e farsi piccolo piccolo. Mia figlia non si accorgerà se manca uno dei tanti suoi giocattoli.
Mentre mi sporgo verso di lui, lo scoiattolo dentro di me, ghigna malefico.


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Le piccole cose non mi piacciono

Mastronxo
Ti spiego subito il perché.
Perché il mio lavoro consta nelle — e consiste nel — trovare piccole cose.
Animaletti, per la precisione.
"Fico!" mi vuoi venire a dire?
Aspetta. Aspetta.
Tutti pensano che ambiente e natura siano sinonimo di benessere e altruismo. Se metti le tue competenze ed energie al servizio dell'ambiente, le persone, curiose di sapere quel che combini per trascorrere le sue giornate — insomma, curiose di farsi i cazzi tuoi — alla frase "mi occupo di ambiente" prima tireranno su le palpebre con uno scatto atroce, tanto che hai l'impressione di sentirgliele scricchiolare.
Poi, faranno uscir dalle narici, o dalla bocca, o da ambetre gli orifizi, una stupida esclamazione stupotica per renderti partecipe di un grande interesse o di un forte mal di stomaco, tipo "Uhg, huiiiii, ma daiii, e quindi?".
E quindi ti tocca recitare a memoria la solita frase esplicativa circostanziale, che da quando ti sei laureato hai scritto nel tuo diario mentale a pennarello indelebile, dimenticandoti che basta un po' d'alcol per cancellare il suddetto indelebile da una superficie impermeabile, impermeabile proprio come la tua testa da qualche anno a questa parte.
Ci tengo a precisare che l'alcol in questione è quello che tuo nonno di versava sui graffi che ti facevi di continuo da piccolo, dicendoti che Rambo si buttava sopra la grappa e al limite faceva un grugnito. E allora grugnivi, ma certo non come Rambo. E allora, siccome non eri Rambo, cercavi di non graffiarti più, ma — e qui ci vedrei bene un tipo come Asimov, o come Dick, a scriverci sopra un bel saggio romanzato — le ferite sui bambini attecchiscono come pidocchi sulla testa di un clochard. Si fanno male anche a guardare la televisione, i bambini. Chissà come fanno.
Ma non divaghiamo, dai.
Hai appena spiegato al Cagacapperi in questione quello che fai per vivere, che se ti va bene farai per altri settantacinque anni.
"Signor Cagacapperi", hai esordito proprio così, ricordi?, "signor Cagacapperi, io mi occupo dello studio della componente macrobentonica all'interno dei sedimenti che compongono la nostra idrosfera. In parole semplici, Cagacapperi, studio le bestioline che può veder sguazzare allegramente all'interno di quella poltiglia maleodorante in cui puccia i piedi quando vuol passare la domenica al Lago. Per la maggior parte si tratta di sanguisughe" e qui Cagacappers si inquieta un po', gli vedi un'ombricina verdognola che scende dalla fronte e si spande sul suo viso, mentre il naso o la bocca gli esclamano un perplesso "Hu", e tu sorridi.
Sorridi e gli dici:"No no no no, Cagacapperi, Cagacappers, ma no! Non si allarmi! Non m'impallidisca! Le sanguisughe sono piccine, così piccine che non le vedi neanche! Mica siamo in Amazzonia! Che se poi viene attaccato da una sanguisuga, le conviene evitare di pucciare i piedi perché vuol dire che l'acqua è davvero una defecata paurosa. Se mi vede una sanguisuga, è meglio che la domenica pomeriggio si metta a mollo nella sua vasca da bagno o, a questo punto, eviti di spendere per l'ingresso in spiaggia e vada direttamente a sguazzare in una fogna.
Le fogne sono gratis, sono ovunque, piene di animali — che vedo le interessano parecchio — e ci può lasciare pure sua moglie a sbrodolarsi come un boscottino cioccolatoso, ma non è fantastico?
Ma torniamo al dunque, suvvia. Cagacapperi, come le dicevo: la mia missione è raccogliere queste bestioline, assassinarle con la formalina, mica che muoiano di cause naturali che poi si decompongono e chi le vede più. Poi, mister Caga, posso chiamarla Caga?, devo spostarmi in laboratorio, eh certo, che credevi Caga, posso darle del tu?, che credevi?
Che chi studia l'ambiente sta sempre di fuori sotto il sole, con gli uccelli che sfinguellano, le persone che fanno ciao e ridono felici, coi baristi che ti offrono una media mentre puzzi peggio di Capitan Findus e i suoi merluzzi?
Eh no, Caga, no! Il mio lavoro, Caga, è stare con le chiappe a sgualcirsi sugli sgabelli regolabili, con il collo inclinato in avanti che manco Mister Magù, con il naso tra gli oculari di uno stereoscopio e gli occhi che dopo dieci ore si mettono a cristonare peggio della tua cervicale. Bestemmiano tali oscenità che neanche il tuo cervello era convinto di sapere.
Tutto questo per CONTARE con attenzione UNO PER UNO, UNO DOPO L'ALTRO, gli animaletti, dai vermetti, alle larve, alle uova, che popolano il putridume limaccioso che sta sui fondali delle acque.
Ma, Caga, lo sai — posso darti del tu, sì hai detto? — qual è la miglior bellezza di questo piccolo, insulso lavoro?
Che non mi pagano!
Faccio volontariato, ahahah, Cagacazzi, ops scusi, Caga, Caghino, Cagotto! Faccio volontariato a tempo determinato!
Ahahah!
AHAHAH! Oh, scusi, le ho fatto male? Ma no, ma no, e che sarà mai! Un colpo affettuoso! S'è graffiato? Ma ci pensa mio nonno, ha tanto di quell'alcol a casa, Caghello!
Ora, lo capisci, Caga, perché le piccole cose non mi piacciono? Perché non le sopporto? Perché le ODIO?!
Lo capisci?
Ahahah!
AHAHAH!"


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Ricordi perduti

Cosimo Vitiello
Sembrava che il tempo fosse stato meno clemente con mia madre. Erano ormai diversi anni che non la vedevo e nella mia memoria lei aveva ancora il volto giovanile. La abbracciai con tenerezza. Strinsi forte gli occhi e ingoiai lacrime improvvise.
Parlammo a lungo. Per quanto mi riguarda, quei sette anni non erano stati altro che un battito di ciglia, ma mia madre di cose da raccontarmi ne aveva tante e io rimasi ad ascoltarla incantato. Seduti sul vecchio divano, sorrideva e gesticolava mimando situazioni e luoghi, io talvolta mi allontanavo con la mente sovrapponendo il suo viso a quello conservato con amore nella mia memoria di anni prima.
Alla fine si sentì esausta e mi regalò un sorriso contornato da una stanchezza interiore. Questo mi strinse il cuore con un velo di tristezza, rendendomi conto che negli ultimi anni, rapito dai miei interessi, l'avevo esclusa dalla mia vita.
Ricordo che mi chiesi se fossi degno di lei, se le sue aspettative nei miei confronti fossero state esaudite o mi vedesse solo come uno di quelli che aveva un unico obiettivo: il lavoro. Il lavoro e nient'altro.
Arrivati fin qui vi chiederete lo scopo di questo breve racconto, la motivazione che mi ha portato a raccontarvi un pezzo della mia vita. Ma è ovvio, per il più grande dei sentimenti!
Ritornando a quanto accadde quel giorno, di ormai più di dieci anni fa, ho il vivido ricordo della cena consumata ripensando ai tempi dei raduni familiari, in casa della nonna. La nonna… Ecco che un altro duro colpo mi sconvolse la mente. Sì, fu duro perché l'amavo molto, le volevo un bene dell'anima, eppure, da quando era scomparsa, avevo completamente dimenticato che la madre di mia madre aveva avuto un ruolo importante nella mia vita.
«La sedia» disse lei.
Io feci fatica a ritornare alla realtà e gli domandai di cosa parlasse. Lei mi portò in giardino, tenendomi per mano. Accese le luci esterne e aprì la casetta di legno compagna di giochi con mio fratello. Aprì la porta, ed era lì. Me la indicò sorridendo.
Per la seconda volta trattenni le lacrime: in mezzo a tante cianfrusaglie la sedia di mia nonna, dove amava addormentarsi, era ingombra di libri universitari. Spostai i volumi dove ci avevo buttato anni di studio e me la guardai e ringraziai la penombra che celò i miei occhi lucidi.
È strano a volte pensare come un innocuo oggetto che per altri non ha nessun significato, possa invece far esplodere in noi una gran quantità di sentimenti, portare a galla dal fondo della memoria fatti che credevamo ormai perduti nel passato. Rientrammo in casa sotto braccio e mi promisi che l'indomani le avrei fatto visita.
Il paese in quel periodo dell'anno esprimeva tutta la sua tristezza, nuvole basse sostavano quasi perenni nella valle e l'umidità accentuava la già rigida temperatura autunnale. Il cimitero occupava il declivio che cadeva leggero sul fiordo nascosto da vecchi loppi, stretto nel mio cappotto salivo piano le scale umide e sbilenche. Come lo era stato per la vecchia sedia, così quel luogo mi catapultò indietro nel tempo. Ogni angolo e ogni anfratto mi ricordavano qualcosa: lì erano sepolti tutti i miei parenti e, fino a pochi attimi prima, un bel pezzo della mia vita.
Non ci misi molto a trovare la lapide che indicava il fazzoletto di terra dove mia nonna era stata sepolta, la vecchia foto aveva assunto un tono sbiadito sotto i raggi costanti del sole. Rimasi a fissarla a lungo, ricordando e cercando di ricostruire il puzzle di visioni che aleggiavano nella mia testa, l'unica cosa che sentivo ancora forte era il profondo sentimento che mi aveva legato a lei. Capii che era ora di andare via quando incomincia a tremare dal freddo, la salutai mentalmente abbracciandola come facevo un tempo e mi volsi per riprendere la strada del ritorno… ed eccola lì.
Una donna chinata intenta a sistemare dei fiori attirò la mia attenzione, la osservai sfregandomi le mani per riscaldarmi e mi rivolse un fuggevole sguardo insignificante. Fu abbastanza.
Tutto aveva avuto inizio dalla sedia di mia nonna. Che cosa sarebbe successo se mia madre non l'avesse conservata? Sarei comunque andato al vecchio cimitero a trovarla, ma con tempistiche diverse, e quell'incontro non ci sarebbe stato. Questa storia e queste domande mi frullavano continuamente nella testa, fino a oggi, che ho dovuto metterle per scritto altrimenti ne sarei impazzito. Ora potete capirmi, forse non tutti, ma quelli che hanno una storia d'amore nata per caso, sì.
Oggi abbiamo due figli, mia madre non riesce più a camminare ma racconta ancora le sue storie a nostri bambini. Ho abbandonato il mio lavoro in America e ora sono un semplice dottore in un piccolo paese dimenticato, amo mia moglie e i miei figli e la natura che ci circonda. Cosa volete che vi dica a questo punto: spero solo che mia madre non muoia mai e che il tempo smetta di correre.


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Il miglior amico dell'uomo

Vit
Delle volte, al mattino, appena mi sveglio, tiro di quelle madonne che non so neanch'io.
Un giorno, poco tempo fa, mi sono alzato, m'è venuta in mente una cosa e ho fatto una smorfia, poi ho detto: NO NO NO NO!, ma disperato eh, che scuotevo la testa. Se qualcuno mi avesse visto, avrebbe detto: capperi, questo qui ha dei grossi problemi. Mi era venuto in mente che il giorno dopo sarei dovuto andare al Vinitaly.
È che il Vinitaly è una bolgia, un casino, ma per lavoro ci si deve andare, è un male necessario.
Poi è arrivato il giorno dopo, giorno della partenza per Verona, ma quando mi son svegliato, ormai, ero già rassegnato, quindi non ho ripetuto: NO NO NO NO! E sono partito.
Il lunedì successivo invece, appena sveglio, m'è venuta in mente un'altra cosa. Ma non ho detto: NO NO NO NO! Come l'altra volta, perché stavolta c'era di mezzo una cosa talmente orribile da lasciarmi in silenzio. M'era venuto in mente che quel giorno avrei dovuto fare la visita dall'urologo.
Andar dall'urologo non è come andare dal ginecologo. Cioè, le donne dal ginecologo ci vanno un giorno sì e un giorno no, che se scopri che la tua morosa va da un ginecologo maschio, per dire, ti vien fin la gelosia. Noi uomini invece dall'urologo non ci andiamo mai. È una cosa che ci ferisce l'orgoglio.
La visita dell'urologo è quella cosa per cui un dottore ti infila un dito su per il culo tastando la prostata. Io, di visite dall'urologo, con annessi e connessi, per adesso ne ho fatte due. Anzi, quasi tre, ma andiamo con ordine.
Alla prima il medico, io a gambe aperte tipo partoriente, lui col dito indice pronto all'incursione, un sorriso beffardo, fa: scusi, ho le dita un po' grosse. E infila.
La seconda volta, col medico (un altro) chiacchieriamo amabilmente del più e del meno, seduti nel suo studio, poi dopo aver fatto una faccia come dire: sì beh, adesso però non parliam di cazzate che è arrivato il momento, pensavi di scamparla eh? Mi fa: e adesso… (lascia la frase così, in sospeso, ammicca sorridente alzando il dito indice verso l'alto) io capisco e vado mesto verso il lettino. Faccio per mettermi a gambe aperte tipo partoriente, cercando di mostrare una certa dimestichezza e disinvoltura nella faccenda, ma lui mi blocca e fa: no no, io lo faccio da dietro, si metta a quattro zampe, come dovesse rivolgersi alla Mecca.
Ah. Abbasso i pantaloni e le mutande, lui si avvicina col dito minaccioso alzato e chiede: che lavoro fa? Il degustatore di vino, rispondo. Lui allora esclama: ah ma che bello, ma dai, che bello, il degustatore dai. Io intanto sono inginocchiato, con le mutande abbassate, inizia a chiedermi quale sia la migliore azienda della zona, io glielo dico e lui dice che però se la tirano un po' e io ribatto che no, non mi pare se la tirino e andiamo avanti così, che io son sempre col coso per aria davanti all'urologo che intanto mantiene il ditino alzato a ricordarmi ciò che mi aspetterà di lì a poco. Vorrei portare avanti la conversazione, rimandare all'infinito il temuto attimo, ma dopo alcuni minuti l'urologo inizia a fremere. Mi zittisco. È arrivato il momento.
Terminata l'incursione balzo letteralmente giù dal lettino, sempre per mostrare disinvoltura, ma rischio di cadere e buttare a terra l'appendiabiti perché inciampo nei miei pantaloni abbassati. L'urologo segue con stupore e preoccupazione la mia azione ginnica.
Ci sediamo, mi dà una cura e mi dice di fare un esame appena finita la cura. Poi torni che facciamo una visita di controllo eh, aggiunge.
Faccio la cura, l'esame, poi, come d'accordo, prendo un altro appuntamento. Oggi.
È che non lo sapevo. Cioè, oggi mi son svegliato, sereno, senza madonnare, senza dire niente, addirittura sorridente, un bel risveglio, perché tanto mi sono detto: stamattina prenoto la visita, ma sarà tra due e tre giorni, figurati, mica oggi.
Allora faccio colazione, cazzeggio al computer, guardo i risultati dell'NBA, i dischi usciti ieri, i nuovi racconti postati su BraviAutori, mi faccio una doccia, la barba, mangio un altro biscotto, poi penso: aspetta che chiamo l'ambulatorio. Faccio il numero. Mi dicono che l'urologo potrebbe ricevermi oggi stesso, oppure tra tre settimane. Oggi? Come oggi? Tradimento. Panico. Non sono pronto. Tentenno, alla fine cedo: ok, dico, ci vediamo oggi. Che a saperlo, stamattina, appena sveglio, che sarei andato oggi, probabilmente avrei detto NO NO NO NO! Comunque.
Mi presento dall'urologo, chiacchieriamo prima del più e del meno, poi della mia prostata. Io son lì, pronto al peggio, andiamo avanti a parlare di cose urologiche e spero si dimentichi dell'incursione, parliamo parliamo e il momento sembra non arrivare mai e io sono speranzoso, sto per dirottarlo su discorsi enologici, sto per dirgli che ho una cosa fondamentale da fargli sapere, che ho cambiato idea sulla mia cantina preferita della zona, poi però inizia a fremere, tace e dice: bene. Ha finito di parlare. Rassegnato sto quasi per alzarmi verso il lettino, ma lui fa: bene, siamo a posto così, è tutto ok, non serve la visita. E qui il ditino lo alza, eh, però stavolta suona meno minaccioso, è quasi in segno di saluto.
Ci salutiamo, esco rasserenato. Il mio urologo mi diventa simpatico, cambia la prospettiva, mi appare come una specie di insospettabile amico che tutto sommato, ogni tanto, è bello rivedere, lui e il suo ditino. Ed è bello persino, la mattina appena sveglio, prima di fare colazione, dedicargli un pensierino in tutta serenità. Anzi, credetemi, io non ho dubbi, l'urologo è il miglior amico dell'uomo.


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Le pulci

Arianna
— Mamma, mamma, voglio un gatto bianco… — implorava mio figlio, all'età di sette anni, con sguardo seducente, stringendo la mia mano nella sua.
Avere un unico figlio, è un'esperienza che fa sentire una mamma onnipotente e pronta ad accontentarlo a ogni richiesta, senza avere la consapevolezza che sta modellando un despota che la farà impazzire quando sarà un adolescente, fino a quando potrà passare il pegno a una moglie che la maledirà.
Visitammo diversi negozi di animali, ma non c'erano gatti bianchi. Lui non desisteva dalla sua richiesta.
Una mia amica mi informò che una veterinaria aveva una cucciolata di gattini da sistemare. Purtroppo, aveva anche dei dobermann che, quando i micetti si fossero allontanati dal seno della mamma, immediatamente avrebbero azzannato e mangiato i teneri bocconcini. Mi accompagnò da lei per scegliere un gattino e ce n'era anche uno bianco. Aveva un mese di vita. Sembrava un peluche tremolante. La veterinaria mi disse che bisognava attendere un altro mese, poi avrei potuto portarlo a casa. Mio figlio fu felice della notizia. Nell'attesa dell'arrivo del nuovo ospite, comprai una piccola poltrona, che sarebbe stata il suo trono e luogo di riposo. Una copertina con cui ricoprirla, e un'altra di ricambio quando l'odore e il colore mutato dell'altra l'avrebbero richiesto. Due ciotole, una per l'acqua e una per il pasto. Una lettiera e un trasportino che, comunque, aveva l'aspetto di una gabbia, perché si chiudeva con un piccolo cancelletto. Il tempo vola e presto arrivò il giorno in cui il micetto era pronto per venire a casa. Andammo a prenderlo, emozionati e felici. Lo facemmo entrare nel trasportino e, quando arrivò a casa, si guardò intorno curioso. La poltroncina attirò la sua attenzione e si accomodò tranquillo. Nei giorni seguenti, mi accorsi che sulla sua poltroncina c'erano dei piccoli puntini rossi. Sono sempre stata molto ipocondriaca e lo portai dal veterinario più vicino a casa. Mi disse che il mio gatto era pieno di pulci. Non avevo mai visto una pulce in vita mia. Il veterinario mi informò che non si trasmettono all'uomo; bastava sottoporlo a un trattamento per risolvere il problema. Mi disse il nome di uno spray da applicargli. Andai in farmacia, dove acquistai anche un pettine abbinato al prodotto. Arrivata a casa, guardai il micio e gli parlai.
" Facciamoci coraggio. Per me sarà più difficile che per te."
Feci entrare il micio nel trasportino e tirai in alto il tetto. Infilai un paio di guanti in lattice. Con una mano, iniziai ad accarezzare il micio per tranquillizzarlo, e con l'altra spruzzavo sul suo pelo lo spray antipulci. Minuscoli puntini iniziarono a saltare in aria. Tutte quelle cose pungevano la pelle del mio povero micio? Sapeva soffrire così in silenzio? Lui, buono buono, si lasciava bagnare da quel liquido che tramortiva le bestioline, e quando finalmente il pelo era tutto bagnato, tirai giù il tetto del trasportino e attesi il tempo indicato sulla confezione del prodotto per terminare il lavoro di disinfestazione. Gettai i guanti in una busta di plastica, chiudendola con un nodo stretto. Lavai le mani con acqua calda e mi avvicinai al trasportino per vedere il mio gatto dormire. Davanti a quell'immagine angelica, ebbi il tempo di riflettere sull'imprevedibilità delle vicende della vita, e sulla necessità di non dare mai niente per scontato e di svegliarsi, ogni mattina, con l'animo predisposto ad affrontare qualsiasi situazione, dalla più piacevole alla più terrificante. La mia ipocondria è la conseguenza di un trauma infantile, dopo il quale sono diventata un'esagerata igienista. Quando ho la necessità di andare in bagno, mi lavo le mani prima di tirarmi giù le mutandine, perché temo che nel momento della pulizia con la carta igienica, posso trasportare nelle mie parti intime germi e batteri, e ripeto il gesto dopo aver dato sfogo al mio bisogno. Il mio comportamento nevrotico nacque quando venni a conoscenza di una notizia che mi sconvolse. Il mio nonno materno rimase vedovo all'età di cinquant'anni, e non si risposò. Veniva spesso a trovare mia madre; durante i pomeriggi che trascorreva a casa nostra, mi aveva insegnato a giocare a carte. Era stato un buon maestro e giocavo volentieri con lui. Un giorno, un parente poco discreto ci informò che, casualmente, diceva lui, una sera era passato in macchina in una via frequentata da prostitute e aveva visto mio nonno andar via con una di loro. Mi convinsi che mio nonno potesse avere una qualche malattia venerea e che le carte che scivolavano fra le sue mani potessero essere fonte di contagio. Ma non potevo rifiutarmi di giocare con lui. Quindi potevo solo lavarmi le mani dopo aver giocato; ma non sapendo quali altri oggetti della casa lui potesse aver toccato, ho preso l'abitudine di lavarmi le mani subito dopo aver chiuso la porta del bagno. E comunque, mio nonno non aveva nessuna malattia, ed è morto all'età di ottantacinque anni, per essersi fratturato il femore scivolando nel corridoio di casa.
E questo gatto che mi era stato regalato da una veterinaria, avrebbe dovuto essere il gatto più sano del mondo, mentre invece era un covo di pulci!
Infilai un paio di guanti in lattice puliti, e passato il tempo necessario a uccidere le pulci, tirai su il tetto del trasportino e iniziai a pettinare il mio bel gatto bianco, con un pettine a denti fittissimi. Il pettine, a ogni passaggio sul pelo, si ricopriva di pietrificati puntini neri. Erano le pulci morte. Sorridevo al mio gatto, che sicuramente mi era grato per aver posto fine al tormento che gli infliggevano quelle quasi invisibili bestiole. Pulivo il pettine con una salvietta umidificata, e poi lo ripassavo, fino a quando pettine e pelliccia bianca non si macchiarono più di nessun puntino. Asciugai il gatto con un ampio foglio di carta assorbente, poi lo feci accomodare su un asciugamano, dove iniziò a leccarsi per un'ulteriore pulizia, mentre io pulivo, ovviamente indossando un altro nuovo paio di guanti, l'interno del suo trasportino, fino a quando lo vidi luccicare.
Sono trascorsi alcuni anni da quel giorno che non potrò mai dimenticare, e sul mio gatto non ho più trovato una pulce.
Però, è difficile rinunciare alle abitudini, e ormai, per me, è un gesto automatico lavarmi le mani appena entro in bagno.


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La foresta pluviale

StillederNacht
Non appena ebbi finito di dipingere il disegno della foresta pluviale, andai sul balcone di camera mia e scrutai quel foglio colorato sotto la luce del sole.
— Usa il pennello in modo leggero come il vento rasenta le foglie morte d'autunno. Bravo, così. — Diceva la mia maestra d'artistica.
Il vento sul mio disegno aveva soffiato violentemente come sulle vele di una nave in burrasca sull'orlo della rovina. Aveva sradicato, spazzato via ogni segno d'arte che quel foglio, un tempo bianco, portava con sé. Lasciai asciugare al sole quei colori foresta pluviale. Il mio disegno non era un granché. Poco importava. Alla maestra avrei dovuto consegnare comunque qualcosa. Nel caso in cui con quell'aborto di un disegno avessi preso un'insufficienza, avrei discusso con la maestra sull'opinabilità dell'arte. Del resto, lei era un'insegnante fallita e dell'argomento se ne intendeva. Dopodiché saremmo stati sulla stessa barca e avrebbe cambiato idea sulla mia insufficienza. Rientrai nella mia stanza e appoggia la foresta pluviale in formato A4 sul tavolo di vetro davanti al camino in sala. Era un camino moderno, sospeso in aria. Assomigliava a un lampione della luce, quelli tondi che si usano in giardino, appeso al contrario sul soffitto.
Da piccolo mi piaceva osservare il fuoco del camino annichilire freddamente ogni cosa senza lasciare traccia. I problemi, i pensieri burrascosi della giornata bruciavano insieme alla legna, che insieme ai colori della fiamma sprigionavano un tepore serale. Mi misi comodo sul divano a forma di"L". Azzurra sarebbe arrivata alle tre. Ai miei non piaceva Azzurra; speravano in qualcosa di più promettente, per me. Azzurra valeva all'incirca duemilacinquecento euro il mese. Non erano pochi ma neanche tanti. Suo padre era un ingegnere inetto con la matematica. Sua madre era un'insegnate delle elementari ed era un'incapace con i bambini. Eppure la loro intelligenza era stata accademicamente certificata. Ogni qualvolta che vedevo Azzurra, non riuscivo a capire come da quella mediocrità presuntuosa e puzzolente peggio di merda di cavallo, potesse scaturire così tanta bellezza e perfezione. Io e Azzurra non eravamo una coppia: facevamo solo i compiti insieme: lei mi faceva giocare con i suoi accessori e io la facevo giocare con i miei: la Jacuzzi e la sauna, per esempio. Io valevo intorno a trecentomila euro non dichiarati all'anno. I miei avevano eretto il loro impero con il mercato del dildo di legno. All'inizio nel nostro paesino tutti ne parlavano male; compreso il prete e i paolotti dell'oratorio. In seguito, quando si accorsero che di dildo in legno ce n'è sempre bisogno e che il mercato dei peni artificiali cresceva pari al mercato prolifico dei transistor, presero tutti a guardarli diversamente, con rispetto. Un'estate decisi di seguire il consiglio di un amico, che mi disse: — Se vai in vacanza con gli amici dell'oratorio scopi per una settimana come un riccio —. Io non ci credevo, così decisi di accertarmene di persona. Di giorno subivamo tutti i loro sermoni: le passeggiate in montagna, le belle canzoni al tramonto, le foto degli animali graziosi da mostrare ai genitori, i giochi insieme per rafforzare lo spirito di gruppo. Di notte saltavamo sui letti come cerbiatti ubriachi che in silenzio si accoppiavano, sempre in gruppo. Sentii suonare il campanello e nel monitor numero sette, quello della videocamera al cancello, scorsi il volto di Azzurra.
— Falla entrare. — Dissi al portiere.
Nudi nelle bolle rilassanti dell'acqua della Jacuzzi con le lenti scure dei Rayban davanti alle pupille ci fumammo un cannone. Poi la masturbai con l'alluce finché non venne.
Nella sauna di legno d'abete rosso finlandese mi chiese:
— Hai fatto il disegno di artistica per domani? —.
Non le diedi risposta finché davanti al camino, avvolto nell'accappatoio, le dissi:
— Porcatroia! Non c'è più! —.
Azzurra si limitò a guardarmi con occhi fatti e vacui.
Mia nonna aveva gettato il disegno nel camino e questo mi penetrò peggio di un dildo di legno.
— Vuoi che ti dia una mano con il disegno? —. Chiese lei. Alle elementari Azzurra copiava sempre in matematica da me; prendeva sempre ottimo mentre io distinto. Io non pulivo il compito dalle piccolezze, dagli errori di calcolo. Le persone restano immutate nel tempo come una foto di classe delle elementari. Azzurra era rimasta identica a quella bambina che sorrideva come tutti gli altri, solamente perché glielo diceva la maestra. Inoltre ero consapevole che la mia cucina in futuro sarebbe stata sporca e disordinata. Al contrario la sua sarebbe stata pulita come quella di una perfezionista malata che passa un terzo della sua vita a pulire il compito dalle piccolezze.
— No tranquilla, se ne occupa il comandante stasera —. Il "comandante" era mia madre.
Sul balcone fumammo qualche sigaretta e con una banconota da cinquecento euro tirammo su due strisce di coca.
Il balcone della mia stanza era una babilonia di fiori: rose, girasoli, tulipani e altri di cui non ignoravo il nome. Mia madre li aveva messi lì apposta: voleva entrare nella mia stanza con una scusa plausibile. Tipo: "Come stanno i fiori?". Ero in piedi vicino alla ringhiera in stile classico e osservavo il cielo che non lasciava trasparire nulla di nuovo se non il chiarore dell' uggia di tutti i giorni.
Guardavo i petali di tulipano bianco volteggiare nell'aria insieme alle mani invisibili e leggere del vento, quando Azzurra mi raggiunse e mi strinse la vita, abbracciandomi, appoggiando l'orecchio destro qualche centimetro sotto la spalla sinistra, vicino al cuore. Fissavo i riflessi cangianti del sole sull'acqua della piscina, quando lei, alzando verso di me occhi lucidi come specchi d'acqua, mi disse:
— Ti amo — Poi aggiunse: — sul serio. — e si rimise ad ascoltare il battito veloce del mio cuore drogato.
Osservai le piccole onde dell'acqua della piscina sovrapporsi e scontrarsi pigramente una con l'altra. In quella piscina affogavano tutti i miei pensieri.
Azzurra mi chiese con voce languida: — Tu mi ami? —. I tulipani oscillavano lentamente e i raggi del sole sembravano scaldare solo la superficie della piscina, senza penetrare in profondità. Alcuni petali bianchi volarono via come strappati con violenza dalle mani invisibili del vento.
— No, non ti amo.
Calibrai un sorriso ironico e l'abbracciai forte e teneramente come un amico.
In camera la spogliai dei suoi ultimi petali di dignità: le strappai i vestiti con violenza e la presi da dietro. Volevo essere un'animale, ritornare alla natura, al fulcro delle cose, a quell'istinto che governa il mondo e ti fa sentire vivo. Guardammo, infine, qualche telefilm americano in attesa che l'effetto della droga ci scendesse.
Sotto la lieve luce lunare, tenevo un foglio bianco davanti ai miei occhi insieme alle foto di qualche foresta stampata dai primi risultati di Google. Avevo appena finito di mangiare e sbrigato la solita routine delle pseudo domande famigliari intorno al tavolo. Non riuscivo a dipingere, anche se sapevo che dovevo farlo. Ero come affascinato da qual bianco. Non era il bianco della cocaina, né della cecità o del vuoto come lo definiva la mia insegnante di lettere, attribuendolo a "José Saramago", non era il bianco dei tulipani o di Azzurra, né quello della luce lunare né quello della "Stanza Bianca" di Don Delillo. Era il bianco iniziale privo di immagini. Ogni immagine avrebbe rovinato e privato quel bianco della sua illibatezza. Ogni compagno di classe aveva dipinto quel bianco, credendo che i suoi colori fossero più vivi e più belli degli altri. Forse per originalità, forse per il tempo e lo zelo investiti o forse per qualche altro motivo. Domani sarei stato giudicato per quella foresta pluviale. Non era un albero, nemmeno un tulipano. Era una foresta pluviale. Non ne avevo mai vista una eppure dovevo dipingerne i tratti. Una cosa assurda. La maestra non avrebbe mai compreso quel mio foglio bianco, giacché lei, nel suo semplice fallimento artistico, era affascinata da paesaggi complicati e ricercati, quasi potesse ridipingere la prosa malriuscita della sua vita. Chiamai Azzurra e le dissi se poteva dipingere per me una "foresta pluviale". Lei rispose di sì contenta, manco le avessi detto "Ti amo". Presi quel foglio bianco e sul retro scrissi: "Foresta pluviale 12/Aprile/2011". Dopodiché lo appesi in camera.


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Piccole grandi soddisfazioni

Sphinx
Che giornata di merda.
Sono fermo sul binario otto ad aspettare. Devo tornare a casa. Fino a cinque minuti fa pioveva a dirotto e adesso c'è un'afa insopportabile, di quelle che ti fanno appiccicare tutto, ascelle, gambe, piedi.
Del mio treno nemmeno l'ombra. Al suo posto ce n'è un altro, anch'esso in ritardo e che ancora deve partire. Mi giro verso le macchinette per mangiarmi uno snack, almeno inganno l'attesa, ma qualche stronzo teppista le ha devastate, così neanche posso soddisfare la mia golosità. E chi se ne frega se ingrasso, tanto sono single e non c'è una donna che rompe le palle per farmi stare perennemente a dieta. Sorseggio l'acqua calda come piscio comprata al bar della stazione, l'unico diversivo.
A un tratto vedo un puntino rosso. Non capisco subito cos'è, poi mi giro verso la testa del treno e scorgo, a sei o sette metri, un ragazzino con in mano un laser che si sporge dal finestrino. Lui il suo cazzo di diversivo lo ha trovato. Avrà sì e no sedici anni o giù di lì, e il sorriso ebete di chi non si rende minimamente conto che potrebbe far male a qualcuno.
Lo sai che negli occhi c'è una cosa che si chiama retina e che con il tuo gingillo la potresti danneggiare, razza di imbecille?
Si accorge che lo guardo. Continua a sorridere e se ne fotte se mi da fastidio.
Cerca altre vittime. Io mi giro dall'altra parte per non correre rischi, ma non mi sposto. E no, questa soddisfazione non gliela do. Vedo il puntino rosso passare sul cartellone delle partenze, poi si sposta sulla gente ignara che cammina. A un certo punto si posa sulla testa pelata di un povero vecchio sdentato seduto su una panchina.
Sento ridere.
Mi volto e i ragazzini ora sono due. Si passano il laser di mano come fosse una canna da tirare a turno, poi scelgono le vittime di quel loro stupido gioco.
Li osservo in cagnesco ma loro se ne fregano.
Torno a girarmi dall'altra parte cercando di non pensarci.
A un certo punto sento un tonfo sordo alla mia sinistra.
Mi volto. L'espressione dei due ragazzini è cambiata, non ridono più. Guardano tutti e due sotto di loro. Faccio appena in tempo a vedere il laser rotolare sulla banchina e fermarsi oltre la linea gialla di sicurezza.
Adesso i due adolescenti mi guardano. Sono io a sorridere. Uno dei due cerca di dire qualcosa, balbetta ma non riesce a chiedermi niente. Io continuo a guardarli sorridendo.
Non ve lo raccatterò mai, piccoli bastardi.
Le porte si chiudono di scatto, il treno comincia lentamente a muoversi. Adesso posso leggere il terrore nel loro sguardo mentre si accorgono che non proverò assolutamente a muovere un dito. Il treno accelera allontanando i due ragazzini dal loro giocattolo.
A questo punto faccio pochi passi e mi chino.
— Grazie!
Urlo verso i due marmocchi che si allontanano increduli mentre mi infilo in tasca il loro laser.


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Miguel

Titty Terzano
Rocco se ne stava sempre buttato lì, su quella branda scassata, in una delle celle del Regina Coeli. Fissava il soffitto con sguardo vuoto; non dava mai retta a Mario, suo compagno di prigione, ribattezzato Dentaccio da quando un pugno, sull'arcata gengivale superiore, gli aveva reso sporgente un incisivo.
— Ehi Rocco, ma tu come ci sei finito qua dentro?
— I dolci non sono proprio la mia passione. A volte mi fanno venire da vomitare. Parola di me medesimo, Dentaccio. A te piacciono?
— Rocco, guarda quanta pioggia! Non ti viene voglia di andare fuori a bagnarti dalla testa ai piedi?
Dentaccio tentava continuamente, con domande su domande, di intavolare una conversazione, così da far passare un po' di quel tempo, che là dentro pareva di gran lunga più lento che nel mondo dei liberi.
— Nessuno può da essere veramente libero a 'sto mondo… — attaccava a filosofare Dentaccio, perché gli
piaceva darsi arie da criminale erudito.
Rocco, però, rimaneva in silenzio, indifferente alle domande e ai ragionamenti del suo compagno di cella dal volto equino. Da quando, un mese prima, lo avevano sbattuto in prigione, il giovinastro stava perennemente disteso sul lettino, occhi sempre puntati al soffitto scalcinato dall'umidità. Non mangiava. Si alzava soltanto per andare al bagno, barcollando peggio di uno zombie. Non gliene fregava niente di niente neppure dell'ora d'aria. Rimaneva perennemente lì sulla branda, muto, con aria assente.
Un giorno gli mandarono lo psicologo. Il dottor Simeoli si trovò di fronte l'emaciato ragazzone dalle treccine color paglia: pareva uno spaventapasseri vivente, tanto era diventato ossuto da far associare l'aspetto dei suoi arti a manici di scopa. Il dottore lo intervistò a lungo; Rocco era invariabilmente allungato sullo sgangherato giaciglio: se ne infischiava pure di quell'uomo che diceva di volerlo aiutare, tentando di carpire i suoi perché. Profondamente infastidito, a un tratto sbottò:
— Lasciatemi tutti in pace! Voglio il mio Miguel!
Il dottor Simeoli, che non era affatto bravo a tenere i segreti professionali, andò a farsi grasse risate assieme ai poliziotti penitenziari, spettegolando su Rocco che sentiva la mancanza del suo Miguel.
L'indiscrezione si diffuse anche tra i detenuti, che iniziarono a far battutacce e boccacce ogni volta che passavano, apposta o per necessità, davanti alla cella del ragazzotto dalla capigliatura rasta, che stava incollato alla branda senza badare a niente e nessuno.
Dopo qualche giorno gli mandarono il cappellano del Regina Coeli, don Romano, che iniziò a predicare:
— Figliuolo, certe cose sono contro natura. Nella Bibbia…
Rocco si alzò di scatto dal lettino e, con grande sconcerto del prete, urlò:
— Ma che diavolo volete tutti da me? Per uno stupido sacchetto di acidi, mi sono trovato rinchiuso in questa fogna, senza il mio Miguel!
E pianse con tali disperati lamenti da far accorrere velocemente i poliziotti penitenziari.
Qualche giorno dopo tornò a visitarlo il dottor Simeoli.
— Ti ho portato un regalo! — esclamò lo psicologo, tutto
orgoglioso di sé. Rocco rimase sul lettino, impassibile, senza mostrare il benché minimo interesse alla carta da lettere gialla, accompagnata da una matita, che il dottore gli porgeva.
— Ho pensato che magari ti farebbe bene scrivere o disegnare qualcosa, per alleviare un po' la nostalgia di Miguel.
Rocco non rispose e, senza dargli soddisfazione, si girò verso il muro, nascondendo il volto nel cuscino; lasciò il suo deretano ad ascoltare Simeoli.
Due sere dopo, il ragazzo era in cella da solo: Dentaccio l'avevano portato in cella d'isolamento per aver dato inizio a una rissa nella sala mensa. La luna piena illuminava la carta da lettere gialla, poggiata sull'unico tavolino traballante della cella. Rocco si alzò dalla branda: gli era venuta voglia di scrivere.
"Miguel
Tesoro mio,
mi manki tropo.
Non vedo lora di uscire da cuesto postacio.
Volio tornare da te. Sara belo guadarti ne gli
ochi e acarezarti come prima che finivo cuà di dendro.
Cosa ne dicci se andiamo a fare una bela vacansa in
Giammaica? Ti o trovato propio li in cuel paraddiso.
Spero di riabraciarti preto.
Senza di te non e vita."
Il giorno seguente, il poliziotto penitenziario Barbabrulla, un maciste lentigginoso e dall'alito cattivissimo, aprì le sbarre e disse villanamente a Rocco:
— Sei libero, razza di pervertito! Tuo zio ha pagato la cauzione.
Rocco pensò a un vero miracolo: quel vecchio spilorcio dello zio Efisio aveva deciso di sganciare soldi per tirarlo fuori dalla gattabuia. Sì, era davvero un miracolo. E Rocco pensò all'esistenza di Dio: per un millesimo di secondo, si sorprese a crederci, ma subito si diede mentalmente dello stupido, più volte.
Uscì dal penitenziario, ritrovandosi nella gradevole luce del mattino. Dall'altra parte della strada vide zio Efisio, che portava a tracolla una borsa rossa.
— Grazie zio!
— Grazie un corno, degenerato che non sei altro! Ora ci penso io a farti mettere la testa a posto, stupido smidollato! Da domani ti sbatterò a pulire i cessi al ristorante! Rimpiangerai il Regina Coeli!
— Zio, non arrabbiarti, che ti fa male alla salute! Piuttosto, cos'hai nella borsa?
Non appena lo zio Efisio aprì per intero la chiusura lampo, Rocco gioì fino a commuoversi.
— Miguel! Sei proprio tu? Quanto mi sei mancato! Grazie zio, per esserti preso cura di lui! Grazie di cuore!
— Grazie un accidente! Questo mostriciattolo ha passato tutto il tempo a dilaniare la mia poltrona di pelle nera!
— Te ne comprerò un'altra, caro zietto. Stai tranquillo! Però, per piacere, non dire che Miguel è un mostriciattolo. Per me è l'iguana nana più incantevole del mondo!


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