Indice:
La gara
Gara 26
SULLE NOTE DI UNA CANZONE
DICEMBRE 2011
antologia per BraviAutori.it
a cura di Nathan
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Cazzaro
La primeira alucinacion: mi television
la secunda: mi telefono
la terceira alucinacion: mi perro
la quarta: mi rostro
la quinta alucinacion: mi memoria
la sesta: mi mente
La septima alucinacion
La prima allucinazione era la televisione in fondo alla tua camera che era ancora accesa in un monoscopio pieno di rumore di fondo. La seconda era il tuo telefono che squillava, ma non potevi rispondere. La terza allucinazione era il tuo cane che guaiva e ti scodinzolava attorno ma non potevi coccolarlo. La quarta allucinazione era il tuo viso che vedesti riflesso come in uno specchio. La quinta allucinazione era la tua memoria che sembrava scorrere rapida come una moviola. La sesta allucinazione era la tua mente che la sentivi leggera ed eterea. La settima allucinazione era questo posto e non sapevi come cavolo ci fossi arrivato!. C'era un molo oltre il muro e non c'erano scale per scendere a mare, alle tue spalle c'era una stretta e ripida scalinata che portava a una piccola piazza. Non era possibile ritornare alla barca fantasma senza equipaggio, che oramai stava per salpare!.
Scendesti mestamente i gradini ripidi e dopo pochi passi ti fermasti come impietrito dalla paura. Alla tua sinistra c'era un grande strapiombo di cui non si poteva percepire la fine. Era pero' certo che da quel luogo provenisse un enorme calore che bruciava la mente al suo solo pensiero!. Si sentivano pianti e urli che si confondevano nell'ululato di un alito rovente. Sulla piazzetta non c'era nessuno, tranne un'ombra consumata dal tempo che ti si avvicinò mesta e silenziosa, scivolando lentamente sul terreno.
— Benvenuto in questo luogo di transito-ti disse l'ombra con voce flebile.
— Che cosa significa tutto ciò? — chiedesti allucinato.
— Alla tua sinistra c'è il baratro dove c'è pianto e stridor di denti. Stai tranquillo non sei destinato in quel luogo, altrimenti appena sceso dalla scalinata saresti stato precipitato nel botro senza fine. Sei destinato in questo "non luogo" di transito e non lo potrai lasciare almeno sinché il Signore non vorrà.
Domandasti mestamente-Tu da quanto tempo sei qui ?
— Non lo so!, non c'è spazio e non c'è tempo, qui!. Più che un posto crediamo che sia uno spazio mentale. Se e quando sarai chiamato, sentirai suonare il telefono. L'apparecchio lo troverai nella stanza interna della torre, che è alle tue spalle.
Ti voltasti e scorgesti l'entrata della torre che svettava oltre il muro di 3 metri. Il silenzio di quell'ambiente piccolo ed essenziale, incuteva rispetto, cosi' trovasti normale continuare a parlare sottovoce.
— Come farò a sapere che il telefono suonerà per me e non per altri?
— Non ti preoccupare, lo sentirai squillare solo te, qualora la chiamata in arrivo fosse proprio per te.
— In quanti siamo in questo luogo?
— Siamo in 2, appena avrò passato le consegne spero e credo che una telefonata potrebbe giungere per me-disse l'ombra, guardando al cielo e sospirando speranzosa.
— Come è possibile? Solo in due? — domandasti confuso.
— Non è scritto che saranno in tanti a passare dalla cruna dell'ago!
— Perché mi dici tutto ciò? — dissi.
— È un po' come passar le consegne!. In piazzetta troverai un giornale, è il giornale che spiega come si accendono i debiti, perché dei crediti nessuno ne parla qui . Gli articoli sul giornale cambiano perché il futuro non è certo. Il giornale parla degli eventi futuri per quelli che sono ancora di là, mostra a ciascun lettore eventi e tempi diversi. Non ci è chiaro se gli articoli narrano eventi imminenti, di storie di un prossimo futuro, oppure di aleatorie circostanze lontane nel tempo. Il non poter sapere con certezza quello che sta scritto, ci provoca dolore e pena per il ricordo dei nostri cari. Cosi' abbiamo smesso di consultare il giornale dei debit e preferiamo non sapere!
Nella piccola cappella scarsamente illuminata c'era un arredamento essenziale: pochi e scomodi inginocchiatoi di legno, sul muro una croce di legno, in basso un tavolo con una vecchia televisione che trasmetteva lo stesso programma in un loop. Era una specie di sermone di una televisione religiosa che invitava alla preghiera e alla meditazione. Consigliava di non sporgersi oltre il bordo, non si doveva guardare nell'abisso perché anche l'abisso avrebbe potuto guardare l'osservatore e questo avrebbe allungato i tempi di sosta.
— Ciao!, adesso devo andare — disse raggiante l'ombra — il telefono sta squillando per me!
Te non udisti alcun rumore, così ti voltasti incuriosito e l'ombra nera prese a schiarire rapidamente verso un bianco lucente, poi scivolò rapidamente verso il muro frontale e vi passò attraverso come se il muro non fosse mai esistito!. Ne rimanesti sbalordito e sorpreso allo stesso tempo; potevi persino vedere l'ombra accelerare e avvicinarsi all'entrata della torre!.
Fu così che pensasti che se tu potevi vedere l'ombra allontanarsi, allora forse non c'era alcun muro che ti copriva la vista!. Forse avresti anche potuto passare oltre senza dover attendere la tua personale telefonata?.
Corresti speranzoso verso il muro ma quando lo raggiungesti, non ti fu possibile andare oltre!. Il muro rossastro ti serrò il passaggio, impedendoti di seguire l'altra ombra che invece varcava rapida la soglia della torre…
Kutaki Arikumo
"Sono qui nel quartiere che mi ha dato questo nome"
All'anagrafe il mio nome è Rocco Spataro ma nel quartiere tutti mi conoscono come Nero d'Avola.
I miei genitori più di vent'anni fa si sono trasferiti al nord dalla bella, calda e complicata Sicilia. Fin da ragazzino tutti mi chiamavano negro, diverso, Sicilia, terrone. Ciò non mi ha mai dato fastidio anzi mi è sempre aiutato a non scordare le mie origini e soprattutto a stimolare il mio ego. Grazie alle loro critiche sono il Nero d'Avola di oggi. Ormai in quartiere prima e in tutta Italia adesso, mi conoscono così, quasi nessuno sa più o, comunque, ricorda il mio nome, tranne i miei genitori e mia sorella minore; lei da quando ha iniziato a uscire è stata etichettata come la sorella di Nero oppure la Baby d'Avola e ho paura che anche il suo bel nome, Carla, sarà dimenticato presto. Farsi un nome in periferia è qualcosa di assolutamente arduo, molto più delle eroiche imprese dei cavalieri teutonici, templari e di Re Artù. All'inizio vuoi "la fama per quanto pesi" e non ti rendi nemmeno conto che sforzo immane stai richiedendo al tuo fisico e alla tua psiche. In quartiere per farti un nome non puoi certo essere onesto o fare delle opere di bene e siccome io ho sempre sognato di diventare un grande e di conseguenza dimostrare a tutti quei mocciosi coetanei che il terrone, il diverso, il Sicilia aveva un enorme potenziale, a dieci anni feci il primo scippo a una povera vecchietta per dei ragazzi di sei anni più grandi di me. Quando portai loro la borsetta si spartirono il bottino lasciandomi la borsetta e invitandomi a regalarla a mia madre. Che scusa avrei mai potuto inventarmi? E poi se proprio dobbiamo essere franchi faceva anche un po' cagare come accessorio da donna, quindi decisi di gettarla in un cassonetto della spazzatura. Tornato a casa andai dritto dritto a letto. Quella notte non riuscii a chiudere occhio per il rimorso e anche un po' per la rabbia di non essere stato pagato per il lavoro. All'epoca avevo iniziato ad ascolticchiare rap e una canzone che mi rimbombava nella testa era Legge del Taglione degli Articolo 31. Dovevo vendicarmi per forza. La mattina successiva mi alzai prestissimo e corsi in ripostiglio; frugando nella cassetta degli attrezzi del mio papà trovai un cutter, lo misi in tasca. Quella mattina non andai a scuola, fu la prima volta che marinai la scuola, ma mi recai al posto dove si riunivano quei ragazzi di sei anni più grandi di me. Quella mattina non arrivarono come al solito in gruppo, ma arrivò prima il più capuzello della piccola gang. Si avvicinò e con tono di sfida mi disse cosa avevo da guardare invitandomi ad andare via ma i imperterrito decisi di restare li a fissarlo dritto negli occhi, lui cercò di darmi uno spintone ma io uscii il cutter e glielo ficcai prima nel braccio più vicino a me e poi sulla spalla. Mentre si rotolava a terra riuscii a rubargli il portafogli e scappai subito verso casa.
"È facile non fare certe scelte se nessuno te le ha offerte"
Tre anni fa, all'età di 17 anni ormai ero abbastanza famoso per la mia testa calda, per la mia bravura nel seminare la pula a bordo del mio Booster, fare soldi facili e rappare su basi improvvisate. La mia violenza e il mio senso di vendetta dall'età di dieci anni sono andate sempre aumentando in maniera esponenziale. Gli sbirri mi stavano sempre alle calcagne perché non avevo gli specchietti, il casco, l'assicurazione e nelle mie tasche c'erano sempre delle sostanze che fanno ridere o fanno collassare a seconda del tuo livello di degrado. I soldi mi hanno sempre attratto, sono sempre stato attratto dal cash. La mia unica vera droga sono sempre state quelle banconote colorate. Una sera sul muretto dove svolgevo i miei affari si presenta un tizio scuro come me, vestito come me e con gli occhi pieni di rabbia. L'unica differenza era il portafogli. Nonostante il mio non fosse sgonfio il suo era molto più grosso del mio e tutto ciò grazie a ciò che gli piaceva fare. Mi fece una proposta, come Don Vito Corleone, che non potevo rifiutare. Mi chiese di fare una feautiring con lui in un disco ufficiale prodotto da una Major e ciò mi consentiva di farmi conoscere come Rapper e finalmente lasciare la mia vita di criminale perché io, come lui, sapevo benissimo "che le botte fanno male le lame sanguinare".
"Per tutti quelli che vogliono fare i criminali al microfono la strada si fa in strada, questa è musica"
Adesso vivo di musica. Ogni tanto fumo ancora qualche canna ma ho smesso di evitare le manette e di fare le panette. Ho chiuso, mi sono ritirato. Adesso voglio solo fare ciò che mi piace, la fame è un brutto ricordo e voglio solo incitarvi a non prendere quella brutta via, ovviamente non sto sputando sul piatto dove ho mangiato perché sarebbe da stolti, sono qua anche grazie alla mia vita di strada ma se hai un sogno cerca di coltivarlo nel modo più tranquillo possibile. Se è destino riuscirai a realizzarlo altrimenti resterà solo un sogno e proprio per questo vi suggerisco di averne qualcuno di riserva. Io quando canto della strada non lo faccio per vantarmi del mio passato, perché c'è solo da vergognarsi pensandoci bene anche se era il bisogno a farmi fare certe cose ed è soprattutto per questo che ogni citazione sulla strada è uno sfogo contro la politica che ha abbandonato la periferia delle grandi città non dando voce alle lamentele del popolo nonostante abbiano la presunzione di professarsi nostri rappresentanti. Quindi non pensate che basti essere un criminale per fare il rapper e per questo vi lascio il testo di un Grande con la G maiuscola di questo genere musicale e della cultura Hip Hop, perché Hip Hop è cultura, cultura suburbana e di periferia.
Arditoeufemismo
È tutto quel che ho di te
Now… è già ieri.
O forse fu. Passato remoto.
Hai un sorriso enigmatico in questa foto, come la gioconda. È appena accennato. Ricordo che la facesti in ufficio con una web cam. Me la mandasti per mail.
Dicesti: — Guarda come sono stravolta dopo una giornata di duro lavoro. Ho le ho occhiaie.
Con quella tua voce veloce e pastosa.
Che scemo.
Quando ormai non c'eri più, ascoltavo parlare la Pandolfi in distretto di polizia e ti evocavo.
Ha la voce come la tua.
E speravo recitasse mille e mille battute. Per sentirti ancora.
Mi guardi da questa foto.
La tua bocca meravigliosamente troppo grande.
Quanto ho desiderato, bramato e amato quella bocca.
Vederla sorridere solo per me.
Ma nessuna foto ti rende giustizia.
Quando ti guardavo, realmente, camminare al mio fianco, impazzivo per quella tua espressione seriosa.
Però, come con maestria esplica Michael Faber nel suo Petalo Cremisi "basta un solo gesto, fatto dalla persona giusta al momento giusto, a far sbocciare l'infatuazione a velocità prodigiosa…".
Io ricordo esattamente quando fu quell'istante per me.
Eravamo alla Soffitta un giorno di dicembre.
Eri seduta di fronte a me e le nostre mani giocavano a intrecciarsi dita e scambiarsi carezze.
Con l'altra mano, aggiustasti i tuoi meravigliosi capelli colore della notte, del mogano elegante, del velluto e del petrolio.
E mi guardasti.
I tuoi occhi. Colore del mare, colore del cielo. Pagliuzze d'oro a contaminarli per farli unici e irripetibili.
E mi guardasti.
Fermo immagine. Stop. Esalta. Isola la sequenza. Sfoca il resto del mondo. Freeza il tempo.
Ti amo.
Proprio qui.
Proprio in questo preciso istante.
Sono perso.
Oggi, dopo tanti mesi che ormai sono diventati anni, ho riaperto questa foto. E ti ho guardato. Ho voluto ribere te più per golosità che per sete. E invece ti scopro sale che mi secca la gola.
E capisco quando Francesco de Gregori cantava:"come quando fuori pioveva e tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi, e io quando, senza capire, ho detto sì, hai detto: è tutto quel che hai di me."
SI!
È tutto quel che ho di te.
Ser Stefano
La pioggia cade incessantemente da due giorni. Picchia forte sul terreno con grandi gocce. Picchia forte sul mio elmetto, tanto da farmi rimbombare la testa e rendermi pazzo.
Imbraccio il fucile e lo punto davanti a me, sicuro di aver sentito qualcosa nel fragore del temporale.
Alberi.
Il bosco tutto intorno sembra una bocca spalancata in procinto di divorarmi. Sono sicuro che (nemici) si nascondono dietro a ogni nodoso fusto, dietro ogni foglia. Mi guardano. Percepisco i loro occhi avidi, indecisi se aspettare che muoia dissanguato o prendersi la soddisfazione di uccidermi.
La febbre che da giorni dilania il corpo e la mente, mi costringe ad abbassare il pesante fucile. Non sono lucido. Probabilmente c'è solo il nulla a spiarmi tra le fronde. Frutto di pensieri malati e paranoie.
Osservo le mie gambe, quel che resta. Mi sono state amputate all'altezza del ginocchio. La granata mi ha sollevato per un metro da terra facendomi fare un giro completo su me stesso, almeno così mi hanno detto. Al risveglio ero già metà uomo.
Il dottore non ha nemmeno tentato di salvarmi gli arti. Era più facile amputarle e cicatrizzarle. Aveva molti altri soldati da curare. Ha lavorato su di me in fretta, e male. Le ferite continuano a sanguinare e c'è un inizio di cancrena.
Le mie gambe.
Come farò ora a passeggiare con Flora? Riuscirà a rimanere con un uomo che non ha più le gambe? Con che occhi mi guarderà? E io come risponderò alla sua pietà?
La pioggia si porta via le lacrime dal viso. Non c'è nessuno a vederle. Mi hanno abbandonato qui perché avrei rallentato la ritirata. Avrei messo a repentaglio la vita di quelli con i gradi. Loro non possono morire. Io sì.
Ci hanno lasciati in queste trincee in tre. Gli altri due hanno vinto il loro scontro col dolore e sono morti la prima notte. Le mie colpe devono essere più gravi perché sono ancora vivo.
Sta facendo buio.
Vedo qualcosa muoversi nel bosco, nonostante la pioggia incessante, nonostante le ombre che si fondono in un innaturale crepuscolo. Neanche tento di alzare il fucile. È troppo pesante.
Lo abbandono di traverso, sulle cosce devastate, e sembra che mi sia liberato del fardello di un mondo che mi gravava sulla schiena.
Si stanno avvicinando, sagome che si muovono su altre sagome. C'è un piccolo sentiero davanti a me. So che arriveranno da là. Dovrei prepararmi. Ma a cosa? Penso di imbracciare l'arma al contrario. Far finire tutto. L'inferno in cui andrò non potrà essere peggiore di quello in cui vivo. Ma sono un vile. Voglio tornare da Flora. Voglio vederla e toccarla. Voglio abbracciare un'ultima volta mia madre. Solo per un'altra volta. L'ultima.
Madre mia.
Tu lo sapevi. L'avevo letto nei tuoi occhi. Quel muto saluto con la mano era un addio. In esso c'era tutto il triste amore di una madre che seppellisce un figlio. Sapevi e hai cercato di dirmi di non andare. Mi hai supplicato di nascondermi. Di fuggire lontano con Flora.
Io non ti ho dato ascolto. Inebriato dai canti di gloria, di azioni eroiche e conquista dell'onore.
Mentre osservo le mie gambe maciullate capisco l'importanza di valutare le cose per cosa rappresentano. Era davvero più importante la gloria rispetto alle mie gambe? Meglio l'onore di un reduce di guerra o stringersi al petto Flora? Tornare da mia madre da eroe o non tornare affatto?
Pregherà
e piangerà la mia morte. Forse ne morirà. Così potrò addossarmi anche questa colpa. Me lo merito. Sono stato stupido, lo sono ancora. Ho ucciso. Ho sparso dolore pensando che per ogni vita che spezzavo non ci sarebbe stato un prezzo da pagare.
"Dio" grida la mia mente "Eccoli".
Avanzano curvi. Uscendo allo scoperto come spiriti che si staccano da una pozzanghera di pece. Vengono a prendermi, è arrivato il mio turno, finalmente.
Non provo rancore nei loro confronti. Ho capito da tempo che sono come me. Maiali mandati al macello da altri maiali. I colpevoli di questa mattanza si nascondono sotto cappelli impreziositi da stellette, siedono su comode poltrone e ci uccidono con una firma.
Se signora Giustizia esistesse, sarebbero le loro carni a essere squarciate dalle baionette, a girare grottescamente in aria mentre le gambe si riducono in moncherini.
Gli spiriti coi fucili si avvicinano guardinghi. Capiscono che non rappresento più un pericolo. Alzo leggermente la testa, a ricevere quella pioggia fredda che non da più fastidio. Il freddo che mi trasmette sulla pelle ora mi piace, lo adoro.
Si fermano tutti intorno a me, muti, a osservarmi.
Tenebre
scendono lente, celando le nuvole grigie, inghiottendo il bosco.
Lo scorrere del tempo si ferma per un istante, e quello che appare è una vecchia fotografia dall'aria consumata: Un gruppo di uomini attorno a un uomo morente. E su tutto, la torrenziale pioggia che ti fa stringere gli occhi per riuscire a vedere. Una fotografia così umana e così drammatica. Vinti e vincitori. Vivi e morti. Senza alcuna differenza tra i primi e i secondi.
Uno di loro fa un passo avanti e punta la canna del fucile sulla mia fronte.
— Au revoir nazie — mi dice in un ghigno intriso di rabbia.
Vorrei ringraziarlo. Chiamarlo "fratello". Non faccio in tempo.
Stringo Flora, e mia madre, in un oscurità totale. Stringo in un abbraccio tutti quelli che ho conosciuto. Abbraccio quell'uomo che parla un'altra lingua e che mi ha reso libero. Abbraccio il medico che mi ha staccato le gambe, il colonnello che con una penna ha deciso di mandarmi a morire in quel bosco, il capitano che mi ci ha abbandonato.
Abbracciate più che potete perché, quando sarete nelle tenebre, sarà l'unica cosa che avrà valore.
Mariadele
(la canzone di Cremonini: Il Pagliaccio)
Ogni mattino si siede sulla sponda del letto di fronte all'armadio, nella camera dei genitori. Un enorme armadio tutto fatto di specchi; in verità tutta la camera è piena di specchi. In quella posizione, grazie a uno strategico posizionamento delle superfici riflettenti, può osservarsi da tutte le angolazioni: frontale, profilo destro, profilo sinistro, nuca. Resta seduto lì per un tempo interminabile, fino a che riesce a vedere ciò che cerca e i suoi pensieri viaggiano:
"Da grande realizzerò qualcosa di grandioso. Altrimenti perché sarei nato?
Perlomeno diventerò famoso. Potrei addirittura vincere un nobel! Altrimenti non sarei qui. Non con questa faccia almeno".
E gli specchi gli fanno le smorfie, lo guardano e lo deridono.
"Dietro lo specchio c'è sicuramente qualcuno, o qualcosa. Di certo una presenza oscura, cattiva. Meglio evitare di guardarsi, mi specchierò solo una volta al giorno per sistemare i capelli".
Ma la sua certezza non gli evita di guardare chi dallo specchio lo guarda. Anzi, n'è più attratto, come magneticamente.
"Il maleficio che mi è stato fatto fin da quando stavo nel grembo della mamma non mi sconfiggerà.
Consumerò ettolitri di olio benedetto. Di olio Santo! Sconfiggerò il male e vincerò. Da grande riuscirò a realizzare il progetto per cui sono venuto al mondo. Un progetto grandioso. Potrei sconfiggere la fame nel mondo. Forse diventerò un santo. Chissà! Scoprirò perché sono nato, scoprirò, col tempo, il mio scopo. Non avrebbe senso essere qui per essere mediocre. Non con questa faccia. Mutare. Sempre e in ogni caso, mutare il proprio stato, la vita stessa, tutto finalizzato alla ricerca del perché. Camminare, mai fermarsi troppo a lungo. Cercare a ogni angolo la svolta giusta, quella che porta alla strada giusta. La troverò, svolterò ogni angolo, imboccherò ogni strada fino a quando troverò quella che mi condurrà a capire, capire il perché sono qui".
Dagli specchi laterali cominciano a fare capolino ombre. Lui si volta di scatto e solo con la coda dell'occhio le vede. Velocemente sono sparite, rientrate nello specchio.
"Non mi fate paura. Vi troverò e vi stanerò. Uno come me non può avere paura di nulla, soprattutto di voi… Voi che mi guardate di nascosto, che non avete nemmeno il coraggio di uscire allo scoperto, di farvi guardare, una volta per tutte, in faccia, negli occhi. Io sono qui, con uno scopo ben preciso e non sarete voi a impedirmi di scoprirlo e di raggiungerlo. Stupidi, orrendi folletti! Fuori, venite fuori! Finiamola di giocare a nascondino. Non mi muovo di qui finché non vi fate vedere".
Lo specchio frontale lo guarda, lo osserva, lo studia. Piano, lentamente comincia a delinearsi qualcosa, dapprima un'ombra, poi un volto confuso, offuscato, strano. Lui si sporge in avanti a fissare, a sfidare e quel volto diviene più chiaro e nitido.
"Fatti vedere, vigliacco! Non mi fai paura; ti sto aspettando. Se la lotta per la mia vita è cominciata alla nascita, uno scopo ci sarà. Non sarei qui altrimenti. Accenderò milioni e milioni di ceri, girerò tutti i santuari, ci riuscirò. Sconfiggerò il male. Ti sconfiggerò".
Lo specchio comincia a vibrare come il pelo dell'acqua nel catino che si raggrinza al passaggio della brezza mattutina. Tremolante l'ombra nello specchio gli si avvicina. È un volto deforme, bianco come il latte e con grandi occhi infossati e neri come la notte buia senza luna, con un naso rosso, schiacciato e largo su una bocca aperta senza labbra e senza colore. Un buco nero e profondo che si spalanca sempre più e si avvicina a lui come volesse ingoiarlo.
E quasi ci riesce: "Chi sono lo sai. Sono il guardiano del paradiso, per me si va soltanto se sei stato buono. Sono il pagliaccio e tu il bambino, nel circo ho tutto e vivo solo di quel che sono. Io sto bene qua, tra le mie facce e le mie falsità trovando in quel che sono la libertà. Non ridere perché lo sai meglio di me che non ho più voglia di risponderti, perché sei, sei come me!"Spaventato si ritrae e chiude gli occhi, serrandoli al punto da sentire dolore. Poi lentamente li riapre, uno alla volta e guarda nello specchio. Vede un ragazzino grassoccio e bruttarello che se ne sta seduto sul bordo di un letto enorme, raggomitolato in se stesso, che lo fissa con occhi innocenti e terrorizzati. Si riconosce quasi a fatica, indugiando lo sguardo sulla bocca livida e tremante, temendo che si spalanchi nuovamente minacciosa. Resta bloccato per alcuni minuti, poi si muove. Un leggero movimento delle gambe rattrappite dalla inerzia, ma inspiegabilmente il ragazzino nello specchio rimane immobile. Prova a muovere la testa, ruotandola leggermente, ma la testa del ragazzino nello specchio è fissa e la faccia è inespressiva. Il panico. Dentro il suo stomaco mani di acciaio stritolano le pareti, dentro la sua testa martelli pneumatici traforano il cervello. Sente una voce, forse la voce della mamma, forse no. Una voce che lo chiama ripetutamente e lui vorrebbe rispondere, vorrebbe alzarsi dalla sponda di quel letto, scappare da quella stanza, e lo fa. Si muove, si alza e si muove verso la porta, ma il ragazzino nello specchio resta lì, seduto senza muovere nulla se non gli occhi spalancati che seguono i suoi spostamenti.
Riesce ad articolare parole rauche e confuse
" dio! Che cosa vuoi da me?"
Il ragazzino che sta nello specchio continua a fissarlo restando immobile come una statua, anche se lui gli grida contro. Si alza e apre le ante dell'armadio, sente la voce della mamma che lo chiama, ma non riesce ad arrivare alla porta, a uscire dalla stanza. È come legato lì, imprigionato in quella camera degli specchi. Poi il ragazzo nello specchio inizia a muoversi, lentamente si alza, gli volta le spalle e si allontana da lui, verso uno spazio lontano, dentro lo specchio, in un'altra dimensione.
"Dove vai? Torna qui, non puoi andartene… fermati, fermati!". Inutilmente grida e sbatte i pugni contro la lastra riflettente, il ragazzo nello specchio diventa sempre più piccolo, distante e irraggiungibile, fino a scomparire del tutto. Allora lui con due colpi più potenti rompe lo specchio che si frantuma in mille pezzetti luccicanti e piccolissimi, talmente piccoli da sembrare porporina argentata, polvere di luna caduta ai suoi piedi. E resta lì, immobile con le mani sanguinanti, a fissare i suoi piedi e il pavimento luccicante dei suoi sogni frantumati.
Triptilpazol
Per i vicoli, nelle piazze, nei cortili, danzavo la musica che solo io ascolto, cantavo di illusioni e alienazione.
Una vetrinetta impolverata, il pavimento, le pareti, il soffitto, bianco affumicato. Una scrivania, sepolta da fogli, scatolette dai nomi capziosi: serenol, sedatil, ipnoson.
Siede alla scrivania, in camice bianco. Appuntata al taschino una targhetta: Dr. Ssa.
Ha volto tondo e capelli a mezzo taglio un po' ondulati, castano umido. Le guanciotte rosee, naso e labbra sottili.
Come ogni giorno in questi giorni, è estate, indosso giacca, maglietta, pantaloni di cotone e scarponcini, neri, borsa a tracolla, nera, berretto nero sul cranio rasato, persol, nere.
— Soffro di una sana allergia — spiego — alla superstizione, all'ignoranza, all'arroganza, e sono posseduto dall'ossessione di essere sincero. Credo che la sincerità verso se stessi sia legge imprescindibile per l'equilibrio. La natura non inganna.
La Dr. ssa. Giocherella con una biro con le mani grassocce poggiate sulla scrivania. Mi osserva. Gli occhi piccoli piccoli, dietro lenti spesse degli occhiali d'alluminio cromato, ovali. China leggermente la testa, ora a destra ora a sinistra.
Continuo.
— Sto facendo un esperimento perché non mi fido delle conoscenze ufficiali, quelle dei libri e della scienza. La scienza trova tanto credito nelle statistiche, e io alle statistiche non do alcun credito.
— Vuole parlarmi del suo esperimento?
— Ah, sì. Lei non crede che siamo filtri?
— In che senso, scusi?
— E radio? Ha mai pensato che siamo come radio?
La Dr. ssa inclina la testa alla sua sinistra.
Sorrido e inclino la testa a destra, per riacquistare simmetria visiva. Leggo nei suoi piccoli occhi, ancora più sottili, il segno di una diagnosi certa.
— Io e lei, come ogni cosa, siamo composti da elementi generati miliardi di anni fa. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Sempre gli stessi elementi formano le forme che si susseguono. Siamo manifestazioni impermanenti del flusso. E cosa sostiene me e lei, e ogni altro essere vivente, in vita?
— Me lo dica lei.
— Lei crede — ho un tono scortese, lo ammetto — lei davvero è convinta di sapere tanto: della natura, delle persone, magari anche di lei. Ma non si conosce. Sa chi è solo grazie a definizioni generiche che rimandano, come riflessi in una sala di specchi, ad altre definizioni.
— Lei saprebbe definirsi? — raddrizza il capo, ma il tono della voce è ancora neutro e professionale — Preferisce definire me?
— Non perde occasione per interpretare, giudicare, criticare. È il fondamento di ogni azione che compie, l'effetto di ogni pensiero nella sua coscienza. O forse è un vizio? Il sintomo di un male antico. Scolpito nel profondo.
— Posso farle una domanda?
Chiede conservando compostezza
Alzo lo sguardo al soffitto.
— Prima voglio fargliela io una domanda — mi osservo le unghie delle mani e oscillo la gamba incravaccata — anche se non presta fede ai miti del peccato originale, alle allegorie e alle superstizioni che confortano e spaventano, ma la paura è preferita all'angoscia dell'attesa, da quando ne ha memoria, non la accompagna, di nascosto o troppo presente, un'assenza, una mancanza, un vuoto?
liberami assolvimi
da legami e alibi
dalle frustrazioni dell'alienità
liberami dalla mente
dal quotidiano
dai telegiornali
dalle suggestioni
dell'alta società
Sera umida di novembre.
Con le mani affondate nel giubbotto, curvo e accartocciato, inseguo lento lento i passi viscidi delle polacchine un tempo beje.
Sopra la testa pesa il cielo rigonfio di grovigli di nuvole scure.
Ho sedici anni, i capelli lunghi, unti e spettinati, e brufoli sulle guance e sul mento. Credo che il mondo intero sia sbagliato. Più spesso sono sicuro di essere più sbagliato del mondo.
Sono convinto che dovrei sentire un senso dentro e fuori di me, ma che in realtà molto probabilmente non c'è.
Nessun senso in ciò che faccio, dico, penso.
Non so bene cosa voglia significare senso. Forse, solo piacere di vivere.
Magari manco prima c'era, il senso, ma non me ne ero accorto. Ero distratto da qualsiasi cosa mi facesse dimenticare di esserci. Oppure, prima c'era un senso, ma ormai non regge più.
Passo davanti alla chiesa in piazza San Giovanni.
Senza pensarci salgo i quattro scalini di marmo e varco il portone spalancato.
Nella penombra di ceri e fumi d'incenso, dall'altare bianco e dorato, un prete rivolto a una decina di persone sparse fra le panche di legno lucido.
Due vecchiette ingobbite siedono fra due donne grasse vestite di nero. Chiude la fila un signore magro magro, affondato in un pesante cappotto cammello.
I pugni serrati nelle tasche del giubbotto, le gambe e i piedi ghiacciati nei gins e nelle polacchine, sto appoggiato ritto e rigido a una delle colonne laterali, accanto all'acquasantiera di granito.
Il prete sermoneggia con le braccia a mezz'altezza: il peccato, la fede, l'amore.
Da secoli ne blaterano persone a persone, tutte, le une e le altre, profondamente inconsapevoli.
Provo pena per quelle persone. Le trovo davvero disgraziate. Il prete ha un tono davvero fasullo. Leggendo smarrisce le pause e gli accenti.
Esco dalla chiesa.
A un dio, cattolico, ebreo o di qualsivoglia dottrina, davvero non ci posso credere. Non potrei mai crederci. Un dio che ragiona come gli uomini è davvero troppo!
Forse avrò provato a credere alle storie religiose, quando ero bambino, di un dio persona a immagine e somiglianza che però è infinito, ma siccome è trino, padre, figlio e spirito santo e si è fatto uomo si salva in logica. Un essere onnipotente, trascendente, immanente e onnipresente. Un super eroe, a volte terribile nella sua ira, ma comunque sempre infinitamente buono. Quando l'universo era considerato finito, il dio cristiano era comunque infinito?
liberami dalle illusioni
di certezze facili
dalle mistificazioni
della mondanità
liberami dagli inganni
delle verità
minimamoralia
minimamoralia
Comodo credere all'anima. Ognuno con la propria, immortale, che sarà beata nell'eternità insieme alle anime delle persone care.
L'ultima volta che ho visto mia madre era un pomeriggio di maggio. Avevo quasi nove anni, mia madre quarantacinque. Non la vedevo da più di un mese. Troppo. Per questo non ne sono stato subito convinto che era proprio mia madre la persona seduta accanto alla finestra, nella penombra della camera in cui aleggiava un odore dolciastro, pungente, indefinibile ma un po' nauseante, per me, immobile sulla soglia.
Indugio con lo sguardo fra il letto con le lenzuola bianche e sgualcite e i due cuscini uno sopra l'altro, e la finestra con le serrande abbassate fino a quanto basta per scorgere un tratto del cortile. Solo per un istante vedo il mio riflesso nello specchio della cassettiera di noce. Sono un bambino, caschetto castano e frangetta, il giubbotto blu con la cerniera chiusa.
Mia madre non si è ancora accorta di me. Si lascia imboccare con una
forchetta dalla donna vestita di scuro con un vistoso rosario al collo. Sta in piedi, i capelli corti, un po' grigi, vestita di nero, appoggiata col fianco sinistro al davanzale, con un piatto fondo bianco nella mano sinistra.
Con la destra infilza con una forchetta pomodori rossi all'insalata e imbocca la sorella, quasi già svanita nella lunga camicia da notte bianca, con merletti al collo e ai polsi. La pelle del viso ossuto è di gesso grigio, occhiaie profonde, gli zigomi acuminati, le labbra scomparse.
liberami dalle illusioni
di certezze facili
La maggior parte delle persone che conosco sono davvero grottesche. Preferiscono credere, o illudersi, di avere un'anima, che si spera "sopravviva" dopo la morte (per fare cosa non è chiaro, basta che si tratti di eternità) e non accettano l'innegabile certezza che siamo pieni di vuoto, che nulla spiega cosa sostiene realmente in vita gli esseri viventi, che siamo più simili a ologrammi che a qualsiasi altra manifestazione fisica.
liberami dagli inganni
delle verità
Ho educato la mente a spegnere il registratore, a essere neutra, ad accettare tutto, senza opporre resistenza.
La realtà è impermanente. Nulla è per sempre. Tutto si rinnova e cambia.
L'unica verità è il presente, che pure è illusorio, è già passato.
Stupido masochismo amareggiarsi per quanto è già accaduto o aspettarsi delusioni.
Siamo stati educati a vivere in un inganno. Nessuno ne ha colpa. Vive di vita propria, la storia, e influenza le esistenze di ognuno. Cultura è anche l'espressione mistificatrice dell'intelligenza.
Mi sono alcolizzato, intossicato quasi a smarrirmi, naufrago e folle, per dimostrare che il corpo non è altro che un filtro e che una volta deciso di smettere di avvelenarlo si sarebbe rimesso in sesto senza scienza medica o di qualsiasi altro genere.
Il corpo sa cosa fare. Milioni di anni di evoluzione. Il prodotto, mai terminato, di generazioni di stelle!
Ogni male del corpo è manifestazione del male dello spirito, del soffio vitale che vive ogni essere vivente.
Un'intelligenza nel cosmo, una vibrazione, una frequenza nello spazio-tempo, che tutto pervade.
Siamo forme tenute in vita da un unico soffio universale. La Vita.
Nell'abisso che custodiamo c'è una corda intonata a quella intelligenza, che insegna ad agire, presenti e consapevoli, attenti senza sforzo.
Tanti, troppi, hanno paura di spegnere il registratore nella loro testa, perché li rassicura, in cambio di illusioni, creando aspettative che alimentano immancabilmente disillusioni, astio, rancore, odio.
Siamo forme meravigliose, con potenzialità straordinarie. E siamo davvero potenti quando sveliamo l'Ego, che in ogni momento, sotto diverse e sempre nuove dissimulazioni, muove la nostra infantile volontà a soddisfare tutti i suoi possibili capricci. Avere ragione, per esempio. Prevalere. Avere potere sulle cose e, soprattutto, manipolare le persone.
Sono una radio che ha incontrato la giusta frequenza.
Sono un filtro.
Sono l'apparenza instabile di colonie, miliardi di miliardi, di particelle subatomiche, che compaiono e scompaiono.
Un miracolo.
Judith_Star
Rovesciando il contenuto della borsa sul letto, Rachel sbuffò arrabbiata: dove diavolo aveva messo il suo iPod?
Era tutto il pomeriggio che lo cercava, aveva anche messo a soqquadro la camera da letto, ma quel piccolo lettore di musica digitale era come svanito nel nulla.
«Odio avere una memoria a breve termine.» sbottò, portando entrambe le mani nei capelli e alzando gli occhi al soffitto. «Okay, ricapitoliamo. Questa mattina sono uscita di casa e ce l'avevo… sì, sì stavo ascoltando la musica, quindi ce l'avevo.» mormorò, iniziando a girare in tondo per la stanza. «Poi sono andata all'università e l'ho messo in borsa.» aggiunse, umettandosi le labbra. «Ma dopo? Beh, ho pranzato… e ho ricevuto un sms!» esclamò ad alta voce, illuminandosi in volto. «Oh, sicuro, Alexander! Sono andata a casa di Alex e poco prima di andarmene la borsa mi è caduta, l'iPod deve essere scivolato fuori senza che io me ne accorgessi. È ovvio, sì, non può che essere andata così…» disse, fermandosi nel bel mezzo della camera, con un enorme sorriso sul volto. «Quindi non mi resta che chiamare Alex e chiedergli di portami l'iPod!»
Uscendo a grandi falcate dalla sua stanza, Rachel agguantò il cordless posto su un mobile nel corridoio, ma non appena ebbe terminato di comporre il numero di casa dell'amico, il campanello suonò per un paio di volte costringendola a rimandare di pochi minuti la chiamata.
«Chi è?» domandò, accigliandosi quando, guardando dallo spioncino, non vide nessuno. «Idioti! Scommetto che sono stati i figli del vicino.» soffiò, prendendo la giacca dall'appendiabiti per recarsi dal suo dirimpettaio e dirgliene quattro su quanto quei bambini fossero senza controllo.
Aprendo la porta, fece per uscire di casa, ma il suo piede urtò un pacchettino posato sul classico zerbino con su scritto "welcome".
«Che diavolo…» mormorò, chinandosi per raccoglierlo. «Un regalo? Ma oggi non è il mio compleanno.» si disse, notando anche un bigliettino incastrato in una delle asole della carta che avvolgeva il pacco.
Rientrando in casa e sfilandosi il giubbotto, tornò in camera sua più incuriosita che mai, sedendosi sul letto a gambe incrociate.
«Un ammiratore segreto? Possibile?» un sorriso divertito le spuntò sulle labbra e prendendo il bigliettino lo aprì riconoscendo immediatamente quella calligrafia frettolosa e disordinata.
"Ho tolto tutte le canzoni dal tuo iPod… non uccidermi, le ho salvate in una cartella sul mio computer e no, non è neanche una richiesta di riscatto questa! Segui solo le mie istruzioni: scarta il pacchetto e aprilo. Il resto credo che verrà da sé.
Alex."
Inarcando entrambe le sopracciglia decise di stare al gioco e stracciando la carta regalo aprì il pacchetto, storcendo la bocca quando vide il suo iPod posto con cura all'interno della scatola.
«E questo sarebbe un regalo?» si chiese retoricamente ad alta voce, prendendo il mano il piccolo oggetto. «Okay, va bene, ho di nuovo il mio iPod… evviva, senza neanche una canzone, grazie mille Alex!» esclamò con finto entusiasmo, alzandosi per buttare la scatola nel cestino dei rifiuti che aveva sotto la scrivania.
Poco prima di gettare il pacco, però, notò un post-it giallo attaccato sul retro del cartone e staccandolo si lasciò andare a un lungo sbuffo.
♫ Just the way you are ♫
È nel tuo iPod, ascoltala.
Sospirando, decise ancora una volta di assecondare l'amico e tornando al letto dopo aver buttato definitivamente la scatola, prese l'iPod, accendendo e stendendosi sul morbido materasso.
Oh her eyes, her eyes
make the stars look like they're not shining,
her hair, her hair
falls perfectly without her trying…
She's so beautiful
and I tell her every day.
Mordicchiandosi il labbro inferiore, Rachel iniziò a battere a ritmo una mano sulla pancia, mentre una sola domanda le aleggiava nella testa: quella canzone, non rientrava decisamente come genere fra i gusti di Alex, quindi perché volere a tutti i costi che lei l'ascoltasse?
Yeah I know, I know
when I compliment her,
she wont believe me
and its so, its so
sad to think she don't see what I see
Okay, probabilmente aveva dei piccolissimi problemi di autostima e nonostante il suo fantasioso migliore amico la riempisse di complimenti, non era di certo quello il modo migliore per farglieli affrontare, anche se le parole di quella canzone iniziavano ad assumere tutt'altro significato. «Cosa stai cercando di dirmi, Alex?»
But every time she asks me do I look okay
I say…
when I see your face,
there's not a thing that I would change,
cause you're amazing,
just the way you are!
And when you smile,
the whole world stops and stares for awhile,
cause girl you're amazing…
Just the way you are!
Sgranando gli occhi, Rachel scattò a sedere sul materasso portando una mano all'altezza del cuore.
«Non può essere…» mormorò, imprecando quando una delle cuffie sfuggi dall'orecchio.
Her nails, her nails,
i could kiss them all day if she'd let me!
Her laugh, her laugh
she hates but I think its so sexy!
She's so beautiful,
and I tell her every day…
«Oh, Alex.»
Stupida, come aveva potuto non accorgersi prima dei sentimenti del suo migliore amico? Eppure i segnali c'erano tutti: complimenti, affetto, sorrisi e sguardi complici… Alex l'amava.
Oh you know, you know, you know
id never ask you to change,
if perfect is what you're searching for,
then just stay the same
so don't even bother asking
If you look okay
You know I say!
Certo, ogni volta che passavano del tempo insieme lei si sentiva protetta e al sicuro e inoltre il cuore iniziava a batterle forte nel petto ogni volta che Alex le riservava uno sguardo o un abbraccio particolare, ma fino ad allora aveva creduto che fosse tutto dettato dalla profonda amicizia che li legava e non da un sentimento più grande e sconfinato.
When I see your face,
there's not a thing that I would change,
cause you're amazing
just the way you are!
And when you smile,
the whole world stops and stares for awhile,
cause girl you're amazing
Just the way you are!
Nessun ragazzo le aveva mai trasmesso le emozioni che Alexander era capace di farle provare, anche se più di una volta aveva scacciato l'idea di essersi presa una bella cotta per il suo migliore amico, non dando peso agli attacchi di gelosia che la coglievano quando lo vedeva fare il galletto con le altre.
The way you are,
the way you are,
girl you're amazing
just the way you are!
Gemendo, chiuse gli occhi stropicciando le palpebre con le mani: cosa doveva fare? Ammettere una volta per tutte che lo amava o far finta di nulla?
When I see your face,
there's not a thing that I would change,
cause you're amazing,
just the way you are!
And when you smile,
the whole world stops and stares for awhile,
cause girl you're amazing…
Just the way you are!
No, come poteva solo pensare di non dar peso alla cosa? Diavolo lui era l'unico ad averla accettata per quello che era, a non averla voluta mai cambiare di una virgola!
Sorrise e alzandosi dal letto agguantò il cellulare per inviare un sms al suo Alex.
Sì, avrebbe dato a entrambi una possibilità, avrebbe affrontato quel rischioso salto nel vuoto, perché non era lei quella stupefacente, ma Alex e avrebbe fatto di tutto per farlo sentire finalmente tale.
"Cause boy you're amazing… just the way you are <3"
Yeeeah!
StillederNacht
I passi calmi di Alberto sprofondavano nell'umido fogliame di Autunno.
"Dove andare ora?" Una voce straniera echeggiò in Alberto — forse l'istinto, forse la coscienza —; in lontananza scorse un bivio: il sentiero della nuda landa si diramava in due. Non vi era differenza alcuna fra i due sentieri: i fiori coloriti ai lati, la luce filtrata dalle fronde degli alberi, persino le foglie rinsecchite al suolo parevano identiche. I due sentieri erano, insomma, due gemelli siamesi, morti e fissati allo stesso cordone.
"Del resto che importa? Non portano tutte le strade a Roma?". Per un attimo Alberto rimase a osservare un fungo succhiare passivamente la vita residua dalla corteccia di un albero curvo, devastato da un fulmine, situato al centro della diramazione. Spazientito dai propri pensieri, Alberto optò per la strada di destra: forse per l'abitudine di eseguire tutto con la destra, o forse perché inconsciamente associò a "sinistro", "luogo avverso".
In altre parole, fu del tutto una scelta causale, esistenziale.
Quella natura decante d'Autunno era lo specchio ineluttabile del proprio destino: un albero, delle foglie, funghi parassiti, un fulmine, una caduta, nuovi fiori. Eppure, Alberto proseguiva imperterrito quella passeggiata, inoltrandosi nella flora.
Improvvisamente lo scroscio distante di una cascata, rapì la sua attenzione e annullò i suoi pensieri reconditi: sempre gli stessi, come la cima di una radice che con il tempo non si dissolve ma assume un'altra posizione, nella parte più profonda dell'essere, lasciando spazio a fresche, nuove cime di radici.
"L'amore eguaglia una radice che ci ancora al terreno. Si nutre perennemente di acqua immaginaria. Se non trova di che dissetarsi, ci si accascia come un salice piangente."
Pensò Alberto seduto su di un grande e massivo sasso nei pressi della cascata come un onirico Zarathustra nietzscheniano.
Quel meriggio aveva intraveduto nella foresta una moltitudine di persone in gruppo; taluni camminavano per ordine del dottore mentre nel contempo sbrigavano affari con un gingillo cui pizzicavano continuamente con le dita, lo chiamavano telefono, altri osservavano la natura con ostentata ammirazione: alcuni avevano persino abbracciato e baciato un albero, quasi fosse un prete "rimetti i peccati".
Alberto salì in cima all'esiguo colle che dominava la cascata, si stese per un attimo sul prato e chiuse gli occhi.
Il pensiero di aver sbagliato la scorsa notte a tradire la moglie, lo assaliva con la stessa forza nauseante cui lo assaliva il ricordo delle persone alla ricerca dell'albero "rimetti i peccati".
"L'uomo è condannato a essere libero. Libero di escogitare, con una morale contingente, "cerchi dell'inferno", "canti del paradiso". Aldilà del bene e del male, del giusto e sbagliato vi è solo …" Il cuore di Alberto battè meccanicamente mentre la natura estasiava i suoi occhi riaperti per un istante debito a completare il soggetto mancante della frase.
Come in un sogno camminò a lungo, senza direzione o meta, finché si ritrovò daccapo, dinanzi all'albero fulminato.
"Forse dovevo prendere la strada di sinistra." " Forse quella di destra…" "Forse ritornare indietro?"
"Rimani fermo e aspetta!"
La voce inconscia di Alberto costruiva labirinti senza filo di Arianna.
"Che importa alla fine tutto ciò?"
Il crepuscolo ingurgitava nella sua morsa ogni cosa.
Dalla strada di sinistra il profilo di un uomo dall'abito bianco, bucava le tenebre come la luna, avanzando con passi stretti, spossati.
Alberto lo riconobbe: Samuel Beckett! Anche lui smarrito!
"Dove siamo?" Chiese Beckett gentilmente in inglese con un accento, esotico, francese.
"I think we are lost in a Landscape." Rispose Alberto.
"Spero che con con lei abbia una spiegazione delle sue, signore" Con ironia e reverenza, concitò Alberto lo scrittore alla parola.
Beckett scoppiò, divertito e compiaciuto in una risata. Dopodiché proferì:
"No, non c'è spiegazione che tenga, spiegazione per alcunché, con una testa come la mia, sempre in allarme contro se stessa, ci ritornerò su forse quando mi sentirò meno debole. Ci fu un tempo che cercai un po' di sollievo nello sbattere la testa contro qualcosa, ma ormai ho desistito"
Da un'opera abbandonata.
Jane90
Luna,
luminosa e sola, vola
sopra i tetti vola…
La luce perlacea scivola tra le sbarre della finestra, illuminando il pavimento umido. Inspiro profondamente, cercando di non guardare quel riflesso ipnotizzante, ma in fondo non serve a nulla. Ho sentito la luna prima ancora che sorgesse, è tutto il giorno che influenza ogni mio pensiero, ogni mia emozione.
Un brivido mi scuote le ossa e i miei occhi scattano verso la entrata della cantina: inspiro lentamente, esaminando i rinforzi di ferro che ho aggiunto ai lati della pesante porta. Forse avrei potuto aggiungere una sbarra di acciaio, ma ormai è troppo tardi. Posso solo sperare che le mie precauzioni siano sufficienti: se domani mattina, aprendo gli occhi, mi troverò ancora qui, allora capirò che tutto sarà andato bene.
Se sei la luna di questa terra,
ascolta il grido
di un uomo che si è perso…
La finestra si riempie di luce pallida e cado in ginocchio, cercando di reprimere il gemito che mi sfugge dalle labbra. Il sangue pulsa nelle mie vene rapidamente, caldo e denso come lava, e il cuore batte contro il torace con prepotenza, come se volesse strapparsi dal mio petto. Le mie mani tremano e in pochi attimi il fremito dilaga, prendendo possesso delle mie membra e scuotendole dal profondo. Il dolore, consistente e amaro, scivola nelle ossa e raggiunge la testa, riempendola di un suono sibilante che nasce dalle tempie e scorre verso la nuca.
La mia natura, la mia umanità, sfugge via. Provo ad afferrarla, a stringerla a me, ma diventa rarefatta e inconsistente come fumo. Sta per abbandonarmi del tutto, ma prima che accada l'immagine di lei compare davanti ai miei occhi.
Tutto l'universo
Non vale il suo amore immenso
Per lei che mai l'amerà
Luna…
La rivedo come quella sera: il sorriso, dolce e un po' sarcastico. I capelli rossi sciolti sulle spalle. Gli occhi azzurri, brillanti come stelle, che mi guardano pieni di felicità. La ricordo mentre corre verso la cima della collina, ridendo ancora per la storia che le ho raccontato pochi istanti prima.
— Ti ha detto proprio così? — aveva domandato lei —"Conoscerai la bestia che dimora dentro di te"?
— Già. Una vecchia pazza… "nelle notti di luna piena non potrai nascondere la bestia, tutti vedranno cosa sei davvero".
Per l'intera serata ci eravamo presi gioco della vecchia che quel pomeriggio aveva sbottato una maledizione contro di me, per punirmi della mia risposta sgarbata alla sua richiesta di elemosina.
Poi, la luna era comparsa nel cielo e tutto era cambiato.
Luna,
come sei lontana
così silenziosa e vana.
Porto una mano al petto e le dita si stringono con forza sulla camicia scura. Sento un calore improvviso e abbassando lo sguardo noto scie scarlatte imbrattare la mia pelle. Le unghie si sono trasformate in artigli, lunghi e acuminati, che hanno ferito in profondità la mia carne. Armi pericolose, devastanti, letali. Conosco il pericolo che rappresentano, lo conosco fin troppo bene, e questa consapevolezza mi lacera l'anima in ogni istante della mia vita.
Ma qui
ruggisce il cuore
della bestia umana…
La luce ormai riempie la cantina, quella cella nella quale mi rinchiudo ogni mese. Razionalmente ne concepisco la necessità, ma la bestia dentro di me non la sopporta. Già la sento ruggire d'indignazione mentre si fa strada lentamente, scacciando la parte umana del mio cuore.
La pelle della schiena si squarcia dolorosamente e il mio grido si trasforma in un latrato animale, in un guaito che colpisce la poca consapevolezza di che mi è rimasta. Rabbrividisco e crollo a terra, contorcendomi sul pavimento marcio, mentre mi graffio il volto senza rendermene conto. È come se il lupo volesse liberarsi della pelle umana e io non posso oppormi, perché ormai la bestia è padrona.
Io non sono altro che uno spettatore, proprio come quella notte, quando i miei artigli uccisero la donna che amavo.
Non senti
i tormenti e il pianto?
Il canto
che violento va
lassù
dove in cielo
ci sei tu…
Un ululato alla luna segna l'inizio della notte. La porta rinforzata cede al primo, violento colpo.
Come un topolino impaurito, mi accuccio tremante in un angolo remoto della mia anima.
Per le prossime due notti, sarà la bestia a vivere. E a uccidere.
Luna,
mezza luna o piena
serena
passi e te ne vai.
Guarda
con che pena si muore
d'amore quaggiù.
Unanime Uno
Il giorno dopo la notte
Sei entrata nella mia vita lentamente, come una brezza marina che giunge leggera sulla spiaggia, illuminata dai riverberi della luna di agosto.
… questo vento che sa di lontano
e che ci prende la testa…
Ti sei insinuata nel mio cuore e giorno dopo giorno lo hai gonfiato di gioia, di felicità e mai avrei immaginato che lo avresti poi tagliato in mille pezzi per gettarlo fra le onde.
Una chitarra in lontananza suonava le note di una canzone che sommessamente giungeva alle nostre orecchie, accostate una accanto all'altra nel nostro abbraccio.
Solo dopo compresi che quelle note volevano farmi capire che presto sarebbe finita.
… questo taglio di luna
freddo come una lama qualunque…
Ho rivoltato tutta la mia esistenza, dai legami al lavoro.
Ho rinunciato alla notte, l'ho usata per raggiungerti. Ho attraversato l'Italia in lungo e in largo per starti accanto, per rivedere il tuo sorriso, i tuoi occhi.
… che è poi la fortuna di chi vive adesso
questo tempo sbandato…
Giorni indimenticabili, colmi di noi, senza spazi per nessuno. Giorni troppo brevi per assaporarli tutti e troppo lunghi per le emozioni che un uomo riesce a sopportare.
… e mi confondono più i suoi seni
puntati dritti sul mio cuore…
Ricordo il dolore che mi attanagliava quando ti vedevo, nel retrovisore dell'auto, diventare sempre più piccola e già cominciavo a contare le ore che mancavano al successivo incontro.
… tutto questo è già più di tanto
più delle terre sognate…
All'improvviso, senza mai averne capito il motivo, tutto finisce. Così com'era iniziato. Il vento si placa e mi lascia incredulo. Uno sguardo smarrito, perso nei caffè amari degli autogrill, nelle notti passate in quei parcheggi spogli a guardare un cielo nero e senza stelle.
… è una notte in Italia anche questa
in un parcheggio in cima al mondo…
Come si può comprendere l'assurdo? Come puoi fartene una ragione, quando una ragione non c'è.
Come puoi riprendere il filo della tua vita dopo che è stato spezzato e non riesci più ad annodarlo?
Nello stomaco, solo un senso di vuoto.
… più delle idee che vanno a morire
senza farti un saluto…
Era il giorno del mio compleanno, il più assurdo di tutta la mia vita. Per quanto cercavo di sforzarmi, non mi era possibile immaginare un futuro ma solo rimettere in moto l'auto e riprendere a divorare chilometri di asfalto.
… il vino bevuto e pagato da soli
alla nostra festa…
Sapevo che il domani sarebbe arrivato, ma sapevo anche che sarebbe stato uguale a tutti gli altri chissà per quanto tempo.
Sapevo che avrei tenuto stretto il telefono nella speranza di sentirlo squillare, ma sapevo anche che un giorno avrei smesso d'illudermi.
… questo tempo sbandato
questa notte che corre
e il futuro che viene
a darci fiato.
Maria92
Caro Mark,
Che cosa stupida scriverti ora…
Ora che non potrai mai leggere queste righe,
ora che non potrò mai più guardarti e subito dopo arrossire,
ora che non faccio altro che pensare al tuo sorriso, ora che non ci sei più!
Non sei mai stato mio.
Il tuo sorriso, i tuoi occhi, la tua bocca, non mi sono mai appartenuti.
Tu eri presente solo nel mio cuore.
Qualcuno, sentendosi saggio, potrebbe dire che il mio interesse per te fosse attrazione più che amore.
Non ci sono parole per spiegare ciò che sei stato per me.
Tu, che mi guardavi con quell'aria un po' incuriosita, mentre un brivido che partiva dal cuore mi attraversava l'anima.
Com'è triste che proprio tu sia partito per un luogo così lontano.
È un dolore che frantuma il cuore e che non aiuta neanche a piangere.
Senza di te mi sento polvere nel vento che si disperde senza una meta precisa.
Ci sono momenti che passano in fretta, proprio come una sigaretta lasciata accesa e che si consuma da sé.
Ci sono momenti in cui pensi alla vita e altri in cui credi che sia proprio finita.
È proprio allora che ti viene da ridere o da piangere, a seconda dell'esperienza che stai rivivendo nella mente e nel cuore.
Con te, forse, dovrei piangere.
Ma poi penso che, nonostante non ti abbia mai potuto accarezzare una mano o parlarti, io sia stata comunque fortunata per aver incrociato, forse per caso, qualcuno dei tuoi fantastici sguardi o meglio, di averti notato fra gli altri ragazzi!
Mi viene da ridere…
Quando guardo quei fiori sull'asfalto penso a te, guardo il cielo e in quel momento avverto la paura che certamente devi aver provato nel momento dell'addio.
L'addio, che parola orribile!
Se penso a questa parola, osservo i miei sogni in fondo al pianto che si sono infranti proprio come la tua vita.
In questo momento sto osservando il mare e penso a quando ero bambina e credevo nelle favole.
Tutti i miei sogni e i miei desideri diventavano realtà nella mia fantasia.
Ora, in questi giorni di incertezze e di paure, so che non ci si può più illudere e inizio a pormi dei perché che non mi ero mai posta prima.
Osservo il mare: le onde lambiscono il bagnasciuga, quasi mi sfiorano. Sento dentro la magia di questo posto mentre il rumore delle onde, simile al lento pulsare di un cuore immenso, mi fa rivivere tutta la mia esistenza… in essa ci sei anche tu!
Sei stato la mia felicità e una parte di te resterà sempre con me.
Non c'è cosa, intorno a me, che non mi riporti al tuo ricordo.
Guarda, amore mio, quella panchina dove sedevi tutti i giorni…
Beh, è proprio lei che mi ricorda te maggiormente!
La tua firma rimarrà scritta su di essa per sempre. Quel segno semplice, simile a tanti altri eppure così diverso, così tuo, non permetterà mai a nessuno di dimenticarti, anche quando un altro siederà al tuo posto, sorriderà col tuo stesso sorriso e avrà i tuoi stessi amici!
Mi manchi Mark… Mi manchi così tanto che vorrei seguirti anch'io.
Chissà, forse lì in alto ti accorgeresti di me!
È strano quanto amore si può provare per una persona di cui a malapena conosci il nome e l'indirizzo.
È meraviglioso quanto un essere possa essere così importante per la vita di un altro!
Guardarti sorridere mi aiutava a vivere.
Guardarti camminare mi aiutava a essere più forte.
Ma adesso…
Parlo, ma a cosa serve parlare se tu non mi ascolti?
Guardo, ma a cosa serve guardare se tu non mi vedi?
Piango, ma a cosa serve piangere se le mie lacrime non bastano a farti tornare?
In giro vedo coppie di giovani che si amano e mi chiedo perché fra quelle coppie non ci siano anche i nostri volti… perché non ci siamo amati come si amano quei mille corpi che si abbracciano e sono complici l'uno dell'altro.
Cammino per il lungo viale alberato che porta a casa mia: non scorgo nessun'ombra, percepisco, come una ragnatela sporca, l'angoscia che mi vela il viso.
Avanzo lentamente e nel frattempo sogno un'isola deserta tutta per me dove fermarmi a pensare.
Sogno un'isola lontana dal mondo e da tutto ciò che mi possa ricordare la mia sofferenza.
Mi sento sola.
La solitudine… cinque sillabe che racchiudono in sé tantissimi aggettivi, spesso crudeli e cattivi!
Però, la solitudine è anche tranquillità, pace.
Beh, se essa non esistesse tutte le nostre emozioni più intime andrebbero disperse!
Non potremmo piangere senza essere giudicati, né pensare senza aver paura che qualcuno possa leggere i nostri pensieri.
Quando penso alla solitudine immagino una spiaggia che avverte la presenza solo di un'unica ragazza che osserva il mare.
Quella ragazza credo di essere io e quel mare la mia vita che cambia, modifica, migliora o peggiora, proprio come le onde che variano di volume e forma a seconda del vento.
Sì Mark, ti ho amato di un amore intenso e struggente, forte come può esserlo solo a quindici anni!
L'ho fatto con l'energia e la passione che può provare solo chi non ti ha mai posseduto, con il tepore di mille abbracci mai dati.
Addio, dolcissimo amore mio.
Nathan
(sopra, sottotitoli in italiano;
sotto, sottotitoli in inglese.)
Di nuovo qui, di nuovo sul palco. Di nuovo la stessa canzone. Loro la vogliono sentire, attendono solo quella. E io devo cantarla. Ancora.
Non ricordo quante volte l'ho cantata e non voglio pensare a quante volte dovrò farlo ancora. Il mio più grande successo è anche il mio più grande insuccesso. Loro non sanno cosa c'è dietro quella canzone. Se lo sapessero, forse non insisterebbero.
Sfioro il plettro sulle corde suonando quell'accordo inconfondibile. La folla esulta e per un attimo le loro grida coprono ogni suono. Un attimo dopo torna il silenzio, un silenzio innaturale, quasi impossibile. Cosa darei per non cantare questa canzone, eppure la canto.
Time, it needs time (Tempo, c'è bisogno di tempo)
To win back your love again (Per riconquistare il tuo amore)
I will be there, I will be there (Io vorrei essere lì, vorrei essere lì)
Love, only love (Amore, solo amore)
Can bring back your love someday (potrà ridarmi il tuo amore un giorno)
I will be there, I will be there (Io vorrei essere lì, vorrei essere lì)
Ma non sono lì con te. Dio solo sa quanto vorrei esserti accanto. Guardo la gente tra la folla. Un ragazzo solleva la sua ragazza sulle spalle per permetterle di vedermi meglio. Non sa quanto è fortunato. Lo invidio.
Fight, babe I'll fight (Combatterò, piccola, combatterò)
To win back your love again (Per riconquistare il tuo amore)
I will be there, I will be there (Io vorrei essere lì, vorrei essere lì)
Love, only love (Amore, solo amore)
Can break down the walls someday (potrà abbattere i muri un giorno)
I will be there, I will be there (Io vorrei essere lì, vorrei essere lì)
Un fischio solitario attira la mia attenzione per un attimo, un gruppo di ragazzi sventolano uno striscione con il titolo della canzone. Accenno un saluto con la mano e un sorriso forzato. Cosa farei per non essere qui in questo momento.
If we'd go again (Se potessimo di nuovo)
All the way from the start (ripercorrere il nostro cammino dall'inizio)
I would try to change (Vorrei provare a cambiare)
The things that killed our love (Le cose che hanno ucciso il nostro amore)
Your pride has build a wall, so strong (Il tuo orgoglio ha costruito un muro cosi forte)
That I can't get through (Che non riesco ad attraversare)
Is there really no chance (Non ci sono possibilità)
To start once again? I'm loving you (Di ricominciare? Sono innamorato di te)
Mi isolo con la mente, per un attimo mi illudo che tu mi stia guardando da qualche parte. Che tu stia ascoltando questa canzone. Lo sai che non è solo una canzone. È il mio modo di chiederti scusa. Non te l'ho mai dedicata, ma sai che l'ho scritta per te. Per noi. Ho messo l'anima in questa canzone, ma a te non basta. Ti capisco. Ma prova ad ascoltarla. Prova.
Try, baby try (Prova, Baby prova)
To trust in my love again (A credere di nuovo nel mio amore)
I will be there, I will be there (Io vorrei essere lì, vorrei essere lì)
Love, your love (L'amore, il tuo amore)
Just shouldn't be thrown away (Non può essere buttato via)
I will be there, I will be there (Io vorrei essere lì, vorrei essere lì)
La mia chitarra suona da sola quella melodia scritta in una notte dove l'alcool tentava invano di annebbiarmi la mente, di soffocare il dolore e le lacrime. Quanto vorrei essere lì con te.
È arrivato il momento più difficile. Quello che tutti aspettano. Le luci dei riflettori si spengono, dal nulla compaiono pian piano le luci tremolanti di migliaia di accendini. Quando arriva il momento del ritornello sto guardando un mare nero su cui danzano onde di fuoco. Sono solo adesso sul palco. È bellissimo eppure sono triste. Ho un nodo in gola e le lacrime agli occhi, perché penso a te. E tu non ci sei.
Per un attimo ho il terrore di non farcela, di non riuscire a proseguire, che quando griderò il mio amore nel microfono la mia voce mi abbandonerà. Ma non mi abbandona e urlo in miei sentimenti più forte che mai.
If we'd go again (Se potessimo di nuovo)
All the way from the start (ripercorrere il nostro cammino dall'inizio)
I would try to change (Vorrei provare a cambiare)
The things that killed our love (Le cose che hanno ucciso il nostro amore)
Yes I've hurt your pride (Si ho ferito il tuo orgoglio)
and I know What you've been through (E io so cosa hai passato)
You should give me a chance (Dovresti darmi una possibilità)
This can't be the end (Questa non può essere la fine)
La folla urla a squarciagola, il mare di fiamme ondeggia a ritmo sulle note della mia chitarra che anticipa il gran finale. Se sapessero quello che provo forse non mi inciterebbero a cantare il resto. Se sapessero che non è solo una canzone, ma una richiesta disperata di un uomo disperato…
I'm still loving you (Sono ancora innamorato di te)
I'm still loving you (Sono ancora innamorato di te)
I need your love (Ho bisogno del tuo amore)
I'm still loving you (Sono ancora innamorato di te)
Urla e applausi arrivano fino al cielo. I riflettori si accendono e il mare nero scompare per far posto alla folla in delirio. Rivedo la ragazza sulle spalle del suo amato. Sta piangendo. Forse lei ha capito cosa provo. Forse ha capito che non è solo una canzone.
Still loving you, baby… (Sono ancora innamorato di te, baby…)
Ringrazio la folla quando invece vorrei piangere anch'io.
Lodovico
— Dai Mery, mettiti là che ti faccio la foto.
Mia sorella sembra una bambina, a volte.
— Ma piantala Lory, ho 25 anni, ti pare che devo farmi fotografare con Babbo Natale?
— Su, non la metto su facebook, promesso!
Mi rendo conto che tanto non ci avrebbe rinunciato e mi avvicino al vecchiaccio che il centro commerciale aveva piazzato vicino a una slitta di compensato.
Odio il Natale, e tanto più i supermercati addobbati di palle, lucine e Santa Claus rossi.
Questo poi è veramente deprimente. Grasso, sudato e con una barba più finta dei capelli di Berlusconi.
La foto è un successo, soprattutto per il Babbo che ne approfitta per toccarmi il sedere con una bella manata a palma aperta.
Vecchio, puzzolente e pure maiale. Viva il Natale.
Chiudo il freddo fuori dalla porta di casa. Il tepore interno mi riconcilia con la vita. Ho bisogno di un bel bagno caldo, così mi lavo via il ricordo del porco natalizio.
Preparo la vasca e ne approfitto per ascoltare l'iPod con gli altoparlanti.
Schiuma,
morbida soffice, bianca lieve lieve
sembra panna sembra neve…
Questa canzone me l'ha passata mio papà, mi ha detto che è di un tizio che mi pare si chiami Gaber, un po' pallosa, ma divertente.
Passiamo oltre.
You better watch out
You better not cry
You better not pout
I'm telling you why
Santa Claus is coming to town…
Yes, Alice Cooper, energetica e dissacrante.
Mi spoglio sbattendo i vestiti in ogni dove seguendo il ritmo della musica. Un piede nella vasca. Rovente. Oggi non è proprio giornata.
Ne svuoto metà e la reintegro con acqua fredda mentre il cantante continua a gridare.
Finalmente la temperatura dell'acqua mi permette di entrare, ma prima rimetto la canzone dall'inizio.
You better watch out…
L'acqua tiepida mi rilassa, ma mi rammenta quando, con il mio ex Marco, la vasca non veniva usata per riposarsi.
Sarà per la temperatura o per il ricordo di Marco, ma improvvisamente mi accorgo che i due mesi di astinenza da sesso cominciano a pesarmi.
Sono sola in casa, dedicherò qualche minuto a me stessa.
Metto mano alla patatina e comincio a sfregarla come se volessi farne uscire il Genio.
Pochi minuti e un calore in basso mi annuncia che sono in dirittura d'arrivo. Chiudo gli occhi in attesa dei fuochi artificiali, ma un odore di affumicato mi distrae. Li riapro e vedo tra le mie gambe una figura rossa e barbuta che si spolvera con le mani dalla fuliggine.
— Ma non lo pulisci mai il camino?
Dalla mia gola esce un grido sgraziato che non impressiona per niente il Babbo Natale. Dopo un minuto di tortura per le mie tonsille, mi rendo conto che sono sola in casa in una villetta isolata in una frazione di un paese. Le probabilità di essere sentita da qualcuno si avvicinano paurosamente allo zero.
— Che ci fai qui? Riesco a dire con la gola dolorante. — Ti riconosco, sei quello del centro commerciale!
— È vero. Sono qui perché ho bisogno di compagnia. E mi pare che ne abbia bisogno anche tu.
Mi rendo conto che sono sempre nella posizione di pochi minuti prima. Chiudo le gambe e cerco di coprirmi per quanto posso. Almeno avessi messo il bagno schiuma, almeno ci sarebbero le bollicine invece di quell'acqua cristallina.
— Che vuoi da me?
— Vedi, sto diventando veramente troppo vecchio, pensa che a volte mi devo mettere persino il pannolone. La dentiera mi balla e devo tritare tutto il cibo per poterlo mangiare e il mio lavoro è veramente pesante per me.
— E io che c'entro?
— Ho bisogno di una badante, di qualcuna che mi aiuti nelle faccende di tutti i giorni, in modo che mi rimanga solo da preparare i regali e portarli. Caso mai mi metterò d'accordo con la Befana e le chiederò di aiutarmi nelle consegne, anche se pure lei è vecchiotta.
Completamente nuda nella vasca, con l'acqua che comincia a diventare fredda, un maniaco pazzo che mi chiede di diventare la sua colf e l'iPod che si è scaricato. Una giornata niente male.
— Ma io come faccio a sapere che sei davvero Babbo Natale e non un impostore?
— Ora te lo provo.
Inserisce una mano nella tasca del giaccone lurido e ne estrae un'automobilina Polystil ancora incartata.
— Visto? Dice lui trionfante.
— Un po' scarsa come prova, non credi?
— Tu ti chiami Maria detta Mery, se non fossi il vero Babbo Natale come farei a saperlo?
— Bella forza, avrai sentito mia sorella che mi chiamava quando mi ha fatto la foto.
— Uff, donna di poca fede, allora vieni a vedere.
Il barbuto vecchietto si avvicina alla porta del bagno, ne approfitto per uscire dalla vasca e indossare finalmente l'accappatoio.
Lo seguo in salotto, con la mano pulisce la condensa che sta sul vetro della finestra.
— Guarda qui, allora.
Un asinello nel mio giardino. Impressionante.
— E le renne? Chiedo.
— Sono vecchie più di me, ormai stanno nella stalla e si dedicano alla produzione di letame. Ora mi trasporta Gino.
— Gino?
— Sì, lui, quello che vedi lì fuori e che adesso ci porterà a casa.
Il ciccione si avvicina alla porta e la apre. L'asinello entra in salotto lordando irreparabilmente, con gli zoccoli sporchi di fango, il tappeto preferito da mia mamma.
— Tu sei pazzo!
Babbo Natale mi si avvicina e mi afferra per la vita. Mi siede sull'asino e si accomoda dietro di me.
Chiudo la porta azzurra alle mie spalle. Venti sotto zero. In questo stupido villaggio lappone fa un freddo infernale. "Freddo infernale". Ridacchio.
Accendo il Macbook Pro e mi collego a internet. Vediamo che scegliere oggi. Apro il sito di Cartier e rimango folgorata dalla bellezza di un bracciale di diamanti. È mio.
Nicholaus sta dormendo sul divano, quando si sveglierà chiederò la mia paga settimanale. Niente male come impiego, posso scegliere ogni venerdì un regalo qualunque come salario per il mio lavoro di badante. In tre mesi ho già accumulato un bel gruzzoletto. Lo osservo mentre russa come una motosega lappone. E poi mica vivrà per sempre questo barbone obeso, ho visto dove tiene le chiavi del magazzino dei regali…
Tania Maffei
Si svegliò all'improvviso da un sonno impastato di angoscia e di tavor. Il cuore batteva forte come a volergli ricordare l'opprimente realtà in cui si trovava. Si mise a sedere con le mani appoggiate sul letto mentre la testa, reclinata in avanti, sfiorava il pigiama. Nel buio trovò le pantofole e ci infilò i piedi, uno per volta. Non aveva idea di che ora fosse ma la sua vescica reclamava il bagno. Vide la luce della sveglia: erano le tre di notte. Senza saper come si ritrovò in salotto dove lo aspettavano due poltrone ricoperte di quel particolare velluto rosso e pruriginoso che faceva pensare alle vecchie sale di teatro. Si sedette, allungò la mano verso lo stereo dove erano ancora infilate le cuffie e se le mise delicatamente sulle orecchie. In quel periodo solo la musica gli dava sollievo. Accese il compact disk e la canzone lo portò lontano. Sì, ricordava bene quando quel cd era stato comprato. Si erano recati al negozio perché volevano l'ultimo album di Zucchero contenente la canzone "Un soffio caldo". La musica, un tema dolce, senza contrasti, capace di produrre emozioni piacevoli, fluiva lentamente dentro la sua testa come una flebo rassicurante e al tempo stesso straziante. Quel cd era stato per mesi in macchina. Quale macchina? La sua no, l'altra. Quella che non c'era più. Forse anche il cd non sarebbe più esistito se non avessero litigato quella sera e Lei… Aveva detto "Lei". Intanto la canzone l'aveva inondato. 'L'alba e i granai, filtra di qua dal monte. Piano si accende, striscia e dà vita al cielo'. La musica: un fiume in piena, un posto rassicurante dove riporre i ricordi per poi lasciarli andare via. Si guardò intorno: le foto, gli oggetti comprati durante i viaggi, i mobili antichi che erano a casa della nonna ormai morta. Morta… quel verbo divenuto poi per lui un sostantivo indeclinabile "La morte". La canzone proseguiva noncurante del suo dolore. 'Sogni che a volte si infrangono al mattino; spengono l'alba, ci spengono pà.' Ricordava quando l'aveva conosciuta. Il primo litigio, uno dei tanti che si sarebbe succeduto nel tempo, era avvenuto davanti a un ristorante. Lui sosteneva che Lei gli aveva preso l'ombrello. Lei si irrigidiva e, voltata la schiena, se ne andava. Lui non sopportava la cosa e chiedeva al proprietario del locale chi fosse quella donna così impudente. Il proprietario all'inizio aveva alzato le spalle. Non era abituato a dare informazioni sui clienti, era una persona riservata. Lui aveva insistito e allora l'uomo gli aveva indicato il palazzo di fronte. "Provi lì dentro" aveva detto a mezza voce. Lui non aveva voglia di andarci e si era dimenticato della cosa. La canzone era arrivata alla fine 'Un soffio caldo di libertà, un sogno caldo di libertà. Ohohoh, la libertà'. Andava spesso a mangiare in quel locale e un giorno l'aveva vista entrare. Alta, elegante come il palazzo in cui lavorava. Si era avvicinato al suo tavolo con fare ironico "Spero che il mio ombrello le sia servito." Lei gli aveva risposto "Vuole sedersi? In fondo glielo devo il suo ombrello mi è stato molto utile. Mi chiamo…" Faceva sempre così, litigavano e poi Lei ammetteva le sue colpe. Era insopportabile. Maledettamente bella e insopportabile. Il cd era finito. Altro verbo che si era trasformato in una parola anch'essa indeclinabile "La Fine". Fine di cosa? Di tutto. Presente, passato futuro. Lei… Lui… Morte… Fine. Inchiodato su quella poltrona non riusciva a fare un solo movimento. La mente ripercorreva i passi più belli della canzone e li mescolava ai ricordi, alla sua vita, a ciò che avevano significato quei lunghi e nel contempo brevi anni. Due per l'esattezza. Ecco. Un impercettibile movimento delle gambe. Lo sentiva. Forse sarebbe riuscito a muoversi. Tutto era stato così repentino. L'ennesimo litigio. Le urla che tanto lo infastidivano e che ora rimpiangeva. Lo sbattere di una porta. Le chiavi che giravano, lei che tornava per chiedergli scusa con in mano quel cd che poi aveva lasciato sul tavolo. Lui che le diceva "Non ne posso, più. Lo capisci? Mi stai uccidendo." Lei che se ne andava di nuovo lasciando dietro di sé una lunga ombra sottile su cui era stampata una frase "Quando torno devo dirti una cosa importante." Poi più nulla.
Dopo avevano suonato il campanello per dirgli… No, era impossibile. Non poteva essere vero. La macchina non c'era più. "Potrebbe venire a identificare il corpo?" Lei era diventata solo un corpo, due in uno senza che lui lo sapesse. Lei… Lui… Morte… Fine… Corpo.
Con la poca forza che gli rimaneva fece ripartire il cd. La sua mente cominciò a distorcere i suoni. La voce strideva e le parole sembravano urla disperate. 'UnnnnNNN SooFFFioooo CaalddOO'. Quella canzone era diventata un mostro che si era avventato contro di lui per divorarlo. Era colpa sua. Se solo avesse accettato le sue scuse. Lo aveva fatto tante altre volte. Non poteva continuare a vivere con quel senso di colpa: una coperta che ogni giorno diventava più pesante. Voleva pace, serenità. Solo così l'avrebbe ritrovata.
La sorella sapeva che Guido stava passando un periodo molto difficile. Dopo la morte della sua compagna, avvenuta in un incidente stradale, il fratello non era stato più lo stesso. All'obitorio gli avevano detto che Claudia era incinta. "Non lo sapevo, non mi aveva detto nulla." Guido sembrava aver incassato bene il colpo. Poi tutto era cambiato. Non voleva vedere più nessuno, si era asserragliato in casa.
Non sempre rispondeva al telefono, ma non era mai capitato che l'apparecchio restasse muto per tutta il giorno. La sorella, entrata in casa, fu colpita da un odore pesante che la prese allo stomaco. Lo trovò in salotto. Un colpo preciso alla tempia. "Guido, Guido cosa hai fatto?" Gridò.
Trovò sul tavolo un foglietto scritto con una grafia tremolante. Lei… Lui… Ricordi… Corpo… Fine… Morte.
Cordelia
Alessandro guardò il tramonto.
Il sole di un rosso cupo ora giocava a nascondino con le nuvole e attraverso queste mandava raggi lucenti.
— Bel tramonto — si disse.
Ma non era come quello sul mare della sua Sicilia, la sua terra.
Là dove si trovava ora invece era un'altra nazione dove era giunto per dovere e per guadagnare abbastanza soldi per comprare una casa per sé e per Sara.
Sara.
La rivide con la mente ripensando al giorno prima, quando davanti al computer e alla webcam gli aveva mostrato la terza ecografia del loro primo bambino.
— Guarda — aveva detto sua moglie con voce tenera — Si sta ciucciando il dito!
Ale aveva ricacciato indietro una lacrima.
Il loro primo bambino.
Il figlio suo e di Sara.
Quanto le mancava! Se si sforzava poteva quasi risentire il suo profumo, il sapore dei suoi baci, e la pelle velluta del suo corpo.
Sperò che quei 20 giorni che mancavano alla fine del suo mandato passassero presto perché voleva tornare da lei, dalla sua famiglia e risentire il profumo di agrumi della sua amata isola.
La cenere della sua sigaretta volò via quando tirò l'ultima boccata.
Da quando era arrivato in quella terra aveva ricominciato a fumare.
Rientrò all'interno dell'edificio dove alloggiava e raggiunse i suoi colleghi nello stanzone adibito a dormitorio. In un angolo, su vecchie sedie malandate e un tavolino rimediato, stavano giocando a carte alcuni compagni.
Ale si era affezionato a parecchi di loro. Gli piaceva Giorgio, per fare un nome, che con la sua filosofia di vita tipicamente partenopea aveva sempre il sorriso sulle labbra e un sistema per risollevare la truppa.
Mentre Tonio e Carlo «litigavano» per come aveva contato i punti Giorgio, Alessandro si sdraiò nel suo letto e si accese un'altra sigaretta.
Nella stanza aleggiava della musica. Era Paolo, il più giovane di tutti, che aveva acceso la radio.
Adesso il camerone era inondato dalle note di John Lennon e della sua «Imagine».
Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people
Living life in peace…
— Magari — si disse Alessandro pensando alle parole della canzone.
Nessuna nazione e nulla per cui uccidere.
E gente che vive tutta in pace.
Un'utopia.
La chiamavano «missione di pace» ma la loro venuta era in realtà una mossa politica.
Però lui e i suoi uomini erano andati laggiù con lo scopo di aiutare e questo l'avevano capito anche la gente del luogo, che dopo un periodo di diffidenza, aveva iniziato ad accettarli e a fidarsi di loro.
«You may say I'm a dreamer…»
Tu potresti dire che sono un sognatore, continuava ancora la canzone, ma Alessandro in quella terra aveva visto qualcosa che non lo avrebbe mai fatto più sognare. La visione dei corpi mutilati, del sangue e l'odore della carne umana bruciata di quella volta in cui un terrorista di era immolato in un mercato, non l'avrebbe abbandonato per tutta la vita.
Si addormentò su quelle note.
La notte ebbe un incubo.
Un bambino gli chiedeva aiuto, mentre pallottole sibilavano in un agguato. Nel sogno Ale cercò di salvarlo ma non fece in tempo e un pallottola colpì il bimbo alla tempia.
Si svegliò di soprassalto, matido di sudore, con ancora negli occhi il volto del bimbo ormai senza vita.
Il giorno dopo tutto il suo gruppo ricevette l'ordine di spostarsi in una zona più calda.
Alessandro e i compagni presero le Jeep e i camion.
Partirono tutti armati fino ai denti.
Gli occhi e i sensi di ognuno in allerta. Stavano lasciando un posto tranquillo per uno di sicuro più pericoloso.
La strada era dissestata e le sospensioni dei mezzi non erano dei migliori. I fondoschiena di tutti, dopo metà della strada, erano pesti e doloranti.
Poco prima di arrivare a destinazione attraversarono l'ennesimo villaggio. C'erano due anziani vicino a una casa. Bambini che giocavano a pallone, una donna con un bambino in braccio.
Ale si distrasse quando vide un ragazzino che dimostrava sui sei o sette anni giocare con un coetaneo con un finto fucile. Il bambino fece finta di sparare e il compagno finse di morire.
Una smorfia si dipinse sul volto del soldato.
— Come potevano giocare alla guerra quei bambini? — si chiese.
Quando si voltò verso il suo compagno lesse sul suo volto la sua stessa perplessità.
Fu in quel momento che si scatenò l'inferno.
Da una camionetta che viaggiava in senso contrario vennero lanciate delle granate.
La prima Jeep davanti, quella con Giorgio e altri compagni esplose davanti agli occhi inorriditi di Alessandro e dei suoi uomini. Un attimo di orrore e l'addestramento e l'istinto di sopravvivenza ebbero la meglio sui militari che fermarono i mezzi e vi si barricarono dietro in circolo in modo da controllare tutti i lati.
Ale riuscì a prendere dell'esplosivo caricato sul camion, mentre una miriade di pallottole grandinava sopra di loro. Riuscì a piazzare due granate e uccidere qualche nemico, quando in mezzo a tutto quel rumore, si accorse che la donna con il bambino in braccio, che aveva notato quando era entrato in paese, era a terra inanimata. Il suo bambino di poco più di un anno, s'era alzato da terra. Con le manine rosse sporche del sangue della madre, piangeva a dirotto e non sapeva di essere sulla linea di tiro dei nemici.
Ale rivide il suo sogno. Il bambino non somigliava a quello del suo incubo, ma non ci pensò un attimo. Corse più abbassato che poté e prese il bambino al volo. Poi cercò di tornare al riparo dietro a una delle jeep che stava più vicina.
Ma una pallottola e poi una seconda lo colpirono facendolo cadere con il bambino in braccio. Steso in terra l'uomo sentì le forze mancargli ma non mollò la presa sul piccolo. Ancora pochi metri e ce l'avrebbe fatta. Cercò di trascinarsi ma la mente dava un comando che lui non riusciva a eseguire. Poi sentì due mani che lo tirarono al riparo. Sembrava Paolo, ma non ne era sicuro. Gli spari continuarono incessanti e poi ci fu un'altra esplosione.
Ale era scosso da brividi mentre vedeva un Paolo sfocato che gli gridava qualcosa: — Capitano, li abbiamo sconfitti. È finita. Ale mi senti? Non te ne andare. Resta qui con me. L'hai salvato. L'hai salvato, mi hai capito?
Alessandro però l'ultima frase non riuscì a sentirla perché aveva freddo e si sentiva tanto stanco…
Il pianto di un bimbo di 6 mesi svegliò in piena notte Sara, che tutta insonnolita, fece per alzarsi. Una mano la fermò.
Alessandro con voce assonnata le disse di continuare a dormire e che avrebbe pensato lui al piccolo Giorgio.
Erano passati sette mesi dal suo ferimento e per fortuna nessuna delle due pallottole aveva leso organi vitali.
Così era sopravvissuto.
Sbadigliando l'uomo si diresse verso la camera del bambino, lo prese dal lettino e sedendosi sulla sedia a dondolo con il bimbo fra le braccia intonò sottovoce:
«Imagine there's no heaven…»
e sperò per suo figlio in un mondo migliore.
Ritavaleria
Giulia era intenta a ultimare le consuete pulizie della domenica mattina, accompagnata come sempre dalla musica che trasmettevano alla radio, quando l'annunciatore radiofonico tirò fuori dal 1993 la canzone che aveva segnato quell'anno, quando Whitney Houston faceva sognare le ragazze e la sua musica accompagnava le storie d'amore: I will always love you
Bastarono le prime note di quella canzone per far tornare in mente a Giulia quell'anno, quando lei aveva 15 anni e aspettava l'arrivo del grande amore. Era inverno e c'era freddo, ma non importava perché in quei giorni si svolgeva il Carnevale e questo significava uscire tutte le sere, incontrare persone diverse, divertirsi, farsi scherzi. Anzi Giorgia, la sua migliore amica, le aveva anticipato che quella sera sarebbero uscite con un gruppo di ragazzi che aveva conosciuto la sera prima. Giulia era curiosa di vedere con chi si sarebbe presentata Giorgia e sperava che almeno fossero simpatici. L'appuntamento era per le 18.00 al luna park. Come sempre la loro città si riempiva di gente, di maschere, di coriandoli e di colori e il luna park era un universo di luci, musica e suoni, tanto che se non fossero state attente avrebbero corso il rischio di non trovarsi o di perdersi tra la folla. Ma per fortuna erano riuscite a trovarsi quasi subito. Giorgia presentò a Giulia i ragazzi: Giovanni, Giuseppe e Giulio. In effetti, avevano trascorso una bella serata, si erano conosciuti, avevano riso e più di una volta Giulia si era ritrovata vicino Giulio, avevano fatto insieme l'autoscontro, era stato l'unico a voler fare una giostra con lei ed era stato anche attento a non finirle addosso. E proprio in quei momenti Giulia si ricordava la musica romantica della canzone I will always love you.
Giulio era un bravo ragazzo, anzi era come lei si era sempre immaginata un ragazzo: allegro, serio, studioso, con occhi chiari e limpidi. E sembrava pure interessarsi a lei, con il suo cappottone blu e il cerchietto nei capelli. Infatti, passarono tutto il Carnevale insieme e continuarono a vedersi dopo, anche tra Giorgia e Giuseppe, del resto, sembrava essere nata una simpatia, insomma era tutto perfetto. Ma proprio la perfezione cominciava a essere un problema per Giulia: aveva il terrore che Giulio facesse quel passo in più che avrebbe cambiato tutto, come faceva a dirgli o a fargli capire che lei non aveva la minima idea di come si doveva comportare, non sapeva cosa dovesse fare una ragazza in quella situazione, se gli dovesse telefonare o no, quanto doveva restargli vicina o cosa fare se lui le metteva un braccio sulle spalle, lei avrebbe voluto che tutto continuasse così, con loro quattro sempre insieme. E da quel momento cominciarono le sofisticate strategie per smontare le altrettanto argute mosse che Giulio compiva per restare soli. E in questo Giulia era supportata anche dall'aver saputo da Giorgia, che lo aveva saputo da sua sorella, che a sua volta aveva incontrato Giovanni, il quale le aveva detto che Giulio gli aveva confessato che a lui Giulia piaceva davvero tanto. Infatti quando Giulio riuscì a sbarazzarsi di tutti gli ostacoli e poté dichiararsi, Giulia gli chiese ancora qualche giorno per pensarci, tanto da guadagnarsi il titolo della ragazza più difficile con cui era uscito, e mentre lui cominciava ad avere dubbi sull'interesse di lei, Giulia aveva paura di non essere capace di dargli un bacio e però siccome non voleva che lui lo sapesse non voleva dirgli quello che la spaventava davvero. In questa mancanza di comunicazione, si smarrì la voglia di stare insieme e ben presto Giulio incontrò un'altra ragazza, più sicura e intraprendente di Giulia e preferì, come spesso fanno i ragazzi, una cosa facile a una difficile.
Oggi Giulia riascoltando le note di quella canzone che avrebbe associato sempre al suo primo amore, insicuro e acerbo, ma anche tenero e delicato, si era commossa, chiedendosi cosa ne era stato di quei due ragazzi sognatori e speranzosi, si chiese se con le loro scelte non avevano fatto un torto a quella purezza, se le loro vite sarebbero state diverse oggi se allora ci avessero creduto di più.
Forse Giulio, dopo aver continuato a passare da una ragazza all'altra, non avrebbe deciso di lasciare gli studi e intraprendere la carriera militare, trasferendosi a Milano e costruendo una vita di superficialità tra locali e ore piccole, e forse lei non avrebbe continuato a cercare quella persona perfetta, capace di accettarla per quello che era e di capirla senza bisogno di tante parole, trovandola poi nell'uomo più imperfetto che potesse immaginare, nell'uomo non suo, nell'uomo, che, se è vero che riusciva a leggerle dentro e offrirle una quantità di amore incondizionata e nuova per lei, pronto anche a gesti plateali, era anche l'uomo che le offriva soltanto un amore da nascondere, un amore su cui lei non poteva fare affidamento, un amore a tempo, un amore che la lasciava sola quando ne aveva bisogno.
Ma in fondo sapeva anche che ognuno ha la sua storia, ognuno ha il suo primo amore, e ogni primo amore è innocente e pieno di speranze e se loro erano lì ora, probabilmente era giusto così, era giusto che facessero altre esperienze, belle e brutte, che conoscessero tutti gli altri colori dell'amore, dal rosso della passione al grigio della delusione, e che portassero il peso della loro storia in tutto quello che arriverà anche in futuro e che conservassero il ricordo di quel momento così, con la magia di ciò che era stato e che poteva essere.
Bittersweet Memories.
That is all I'm taking with me.
So goodbye please don't cry.
We both know I'm not what you.
You need.
I will always love you.
I will always love you.
Intanto la musica era finita, un'altra canzone era già iniziata e c'era ancora tanto da fare.
Tuarag
Mastica e sputa
da una parte il miele
mastica e sputa
dall'altra la cera
Questa è una tortura. Più crudele di quelle escogitate dalla mia mente: affrontare la claustrofobia di quel maledetto ascensore per presentarmi qui ogni due giorni. Percepire quel risolino, frammisto di sufficienza e commiserazione, che ti elargisce quella becera infermiera che apre la porta e ti fa accomodare in questo sacello per attendere lui, il manipolatore dei miei pensieri, con i suoi rituali folli, ossessionanti, maniacali.
mastica e sputa
prima che venga neve
Disteso sul lettino vedo la sua mano dirigersi verso il timer, un clic e si dà inizio all'ennesimo atto di questa farsa: tic-tac, tic-tac, il tappeto musicale della psicanalisi è il segnale che apre il sipario.
"Bene. Oggi è il nostro ultimo incontro. L'ho fatta parlare tanto nelle precedenti sedute, oggi ho bisogno di alcune risposte per comprendere in toto il suo problema." è il suo esordio odierno.
A me sembra solo un giro di parole affermanti che ancora non ha capito nulla di me. Ma la sua boria, appesa alle pareti insieme alle pergamene incorniciate, gli impedisce di ammetterlo.
luce luce lontana
più bassa delle stelle
quale sarà la mano
che ti accende e ti spegne
"Mi dica, ha mai visto i suoi genitori fare l'amore?" è l'interrogativo diretto e violento che mi rivolge.
La domanda mi irrita ma mio malgrado sono qui per rispondere ai suoi irriverenti quesiti: "So di essere un voyeur ma non mi sono certo eccitato a guardare i miei genitori nell'intimità."
e se lo sa mio padre
dovrò cambiar paese
se mio padre lo sa
mi imbarcherò sul mare
La mia risposta scostante lo lascia perplesso, lo avverto da come si strofina le mani una dentro l'altra, e cambiando argomento mi chiede:
"Qual è il ricordo più importante che ha della sua adolescenza?"
"L'unico ricordo che ho sono le bastonate!"
"I suoi la picchiavano spesso?"
Non è neanche il caso di specificare la frequenza delle mie immeritate punizioni. Cosa ne può sapere questo dotto imbecille delle cinghiate che si sono abbattute sulla mia schiena. È sufficiente il furore del mio sguardo a dare una risposta eloquente.
mastica e sputa
prima che faccia neve
"Con che cosa le piaceva giocare, da bambino?" divaga ancora.
Una smorfia compiaciuta si delinea sul mio viso prima di rispondere con malcelato orgoglio: "Mi divertivo a cacciare piccoli animali. Li catturavo e poi li seviziavo."
"Come?"
"Godevo nel farli a pezzi. Mi piaceva tagliare la coda alle lucertole e vedere quel pezzo di carne dimenarsi e contorcersi… uno spettacolo sublime. Poi ne sventravo una e ne osservavo le budella scosse dagli ultimi aneliti di vita fino a quando l'ultima stilla di sangue non poneva fine ai battiti di quel cuore pulsante."
stanotte è venuta l'ombra
l'ombra che mi fa il verso
le ho mostrato il coltello
e la mia maschera di gelso
Con il volto inorridito e disgustato da quella descrizione mi chiede ancora:
"Ha un sogno ricorrente? Qualcosa che sovente turba il suo sonno?
"Sì." rispondo mentre una goccia di sudore imperla la mia fronte.
"Può descrivermelo?"
"Vedo un ventre materno che mi sputa fuori nel mondo. Io cerco in tutti i modi di rientrarci ma sono rifiutato e rigurgitato ogni volta."
"Vede che l'immagine onirica del sesso è prevalente? Sia sincero, è rimasto colpito dal pensiero che i suoi genitori lo facessero, vero?" insiste con la sua solita saccenteria.
un giorno la prenderò
come fa il vento alla schiena
Mi altero sempre di più: "Basta con queste teorie freudiane, dove tutto è riconducibile al sesso. Sono quel che sono perché l'ha voluto Dio… cioè io!" rispondo con alterigia.
"Quindi non la disturba essere nato da un atto d'amore?" incalza.
"Che razza di domanda è? Se non l'avessero fatto non sarei qui adesso." replico infastidito e dirigendo uno sguardo di odio e di maledizione verso i palmi delle mie mani.
"E pensa che sarebbe stato meglio?"
Lo guardo con insofferenza a lungo e in silenzio prima di dire: "Forse… almeno non avrebbero condannato a morte quell'altro."
"Che sciocchezza. In Italia al massimo si può comminare l'ergastolo." ribatte con quel suo sarcasmo insopportabile.
"Se uno paga crimini non suoi… è pena di morte!"
"E lei come fa a essere certo che sia stato condannato un innocente?"
"Perché sono io il creatore di quei capolavori."
mastica e sputa
prima che metta neve
Trascorrono lunghi secondi di silenzio con il suo sguardo che cerca di entrare nel mio fino al suono del timer che scandisce la fine di quella sofferenza. La sua mano smorza quel suono e io mi alzo da quel letto di penitenza.
"La sua è solo mania di protagonismo. Deve accettarsi per quello che è. Viva serenamente la sua quotidianità di uomo comune." sentenzia quell'inetto con la sua erudita superbia.
Quella sua affermazione mi lacera dentro più violenta e tagliente delle stesse lame che avevo affondato nelle carni delle mie vittime e mi rivolgo a lui con disprezzo: "Ah sì? Allora vieni a casa mia. Ti faccio vedere la mia collezione di parti anatomiche sotto spirito."
ho visto Nina volare
tra le corde dell'altalena
Incredulo ma impaurito da quella mia affermazione, lo stolto strabuzza gli occhi, si scosta leggermente e con tono ironico ma non più fermo replica: "Ma cosa dice… è impazzito?"
La mia sopportazione è oltre ogni limite, sento il sangue affluirmi veloce in testa, con occhi furibondi e ponendogli un dito sotto la gola, come fosse un coltello, urlo: "Sì, strizzacervelli del cazzo. Genitali e seni strappati ancora caldi dai cadaveri. Li conservo nei vasi di vetro e li profano tutte le sere per trovare il piacere che il mondo non è stato capace di darmi."
luce luce lontana
che si accende e si spegne
quale sarà la mano
che illumina le stelle
I suoi occhi sbarrati dal terrore mi guardano incredulo e dalle sue labbra tremanti si percepisce una sua ultima frase: "Ma lei… lei… lei è un mostro!"
"Oh bravo grullo. Te tu l'ha 'apito finalmente."
mastica e sputa
prima che venga neve.
Manuela
Da qualche settimana ho iniziato a rubare al lavoro. È cominciata così. Faccio la cresta sul resto da dare ai clienti. Non se ne accorgono, di solito. A volte sì, ma fingo di aver sbagliato. E sorridono. Soddisfatti di essersene accorti e tolleranti per la mia giovane età che mi permette ancora di sbagliare.
"Sei troppo stupido per vivere".
No, non sono io lo stupido. È mio padre che non capisce niente.
Da quando mamma è morta, lui si sente un ragazzino. Adesso sta con una donna giovane e bella. Io non l'ho mai vista. E non ho nessuna intenzione di vederla.
Rubo per comprare cose. Anche inutili. Cose per la mamma. Sono sicuro che le sarebbe piaciuto avere il libro di ricette che ho comprato l'altro giorno. E le sarebbe piaciuto tantissimo anche il foulard di seta preso oggi.
Certe cose a volte si devono assolutamente fare.
Giro per le strade, in questa città che amo, perché non si prende gioco di me. È grigia come la mia faccia, come la mia anima e, soprattutto, mi accetta senza fare domande. Mi sento un cesso travestito, faccio fatica a riconoscere la mia immagine nelle vetrine. Entro nei negozi e passo in rassegna tutto quello che c'è in vendita, poi esco, senza vedere molto, senza vedere bene, la gente mi passa accanto ronzando. Giro senza fretta in cerca di cose da comprare.
Mio padre dice che sono incomprensibile, che ho bisogno di aiuto. Poi dice che mi vuole bene, che forse è colpa sua se sono diventato così strano, che la mamma è morta troppo presto.
"Vincenzo io ti ammazzerò, perché non sai decidere."
Lui si chiama Vincenzo, come quello della canzone. Io non lo so se poi il cantante lo ha davvero ucciso. Io mio padre lo voglio uccidere sul serio.
Mi fermo a leggere il menù di un bar-ristorante, e all'improvviso lo vedo all'interno, sta mangiando. È in compagnia di una donna sottile, dai capelli scuri, e di un bambino, deve essere il figlio della donna. C'è un pupazzo di quelli gonfiabili e colorati all'ingresso. Il pupazzo sorride.
Mio padre è andato via di casa qualche tempo fa. È andato a vivere da lei. Ormai sei grande, ha detto, hai un lavoro, io ci sarò sempre, ma puoi cavartela da solo.
"Lui… mi faceva dire sì".
Sì, gli ho detto io, hai ragione papà, me la caverò.
"Vincenzo io ti sparerò, sei troppo ladro per capire". Il ladro sono io, ma è lui quello che non capisce.
Apro la porta, entro. Il locale è quasi vuoto. Al centro c'è un gigantesco banco di portate, protette dai vetri. Decine di varietà di insalate di pasta. Papà alza gli occhi ed è un po' sorpreso di vedermi. Marco, dice, privo di fantasia. Credevo che stasera dovessi lavorare fino a tardi.
Oh, le presentazioni, dice ancora, un po' affannato. Marco, lei è Teresa. Teresa è una ballerina, aggiunge speranzoso. E lui è Gianpiero.
Sì, lo so, dico io. Come va?
Ciao Marco, cinguetta Gianpiero, la bocca piena. Ti piace?, mi chiede. Ha in mano una miniatura dello stesso pupazzo che c'è all'ingresso. Anche la miniatura sorride.
Bella, dico io.
Papà mi guarda con aria strana, è vagamente giallo. Il sorriso di Teresa è dolce.
Anche mamma sorrideva dolce. Penso che le comprerò un rossetto, domani.
Papà, posso parlarti un momento?, chiedo e lui dice ma certo e ci dirigiamo verso l'ingresso, andiamo a metterci vicino alla cassa senza cassiera, e io prendo lentamente un coltello da un tavolo, sembra molto affilato, e quando papà dice ma cosa stai facendo, cosa succede?, guardo l'attaccatura scura dei suoi capelli recedere come un'onda di marea, gli dico tu sei il mio fottuto padre e gli pianto il coltello tra le costole.
Non lo sento affondare, resta in superficie, lascio andare il manico e il coltello rimane lì, per un lungo attimo, poi cade sul pavimento e fa poco rumore.
La faccia di papà è orribile. Barcolla mentre cerca il telefonino, lo prende, compone un numero. Il sangue gli macchia la camicia bianca. C'è un certo trambusto, urla nel locale, camerieri in cravatta a farfalla escono dalla cucina e Teresa, rossa in faccia, mormora da vera ballerina magra, cazzo vaffanculo, e si avvicina incespicando e il piccolo Gianpiero è raggelato sulla sedia con una forchettata di insalata di pasta a mezz'aria, la bocca aperta, sembra un pesce.
Oddio, oddio, sussurro dentro le mani.
Ti faccio rinchiudere, dice mio padre, puoi contarci. Ha il dolore disegnato sulla bocca e sugli occhi, qualcosa di enorme e triste nel suo petto, parla nel telefono e dopo un po' si sentono le sirene.
Il pupazzo all'ingresso continua a sorridere, ride di me.
Sono troppo ladro per amare.
Sono troppo stupido per vivere.
Devo rubare una pistola.
E sparare a quel cazzo di pupazzo sorridente.
Diego Capani
Ho realizzato due video per questa gara:
Il primo è il trailer, sulla falsariga di quelli cinematografici, del mio racconto.
Il secondo invece è il Video BooK del mio racconto (chi lo desidera può "provare" a leggerlo in questa modalità).
Il detective Alfred Babowsky parcheggiò la sua Chevrolet davanti al 216 di Hope Street e spense il motore. C'era una splendida luna piena quella sera nel cielo di New Orleans e, dopo essersi acceso una lucky senza filtro e aver tirato un paio di boccate, le rivolse un ultimo malinconico sguardo. Gli tornarono alla mente le note di un vecchio successo di Richard Rodgers dal titolo "Blue Moon" che faceva pressappoco così: Fa D7 Gm C7 Fa#. Si lasciò sprofondare nel tiepido sedile in pelle della sua auto cullato da quella musica e chiuse gli occhi. Ma non durò per molto.
Qualcuno bussò al finestrino: era il sergente Richy Vaquero che, con in mano un bicchiere fumante di caffè, gli faceva cenno di scendere. Tornò bruscamente in sé e scese.
— Sera Babowsky, tenga, le farà bene buttare giù qualcosa di caldo — disse Vaquero abbozzando un mezzo sorriso.
— Grazie, sergente. Novità? — chiese lui.
— Non molte detective, prego, mi segua — lo accompagnò nell'appartamento dove era avvenuto il fattaccio.
La scena era delle più classiche: stesa sul pavimento c'era una donna, sui trentanni, di razza bianca, ben vestita e con la gola squarciata da un orecchio all'altro. Prima di tirare le cuoia era riuscita a scrivere qualcosa sul pavimento con il proprio sangue: "cercate Joe" e, poco più sotto, "spegnete la lavatrice, grazie".
— Casalinga fino alla fine — disse Babowsky — Chi era?
— Si chiamava Ellen Duty — rispose Vaquero — lavorava come cassiera in una tavola calda in città. Nel tempo libero, invece, faceva la cassiera in una tavola calda in periferia.
— Hum… interessante — rispose il detective — c'è altro?
— Sì, questo. Lo abbiamo trovato nella sua mano sinistra — era un biglietto d'entrata per quella sera al "Blue Moon", un locale in Tulane Avenue, dove si poteva ascoltare dell'ottimo Blues.
Che coincidenza, pensò, ancora quella canzone. Per il momento era tutto.
Il detective Babowsky non era proprio quello che si definiva un "pezzo d'uomo". Alto, sì e no, un metro scarso era per giunta tondo come una palla da bowling.
Per lui, fare il detective in una città che aveva il tasso d'omicidi più alto del suo colesterolo era una cosa deprimente. Per questo s'ingozzava di frittelle, tutte le volte che poteva.
Un'ora dopo era al "Blue Moon". La prima cosa che notò furono i prezzi: andavano da un minimo di 70 dollari per un serata in piedi, totalmente a carico delle proprie articolazioni inferiori, fino a toccare cifre a tre zeri per due sedie e un tavolo in prima fila. L'idea di aprire il portafogli lo disgustò. Certo, avrebbe sempre potuto dire che era della polizia, ma contava parecchio sull'effetto sorpresa e non voleva rinunciarci. Provò con il biglietto della vittima.
— Buonasera signore, il suo biglietto — disse il tizio all'ingresso.
— Ecco, tenga — sperò che non leggesse il nome.
— Ma, qui c'è scritto il nome di una signora. Come lo spiega?
— Sì, infatti… — disse Babowsky non avendo la più pallida idea di come finire la frase — Il fatto è… che… Sì, ecco, devo aver preso il biglietto di mia moglie. Un tragico errore. Fa lo stesso?
— No! Prego, la cassa è da quella parte — disse l'uomo guardandolo male.
Babowsky si avviò verso la cassiera: una signora con la faccia di un cane Bulldog. Guardandola realizzò che piuttosto che pagarle il biglietto, poteva: o far saltare la sua copertura oppure spararle.
Provò con la prima possibilità.
— Sera, signore — abbaiò la tipa.
— Salve, sono un detective e dovrei entrare per delle indagini. Ecco il mio distintivo — attese fiducioso.
— Oh… bene. Ha diritto a uno sconto del 50%. Fanno 35 dollari.
— Hum… — era ancora troppo per Babowsky. Aggiunse: — Non supero il metro, vede? Avete qualche tariffa speciale per casi come il mio?
— Certo, signore. Faccia due passi indietro — la donna lo squadrò e fece una stima approssimativa poi disse: — Ok, allora in totale fanno… diciamo… 10 dollari e siamo pari. Ok?
— Affare fatto, tenga! — pagò e si diresse all'interno del locale. La serata prometteva bene.
Come fu dentro la Bulldog alla cassa alzò una cornetta e chiamò qualcuno.
— Pronto, Joe, è appena entrato uno della polizia. Ha detto che era qui per delle indagini.
— Calma… com'è fatto? — chiese l'altro.
— Non ti puoi sbagliare, capo. Praticamente è un nano avvolto in un impermeabile.
— Sì, ecco lo vedo… è qui al bar… cerca di arrampicarsi su di uno sgabello. Adesso è caduto. Vado a raccoglierlo, così sento che vuole — riattaccò preoccupato.
Babowsky stava cercando di rialzarsi quando vide una mano aperta protesa verso di lui. L'afferrò e fu di nuovo in piedi. Era la mano di Joe Mancino. Proprietario e trombettista del "Blue Moon"
— Tutto bene? — gli chiese.
— Sì, grazie. Devo aver perso l'equilibrio, capita… — si giustificò il detective.
— Capita, come no. Sono il proprietario del locale, posso offrirle da bere? — disse affabilmente l'uomo, poi aggiunse: — Non ho afferrato bene il suo nome… come ha detto di chiamarsi?
— Non l'ho detto — rispose secco Babowsky, poi continuò: — Anche io non ho afferrato granché bene il suo, di nome, sa?
— Mi scusi, certe volte do per scontato che tutti sappiano chi sia. Il mio nome è Joe Mancino.
— Hum, è un piacere Joe. Io invece sono il detective Babowsky e… visto che parliamo di nomi, mi dica, conosceva una certa Ellen Duty?
— No, non mi pare. Perché? — rispose Mancino cercando di apparire il più sincero possibile.
— E allora cosa ci faceva al 216 di Hope Street intorno alle ventuno di questa sera?
— Dove? Non so neanche dove sia questo posto. Dove diavolo vuole arrivare detective?
— Confessi, non le conviene continuare a mentire! — Babowsky era un po' stanco e la musica era troppo alta per le sue orecchie così stava forzando un po' la mano per vedere cosa ne veniva fuori.
— Non capisco, confessare cosa?
— L'omicidio di quella povera donna! Joe… com'è il cognome, scusi?
— Mancino — disse il proprietario.
— Bene, Joe Mancino la dichiaro in arresto per l'omicidio della signora Ellen Duty! — disse Babowsky. Era la sua frase preferita.
Nello stesso istante la vicina di casa della defunta signora Duty apriva il frigorifero, prendeva una bottiglia di latte e ne versava un po' in una scodella. Un gattino tutto nero si dava da fare per berlo tutto, mentre lei lo carezzava dicendogli: — Ora che la povera signora Ellen non c'è più, mi prenderò cura io di te, piccolo Joe.
Lucia Manna
In quel freddo mattino di gennaio in radio ascoltavo una vecchia canzone che diceva:
abbassare
nuntereggae più
abbassare
nuntereggae più
abbassare con le canzoni
senza patria o soluzioni
la castità
nuntereggae più
la verginità
nuntereggae più
la sposa in bianco il maschio forte
i ministri puliti
i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni
nuntereggae più
Fu proprio quel "Nun te reggae più", che fece scattare una molla in me.
Neanch'io reggevo più il mio ex marito che non mi passava mai gli alimenti, che non mi salutava se m'incontrava per strada e non sopportavo più le corna che mi aveva "regalato" e che mi avevano portata al divorzio.
Non potevo più accettare tutto questo, ero stanca di essere la vittima, anzi se devo dirla tutta, non sopportavo più di essere la cornuta della situazione; dovevo far qualcosa: sentivo all'improvviso una gran sete di vendetta.
Decisi.
Chiamai un mio vecchio zio che apparteneva a una banda, naturalmente non una banda musicale, ma criminale!
Lo incontrai la sera stessa e concordammo il tutto.
… Gli avrei tolto la cosa a lui più cara, la vita.
Peccato che mi sarebbe costato una bella cifra, ma ero certa che di questa spesa non mi sarei mai pentita.
Lo zio non si sarebbe sporcato le mani, ma avrebbe passato la patata bollente a un suo amico che a sua volta l'avrebbe ceduta a un conoscente più esperto, arrivato da poco nel gruppo, un vero killer.
Insomma, si formò una vera catena "di solidarietà", ma a me non importava, m'interessava solo il risultato finale.
Alberto
Ero stanco delle pressioni che mia moglie mi faceva di continuo per avere gli alimenti; i soldi li avevo, avrei potuto passarglieli senza problemi, ma non volevo, perché la mia vita con lei era sempre stata un inferno: non potevo uscire con gli amici, se ricevevo un messaggino, non so come facesse, ma era sempre la prima a leggerlo e se tardavo nei miei rientri a casa, anche solo due minuti, mi telefonava strillando come una pazza oppure veniva nel bar che frequentavo per incontrare gli amici urlandomi di ritornare immediatamente a casa.
Come un bambino.
Mi trattava come uno scolaretto, un suo posseso personale, una cosa, marionetta.
Non la sopportavo più.
Era diventato troppo grande il peso delle umiliazioni che mi portavo sul cuore; non volevo più vedere il suo volto, neanche in fotografia.
Chiamai un caro amico e insieme decidemmo di farla finita definitivamente: avrebbe ingaggiato lui qualcuno per toglierla di mezzo: un colpo di pistola o una coltellata e tutto sarebbe finito!
Marilena
Era passata quasi una settimana da quando avevo progettato la dolce vendetta che mi avrebbe fatto assaporare la vera libertà.
Non so perché da quel momento, in radio un giorno sì e l'altro pure, si sentiva la solita canzone: "nun te reggae più".
Mi sembrava un segno divinatorio per non farmi cambiare idea!
Finalmente squillò il telefono.
Era la persona incaricata a uccidere mio marito che mi diceva che la sera avrebbe sbrigato quella commissione, naturalmente senza spiegare altro, poiché di certe cose al telefono non si parla.
Mi chiese se volevo assistere allo spettacolo.
All'inizio la proposta mi sconvolse, ma devo ammettere che dopo pochi secondi mi allettò l'idea di vederlo morire, la mia vendetta sarebbe stata completa e accettai.
Fissammo l'appuntamento fuori dall'ospedale dove lavorava mio marito come infermiere e dove quella sera doveva recarsi per il turno di notte.
L'uomo lo avrebbe chiamato e con una scusa l'avrebbe fatto uscire…
Alberto
Mi ero appena vestito per uscire, volevo approfittare del bel tempo per fare un po' di compere, poiché il frigo era rimasto vuoto, quando il mio amico mi chiamò dicendomi che finalmente "quell'affare" si era avviato alla conclusione e che quella sera stessa tutto si sarebbe risolto.
Chiaramente "l'affare" era l'omicidio di mia moglie, ma naturalmente non poteva dirlo esplicitamente, doveva parlare in codice…
Il mio amico mi propose di assistere all'intera faccenda.
Mi sembrava una proposta strana e bizzarra, ma senza esitare neanche per un istante risposi di sì: meglio verificare con i propri occhi, non si sa mai!
L'appuntamento era fissato alle ventitré fuori dall'ospedale, dove lavoravo.
L'incaricato alla missione avrebbe portato mia moglie lì con una scusa.
Non mi chiesi neanche quale fosse la scusa che avesse trovato, m'interessava solamente toglierla di mezzo…
Marilena
Alle ventidue circa, mi recai a casa di mio zio che si era offerto di accompagnarmi "sul posto".
Il tempo di un caffè e ci mettemmo in auto per andare sul luogo del grande evento.
Alberto
La sera andai a lavorare normalmente e verso le ventidue e cinquanta uscii.
Quasi correvo, perché temevo di perdermi lo spettacolo che mi avrebbe alleggerito la vita.
Marilena
Mentre guidavo, ero agitatissima e il cuore mi batteva forte.
Sentivo crescere sempre di più l'odio verso di lui, sì, l'odiavo per quel che mi aveva fatto e adesso l'odiavo, perché mi stava trasformando nella mandante di un omicidio.
Giunti a destinazione scendemmo dall'auto e mentre camminavamo per sceglierci un posto da dove potessimo assistere alla scena senza essere visti, mi sentì afferrare per il braccio e quando stavo per gridare aiuto, vidi Alberto ammanettato e in pochi secondi anche noi finimmo in manette.
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Ultime notizie:
"Sgominata una banda di pericolosi criminali.
Arrestati i due coniugi che avevano commissionato il delitto del partner commissionato allo stesso killer. Un agente di polizia infiltrato arresta e salva la vita ai due, malati di gelosia.
Il poliziotto verrà proposto per una promozione".
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