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Indice:
La gara
PREFAZIONE
AMICIZIA ACCETTATA
IL CORTO DELLA PRIMA
COL SENNO DI POI...
MAGICO NATALE 2010
IN QUESTO LUOGO
NICOLA
IL RITRATTO DI DORIAN
PROPRIO CON UN FRANCESE…
IL BULLO CHE PIACE
SLIDING DOORS
STRANE COINCIDENZE
TUTTO INIZIA COSI'
PENSIERI PER M.
VOLARE ALTO
VITA DI UN COMMESSO …
IL NATALE DI ALICE
ESTATE
LA COSA PIU' BELLA E…
E' UNA VITA CHE TI A…
DUE OCCHI NERI
UN POMERIGGIO BIZZARRO
UN'ALTRA VITA
SENZA TITOLO
UN TESTIMONE
Sostieni la nostra p…
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Una produzione

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La gara

Gara 27
IO frammenti di autobiografie
GENNAIO 2012
antologia per BraviAutori.it
A cura di SER STEFANO
Copertina di Ser Stefano
Foto allegate a ogni racconto di: autori vari.
Si ringraziano gli Autori di questa antologia per la partecipazione.
Nota: l'antologia impiega l'editing degli autori.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia

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PREFAZIONE

Chi sono io? Perché scrivo? Cos'è uno scrittore? Com'è possibile definire chi scrive?
Impossibile rispondere a queste domande. Ognuno di noi ha la sua motivazione. Chi scrive le proprie paure, i desideri, le speranze, i sogni. Perché ha qualcosa da dire o per divertire, per amore o noia, perché glielo chiedono o perché non ha niente altro di meglio da fare. Così tante sfaccettature impossibili da raggruppare e definire.
Scrivere per me significa applicare sentimenti, emozioni ed esperienze, in un contesto più o meno immaginario. Una definizione sommaria, certo, ma che rende un po' l'idea.
Quante volte, dietro a un protagonista delle vostre storie, si cela una parte di voi stessi?
Quante volte dietro le azioni che compie, dietro a una sua frase, si nasconde quello che avreste detto o fatto voi in quella situazione?
Quindi basta invenzioni e fronzoli. Eliminiamo l'aspetto immaginario, tutto il contorno. Cosa resta?
Voi.
Ora è tempo che vi guardiate dentro, senza astronavi o serial killer, senza storie d'amore hollywoodiane o giri di parole. Raccontate voi stessi, ciò che vi è successo, un fatto, un ricordo. Qualsiasi cosa, purché sia vostra. Purché abbia contribuito a creare quello che siete oggi, che faccia parte del vostro 'IO'.
Questa è la sfida che ho lanciato. Ad alcuni è sembrata semplice, quasi banale. Per altri è stata più difficile del previsto. Il confronto con se stessi non colpisce tutti nel medesimo modo. Ma i Braviautori sono tali e non si sono sottratti alla mia insana sfida.
Nella solita bagarre di polemiche, di accuse e difese, di scaltri nani con il violino in mano, la Gara si è conclusa con la nomina del vincitore.
Il gradino più alto del podio va a Lodovico, con un triste ricordo di un amico, un racconto pacato e composto che non mancherà di toccarvi.
A una certa distanza, si è piazzato secondo Feffone che ci ha dimostrato come una spensierata serata in compagnia di amici possa tramutarsi in un inferno se ti dimentichi di avere una ragazza.
Terza Manuela che ci presenta una storia controversa e introspettiva in cui la tensione si può tagliare con un machete.
Tutti gli altri non hanno di certo sfigurato, ma lascio giudicare a voi.
Leggete e decidete chi di noi ha messo in mostra il miglior “IO”.
Ser Stefano


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AMICIZIA ACCETTATA

di Ardito Eufemismo


Potenzialità. Caso. Futuro. Questo lo affascinava.
La sua vita era un'eterna proiezione in avanti. Scoperte. Storie. Esperienze.
Si fermava quel minimo indispensabile per razionalizzare l'emozione. Ne coglieva l'essenza, ne faceva parola scritta. Lettere nere su sfondo di pixel bianchi. Un racconto prima di andare. Prima di andare ancora, senza voltarsi più.
Solo così riusciva a cogliere gli attimi di assoluto che erano vita. E la ricerca e l'attesa dell'ignoto. Senza mai dare nulla per scontato. Senza perdere pazienza, speranza, curiosità o entusiasmo. Ma sapeva rimanere coi piedi saldi in terra. Sapeva dosarsi. Sapeva stupirsi. Sapeva ringraziare per il dono della vita. Sapeva dilatare l'attimo. Enfatizzarlo. Per non perdere neppure una stilla di emozione.
Lo commuovevano l'intelligenza, la bontà ma anche l'orgoglio e il carattere. Odiava tutto ciò che era, a suo sentire, ottuso e limitante. O, antiteticamente, eccessivo ed eclatante. Aveva un sesto senso che raramente lo tradiva. Poteva sentire anche dietro un monitor?
L'idea. Verità o abbaglio? Cosa poteva affascinare uno scrittore più di questa domanda?
Scoprirne la risposta, qualunque essa fosse stata.
Girava nel mondo virtuale. Seduto alla scrivania, la mente percorreva strade fatte di indirizzi telematici, scrutava volti, immaginava storie, leggeva verità o millanterie.
In quel mondo di silicio sfavillante la vide. Lei era lì. Bellissima. L'aveva cercata in mille profili. Aveva scrutato migliaia di occhi, migliaia di tratti somatici e di espressioni. Di combinazioni fisiognomiche dovute a casualità genetiche. Ma non bastava. Non era solo l'ovale armonioso a incantarlo. Era la scintilla che albergava in quegli occhi di giada caramello. In quelle espressioni del viso e nelle smorfie deliziose della bocca. Nei capelli che pareva emanassero un profumo che superava persino la barriera elettronica. Era la forza di un carattere potente. Indomito. Trapelava dalla fonte ostentata con protervia. Nel naso deciso tanto affascinante. Dalla contraddizione tra fisico minuto e cervello evoluto.
Tuttavia egli era un disilluso e non credeva nelle favole. Lui era solo uno che sapeva riconoscere i capolavori della natura. Gli sarebbe bastato un fugace link dell'anima. Magari attraverso la telepatia di un pc. Doveva palesarsi. Era entusiasta e puro come un bambino. Non riusciva a nasconderlo. Ma era pronto al peggio. E non ne avrebbe fatto un dramma. Riempire le proprie aspettative di no per default era la sua tattica. Nessuno stupore o delusione se fosse successo.
E successe. Lei lasciò nel limbo la sua richiesta d'amicizia. Appesa così nel nulla. Lui insistette un po'. Stavolta ne valeva la pena. L'ultima cosa che voleva, però, era apparire ed essere importuno. Non lo era con le persone che detestava, poteva sopportare di esserlo con quelle che ammirava?
Poi lei gli scrisse. Gli espose le sue legittime perplessità su un agire pressante. Lui si sentì frainteso. Non voleva procurare fastidio o nocumento. Da quel momento evitò. Dimenticò.
Fino al giorno in cui, per uno strano caso del destino, la incontrò di persona a una presentazione letteraria. L'ascoltò parlare. Non era come l'aveva immaginata. A fine serata, era indeciso se andare a stringerle la mano e fare la conoscenza di persona o lasciar perdere. Aveva con sé, come sempre, una copia del libro comico che aveva pubblicato. Gli venne un'idea. Prese la stilografica e scrisse nella prima pagina: "Ad Alice, con la speranza di strapparle almeno un sorriso ma con la certezza di perdere per sempre la possibilità di essere accettato come amico. A."
Voleva essere una battuta. La stupida ironia del suo romanzo l'avrebbe ridicolizzato. E poi lei amava i noir.
La vide scappar via veloce dalla libreria e scendere nei sotterranei della metro. Lui la seguì. Salirono al volo sul treno deserto. Lei si sedette ignorandolo e aprì il notebook alla propria pagina del social network, forse per controllare la posta e le notifiche. Fu allora che Ardito prese il coraggio a due mani e, sfoderando il suo sorriso più solare, le parlò: — Alice buonasera, mi chiamo Ardito Eufemismo e sono stato alla presentazione del libro stasera. Complimenti. Lei è un'ottima giornalista di genere. Ha contribuito molto al successo di Voietti, l'attempato giallista.
Lei non disse nulla. Dove aveva già visto quella faccia? Non le ispirava simpatia. Ma sì! Era quel rompiballe che le aveva chiesto amicizia con insistenza. Non le era piaciuto sul pc, non le piaceva dal vivo.
Alice aprì la pagina del social network di Ardito. Ora lui era imbarazzato. — Non so se ricorda — disse titubando — tempo fa le chiesi, ehm, con un po' di insistenza l'amicizia su feisbuc.
Lei fu veloce come un fulmine. Dal soprabito beige estrasse l'amato "rasolu ammanicatu" un fedele conterraneo che teneva sempre con sé. Un gesto preciso. Più gesti precisi. La carotide di Ardito era aperta. Il plasma porpora zampillava a ritmo dei battiti cardiaci impazziti. L'uomo si inginocchiò incredulo.
Alice lo guardò fredda, poi, con la mano ancora sporca di sangue cliccò: AMICIZIA ACCETTATA.
Ardito si sveglia madido di sudore, poi sorride. Sa bene che ogni scrittore vive delle storie che si racconta.


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IL CORTO DELLA PRIMA COMUNIONE

di Skyla74

All’epoca era cicciotella.
Robusta, suggeriva mia mamma.
«Un visetto sodo come la luna piena» diceva mia nonna con soddisfazione, mentre mi saltava la scaloppina nel burro. Guanciotte fresche come rose che pizzicava con le dita. Che male.
I miei compagni di scuola non mi volevano nella squadra di pallavolo perché ero lenta a ricevere. E anche a correre, a saltare quindi il salto in lungo e i cento metri erano out. Anche la palla prigioniera mi era negata perché il mio sederone non schivava. Insomma, tutto tranne che lenta di comprendonio. Sinceramente, mi avrebbe aiutato a digerire quel nugolo di sottintesi.
Ad ogni modo...
Tra un mese si sarebbe celebrata la mia prima Comunione, mia e dei trecentodieci bambini della città, degna progenie del baby boom.
Un mese per cucire la tunica, scegliere il velo, fare le foto di rito e preparare il menù per gli ospiti di una bambina timida come un pulcino. E lenta. Imbronciata. Per farla apparire al meglio, questa luna pienotta.
Per primi vennero i parenti di Roma. Risalirono lo stivale con la Bianchina con un mese d’anticipo, stile matrimonio, e s’insediarono a casa di mia nonna.
Poi venne la tunica. Ne ho un ricordo confuso, la sarta che m’infilava il metro dappertutto per partorirne, un mese dopo dietro lauto compenso, un drappo lungo e informe come la veste di un chierichetto.
«Nutrire la vanità dei bambini è peccato» spiegò mia mamma alla zia di Roma, seduta al posto passeggero della 127 mentre la tunica avvolta nel cellophane dondolava agganciata al corrimano.
«E poi te la immagini una gonna a campana su una nanerottola dal fisico “importante”?» Era la traduzione della mia sorellina che mi sghignazzava di fianco. Povera. Ancora non sapeva della vendetta genetica che le sarebbe toccata di lì a due anni, tunica deforme compresa. Mia zia a quel punto abbassò il finestrino e fu un gran sventolio di plastiche, ma avrebbero potuto benissimo essere penne, visto come ci accapigliavamo sul sedile posteriore. Roba da Missione Tata. Credo sia stato in quel momento che mia zia decise di non avere figli.
Mamma accostò in una stradina laterale della chiesa, giusto davanti allo studio del fotografo. La scuola di danza che avevo frequentato era di là della strada, in attesa che finissi le lezioni sospese due anni prima, quando a causa dell’altezza mi avevano declassata da cigno a soldato nel “Lago dei Cigni”. Mi ero dovuta accontentare di un tutù corto e una breve entrata d’intermezzo assieme alle bambine del primo anno, mentre una ragazzina snella mi soffiava il posto sotto i riflettori del saggio di danza, i genitori che lacrimavano per l’emozione. Non mi sono mai ripresa.
Ancora non sapevo che la vera sfida per una donna non è una maestra di danza, per quanto perfida e ossuta. La vera sfida è… l’obiettivo.
Cominciammo in maniera soft. Mamma m’infilò la tunica e il velo, uno sforzo erculeo che la obbligò a ripetere diversi passaggi. La zia di Roma sedeva con in braccio mia sorella, affranta. Il fotografo spostò un inginocchiatoio e mi fece accomodare.
Mi ordinò di fare un’espressione pia. Giunsi le mani sul finto inginocchiatoio e diventai rossa come un gambero. Click. Sguardo rosso da rana. Click! Click!
Il fotografo cominciò a innervosirsi. «Alzati! Guardami! No, guarda tua sorella. Reggi il rosario (neanche stessi per farmi monaca). Il Vangelo, la Bibbia. Togliamo il velo che magari viene più magra? Di profilo a tre quarti, mezzo busto, primo piano. Forse mettendo delle rose a farle da filtro...» Il fotografo crollò. Consiglio di guerra tra mamma e zia. Scorsero le foto atterrite, mentre io soffocavo dal caldo nella tunica. Erano così sconvolte da non riuscire a decidere. L’avrebbe fatto la nonna paterna, quella sera stessa. L’unica foto in primo piano in cui non abbasso lo sguardo o assumo un’aria babbea. Me la impressi per bene in mente, mi sarebbe servita negli anni come stimolo per dimagrire, mentre scrivevo sul retro una frase di ringraziamento destinata alle bomboniere, in bella calligrafia e senza errori. Mi tremava la mano al pensiero di tutti i soldi che se ne sarebbero andati in fumo se solo avessi commesso uno sbaglio, se la penna avesse sbavato.
Il giorno della Comunione arrivò ed eccoci a cerimonia finita. Trecento bambini in piedi sui gradoni della chiesa per le foto di rito. No, non andò come il giorno della Cresima in cui mi afflosciai mollemente sulle gambe per far ridacchiare la mia migliore amica. Il fotografo scattò giusto in quel momento eternando una strana nana deforme in compagnia di un soldato russo, per contrasto rigido come una scopa. La mia amica non mi parlò per giorni. No, il giorno della mia prima Comunione feci la brava, anche se mi si nota a malapena, nascosta dietro al simil-abito da sposa di una compagna di scuola, una campana di merletti con tanto di parasole.
Il rinfresco in casa fu un allegro marasma di ragazzini che si arrampicavano dappertutto, perfino sulla cuccia del cane. Io ero la festeggiata, quindi dovevo stare al gioco. Li redarguivo come una mammina, portavo in salvo il mio cane dalle pallonate. Ricevevo regali e dispensavo baci e ringraziamenti che mi avvampavano fino alla radice dei capelli. Mia zia riprendeva il tutto con una titanica telecamera, un nastro antico dove ci muoviamo a scatti come burattini, una pellicola che nessun apparecchio è più in grado di riprodurre.
Tolta la tunica, restai nel mio abito rosa confetto, i cappelli raccolti in alto come il ciuffetto di uno Yorkshire. Imbronciato.
Imbronciata durante le foto coi cugini, imbronciata a tavola dove per noia mi infilo una forchetta su per il naso. Click.
Essere festeggiati, per un timido, è come essere messi alla gogna. I miei lo sapevano e non se la prendevano a male. Cercavano, per così dire, di scacciare il trauma con un altro trauma. E poi c’era sempre la Cresima.


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COL SENNO DI POI...

di Nathan

Correva l’anno millenovecentoblabla. All’epoca ero poco più di un bambino. Un bambino vero, mica come quelli di oggi. I pomeriggi li trascorrevo nell’unico modo divertente che conoscevo, ovvero fare il pirla in bicicletta. Non c'erano videogame e internet, e non so se è stato un ben o un male. Perché sia ben chiaro una cosa. I bambini di oggi, come quelli di allora, sono una manica di citrulli. E’ che oggi, davanti al PC, è difficile rischiare la vita. Ai miei tempi se non tornavi a casa mezzo sbrandellato non eri un bambino. Non passava giorno della mia vita che non potevo fregiarmi di una bella nuova cicatrice fiammante. Più ne avevi e più eri ‘temerario’.
Non che facessimo a gara a chi fosse più martoriato, ma quando hai 6 anni e una bicicletta sotto il culo pensi di poter essere quasi invincibile. Col senno di poi...
E così via, con la Saltafoss in giro per le strade e per i prati, nel tentativo di volare come un razzo missile! Quattro disgraziati a seminar terrore per le vie del paese.
Ma il paese non basta a regalar emozioni, quindi spingiamoci oltre! Nella zona vietata, nella periferia di paese. Per la cronaca, tra la periferia e il centro la differenza era il marciapiede. Proprio sui confini del paesello una stradina secondaria portava a fondo valle. Di solito la ignoravamo allegramente visto che non portava da nessuna parte, ma quel giorno no. Quel giorno era speciale.
Era il giorno in cui avremmo sfidato il destino e saremmo entrati nella storia. Dopo infinite ore di discussioni, era finalmente giunto un accordo tra le parti e avevamo deciso cosa fare durante quel caldo pomeriggio estivo.
Ecco più o meno cosa ci siamo detti prima di iniziare l’ennesima follia.
“Cosa facciamo oggi?”
“Facciamo la Sette Curve.”
“Ok, andiamo. Chi arriva ultimo mi bacia le chiappe.”
Fine del dibattito, già durato fin troppo.
Dopo però ci trovavamo davvero davanti alla Sette Curve, ovvero la discesa più pericolosa del mondo. Lunga poco più di 500 metri con una pendenza del 1000%, una stradina larga un paio di metri che precipita a fondo valle non prima di compiere ben sette curve. In realtà chiamarle curve è riduttivo, sono tornati veri e propri. Se lo avessi saputo allora…non sarebbe cambiato nulla. Non so cos’è un tornante adesso, figuriamoci quando avevo sei anni. E poi Sette Curve suona meglio.
Ci mettiamo uno di fianco all’altro (in fila indiana? State scherzando? L’ultimo parte in svantaggio no?) e VIAAAA!
Da 0 a 40Km/h in mezzo secondo. Solo se mi buttavo di sotto facevo prima. Alla prima curva Giò pianta un’inchiodata che per poco non lo investo, ma passiamo tutti. Subito dopo altro tornante, che passiamo indenni. Via di rettilineo e si spara ancora oltre i 40 all’ora. In fondo la curva tre, ed io sono terzo. Il Giò inchioda ancora, ma questa volta dietro di lui non ci sono io con in miei riflessi da gatto, c’è lo Ste che del gatto ha solo la panza. Lo investe come un bilico sulla ruota posteriore poi finisce nella riva. Il Giò sparisce dentro un cespuglio di more. Non vi dico che spettacolo. Lo schivo per sbaglio e sto ciula mi fa perdere tempo, così il Davide mi supera in scioltezza. Sono ultimo e ci do dentro con i pedali. Con Giò e Ste fuori gara alla fine sono secondo e potrebbe andarmi anche bene. Ma quando vedo che Davide fa la terza curva a 2 allora, punto al posto più alto del podio. Mi accodo alla ruota posteriore, sfrutto la scia (che manco sapevo esistesse) e poi all’uscita VAI COL TURBOOOO (adoravo Supercar, voi no?).
Ultima discesa, la più ripida, il contachilometri della Mulino Bianco continua a salire. 40-50-60-63!
Quando decido che è meglio guardare la strada è troppo tardi. La curva sei è lì ad aspettarmi e quando blocco il freno posteriore non faccio altro che sgommare inutilmente sull’asfalto. Venti metri dopo decollo come Kitt nel bosco, e pure senza il turbo. Non vi dico che legnata. Sono tornato a casa due ore dopo insieme agli altri. Non ha vinto nessuno, perché il Davide, anima pia, si è fermato a raccattare me e gli altri morti. Però avevamo tante di quelle cicatrici che eravamo i più temerari di tutti i paesi confinanti! Avevamo sfidato la SETTE CURVE! Cosa che non rifarò MAI PIU’ NELLA VITA. GIURO! E’ stata una pazzia da bambini. Ora con il senno di poi…
Dlindon
Scusate il campanello.
“Ciao Ste, a… ci sei anche tu Giò.”
“Si, sta arrivando anche il Davide, ma in macchina va a 2 allora…”
“Cosa facciamo oggi?”
“Facciamo la 7 curve.”
“Ok, andiamo. Chi arriva ultimo mi bacia le chiappe.”


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MAGICO NATALE 2010

di Feffone

Ci siamo finalmente.
Come a ogni inverno, puntuale, è arrivata la vigilia di Natale.
Per la prima volta, dall’inizio dell’anno, sono indeciso su come vestirmi, impiego quasi due minuti a scegliere l’abbigliamento adatto. Non c’ho mai messo così tanto, probabilmente sto invecchiando. Inizio persino a pettinarmi.
Ma cosa mi sta succedendo?
Ecco, ora sono tutto bello e profumato, però c’è qualcosa che manca. Per qualche minuto resto davanti allo specchio con l’orribile sensazione di essermi scordato qualcosa, poi mi do uno schiaffo in testa.
«Ma certo, i baffi.»
Come ogni anno, abbiamo deciso una cosa eccentrica da fare, un bel paio di baffoni vecchia maniera questa volta.
Prendo in mano la lametta e inizio a lavorarci su, i miei saranno il miglior paio di baffi della serata. È una questione di principio. Non è che io e i miei parenti abbiamo strane abitudini, infatti non è in previsione della cena con nonni e zie che mi sto preparando. Dopo la pantagruelica mangiata della vigilia, mi leverò di torno e me ne andrò al Ragtime Pub. L’unico locale decente a Chiaravalle.
Beh, tanto decente magari non è, però questo è uno dei rarissimi casi in cui rivedo tutti gli amici che sono in giro per l’Italia a causa del lavoro o per lo studio, persino quelli che sono rimasti nei paraggi non li vedo più molto spesso. Succede, crescendo.
Vi assicuro che non c’è niente di meglio di qualche litrozzo di “bionda”, qualche altro di “scura” per rinsaldare un’amicizia accantonata da un po’ di tempo.
Quest’anno c’è anche una “new entry”.
Dopo tante storie senza la minima importanza, il vecchio Feffone si è fatto la ragazza (E si, mi sa proprio che sto invecchiando). Anzi, è da lei che dormirò stanotte, grazie ai genitori che se ne sono partiti per una vacanza a Dubai. Bene, se ne stiano pure negli Emirati, io me ne starò a letto con la mia bella.
Ormai siamo arrivati al dolce, mi sento pieno da scoppiare quando do un’occhiata distratta al cellulare. Le 23:30.
Quasi salto sulla sedia, avrei dovuto essere già la. È tardissimo.
Fingendo un’improbabile nonchalance, saluto i parenti e afferro le chiavi dell’auto. «Buon Natale a tutti, io e i miei baffi ce ne andiamo.»
Risate e saluti mi accompagnano mentre chiudo la porta. Nella fretta ho anche scordato le chiavi di casa, pazienza, tanto stanotte non mi serviranno. Entro nella mia Focus e accendo il motore. Destinazione Ragtime.
No, destinazione casa di Selly, devo prima passare a prenderla. Cazzo, sono già in ritardo.
Per fortuna il destino ha voluto che la mia bella abitasse a un paio di chilometri dal sottoscritto, in un lampo sono da lei, citofono, mi apre senza neanche chiedere chi è, salgo le scale sorridendo, apre la porta e il mio sorriso scema di un buon ottanta per cento.
È furente.
Merda, è vero, Selly ha staccato dal lavoro solo una mezzoretta prima.
Brutto mestiere quello dell’infermiera di pronto soccorso durante le feste, quella giornata poi deve essere stata parecchio stressante, glielo leggo negli occhi.
Intendiamoci, di solito è una ragazza fantastica, ma quando c’è di mezzo una brutta giornata di lavoro…
«Ciao amore.» tento di ricostruire il sorriso andato perduto e contemporaneamente le do un bacio. Magari con un po’ di tenerezza me la cavo.
«Con quei baffi sei ridicolo.»
Non me la cavo. Rido cercando di trasformare quel commento sprezzante in una battuta. Lei fa finta di niente e ricambia il bacio. Meglio di niente.
«Allora, vogliamo andare? Tra poco è mezzanotte.»
«Ma guarda come sono messa. Dove diavolo vuoi che andiamo? Sembro una strega e non ho neanche cenato.»
Mi passo una mano tra i capelli fingendo noncuranza, il momento è delicatissimo e servirà tutta la mia abilità per districarmi nella matassa in cui rischio di tuffarmi.
«Sei bellissima tesoro, mangerai là. Ti giuro che fanno delle piadine buonissime.»
«Si, le piadine. Ma non vedi come mi sono ingrassata da quando stiamo insieme?»
La bacio, quello è il momento della verità.
«Non mi sembri ingrassata, sei più bella che mai. Però, se vuoi, ce ne restiamo a casa a guardarci un film.» Il cuore mi si ferma, sono perfettamente conscio del rischio altissimo che sto correndo. Mentre lei mi guarda pensierosa, una goccia di sudore fa capolino dalla tempia.
«No dai, lo so che per te è importante. Mi metto il cappotto e andiamo. Anzi, visto che di sicuro ti ubriacherai, la macchina la prendo io.» Le scappa persino un sorriso.
Grazie Dio.
Mancano una manciata di secondi allo scoccare della mezzanotte quando facciamo la nostra comparsa. Siamo ultimi, ma ce l’abbiamo fatta.
«Roberto, un litro di Pilsner.» non ho voglia di perdere tempo.
Faccio gli auguri ai miei amici e mi metto seduto vicino a loro con la birra in mano, mentre Selly si avvicina alle loro ragazze.
La compagine di uomini baffuti mi attende ansiosa, è il momento dei regali.
Ogni anno facciamo il regalo più stupido possibile, poi estraiamo a sorte la persona che lo riceverà.
Io mi becco uno scatolone pieno di chiodi nuovi di zecca che, tutti assieme, pesano una mezza tonnellata. Il mio dono invece è uno splendido diorama, fatto da me, con due persone che fanno sesso.
Tra risate e battutacce la birra scorre a fiumi.
E Selly?
Chi è Selly?
Mi ricordo di avere una ragazza quando la vedo uscire incazzata dal locale, la seguo sentendomi uno stronzo. In due ore non le ho rivolto mai la parola.
«Amore scusa.» le faccio una volta raggiunta, con qualche difficoltà visto il tasso di alcolemia alle stelle.
«Vaffanculo.» mi risponde dandomi uno spintone.
Senza aggiungere altro si accende una sigaretta e sale in macchina.
Parte. E io?
Non ho più tanta voglia di scherzare: saluto i miei amici, prendo lo scatolone, pago il conto anche per lei e me ne torno a casa.
Non mi ricordo dove ho parcheggiato, poi ci penso su.
Bestemmia galattica. È a casa di Selly, una passeggiata lunga cinque chilometri.
Cammino barcollando a causa dell’alcool e della scatola di fottutissimi chiodi.
Distrutto, entro dentro l’abitacolo. Sono quasi le cinque del mattino ormai e la sbornia non è più a un punto critico. Accendo il motore e vado a casa.
Appena arrivato cerco le chiavi per aprire il portone.
Le chiavi?
Cazzo.
Faccio un rapido calcolo mentale. Se suono il campanello a quest’ora, in queste condizioni, mio padre mi ammazza di sicuro, mentre mamma lo incita a colpire ai testicoli.
Esco sconsolato dal porticato.
«Buon Natale.» mormoro chiudendo gli occhi, sdraiato sul sedile posteriore della mia Focus.


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IN QUESTO LUOGO

di Mariadele

C’è un luogo in cui vivo.
Un posto surreale o, per meglio dire, un surrogato della realtà.
In questo luogo vivo, non esisto, vivo solamente, poiché vivere è l’unica ragione d’essere, qui.
Per una come me, che non esiste, va bene così. Non sogno altro, non mi servirebbe altro, comunque. Vivo e ciò mi basta. Deve bastare.
Mi alzo la mattina, tardi, tanto il tempo mi appartiene qui.
Il tempo è un bene comune, apparentemente personale, realmente condivisibile con altri esseri o cose, e veramente condivisibile solo con se stessi. Perciò in questo posto il tempo appartiene solo a me. Non ho nessuno con cui condividerlo, veramente.
Ecco perché mi alzo la mattina, tardi, e sto alzata fino alla notte, tardi.
Tardi è un termine ambiguo, arbitrario anche, senz’altro soggettivo. Per questo lo uso, così coloro che lo leggeranno potranno dargli il significato che vorranno.
Sembrerebbe piuttosto ovvio il suo significato, ma in questo luogo non lo è.
Dire: “mi alzo tardi”, non specificando affatto da cosa o da dove, implica un non chiaro significato del vocabolo tardi.
In qualsiasi caso, il tempo mi aspetta. In questo posto insolito, il tempo si ferma, riparte, rallenta, accelera, seguendo i miei ritmi di alzata.
Non è male vivere qui, dopotutto. Certo difficile è abituarsi, ma una volta assuefatto il corpo, regolarizzato il respiro, non si sta male. Posso persino trovare piacere, ricercandolo. Un piacere doloroso, ma pur sempre di piacere si tratta.
Anche il piacere è dubbio, piuttosto crudele, ma decisamente oggettivo.
Non mi appartiene. È un piacere che zampilla e si diffonde tutto intorno a me, ma non dentro me. Piacere è un termine oscuro e pericoloso, effimero, e coloro che lo leggeranno, seppure proveranno ad immaginarlo o a provarlo, non riusciranno mai a coglierlo. È per questo che credo sia inutile e inopportuno usare tale termine.
In un mondo dove vivere è condizione prioritaria, il piacere, che è inevitabilmente condivisibile, non mi appartiene e mai mi apparterrà.
A volte, quando mi alzo, tardi che sia, mi sembra che sia troppo presto. È solo un’impressione, lo so, ma è talmente forte la sensazione, che respiro l’attimo come se dovesse durare all’infinito. In quel momento resto sospeso, in apnea, tra il tardi e il presto.
Desidero che quell’attimo duri in eterno. Un lungo interminabile istante di desiderio.
Il desiderio è vivo ed è un termine soggettivo e incontestabilmente mio.
Occupa tutto il mio corpo, prepotentemente. Mi appartiene completamente, e vorrei condividerlo veramente, se solo potessi.
Ho l’impressione di essermi smarrito tra le mie stesse parole, entro queste rappresentazioni grafiche dei miei pensieri, o perlomeno, sforzi grafici di rappresentazione dei miei pensieri.
Il punto è che scrivere ciò che si pensa senza costruirci intorno una storia con premessa, svolgimento e conclusione, con una sicura trama, ambientata in una località ben definita, realmente credibile, è sempre un po’ temerario.
Temerario. Anche questo termine è piuttosto vago.
C’è chi lo usa per coraggioso, chi per imprudente, ma qui esso ha un significato preciso: folle! Folle è chi vive e basta, e dove meglio potrebbe risiedere un folle se non in questo luogo? Dove vivere è l’unico scopo, l’unico compito, l’unica meta.
In questo surrogato di realtà non conta altro. Né come, né perché, né con chi. Nessuno che ti chiede spiegazioni, resoconti, chiarimenti, scuse. Si deve solo continuare, importante è farlo, e ciò basta.
Ecco perché io mi trattengo qui, per alzarmi tardi, e per rimanere alzato fino a tardi, poiché per me è ciò che conta. Tardi. Né prima, né dopo, ma tardi.
In questo luogo vivo ed è qui che desidero vivere, ché di esistere non ho voglia.
La voglia non ha nulla a che fare con il desiderio, seppure molti confondono i due termini.
La voglia non mi appartiene, è una sensazione malsana, non adatta a chi vive e basta.
La voglia è oggettiva ed è più adatta a coloro che esistono, altrove nella realtà, non in tale spazio. Volere è inopportuno, sconveniente, visto che è un modo di esistere, e anche piuttosto doloroso, e chiunque provi ad avere voglia, vorrà per sempre, e per sempre rimarrà inappagato.
La voglia è sosia del piacere, diffusa e profusa tutta intorno a me, ma non dentro me.
Se io ardessi, arderei dal desiderio non certo dalla voglia! Posto che io arda. Non lo so, se ardo!
Ardere mi appartiene certamente, ma sono ancora capace di ardere? Oppure: sono mai stato capace di ardere? Me lo chiedo continuamente, perché ne ho un vago ricordo. Ma il ricordo stona qui, stecca, come un vecchio pianoforte abbandonato da anni alla polvere e alle abili zampe del ragno, stride con la natura di questo universo. Il ricordo implica un’esistenza, ma, come ho già detto, non esisto, vivo e basta.
Io ricordo! Vagamente! Io ho viaggiato. Ho percorso strade. Ho imboccato vie e ho incrociato cammini. Ho svoltato angoli e ho cambiato tragitti. Ho preso treni, ho perso treni. Sono esistito. Poi? Sono partito e sono tornato volontariamente, oppure sono approdato casualmente, non ha molta importanza in effetti, nel mio universo. Esistere era troppo impegnativo, un continuo e doloroso sforzo all’esistenza. Volevo solamente vivere ed ho scelto dove. Credo.
Ciò che conta è che in questo luogo il tempo mi appartiene. Finalmente. Veramente.


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NICOLA

di Lodovico

La spiaggia non è nemmeno troppo assolata. Il castello, costruito sotto l'ombrellone, sta ridiventando un piccolo cumulo di sabbia. Afferro la biglia in plastica, trasparente da un solo lato e, con un movimento deciso delle dita, la lancio nella pista scavata ai piedi della sdraio. Ride, Nicola, con le calzine ai piedi e seduto sul lettino. Non tocca la sabbia, non gli piace. E non si riesce a convincerlo.
Anni dopo.
Si è sempre giocato a carte a casa mia d'estate. Gli amici milanesi di mio nonno si piazzano sulla lobbia, su un tavolo di vimini che nasconde un tappeto verde in velluto da vera bisca. Il poker e la scopa, però, sono per i grandi, né io né Nicola possiamo partecipare. Ci piace guardare e poi a un certo punto il Mariolino tira sempre fuori le carte da mercante in fiera, allora sì che possiamo divertirci. Lo zio Emilio poi ci fa dei giochi di prestigio e noi non riusciamo mai a capire il trucco. Forse ci riusciremo quando saremo più grandi.
Anni dopo.
La domenica si preannuncia noiosa. Niente amici, niente alla tv e nemmeno compiti. Dalla finestra della mia stanza vedo la strada sterrata che entra nel mio giardino. Speriamo arrivino i miei cugini. Con Nicola e Daniele ci inventiamo persino dei personaggi fatti con le mani e li facciamo parlare tra loro e inventiamo storie che mio Zio dice che sono stupide, ma a me piacciono.
Anni dopo.
Un computer? Figuriamoci, sarà una calcolatrice o un gioco. Ho visto i computer, occupano una parete intera e costano come automobili. Figurati se lo Zio può regalare a Nicola un computer.
Mesi dopo.
Con lo ZX81 abbiamo scritto un programma per disegnare una funzione sullo schermo, la grafica non è granché ma è stato molto divertente. Ora dobbiamo fare un gioco. E per Natale il computer lo voglio anch'io.
Anni dopo.
"Che secchione". Il pensiero mi assale mentre il cambio della Renault fa fatica a passare dalla terza alla quarta. Nicola, sul sedile del passeggero, distribuisce, come al solito, in modo molto parco le parole. Anch'io non sono un chiacchierone. Certo che è proprio bravo, sessanta sessantesimi alla maturità, tre anni prima per raggiungere i quarantotto avevo avuto una gran fortuna. Diventerà uno studioso, secondo me. Se gli scienziati sono distratti lui lo è, eccome! Mi ricordo quando lo Zio, montando un tavolo, gli disse "vieni qui con una gamba" e lui si avvicinò balzelloni sulla destra.
Anni dopo.
Il tunnel è enorme, Camion e macchine ci passano senza problemi. Nicola estrae il pass e lo porge alla guardia.
— Buonasera dottor Ferrari.
— Buonasera questo è mio cugino, è venuto a visitare i laboratori.
— Certo, passate pure.
L'automobile elettrica si avvicina a un silos gigantesco.
— Questo è Gallio allo stato liquido, fa parte dell'esperimento detto "Gallex". I neutrini interagendo con un atomo della sostanza possono trasformarlo in Germanio che è un elemento instabile e decade con semivita di…
Com'è diverso mio cugino quando parla del suo lavoro, tanto è taciturno e indifferente quando si chiacchiera del più e del meno, tanto è loquace quando si parla degli esperimenti del Gran Sasso e di fisica.
Il giorno dopo.
Osservo mia moglie che addenta gli arrosticini con avidità. Il ristorante di Assergi è decisamente rustico, ma in quella zona vivono pastori e fisici, due generi umani che rifuggono il lusso come il diavolo. A me la carne di agnello piace poco, ma i piatti tipici vanno assaggiati. Li consumo con poco entusiasmo cercando di non farlo notare.
— Lodo, Dovremmo fare in modo che tua mamma e mio papà tornino a parlarsi, è stupido che tra fratelli si litighi in questo modo.
Nicola ha ragione, non vale la pena per un motivo futile di non vedersi più nemmeno a Natale, quando tornerò a casa ne parlerò a mia mamma.
Un anno e mezzo dopo.
Sono sazio e pure un po' brillo. Durante le feste si esagera sempre con il cibo e lo spumante. Il mio salotto è strapieno di gente. Mio figlio gioca a Guitar Hero riempiendo la stanza di suoni distorti. Gli altri due stanno ancora spacchettando regali. Daniele suona la chitarra vicino al presepe. Nicola finge di ascoltarlo con interesse ma so che sta viaggiando con la mente alla velocità dei neutrini che studia. Lo fotografo con la mia digitale nuova. Non so ancora che sarà l'ultima foto.
Otto mesi dopo.
Il cucchiaio di legno mi cade dalle mani. Non per caso, l'ho lanciato con tutta la forza che mi è rimasta dopo aver pianto. Ho ancora nelle orecchie la voce di mia moglie, Poche parole "Nicola" "morto" "incidente" "montagna" Quella sua dannata passione. Camminava sui sentieri come un camoscio, impossibile tenere il suo passo. E ora tra i camosci aveva trovato un crepaccio che lo aveva voluto inghiottire.
Il giorno dopo.
In Svizzera è giorno di festa nazionale, la cittadina sembra ancora più tetra e solitaria. Un poliziotto ci accoglie seduto sulla sua moto all'entrata del paese e in un italiano stentato ci invita a seguirlo. La Zia fissa il vuoto dal finestrino. Non piange, ma i suoi occhi sono senza vita. Lo Zio, ostentando forza d'animo, guida la macchina tra le ordinate stradine. Vorrei essere altrove. Dovunque, ma non lì.
Un'ora dopo.
Il freddo della pelle è la cosa che mi colpisce di più dei morti. Sembrano dormire ma quando si avvicina la mano al viso si avverte quel gelo che ti entra dentro fino al cuore. Non ti voglio toccare, Nicola, perdonami.


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IL RITRATTO DI DORIAN

di StillederNacht

Da anni non ho notizie di lui. Nel fuggire da Londra ha dimenticato due libri sgualciti e scribacchiati: una raccolta di poesie "Opere Poetiche" di Guillame Apollinaire e "Il ritratto di Dorian Gray" di Wilde. Oggi ho riordinato la mia stanza e li ho ritrovati. Chiamerò il mio amico Dorian per non ledere la sua persona.
È l´alba di una primavera morta. Dorian, un dandy squattrinato, prima di introdursi nel piacevole Lete di un club di Londra, ode alcuni uccelli cantare con musicalità melanconica, quasi eseguissero un "Nocturne" di Erik Satie. Dorian respira l´aria schiava e gentile che si concede al respiro. Possiede ancora un diritto vitale su di lei, questa donna gentile che a tutti si concede senza tante pretese. Nel club le casse vibrano simili a una miriade di tamburi funebri e petali di luce artificiosa sommergono la percezione dello spazio sino a ridurre il corpo e il suo frutto percepito ad un brandello galleggiante in un fluido gelatinoso. Insieme ad altri brandelli umani dal colore vario, coriandoli, si danza musica dal suono immemorabile. Ballando Dorian offusca il ricordo di un addio ricevuto due albori fa.
<<< E tu bevi quest'alcool bruciante come la tua vita
La tua vita che bevi come acquavite >>>
Ubriaco Dorian scruta il proprio corpo distante dalla vita, fattizio come neve plastica in un ampolla natalizia. Gli amici di Dorian escono e lui li segue felice di avere qualcuno attorno che sappia il suo nome, nonché di seguire uno scopo altrui senza il peso delle proprie decisioni. Quel peso che assale ogniqualvolta qualcosa finisce, dilaniandoci con il fuoco riflessivo del "perché". Fuori nell'aria fresca e pungente un vagabondo cencioso urla per le strade una canzone spagnola lanciando un´occhiata pregna di mestizia su Dorian che ne rimane singolarmente colpito.
<<< Una sera di mezza nebbia a Londra
Un vagabondo che somigliava
Al mio amore mi venne incontro
E lo sguardo che mi lanciò
Mi fece abbassare gli occhi per la vergogna. >>>
Entrano in una discoteca d´avanguardia. Aria greve di calca e sudore. Nelle Toilette orgie senzanome avvengono inframmezzate dal tiro acuto di narici e sospiri bestiali. Un ordinario tugorio di sangue, sperma e droga. Dorian si dirige al centro della pista da ballo, ove un pannello bianco soverchia tutta la sala e luci allucinogine vi corrono come saette infernali sulla superficie. Rossodevastazione, arancionepazzia, rosaporno, fiori blunotte, quadrati compaiono e scompaiono; un arcobaleno dai mille colori affiora talvolta.
"Giulia attende Dorian nei sobborghi romantici e delicati di Londra, ove turisti e aguzzini non si inoltrano per non disturbare gli innamorati. Si sono dati appuntamento. Il vino nero della notte defluisce su ogni cosa fuorché sul viso di Giulia rischiarato dalla luce tenue di un lampione.
Dorian con passo innamorato le si avvicina felice di vederla sorridere, felice e ebbro di essere lui il pensiero esistenziale di Giulia.
I due visi si osservano, i corpi si sfiorano e traboccano dell'assoluto. Le labbra si congiungon..." Il sogno si interrompe. I sogni possono essere limitati solo dai sogni. Un sapore acre accompagna le giornate di Dorian dal giorno in cui Giulia ... Un addio assurdo, una sinfonia abbandonata a metà.
Dalla postazione del DJ intravede un uomo innalzato sopra tutte le teste; ondeggia con le cuffie e scaglia saette di suoni. Pare si senta come Zeus all'inferno in quell'istante.
Dorian piano piano arranca verso i divanetti in pelle disposti ai lati. Giovani dagli occhi vitrei e fatui lo guardano o guardano la moltitudine danzante della pista.
Oscurità e lampi di luce elettrica percorrono lo spazio a tempo di musica. Nella penombra di un divanetto una ragazza si sfrega contro il corpo libidinoso di un uomo.
Oscurità si insinua nell'aria: nulla è distinguibile. Malgrado la musica Dorian sente il gemito soffocato dell'uomo e della donna uniti. La fragranza sottile del profumo della donna.
Luce.

I capelli ondulati e le parvenze della ragazza trasudano di un ricordo intimo e velato, cosicché Dorian la osserva con sguardo penetrante alla ricerca di particolari.
Buio. La urla della folla infervorata empiono il locale. Un nuovo brano dalla cassa martellante. Luce.
Gli orecchini di legno, il naso grazioso, il neo dietro all'orecchio destro. Alcuni frammenti che Dorian riesce a intravedere fra gli scatti crudeli di luce automatica.
Buio angosciante.
<Giulia?> Proferisce Dorian alienato quasi urlando o forse sussurrando.
Luce accecante.
I due sul divanetto continuano avvinghiati, schiavi dell´istinto.
Oblio.
<Giul ... ?>
I due continuano a divorarsi ignari o forse consci e eccitati della presenza di Dorian.
Un inferno di baci non suoi.
Dalle viscere di Dorian un terrore indicibile si fa largo; il pennello della fatalità traccia le sue linee avvelenate, indelebili nella memoria di Dorian. Solamente ora Dorian pare conscio dello squallore della terra. Omicidi familiari, malattie incurabili, la strage delle torri gemelle: mere notizie immerse nella storia sterile. Incredulo Dorian maledice il giorno in cui l´amore con i suoi floridi profumi ha inebriato i suoi pensieri. Il meccanico tintinnio del tempo, tutto si cristallizza e si frantuma in cocci infingardi. Dorian rifugge dal club, senza immischiarsi in una rissa o in scenate volgari, senza salutare gli amici. Nauseato e inerme si addormenta sotto le coperte con i pugni chiusi e stretti dal rancore. Il primo amore, il ritratto di Dorian Gray, la bellezza delle linee e dei colori atemporali in un sorriso femminile. Il ritratto che lo preservava dall´avizzire, trasfigurato per sempre.
Ieri casualmente in un jazzbar ho incontrato Henry, l´amico in comune fra me e Dorian, inseparabile amico di intrighi nelle vecchie serate nei clubs di Londra.Stava insieme alla ragazza di Dorian.
Durante la leziosa conversazione non osai guardare i suoi occhi sporchi e scavati, il suo sorriso eccessivo e ambivalente e quel modo lascivo con cui la sua mano pendeva dalle candide spalle di Giulia, come ad indicare un possesso noncurante, un amore frivolo e triviale. L´insostenibile leggerezza dell´essere di quei due era truce e nauseante proprio come quell´alba morta al club. Ma Dorian è fuggito altrove, lasciandomi il mero corpo. Io ho distrutto quel quadro malsano. Io e lui non siamo gli stessi…
<<< Se n´è andata l´amante
Al villaggio vicino malgrado la pioggia
Senza il suo amante se n´è andata l´amante
Per ballare con un altro che non è lui
Les femmes mentent mentent [Le donne mentono mentono] >>>


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PROPRIO CON UN FRANCESE DOVEVO CORRERE?

di Tania Maffei

Le idee gli si confondevano mentre guardava l'orologio.
Fuori la neve scendeva lenta, più in alto sarebbe stato l'inferno.
Il Direttore di gara fra poco avrebbe mostrato la mano aperta con le cinque dita. Poi, con un dito in meno alla volta, avrebbe scandito gli ultimi cinque secondi fino al segnale di partenza: uno schiaffo secco sul tetto della vettura.
“Dimmi tu, correre la frazione decisiva del Rally di Montecarlo, al volante di un'auto italiana, in lotta contro una marca francese e con un navigatore francese. Correre i Rally è come per il matrimonio: pilota e navigatore sono uniti per la vita, fino a che morte non li separi.”
Cinque dita.
“Sei costretto a convivere in pochi metri quadrati, se non c'è intesa diventa una tortura.”
Quattro dita, nevica di più.
“Mi guardi lurido bastardo. Devi aiutarmi a vincere il Rally di Montecarlo.”
Tre dita, manca poco.
“Ho provato a dirgli ‘Abbiamo cambiato i fari, li abbiamo montati gialli come le auto francesi così nella notte quei simpaticoni dei tuoi connazionali non possono buttarci montagne di neve mentre passiamo noi’. Già, come quella notte, tre anni fa, quando abbiamo avuto l'incidente in cui io ci ho rimesso l'orecchio e Gianni la vita…”
Due dita e tanta neve.
“E al posto di Gianni mi hanno dato te, con la tua aria saccente, le tue note precise e la tua stramaledetta erre moscia.”
Solo l'indice.
“Tensione, adrenalina. Un colpo secco, giù il gas, il motore sale di giri, su la frizione, la macchina si ribella, cerca di mettersi di traverso in un turbine di neve sporca.”
"Forza, più veloce più veloce, a destra, metti la seconda", diceva il bastardo con tono secco.
"Certo che accelero…"
"Taci, parlo io. Ancora, ancora, terza a sinistra…"
"Ti pagano per fare lo stronzo?"
"Mi pagano per farti vincere, e sono soldi bien gagné, come si dice in italiano? ben guadagnati."
Il fondo stradale luccica sotto i fari antinebbia, la neve è compatta, si sale bene, non c'è ghiaccio, non ci sono cumuli di neve sulla carreggiata.
"Lo vedi, andiamo davvero forte ora che ci scambiamo solo le indicazioni strettamente necessarie." Il francese parla a scatti, la sua voce nell'intercomunicante è chiara, le note precise. Lo seguo bene ma in una curva faccio a modo mio, azzardo un po'. Vado via veloce. Non dice nulla. È molto concentrato, si vede che approva la mia correzione.
"Attento a quella serie di tre curve". Le affronto scalando le marce e aprendo il gas come mi ha suggerito con le sue note.
La macchina sbanda "Non preoccuparti la traiettoria è perfetta", mi mostra il pollice alzato "secondi guadagnati", dice dopo aver azzardato un sorriso di approvazione.
La nostra scalata è perfetta, non una sbavatura, nulla che ci rallenti.
Parla in modo stringato, conciso, nitido. "Segui la strada, due curve a destra, ora diritto, vai, così, bene".
La sua voce mi disegna la strada un attimo prima che la debba affrontare.
Non mi ero mai accorto di come fosse bravo.
"Il ragazzo italiano va forte! Potremmo anche vincere, con una macchina e un pilota italiano. È strana la vita", dice, ignorandomi, come se parlasse a se stesso dopo aver sistemato le note che tiene posate sulle ginocchia. Andiamo fortissimo. I fanali sciabolano il buio.
"Stiamo per imboccare un breve rettilineo", mi indica la sua voce che risuona chiara nell'intercomunicante. All'improvviso il motore ulula a vuoto, premo la frizione in tempo per evitare il fuori giri ma il cambio è andato O forse la frizione. Accosto sulla destra davanti a un gruppo di tifosi francesi. Quando vedono che si tratta di una macchina italiana ci mostrano il dito medio.
"Non, c'est pas possible!", urla il francese, sbattendo sul cruscotto il blocco con i fogli.
"Invece sì, è saltato il cambio. In questo modello succede. Raramente, ma succede".
"Maledetta guigne, come dite voi, sfortuna?"
"Sfiga. No, devo aver sbagliato io…"
"Mais non, Marcello, di solito sei uno stronzo, ma stanotte sei stato perfetto."
"Eh sì, andavo bene, stasera…"
"Sì, abbastanza…"
"Cos'è, ricominci a fare il bastardo?"
"Beh anche voi italiani non scherzate…"
"Senti c'è un chilometro e mezzo da fare a piedi sotto la neve io vado."
"Vengo anch'io… può essere che tu non ce la faccia."
"Ti pagano per aiutarmi."
"Ti pagano per vincere."
"Brutto figlio di puttana!"
"Dai non arrabbiarti la prossima volta andrà meglio. Sarò io il tuo navigatore, giusto?"


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IL BULLO CHE PIACE

di Angela Di Salvo


Ogni tanto mi capita di pensare a lui. Eppure ne ho conosciuti tanti ragazzi durante la mia carriera di insegnamento. Era un ragazzo di buona famiglia, bello, critico per natura, spavaldo e sicuro di sé: il classico tipo destinato a diventare un leader.
Infatti nella classe tutti avevano una grande ammirazione per lui, i maschi facevano a gara per diventare suoi amici e le femmine lo adoravano, contendendosi la sua attenzione in un vortice di rivalità e gelosie.
Rimanevo spesso in aula durante la ricreazione per sistemare il registro e così avevo potuto osservare quanto potere quel ragazzo avesse sui suoi compagni che manipolava e suggestionava con la sua dialettica di perfetto oratore e con il suo fascino innato.
Un giorno rimasi in aula da sola, mentre gli studenti erano usciti nel cortiletto interno all’edificio a fare ricreazione.
Poco dopo vidi rientrare Massimo Lusi, uno dei miei alunni più diligenti. Lo vidi mettersi in fondo all’aula e nascondere il viso dietro un libro che teneva alzato appoggiato sul banco.
- Massimo, che c’è? - gli chiesi avvicinandomi preoccupata.
- Niente, professoressa, sto male - si giustificò mortificato che lo avessi sorpreso a piangere come una femminuccia.
- Non ci credo affatto - aggiunsi - e se hai qualcosa da dirmi, fallo adesso.
- Io non sono una spia.
- Se hai un problema, io lo devo sapere.
Massimo se ne stava muto e pareva non avesse alcuna intenzione di accogliere il mio invito.
- E va bene. Vorrà dire che convocherò i tuoi genitori per segnalare questo episodio. E darai spiegazioni a loro.
Questa prospettiva lo terrorizzò a tal punto che sciolse, come per magia, tutte le sue remore.
- Il fatto è che…. Paolo…. ce l’ha con me – iniziò a parlare balbettando.
- Perché? Che ti ha fatto? Ti ha alzato le mani?- incalzai.
- No, lui non tocca nessuno, ma sa fare più male con le cose che dice – tentò di spiegare.
- Che dice?
- Mi prende in giro, dice che mi piacciono di più i libri che le ragazze. Mi deride davanti ai compagni e poi mi minaccia se non gli passo il compito di matematica. – spiegò con gli occhi bassi.
- E poi? Oggi che ti ha fatto?- gli chiesi cercando di saperne di più.
Ma Mario non aprì più bocca.
Allarmata, decisi allora di parlare con Paolo. Approfittando dell’uscita anticipata degli studenti per un’assemblea, gli chiesi se poteva dedicarmi una mezz’oretta. Acconsentì di buon grado.
Lo feci accomodare nell’aula di disegno ed ebbe inizio il nostro dialogo.
- Paolo, non mi piace come ti comporti con i tuoi compagni – esordii.
- Perché, come mi comporto?
- Sei troppo arrogante e presuntuoso. E approfitti della tua spavalderia per umiliare chi non è come te o non vuole compiacerti.
- Non mi risulta. Ma anche se così fosse, non mi pare sia compito suo interferire nelle mie relazioni con i miei compagni. Lei è pagata per fare la docente e non l’operatrice sociale.
Mi guardava negli occhi, senza abbassare lo sguardo, con aria sicura e sfacciata. Mi fece sentire come una stupida ficcanaso e fui io ad abbassarli gli occhi.
- Sei scortese; se ti dico questo, lo faccio per te, per il tuo bene.
- Non mi venga a dire le solite frasi stereotipate che si dicono quando si vuole camuffare l’invadenza con il buonismo. Non si fa mai niente per il bene degli altri.
- Io vorrei solamente correggere certi tuoi comportamenti - ribattei irritata.
- Lei può correggere i suoi compiti scritti, non le azioni degli altri quando non le osserva direttamente.
- C’è una morale che ci induce ad essere onesti e ad avere rispetto degli altri – affermai convinta.
- Onestà? Rispetto? E mi dica, professoressa, quando e dove gli uomini sono stati onesti ed hanno avuto rispetto?
- Molti uomini sono onesti e hanno rispetto - insistetti con fermezza.
- La verità è che gli uomini sono molto bravi a riempirsi la bocca di belle parole e a costruire ideali… pace, legalità, solidarietà. Ma quante volte questi ideali sono stati disattesi nel corso dei secoli? E quanto invece di completamente diverso ha connotato la storia infausta dell’umanità? Gli uomini sanno parlare bene e scrivere altrettanto bene, ma non sono capaci di agire con coerenza, anzi fanno le cose esattamente al contrario.
- Che c’entra! Non puoi generalizzare così. La storia degli uomini è fatta anche di eroismi, sacrifici e straordinarie scoperte- tentai di smontarlo confusa.
- Cosa vuole che faccia?- troncò deciso.
- Devi cambiare atteggiamento e rispettare gli altri. Se continui così, tu nella vita ti troverai male – sentenziai.
- Sono fatti miei, se permette. Però sono fatto così e non mi posso cambiare. Anzi, per la verità non mi interessa neppure farlo.
- Allora sarò costretta a chiamare i tuoi genitori e ad informarli di quello che fai - conclusi - E se sarà necessario, riferirò la cosa al preside che prenderà gli opportuni provvedimenti.
Mi guardò serio, fece una lunga pausa e poi sibillino parlò.
- Mi risulta che vive da sola in una casa fuori città. Ma non ha paura che qualcuno le faccia prendere un brutto spavento? E quella sua bella macchina, non teme che qualche vandalo gliela possa sfregiare?
Raggelai all’istante. Era evidente che voleva minacciarmi.
- Cosa… c’entra questo con il discorso che stavamo facendo? – balbettai.
- Senta, facciamo un patto. Lei se ne sta buona e io le prometto che mi impegnerò affinché non possa notare nulla di sconveniente nel mio atteggiamento. Presto uscirò da questa scuola per sempre.
Con queste parole chiuse la nostra conversazione e se ne andò senza attendere la mia risposta.
Forse per lui era scontato che avrei dovuto accettare quel patto. Ero rimasta annichilita, in tanti anni di insegnamento non mi era mai accaduta una cosa del genere.
Per non perdere la faccia davanti alla mia coscienza, decisi di temporeggiare prima di rivolgermi al preside o ai suoi genitori. Ma lui rispettò la promessa. Si mostrò tranquillo e accrebbe il suo impegno concludendo l’anno nel migliore dei modi.
Non ebbi sue notizie per molti anni finché un giorno, mentre sfogliavo il giornale, mi trovai davanti una intera pagina in cui veniva pubblicata una lunga intervista con il neo eletto deputato Paolo Soprani. Il giornalista illustrava con enfasi come il candidato per numero di voti avesse sbaragliato i suoi avversari e a quale brillante carriera fosse destinato quel giovane politico dalle eccellenti qualità.
Spiacevolmente sorpresa, pregai che si trattasse di un’omonimia. Nella pagina accanto c’era una grande foto. E quando la osservai attentamente tremando per l’incredulità, non ebbi dubbi.
Era sempre bello e sorridente. E sembrava guardarmi con aria beffarda.


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SLIDING DOORS

di Unanime uno


Non so quanti avranno visto il film “Sliding doors”, nel quale anche solo prendere una metropolitana prima che le porte scorrevoli lo impediscano, sembra cambiare il corso degli eventi che invece subiscono solo una deviazione e alla fine si concludono come il destino vuole.
La vita scorre da sola, non ha bisogno del nostro intervento. Il libero arbitrio non esiste, è solo un'invenzione che serve a illuderci che possiamo scegliere in quale direzione andare, mentre a noi resta solo la possibilità di assaporare quello che il futuro ha deciso per conto suo di riservarci.
Einstein diceva che siamo solo degli spettatori di un film già girato. Se ci saranno applausi o fischi alla fine della storia non dipende da noi.
La mia vita da medio-man scorreva tranquilla, anche troppo. Una moglie, una figlia di dodici anni, un lavoro nell'Azienda di famiglia, che permetteva a tutti un tenore di vita più che dignitoso, che però svolgevo con pesantezza. L'essere sempre sotto pressione e sotto il diretto controllo di un suocero ossessionante da questo punto di vista mi rendeva l'impegno più stressante di quanto non fosse. Avevo spesso pensato di cambiare genere e settore, ma non era facile, dopo i quarant'anni, trovare una sistemazione con pari retribuzione.
Il menages matrimoniale funzionava a corrente alternata. Qualche scappatella dal tono goliardico mi era capitata, ma la durata non aveva mai superato le due o tre notti. La mia educazione non concepiva separazioni o divorzi ma le negatività di quel rapporto diventavano di giorno in giorno sempre più evidenti.
Anche durante le vacanze il rapporto con la consorte non miglioravano, anzi si acuivano grazie anche alla prole che in ogni futile discussione non perdeva occasione di schierarsi a fianco della madre. Sapevo che quella era l'età in cui di norma si “abbattono” i genitori, ma il bersaglio preferito di mia figlia ero esclusivamente io.
Per avere un minimo di serenità decisi di passare quell'ultima vacanza più che altro da solo. Mi recavo in spiaggia in orari differenti da quelli di mia moglie e mia figlia e rientravo in albergo prima di loro.
Il caso volle farmi incontrare un'altra coppia, vicina d'ombrellone, con la quale scambiai presto alcune parole e che mi resero quel soggiorno non più misantropo. Anche qualche serata passata tutti insieme servì a distrarmi da quell'inedia soffocante della mia vita. La lei di quella coppia, Anna, era una gran bella donna, più giovane di me e molto simpatica ma in quel periodo non mi aveva neanche sfiorato un pensiero malizioso su di lei. Finché una mattina mi svegliai e appena aperto gli occhi la prima parola che mi venne in mente fu: “Anna”.
Rimasi stupito da quel pensiero ma non gli detti molta importanza. Dopo aver fatto colazione andai in spiaggia e trovai Anna da sola. Di solito giungeva insieme al marito più tardi, quella mattina invece era già lì. Quella situazione si ripeté nei giorni a seguire e le nostre confidenze divennero sempre più intime e complici, come la luce negli occhi di entrambi. Non saprei dire come e perché ma il nostro amore sbocciò all'improvviso con la forza di un uragano che travolse tutto e tutti.
Continuammo a vederci anche a vacanze terminate, nonostante abitassimo in città differenti e quando lo stare lontani ci sembrò insostenibile affrontammo i reciproci coniugi.
Le richieste di separazione, a parte qualche iniziale resistenza, dovuta più al ruolo che alla convinzione, fu indolore e concessa da tutti con una semplicità disarmante.
Pochi mesi e Anna venne a vivere insieme a me, in un appartamento che affittammo nella mia città. Avevo continuato il mio lavoro con mio suocero, anche se la vicenda aveva causato una flessione nel mio rendimento. L'occasione per rinfacciarmi la sua falsa benevolenza non poteva essere persa e lo scontro con il padre della mia ex moglie fu durissimo e si concluse con il mio addio.
Mi rimboccai le maniche e riuscii a creare, quasi dal nulla, una mia attività, in un settore totalmente diverso dal precedente e a portare a casa quel reddito necessario a vivere bene, magari non come prima, ma senza pesanti rinunce.
Passarono cinque anni prima che il rapporto con Anna si deteriorasse all'improvviso e senza possibilità di recupero. Con la stessa rapidità con la quale era nato, il nostro amore terminò.
Lei decise di ritornare nella sua città d'origine e io mi ritrovai solo. Il nuovo lavoro, che fino ad allora andava piuttosto bene, iniziò a perdere colpi fino a crollare inesorabilmente.
Cominciai a sentire la mia mente fluttuare nel vuoto fino a ritrovarmi, senza sapere come, a riallacciare i rapporti con la mia ex moglie e dopo poche settimane a rientrare in famiglia e riprendere il lavoro con mio suocero.
Come se nulla fosse accaduto mi ritrovai a vivere la stessa identica vita di prima. Una deviazione di cinque anni in un percorso che ha ripreso la sua direzione. Il destino ha il suo corso e non lo possiamo cambiare.
C'illudiamo di essere noi al volante, ma a guidare è solo lui.


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STRANE COINCIDENZE

di Cordelia

Daniela era in bagno, con suo marito, con lo sguardo fisso sul piccolo oggetto che aveva appoggiato sulla lavatrice, aspettando di vedere se le lineette parallele sarebbero diventate tutte rosa oppure no.
Quanto tempo dura aspettare cinque minuti?
È strano il tempo. In realtà dovrebbe durare sempre lo stesso ma non è sempre così. E in questo caso quei pochi minuti sembravano durare una vita.
Dany ripensò alla sua. Trentanove anni compiuti da poco, un figlio di 9 anni adorato, un marito, un matrimonio felice e un lavoro che le portava via parecchio tempo.
Non amava l'idea del figlio unico. Lei era felicissima di avere avuto un fratello e avrebbe desiderato, per il suo bambino, la stessa cosa.
Ma a volte la vita ti conduce dove non sempre si vuole andare. Suo padre era morto più di un lustro prima e sua madre stava invecchiando. È inutile dire che, per quanto uno non voglia, quando si hanno figli, in qualche modo si coinvolgono sempre i nonni.
Così aveva continuato a rimandare la nascita di un secondo bambino, provando tutti i sistemi per non averne.
In ultimo era arrivata a usare un piccolo computer, denominato «Persona», di nuova generazione, che usato tutti giorni, ti diceva quando si dovevano usare precauzioni per non rimanere incinta.
Cosa era successo un mese e nove giorni prima?
Bé qualche giorno prima aveva sbagliato a premere un tasto, un semplice tasto che aveva spostato di un giorno in avanti tutta una serie di prove, per cui Persona quel giorno aveva dato via libera a farlo senza protezione (come avevano fatto lei e suo marito), quando invece ce n'era bisogno.
Il giorno dopo, il computer chiese di poter fare l'analisi che, dopo eseguita, accese la luce rossa, che voleva intendere che si doveva stare attenti. Ma quel giorno la donna aveva altre preoccupazioni per la testa: aveva saputo dalla madre che suo nonno era stato ricoverato.
Daniela non aveva mai conosciuto i nonni paterni perché erano morti prima della sua nascita, ma si era affezionata molto a quelli di sua madre, che erano longevi. La nonna purtroppo era morta un anno prima di suo padre, ma il nonno, che aveva 92 anni, era ancora in buona salute e lucido.
Inutile dire che Dany voleva molto bene a suo nonno. Così quel lunedì mattina prese un giorno di ferie e si recò, assieme a suo marito, all'ospedale.
Era un po' che non lo vedeva perché, da qualche mese, lui stava da suo zio.
Quando lo vide magrissimo nel suo letto, ebbe una fitta al cuore. Se lo ricordava che stava bene. E invece era così debole che non riusciva quasi a parlare. Con dolore constatò che non c'è cura per la vecchiaia.
Tuttavia, nonostante le sue condizioni, lui si fece capire a gesti o annuendo con la testa, e quando Daniela e suo marito promisero che sarebbero passati a trovarlo l'indomani, lui fece un cenno con la mano come a dire: «ci vediamo, domani». Ma non lo rivide più. Il nonno morì nel pomeriggio.
Il giorno dopo Dany guardò la macchinetta. Doveva farlo perché funzionava così: ogni giorno dovevi aprirla e vedere se il led era verde o rosso, o se ti chiedeva delle cartine da analizzare.
Quel giorno chiese, come il giorno prima, di fare l'analisi e poco dopo si accese il led rosso rivelando anche l'ovulazione in atto. La donna ripensò che lei e suo marito erano stati insieme due giorni prima e gli spermatozoi vivono 48 ore…
A questo pensava Dany quella mattina mentre aspettava guardando il test di gravidanza.
Le due barrette divennero rosa e rivelarono ciò che in fondo già sapeva.
Suo marito ne fu subito felice, ma lei guardava il test sperando in uno sbaglio.
Non era che non voleva un altro figlio. Era che si sentiva troppo vecchia.
Pensò che quando il bambino avrebbe avuto 20 anni, lei ne avrebbe avuti 60.
Troppa differenza. Avrebbe potuto quasi essere sua nonna. Certo adesso tutte facevano figli tardi, ma 40 anni di differenza erano troppi, per il suo modo di pensare. Sarebbe riuscita a stare dietro alla differenza generazionale? E sarebbe riuscita a ricominciare con biberon e pannolini?
E invece di dare un fratello o una sorella al suo primo figlio, non avrebbe cresciuto due figli unici?
In mezzo a queste domande la tensione si allentò e cominciò a piangere: «Sono troppo vecchia!» ripeteva a se stessa tra un singhiozzo e l'altro. Neppure per un minuto aveva pensato di non avere il bambino, ma pensava di non essere più abbastanza giovane per fare il genitore.
Suo marito allora la prese fra le braccia e la consolò: « Dany non sei troppo vecchia, se lo fossi, non saresti rimasta incinta!»
Sua moglie riuscì a sorridere tra le lacrime: «Tu e i tuoi spermatozoi super vitali!» scherzò.
«Eh vuoi mettere!» rispose ridendo l'uomo.
«Te lo immagini questo figlio come ci rigirerà a noi vecchietti, quando avrà 20 anni?»
diceva abbracciata sporcandogli di lacrime il maglione.
«Vuol dire che ci manterrà giovani per stargli dietro, su asciugati queste lacrime…» la rassicurò l'uomo.
Dany pensò a tutte quelle donne che facevano cure su cure per rimanere incinte e a quanto per lei fosse stato facile, in un'età in cui le possibilità invece si assottigliano. Così si asciugò le lacrime e cominciò a pensare a un bel bambino/a con le guancette paffute da tenere in braccio.
Nove mesi dopo, la donna si ritrovò una domenica mattina in macchina piegata in due dai dolori, mentre suo marito guidava a tutta velocità verso l'ospedale. E intanto rideva. Rideva e si lamentava.
E ripensava al film, quello con Julienne Moore e Hugh Grant.
«Ti prego» diceva tra una fitta e l'altra all'uomo, «non fare come il protagonista del film «Nove mesi», che nell'agitazione di portare la moglie con le doglie all'ospedale, si ritrova a portarci tutte le persone che investe…».
Due ore e mezza dopo nacque Simone.
Dany non sapeva ancora che quel bambino sarebbe stato colui che alle tre di notte avrebbe svegliato suo padre chiedendogli quale fosse la differenza tra la balena e il delfino, né quello che si sarebbe informato, dopo un colica renale di sua madre, se i «freni» le facevano ancora male; ma quando glielo misero in braccio ripensò alle strane coincidenze della vita: al suo errore, a suo nonno e a quella promessa di vedersi il giorno dopo.
Era sicura che quel bambino glielo avesse mandato lui al suo posto: Simone, e questo lo sapeva per certo, era stato concepito proprio il giorno in cui avrebbero dovuto rivedersi.


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TUTTO INIZIA COSI'

di Ritavaleria

C’era una volta in un paese molto lontano, anche se in realtà ogni paese può essere molto lontano se cambi il punto di riferimento, un semplice ragazzo, nessun principe in questa storia, chiamato Antonino, era il più giovane di quattro fratelli, viveva a pochi metri dal mare e trascorreva tutto il suo tempo libero tra gli scogli che si affacciavano sulla spiaggia, insieme agli altri ragazzi della zona. La vita era semplice e leggera nonostante tutti i problemi che si dovevano affrontare, c’era sempre il tempo per correre e arrampicarsi tra quelle rocce e poi tuffarsi nell’acqua fredda, uscire e restare ad asciugarsi al sole. Ogni tanto passava qualche ragazza e si stava ad ammirarla e a lanciare complimenti più o meno spinti e ogni tanto si trovava qualcuno che ti offriva una sigaretta, fumata di nascosto. La vita era bella anche se si aveva poco. Anche se appena possibile si doveva cercare un lavoro per aiutare la famiglia ad andare avanti. E Antonino aveva trovato un lavoro che in fondo non gli dispiaceva, andava a servizio in un panificio e aveva imparato a poco a poco i segreti del mestiere e gli piaceva anche scambiare quattro chiacchiere con i clienti e regalare un sorriso a ognuno di loro. Peccato che non aveva potuto continuare quel lavoro come aveva sognato, diventando un giorno proprietario di un panificio tutto suo, perché uno dei suoi fratelli aveva bisogno di una mano nella sua impresa e benché non fosse mai stato quello il suo sogno e quel lavoro in verità non gli piacesse, la famiglia aveva bisogno e lui non si sarebbe tirato indietro, in fondo in ogni cosa si possono trovare dei lati positivi.
Ora aveva molto meno tempo per andare a divertirsi con gli amici, i turni di lavoro erano più pesanti e c’era sempre qualcos’altro da fare quando gli altri andavano via, ma almeno la domenica riusciva a conservarla come una giornata tutta per sé, per fare un giro con qualche amico o per andare a vedere la partita di calcio allo stadio. Una di queste domeniche mattina, mentre era andato con un suo compagno, Salvatore, a comprare una bottiglia di vino artigianale in montagna, camminando per la via principale del paesino, era rimasto colpito da una ragazza dai lunghi capelli neri intenta a pulire i vetri della porta della sua casa. Finalmente aveva visto una ragazza che gli piaceva. Ed era pure fortunato perché accanto alla casa c’era una tabaccheria, di cui erano proprietari proprio i genitori della ragazza. Così divenne abitudine di ogni domenica non solo passare per quella strada, ma anche entrare nel negozietto per comprare le sigarette nella speranza di rivedere quella ragazza, anche se non sempre era così fortunato.
Quello che non poteva sapere era quanto quella ragazza, che si chiamava Maria, fosse ostile ad ogni approccio di natura sentimentale e decisa a rifiutare nel modo più categorico possibile ogni proposta di fidanzamento. Qualche anno prima, infatti, era stata costretta a rinunciare al ragazzo che aveva conosciuto e di cui si era innamorata, perché non piaceva ai suoi genitori, che avevano fatto di tutto per ostacolarli. Alla fine Maria aveva rinunciato a quell’amore contrastato che non avrebbe avuto mai la loro approvazione ma aveva anche promesso che non si sarebbe più fidanzata con nessuno e che sarebbero stati loro i responsabili della sua futura infelicità. Infatti, rifiutò con ostinazione ogni ragazzo che, pieno di speranza e determinazione, si era presentato alla loro porta con proposte più o meno d’amore, diventando il cruccio principale del proprio genitore che trovandosi con altre due figlie femmine da sistemare e uno maschio, aveva il terrore che Maria avrebbe mantenuto la sua promessa e sarebbe rimasta a casa.
Ma il destino ci muove sempre con grande maestria e ci fa agire anche come noi non vorremmo e quando davanti alla giovane e decisa Maria, già pronta a liquidare l’ennesimo pretendente innamorato, si presentò il meno giovane Antonino, armato solo di un sorriso e di una proposta, imprevedibilmente la decisione della ragazza si sciolse in un tentativo che un anno dopo la portò a sposarsi, cambiare città e amici e che si sarebbe dovuto chiudere con la frase… e vissero per sempre felici e contenti, se questa fosse una favola, come fa pensare l’incipit, ma è solo una storia di famiglia, anzi un pezzo, l’inizio, di una storia di famiglia, che come ogni storia è stata fatta di momenti di gioia, speranza, passione, ma anche di dolore, disperazione, rabbia. È fatta di sbagli, errori, bugie, ma anche sorrisi, parole dette e parole taciute, ma soprattutto è stata vita ed è stato amore.


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PENSIERI PER M.

di Hellies15


Se solo potessi fare qualcosa per te. Se solo tu volessi che io facessi qualcosa per te. Sì, forse lo vuoi. A volte mi cerchi, in effetti. Ma per cosa mi cerchi? Per consolarti: sai che la mia spalla sulla quale appoggiarti c’è sempre. Oppure per non pensare…ma io in questo caso non sono un buon complice. Tu vorresti non pensare, chiudere gli occhi e volare via, lontano…e invece io sono così irrimediabilmente attaccato coi piedi al terreno, o almeno lo sono con te. Provo a farti pensare ma è un’operazione disperata: il turbinio di sentimenti che ti pervade non lascia nemmeno un angolino libero ai pensieri che, mesti mesti, tornano dal luogo in cui sono venuti. Qualsiasi esso sia.
Quindi sì: c’è qualcosa che posso fare per te. Il problema è che non è questo il ruolo che vorrei interpretare nella tua esistenza. Un buon amico può recitare una parte importante ma di certo non quella del protagonista. Sono un’inguaribile arrivista, o un sognatore, oppure, più semplicemente, un uomo innamorato. Sì, sono innamorato. Perché quando ti vedo il mio corpo comincia a tremare…forse non lo vedi, ma io lo sento. Perché quando ti avvicini a me, quando mi tocchi e quando mi abbracci, mi manca quasi il fiato. Perché ogni giorno il messaggio che aspetto è il tuo e quello di nessun altro. Perché frughi nella mia mente per emergere e trovi un terreno molto permeabile.
A volte ho la sensazione che anche tu l’abbia capito, che tu sappia quello che provo. Poi però ci penso su e penso che non è possibile. E’ solo un mese che ti sei lasciata e ancora il suo nome ti gira per la testa. Marco…Marco… Io so perfettamente che, ancora, non posso pretendere nulla, perché l’amore è un sentimento rovente, che lascia il segno nel bene e nel male. Il segno di Marco ancora brucia sulla tua pelle, posso sentirne l’odore. Eppure ogni volta che pronunci il suo nome provo un senso di fastidio; un fastidio che, forse, è invidia, perché vorrei essere io così presente tra i tuoi pensieri. Ecco, vedi, in fondo sono un’ipocrita: pretendo da te che metta da parte i sentimenti e alla fine sono io che, in barba ai miei ragionamenti, mi faccio prendere dalle emozioni. Oppure non sono ipocrita e, torno a ripetere, sono semplicemente innamorato. Questo senso di confusione, questa altalena sopra il mio cuore, questo tentativo di mettere a fuoco un’immagine che limpida non può essere, sono esattamente ciò che caratterizza una persona innamorata, quantomeno quando essa non sa cosa lo aspetta dall’altra parte del fiume dell’amore.
E allora è normale che io voglia darti del tempo per far rimarginare le ferite e allo stesso tempo voglia sentirti dire, tra un minuto, tra un secondo, che mi ami. E allora è normale che quando, come ora, ti vedo distesa sui tuoi libri, incapace di studiare, provi un desiderio irrefrenabile di accarezzarti i capelli, di coccolarti, di prenderti la mano tra le mie e dirti che va tutto bene. E allora…allora non lo so. Lascio che il tempo sia il giudice delle mie azioni e delle mie omissioni, delle mie follie e delle mie prudenze, delle mie attese e delle mie impazienze. Lascio che la vita mi consumi lentamente, che mi indichi qual è la strada anche quando una strada, in realtà, non c’è. Lascio queste parole intrise su un foglio, nella speranza che un giorno tu le possa leggere. Il giorno in cui troverò il coraggio di dirti che ti amo.


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VOLARE ALTO

di Manuela


Conobbi Antonio al corso di aggiornamento sulla comunicazione. Era un bell’uomo.
Non lo so perché ma quando incontro un bell’uomo divento scema, ma proprio scema sul serio. Insomma per tutto il tempo lo guardai e lui, verso la fine della giornata, davanti a tutti i partecipanti, se ne uscì dicendo:
― Oggi abbiamo imparato tante cose sulla comunicazione, cosa vi ha colpito di più? Poi vi dirò cosa ha colpito me. E fece un giro tra i tavoli chiedendolo a ognuno di noi.
Non ricordo cosa risposi, ma sono sicura che avrei voluto dirgli che mi avevano colpito i suoi occhi verdi e la sua voce possente e il suo modo di muoversi, come se a ogni passo dovesse scavalcare una montagna di roba, però non dissi questo.
Ricordo invece cosa disse lui, alla fine.
― Io sono rimasto colpito dal gradimento di Manuela ― e mi guardò con occhi ingombranti.
Poi spiegò che si riferiva alla comunicazione non verbale e a tutti quei segnali che vengono mandati ai nostri interlocutori senza dire nulla. Be’, secondo lui, io, con la mia comunicazione non verbale, avevo trasmesso gradimento.
Venne a prendermi qualche sera dopo la fine del corso e mi portò a cena e poi giocammo a scacchi. Vinse lui.
Mi faceva arrabbiare perché quando facevamo un discorso complicato, aveva sempre ragione. Sapeva comunicare e sapeva capire anche meglio di come comunicava. Gli piaceva correre, mi preparava gli spaghetti col tonno e la sua voce mi arrivava fin dentro le fibre del cervello. Viveva in una mansarda troppo bassa per la sua mole e una volta, al mare, mi mise anche le cuffiette, come nel film “Il tempo delle mele”, anche se io e lui avevamo più del doppio dell’età di Vic e Mathieu e non avremmo mai potuto ballare come loro perché gli arrivavo appena sopra la cintura dei pantaloni. Mi scrisse una lettera, di quelle vere con busta e francobollo, e mi regalò un libro con una dedica che trovai solo a metà lettura: l’aveva scritta su una pagina interna, non sulla prima, come fanno tutti.
Una sera, dopo l’amore, sospinti da una forza invisibile, ci alzammo dal letto, quasi all'unisono e sempre con gli stessi tempi coordinati, ci sedemmo sul divano. Io accesi una sigaretta.
Pensavo che avrei dovuto dire qualcosa per rompere quel silenzio fastidioso, in cui gli unici rumori erano i nostri respiri tornati a un ritmo normale. Pensavo che forse gli avrei dovuto dire che era meglio che andasse via. In quel momento non sopportavo nessun'altra presenza oltre alla mia e a dire il vero non sopportavo nemmeno la mia. Invece dissi: ― Antonio?
― Eh?
― Pensi mai che la nostra storia potrebbe finire?
― Mi spieghi perché questa domanda? ― chiese, invece di rispondere.
― Così, mi era venuta in mente.
― Vuoi che finisca?
— Ma no, era tanto per dire.
― Per dire? Vuoi che finisca?
— Antonio, per favore, torniamo a letto, è meglio… — dissi, senza pensarlo.
— Mi ami? ― mi chiese ancora, senza espressione.
― Io non amo nessuno.
— Ma piantala, rispondi, mi ami?
Rimasi in silenzio, sentendomi più scema del solito.
― Ecco, non rispondi. Oppure rispondi cazzate.
― Antonio, per favore ― gli dissi, allungando una mano verso la sua spalla che mi sembrava lontana.
― Per favore cosa? Era una domanda come la tua, solo più precisa. Mi ami? Provi qualcosa per me? Mi vuoi bene? Mi desideri? ― era alterato.
― Ma che hai?
— Niente! ― urlava, adesso ― Tu risponderesti così, no? Mi sono rotto il cazzo di te e delle cose che dici tanto per dire!
Si alzò, spostò una sedia, la trattenne un attimo e poi la buttò a terra.
— Ma c’è qualcosa che ti interessa nella vita? — aggiunse.
— No, niente.
— Vedi? È la tua parola preferita. Quindi non vuoi fare niente?
— No.
— Bene, fantastico, vuoi essere passiva e questo è quanto.
— Voglio essere lasciata in pace!
Riempiva la casa, con il suo casino e con le sue parole. Forse non volevo essere lasciata in pace ma di certo non volevo che mi chiedesse di coinvolgermi, di amare, di apprezzare, di sentire la differenza. Ma non me lo ha mai chiesto, non mi ha chiesto mai di essere gentile.
Si alzò, andò avanti e indietro nel salone con passi pesanti, come se volesse cancellare ogni altro passaggio. Si avvicinò, prese la mia sigaretta per accendere la sua, e si sedette di nuovo.
— No, non ti lascio in pace.
— Allora vai via di qui.
— Sei matta, tu sei matta.
— Va' via.
— Non ci penso neanche, non ti lascio sola in questo stato.
— Ma che stato e stato! Non c'è nessuno stato, io voglio stare da sola, capisci? Sola, sola, solaaaaaaa!
— E per fare cosa, si può sapere?
— Niente. Per fare niente, proprio niente.
— Allora fa’ qualcosa, fa’ qualcosa con quello che ti è successo, almeno sarà servito!
— Mi fai venire il voltastomaco con questo entusiasmo. Vedi sempre il lato buono delle cose, io non ho lati buoni, è questo che non hai capito. Voglio stare sola, è chiaro?
— Fermati, non sei divertente!
— Lo so che non sono divertente, va' via.
— No, non vado via, io ti amo.
— È la frase più idiota e più stupida del mondo. Tu mi ami? Non si ama mai nessuno, te l’ho detto.
— Mi fai paura — disse.
E se ne andò.
Antonio mi piaceva perché vinceva sempre a scacchi e mi prendeva in giro. Perché quando si arrabbiava e mi parlava "seriamente" io gli facevo beep sul naso e gli veniva da ridere. Perché non gliene importava niente della mia malattia e riusciva magicamente a trovare una coca-cola quando si accorgeva che la mia glicemia era troppo bassa.
Diceva che ero carina “cinque” e mi trovava la donna più bella del pianeta, perché era impossibile che non fossi bella; lui amava solo donne belle.
Mi chiamava “odiosa sovrana” e “bimbadigiulianova”. E, soprattutto, era in grado di farmi pensare che si può volare.
Sto rileggendo il romanzo che mi regalò. Ho trovato la sua dedica. Ne sono rimasta sorpresa, come la prima volta.
“Non c’è intensità che io non viva con te.”, c’è scritto.
E nonostante le ultime parole del libro: “… nessuno, neppure lui alzerà gli occhi a guardarla.”, io continuo a volare. E volare alto.
Sapendo che c’è da stare molto attenti a non spaccarsi la testa, quando si precipita giù a terra.


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VITA DI UN COMMESSO VIAGGIATORE

di Tuarag


La grande aspirazione di Gigi, il mio miglior amico, era diventare un libero professionista, non voleva sottostare o dipendere da nessuno. Era quasi impossibile andare al mare insieme a lui senza sentirgli recitare la famosa frase di Baudelaire “Uomo libero sempre ti sarà caro il mare”.
Lui non si sentiva libero. Sottostava economicamente all’indispensabile che gli forniva la sua famiglia e un bel giorno prese una decisione: contemporaneamente agli studi universitari avrebbe svolto l’attività di agente di commercio.
Ottenuto il mandato da un’azienda, iniziò a lavorare con passione e non tardarono ad arrivare le prime soddisfazioni economiche.
Fu contattato da altre ditte, che abbinò alla prima, diventando un agente plurimandatario sempre più presente e affermato nella sua area di competenza.
Alle gratificazioni economiche si aggiunsero quelle personali, l’autostima correva più forte delle sue nuove auto che, con l’alibi dell’ammortamento, cambiava ogni due anni. In realtà era solo un sotterfugio che serviva a mascherare il narcisismo irrefrenabile di mostrare lo “status symbol” di rappresentante affermato e benestante.
Gigi si sentiva ammirato da tutti e finalmente libero di gestire la sua vita, gli orari di lavoro, gli acquisti voluttuari, i costosi oggetti da ostentare.
Inevitabilmente il buon proposito di proseguire gli studi finì nel dimenticatoio.
Diverse aziende significavano anche molte riunioni, molti “viaggi premio” in tutta Italia, in Europa e in posti esotici che mai avrebbe immaginato di poter visitare nella sua vita.
Il suo desiderio di libertà aveva varcato ogni confine.
Non ci vedevamo più con la frequenza di prima, i suoi impegni lo tenevano spesso fuori città ma quando era possibile passare una serata insieme ne eravamo entrambi felici.
Passati un bel po’ di anni, una sera d’estate ci ritrovammo per caso sul lungomare di una località balneare a rimirare un magnifico tramonto e ripensando a quella frase che ripeteva spesso, lo guardai e gli chiesi: “Ami sempre il mare, Gigi?”
Lui ricambiò lo sguardo ma non rispose subito.
Abbozzò un cenno di diniego con la testa prima di dire: “La vera libertà è quella del mare. È da tempo che ripenso al mio giovanile desiderio ma oggi sono consapevole di non essere riuscito a soddisfarlo.”
Rimasi stupito da quell’affermazione. Pensavo fosse felice e soddisfatto della sua vita e ribadii: “Che stai dicendo? Hai cercato e ottenuto ciò che volevi.”
“Non è così. Sognavo la libertà e mi sono illuso di poterla comprare ma so di non averla mai raggiunta. Ho solo tradito le mie aspettative, mi sono venduto al dio denaro e sono diventato schiavo del materialismo più gretto. Mi sono circondato di oggetti inutili quanto costosi e ho trascorso metà della mia esistenza dentro un’auto di lusso fino a far ingrigire i miei capelli e per che cosa? Per ritrovarmi solo, senza un vero affetto e infine uscire di scena, spegnermi come la luce di quel sole che sta tramontando.”
Restammo in silenzio per diversi minuti prima di salutarci e vederlo montare sulla sua potente berlina, mettere in moto e ripartire.
Gigi mi lanciò uno sguardo attraverso lo specchietto retrovisore e mi sembrò di leggere nei suoi occhi tutta l’aridità di una vita sbagliata. Quante volte aveva percorso quel tratto di strada, quanti sorpassi aveva effettuato osando più del lecito per arrivare prima, per fare di più, per essere il migliore.
Rimasi a guardare la sua auto che si allontanava a tutta velocità.
Un attimo, una distrazione e all’incrocio due fari abbaglianti lo avvolsero e lo attraversarono... forse era quella la vera libertà che aveva sempre inseguito.


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IL NATALE DI ALICE

di Licetti
È Natale e in casa di Alice c’è un’atmosfera strana. C’è gran viavai di gente, ma tutti se ne stanno chiusi in cucina attorno alla nonna che di recente non è stata molto bene. Tutti si preoccupano per lei e lasciano i bambini a giocare con i balocchi appena scartati in salotto, degnandoli al massimo di un qualche bacetto e saluto grazioso.
Di tanto in tanto qualcuno si affaccia dalla porta, saluta con la manina o con un lieve sorriso. È l’occasione giusta per il cuginetto Giacomo, più giovane di Alice di qualche mese, per stuzzicare con il solito scherzo infantile la coetanea: “baci e pizzicotti” lo chiamano, ma si tratta solamente di darsi fastidio a vicenda. All’improvviso, tanto per interrompere quello strazio perpetrato su di lei attirando l’attenzione dei genitori, la bimba lancia qualche acuto, qualche urlo acuto. Questo arriva subito alle orecchie della mamma che si precipita a vedere cosa succede. Appena Alice la scorge, corre a nascondersi dietro la pesante tenda verde. La sua sagoma magrolina non si fa notare, ma forse sono le calzine rosa fucsia che, non mimetizzandosi bene nell’ambiente, la fanno intercettare in un batter d’occhi. Quel comportamento porta poi a credere che sia stata lei a combinarne una delle sue. L’espressione stampata in faccia alla mamma è quella delle grandi sgridate che la piccola conosce molto bene ormai.
La bocca di lei non riesce a proferire la domanda di rito: “Cosa succede? Cosa combinate?” Tiene ferma la sua bambina per un braccio mentre la piccola cerca di divincolarsi calciando in aria e tirando pugni.
La mamma è nervosa e stanca molto più della nonna. In questi giorni si tiene dentro un segreto che non si potrebbe rivelare a dei cuori di fanciullo come quello di Alice. Questo suo malessere la rende per certi versi cattiva e la bimba non capisce perché. Lei ha solo sei anni e cerca di difendersi come può. Scappa in camera, a piangere, zigzagando tra i presenti che poco si interessano di lei, del cuginetto o di cosa stia capitando in soggiorno. Cose da bambini, si mormora.
Oggi è Natale, tutti dovrebbero essere più buoni, ma ad Alice questo non interessa. Lei vorrebbe dire alla mamma che il cuginetto giocava con lei a baci e pizzichi e le faceva male al braccio. Allora ha urlato, come glielo ha insegnato la maestra in caso di pericolo. A lei piacerebbe che la mamma la stesse ad ascoltare e non sgridare. Trattiene il singhiozzo per non farsi sentire. Vorrebbe sparire, andarsene sulla slitta di Babbo Natale. Purtroppo quello ha sempre troppa fretta e quando lui si trova nei dintorni, lei dorme. Per avere altra occasione bisognerebbe attendere dodici mesi, troppi.
L’ho vista in quell’angolo, infastidita dal cuginetto e dal viso arrabbiato della madre, impaurita e tremante, ma ferma e decisa a farsi ascoltare. Incrocia le braccia sul petto e tiene la testa abbassata come un toro prima della carica, ma non trova il coraggio di uscire dalla stanza e a testa alta raccontare la verità, tutta la verità. Rimane lì nel fascio di luce della porta socchiusa in attesa che qualcuno la venga a cercare.
Vorrei dirle che non è così che ci si difende dai soprusi, anche quelli perpetrati per gioco; non è così che si attrae l’attenzione dei genitori, soprattutto quando in casa c’è qualcuno che soffre veramente. Me ne sto in disparte, zitta, osservando la scena e ripetendo a me stessa che non sono affari miei.
Invece rivedo qui i miei sei anni, le corse verso camera mia, dove mi chiudevo a chiave per poter piangere e sfogarmi contro le ingiustizie umane. Nemmeno io venivo soccorsa e nessuno mi chiedeva spiegazioni o chiarimenti. Dovevo uscirne da sola dalla crisi e lo avrei fatto sicuramente quando le lacrime sarebbero finite o quando lo stomaco me lo avrebbe ordinato. Questo imponevano vecchi metodi educativi.
In cucina c’è ancora tanta gente che attornia con affetto la mamma e la nonna. Nessuno di loro ha voglia però di fare festa, di essere allegro in una giornata di pensieri pregni di preoccupazioni e di presagi oscuri.
Alice è ancora chiusa in camera a piangere quando esco da quella casa, assieme ad altri ospiti, mesta e mogia come in penitenza. Le frasi di commiato vengono scambiate a bassa voce, perché i bambini non sentano. Vorrei tornare indietro a stampare un bacio sulla piccola fronte aggrottata e affranta. Alice se lo aspetta dalla mamma o dal cuginetto quel bacio e non da me. Non capirebbe di sicuro quel gesto. Di certo sopravviverà anche a questa giornata e si asciugherà le lacrime dormendo un poco.
La sera è scesa cupa e la luna fa appena capolino, timida, dietro nubi minacciose. Questo purtroppo rimarrà per tanti un Natale da gettare nel cestino dei ricordi più brutti.
Più tardi, mentre sto per mettermi a letto, il mio pensiero va alla creatura in lacrime per uno stupido gioco con il cuginetto. Forse a quest’ora qualcuno l’avrà chiamata a tavola, se non altro per un ultima fetta di dolce, da gustare in cucina, tutti assieme alla nonna che attende ancora il suo regalo.


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ESTATE

di Roberta Michelini

Sono al mare. Mio marito ci ha accompagnati, si è fermato con noi una notte ed è ripartito la sera dopo. Siamo rimasti io e mio figlio, Francesco. All'inizio eravamo un po' abbacchiati, disorientati, sperduti: due orfanelli. Ci siamo fermati a mangiare un kebab lungo la spiaggia. La salsa colava per terra, il panino era enorme. Siamo tornati pian piano, senza fretta, mentre il sole tramontava, dandoci la mano. La sera, a letto, Francesco mi ha chiesto: "Mamma, abbracciami". Piccolo. Come potrei fare a meno di te. Poi si è addormentato, ma io vegliavo; l'ansia cresceva, ero spaventata: se ci fosse successo qualcosa? Me la sarei cavata? Ce la saremmo cavata? Avrei voluto parlare con qualcuno. Ma era tarda notte. Poi ho dormito, di un sonno profondo e ristoratore.
La mattina c'era il sole, dal terrazzino vedevo il mare. Il piccolo si è svegliato. La luce del sole aveva spazzato via come per miracolo l'ansia e la paura.
La sera, mio marito mi scrive: "Qui la casa è vuota". Rispondo: "Immagino. Anche noi siamo un po' abbacchiati." Ma la mia vita non era più vuota: avevo il mio bambino e una splendida giornata davanti, e l'ansia era svanita al mattino come la nebbia si scioglie al sole. La solitudine mi dava forza. Non parlavo quasi con nessuno, tranne con Francesco. Più che quel che facevamo in quei giorni, come passavamo il tempo, ricordo la sensazione di libertà.
La notte, se mi svegliavo, non provavo più ansia o paura. Mi alzavo, mi affacciavo al balcone. Bastavo a me stessa. Mi sdraiavo sul divano letto alla luce della luna, ascoltavo musica e pensavo, sorridendo in silenzio, che ora sentivo il mio corpo finalmente solo mio. Mi sentivo libera e potente.
La settimana passò. Scrissi un messaggio al dottor G. Per ringraziarlo del compito che mi aveva assegnato: scrivere ogni giorno un pezzo della mia vita, andando a ritroso. Mi faceva bene. Lui rispose subito.
Il sabato trascorse nell'attesa di mio marito, che doveva arrivare nel pomeriggio. All'incirca ogni ora mi mandava un messaggio per informarmi dello stato del viaggio. Arrivò finalmente, col bagagliaio pieno di roba da mangiare. Percepivo una specie di agitazione in lui, quasi temesse che quei pochi giorni mi fossero bastati per abituarmi alla sua assenza. Fu forse quel suo attaccarsi alle abitudini familiari, quel bagagliaio pieni di pacchi di pasta e pelati, a farmi improvvisamente sentire con fastidio che la magia era finita. La casa, l'odiosa prigione, il monotono tran tran quotidiano mi rincorrevano anche là.
Era appena arrivato, e già mi sentivo in trappola.
Per giunta dovevamo trasferirci in un appartamento dove andavamo già da tre anni. Sembrava passato un secolo da quel pomeriggio in piscina. La sera non riuscivo ad addormentarmi. Avevo la sensazione di essere stata catturata dopo una fuga lungamente attesa, ma forse intenzionalmente male architettata: ecco, mi avevano preso, ma tanto sapevo che sarebbe successo.
Passò anche la seconda settimana. Sapevo, e temevo, che mi sarei riadattata, che il coraggio della disperazione di quella notte sarebbe stato seppellito, e che avrei continuato anche al ritorno a casa quella vita vile. Ogni giorno andavamo in spiaggia, facevamo delle passeggiate, giocavamo a minigolf, cenavamo al ristorante, ci divertivamo in quel modo quieto in cui si divertono le famiglie. Intanto però il mio pensiero era che, arrivato mio marito, la pietra di Sisifo che avevo faticosamente spinto in cima alla salita era di nuovo rotolata in fondo. Scrissi al dottor G., ma lui tardava a rispondere, e mi sentii tradita. Era la solita trappola che s'innescava: mi ero trattenuta per diversi giorni dall'inviare il messaggio, per paura di sembrare assillante. Ora che l'avevo fatto, il mio timore veniva confermato: non rispondeva, immaginavo la sua reazione infastidita nel leggerlo. Incominciò a montarmi la rabbia, passavano i minuti e la risposta non arrivava; un'ora dopo gli scrissi ancora. Allora mi rispose, ma io ormai ero piena di rancore per aver di nuovo ceduto all'impulso e alla debolezza, e la sua risposta mi innervosì ancora di più: mi diceva che capiva il mio stato d'animo e che quei momenti sarebbero serviti a farmi apprezzare ancora di più quelli felici. Io mi sentivo presa in giro: improvvisamente mi sembrava che lui facesse il bello e il cattivo tempo nel mio cuore, che in quel momento la mia felicità dipendesse da lui, ed era lui che me l'aveva negata.
***
Mentre nuotavo verso la spiaggia mi accorsi di un asciugamano steso a una distanza brevissima dal mio. Spostai lo sguardo verso la riva e vidi un uomo alto e ben fatto, con una catenina d'oro al collo, che stava entrando in acqua. Mi stesi sull'asciugamano. Dopo un po' l'uomo uscì dall'acqua e mi si stese accanto. Era visibilmente inquieto. Mi chiese da accendere. Aveva un accento slavo. Gli sorrisi. Non aveva il coraggio di parlarmi. Mi alzai ed entrai nell'acqua, e, mentre tornavo verso riva, lo vidi venirmi incontro. Allora mi girai e tornai verso le boe. Così ci presentammo, nell'acqua alta, stringendoci la mano. Tornammo a riva insieme continuando a chiacchierare; sdraiati accanto sull'asciugamano, gli dissi che ero sposata e che mio marito era andato a fare una passeggiata. Disse, scuotendo la testa e sorridendo: "Ah… male, male…: qualcuno ti porta via." Mi misi a ridere.
L'uomo m'invitò a bere un caffè. Ci incamminammo insieme sul sentiero lungo il mare, chiacchierando e ridendo. "Sei una bella donna" disse. "Vieni con me." Sorridevo ed ero quasi tentata di concedermi una breve avventura. "Non scherzare" risposi, "tra poco torna mio marito." Così parlammo soltanto, per un po', passeggiando in mezzo a tutto quel verde e a quel frinire assordante di cicale. Dimenticai tutto: la vita che mi stava stretta, il matrimonio, il dottor G. Che invece di curarmi mi aveva tolto la fiducia in me stessa che avevo impiegato anni a conquistare. All'ombra degli alberi, accanto a quell'uomo alto e abbronzato che mi accarezzava con lo sguardo, come fossi un piccolo gioiello fragile, e mi toccava con cautela, quasi avesse paura di rompermi, mentre le scaglie di mare luccicavano sullo sfondo, la luce del sole, finalmente, accarezzava anche me.


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LA COSA PIU' BELLA E ASSURDA DELLA MIA VITA

di Kutaki Arikumo

C’erano una volta due grandi amici che chiameremo Elle ed Emme. Spinti da grande fervore agonistico, un pomeriggio decisero di sfidarsi e stabilire i dettagli della sfida. Tutto avrebbe avuto luogo la sera stessa presso il centro sportivo comunale, durante gli allenamenti di una delle due squadre di calcio del piccolo paese di provincia. L’amicizia che legava i due ventenni era tale da non avere bisogno dei giudici di gara. Loro erano concorrenti e giudici allo stesso tempo. La sfida consisteva nell’impiegare 25 giri di campo, uscire dal centro sportivo svoltando a sinistra, compiere l’intero tratto della tangenziale, ritorno, fare cinque giri lungo il perimetro del parcheggio dietro il centro sportivo e infine arrivare davanti la porta dello spogliatoio nel minore tempo possibile.
L’appuntamento era alle 20 in punto davanti i cancelli. Fecero il loro ingresso nello spogliatoio dove incontrarono diversi amici con cui scambiarono delle battute, iniziarono a svestirsi e aperti i borsoni Elle sfoggiò un completo arancione, usato durante un torneo di calcio a 5 organizzato dal C.S.I. della sua regione, a manica lunga con il numero sei, di colore nero, sulle spalle. Tutti in paese lo chiamavano Six. Emme invece indossava un completo rosso – nero anche lui a manica lunga e una calzamaglia nera sotto i pantaloncini. Entrambi indossavano una fascia scaldacollo. Aperta la porta dello spogliatoio una leggera brezza si insinuò tra i pochi punti scoperti dei due amici che si guardarono come a dire “Ma chi ce lo fa fare??”. Presero a camminare uno di fianco all’altro producendo grosse nuvolette di vapore acqueo. Salirono i cinque gradini che portavano direttamente sulla pista intorno al campo di calcio. Raggiunsero il punto di partenza.
- Al mio tre partiamo? – chiese Elle – o vuoi fare tu da starter?? – continuò guardando fisso negli occhi Emme.
- No va bene. Dai tu il via.
I due saltellavano sul posto quando Elle iniziò a contare ma senza alcun preavviso e apparente motivazione Emme lo fermò.
- Che c’è??
- Ma non possiamo partire così Elle !!! Abbiamo bisogno un minimo di riscaldamento, specialmente tu che non sei molto abituato a fare attività fisica – rispose Emme con un sorriso beffardo.
- Senti bello!!! Partiamo e basta!!! Tanto ti batto non metterti in testa strane idee, che sia chiaro. Se hai le palle partiamo adesso subito.
Emme annuì semplicemente. Non rispose. Elle contò molto lentamente. Al tre i due amici si guardarono e partirono di corsa. Emme era già in testa, ma la gara si basava sulla resistenza e non sulla velocità anche se c’è bisogno di un mix per vincerla. Elle si teneva un po’ più distante, dopo cinque giri sentiva i polmoni diventare sempre più freddi ad ogni boccata e l’aria sembrava affilata come una spada mentre attraversava la trachea. Emme continuava senza particolari problemi e dopo quindici giri aveva mezzo giro abbondante di vantaggio. Elle iniziava a sentire dei fastidi ai polpacci ma non poteva arrendersi e/o fermarsi e incurante decise addirittura di aumentare il passo. Al ventiquattresimo giro manteneva costante lo svantaggio, ne recuperava il mezzo giro ne cedeva un metro in più all’amico avversario. La prima fase si concluse con Emme in testa che uscì dal centro per primo e quando aveva raggiunto la prima curva sulla destra Elle completava l’ultimo giro. Lungo tutto il rettilineo Emme sfrecciava velocemente salando i dossi artificiali per non perdere tempo. Elle intanto perdeva lucentezza tant’è vero che quando Emme stava iniziando la salita che avrebbe portato agli ultimi cento metri del secondo tratto, lui stava ancora affrontando la curva alla fine del primo rettilineo. Il gap era abbondante ma il proprio orgoglio diede nuove energie al meno atletico dei due che correva all’impazzata, quasi con gli occhi chiusi, l’unica cosa che contava era raggiungere l’avversario. All’inizio della terza fase, il ritorno al centro sportivo, i due erano quasi appaiati, distanziavano 5 metri uno dall’altro. Per tutto il tragitto mantennero lo stesso ritmo. Emme iniziava solo adesso a sentire la stanchezza, Elle non capiva nemmeno lui come faceva a reggersi ancora in piedi. All’inizio della quarta fase, fare cinque giri del parcheggio, entrambi notarono un’auto ferma vicino il marciapiede. Era una Punto prima serie colore verde. Concluso il primo giro Emme aveva ripreso vantaggio e mentre si voltava per vedere dove fosse l’amico lo vide avvicinarsi ad una velocità inaudita con il terrore disegnato in faccia gridandogli: - Corri veloce!!!! C’è un cane!!!
Un enorme pitbull con le fauci bavose inseguiva Six, che da piccolo fu aggredito da un cane e da allora non ha saputo superare il trauma avendone paura tutt’oggi. I due amici tagliarono in diagonale verso la Punto, Elle entrò aprendo lo sportello del lato passeggero mentre Emme prima fece, senza capire il perché, un giro intorno all’auto e poi salì dietro. E’ logico chiedersi che ci faceva quel veicolo li e perché era aperto. Ebbene su quell’auto c’era il padre di un ragazzo che milita nella squadra di calcio che si allenava quella sera e aspettava che il figlio finisse per tornare a casa. L’uomo guardò sbigottito i due ragazzi con la bocca aperta e non sapeva minimamente cosa dire. Come se non bastasse sul sedile sotto il culo di Elle c’erano i suoi occhiali ormai ridotti in mille pezzi, il cane girava intorno alla vettura ed Emme sganciò un peto degno delle peggiori fogne metropolitane. I due si scusarono innumerevoli volte, l’uomo li accompagnò davanti l’ingresso del centro sportivo con il suo automezzo borbottando, lo ringraziarono, scesero e si diressero immediatamente negli spogliatoi dove si fecero la doccia si rivestirono e seduti sulla panchina si guardarono in faccia iniziando a ridere a crepapelle!!


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E' UNA VITA CHE TI ASPETTO

di Antonella P

Paola e Stefania erano vittime di un’amicizia di convenienza, costrette dalle rispettive famiglie a condividere feste, spiagge, ombre d’albero in calde giornate da pic-nic. In realtà si odiavano. Paola aveva sempre considerato la finta amica una stupida palla di pelo senza interessi concreti: la cura dei magnifici capelli di un raro nero lucente e le attenzioni per il perfetto fisico snello, non potevano essere considerati tali. Di conseguenza Stefania la odiava per i motivi opposti: la madre le faceva sempre notare come Paola passasse i suoi pomeriggi su diari, libri e fumetti, nonostante la giovane età, considerando indirettamente la figlia una capra.
Fin da bambine si erano invidiate: l’una desiderava l’intelligenza dell’altra o il fisico dell’altra, entrambe cercavano in qualche modo di attirare le attenzioni degli adulti o di piacere ai ragazzi più grandi.
Crescendo, avevano colto al volo l’occasione di allontanarsi e di cominciare a vivere di esplicita competizione. Amici, ragazzi, popolarità.
Paola si era sempre chiesta come avesse fatto quell’altra a prendersi il suo principe azzurro: Mario era perfetto ai suoi occhi, così bello da mozzare il fiato, con quell’aria che odorava di ribellione e che la affascinava a dismisura; sognava da sempre di accarezzare quei ricci ammattiti che gli coprivano il collo, immaginandone la rara morbidezza; le piaceva credere che ogni sorriso che faceva fosse rivolto a lei, come ogni sguardo e ogni bella parola; avrebbe voluto non nascondersi fra la gente per ascoltarlo cantare, ma sedersi li, sulle sue ginocchia e assaporare ogni nota, a occhi chiusi.
Ma era Stefania a godere di tutti quei futili desideri.
Così, messo da parte il principe, negli anni le delusioni amorose di Paola, le sue numerose fughe dalla realtà, le varie dimenticanze volute, l’avevano portata alla totale apatia: aveva creduto che l’amore fosse una stupida convenzione umana tale da far definire il sesso un non peccato. Aveva capito che amare si può, ma solo per poco tempo, poi era giusto scappare e amare di nuovo. Altrove.
Aveva vissuto le sofferenze che l’amore (o come si vuol chiamare) poteva portare, e ne aveva abbastanza. Aveva deciso di intraprendere relazioni prive di sentimento, relazioni false, relazioni virtuali, pur di mantenere il cuore intatto.
Aveva chiuso la sua ultima falsa storia una settimana prima di tornare in paese, dove, accidentalmente, aveva conosciuto un ragazzo che aveva tentato di conquistarla solo per vincere la battaglia contro la sua totale indifferenza, non abituato probabilmente ad un atteggiamento così snob. Forse, qualcuno che non pretendeva nessuna relazione seria, che credeva di poter trattare le donne come oggetti, faceva al caso suo: Paola aveva paura di amare e Vincenzo era una perfetta alternativa alla monotonia estiva. Non le avrebbe imposto limiti né tappato la bocca.
Una sera però, all’aprirsi di una strana finestra chat all’angolo del suo noioso profilo, lei strabuzzò gli occhi. Non riusciva a capire perché qualcuno con cui non aveva mai parlato nella vita l’avesse di colpo contattata.
“Come stai?” le aveva chiesto.
“Ciao. Sto bene. Tu?” gli aveva risposto.
Cosa poteva interessargli? Non aveva mai notato la sua presenza al mondo, perché adesso le aveva rivolto un sorriso?
Gli era andato poco bene un esame e voleva sfogarsi, semplicemente.
Come volevasi dimostrare: Stefania era davvero poco capace di capire la gente. Probabilmente nemmeno sapeva cosa volesse significare la difficile parola “esame”.
Mario aveva cominciato a parlare con Paola, praticamente di tutto: della sua solitudine, della sua tristezza, della sua nuova città. Firenze gli stava così stretta! Due, tre, quattro giorni… Paola non avrebbe mai preteso niente da lui, non era abituata al gioco sporco.
Arrivò il giorno in cui Mario tornò a casa: avrebbe potuto abbracciarlo per la prima volta! Per un attimo aveva scacciato Stefania dai suoi pensieri. Ma non era affatto la cosa giusta.
Quella sera era seduta sulle ginocchia di lui, come sempre, e lo chiamava “amore”. Nonostante Mario guardasse di tanto in tanto Paola, Stefania era li, esisteva. Niente di più reale.
Lei si allontanò un attimo, e approfittandone, lui si alzò, si avvicinò a Paola e la baciò all’angolo della bocca. Restò immobile. Provava vergogna, estasi, assoluto imbarazzo. Emozioni che la fecero sperare in qualcosa che forse non doveva nemmeno passarle per la testa. E per il cuore.
La notte successiva Mario la chiamò.
“Dove sei?”
“Vieni a prendermi” gli rispose.
E un attimo dopo, nel buio e nell’odore della campagna, si ritrovarono abbracciati. Fecero l’amore: il silenzio fu rotto dai loro sospiri e il nero della notte dagli sguardi che si rivolgevano.
“Ti fidi di me?”
“Non mi fido degli altri”
Di colpo furono le cinque del mattino e corsero a casa. Paola si sentiva felice e tremendamente in colpa. Non aveva dato retta alla sua testa, aveva agito senza pensare alle conseguenze e adesso era nei guai. Se solo Stefania avesse saputo…
“L’ho lasciata”. Mario era ricomparso un paio di giorni dopo. Stava male, Paola lo percepiva, sebbene lo conoscesse appena. D’altronde, con quell’improvvisa decisione aveva rotto equilibri, rapporti, monotonie che coltivava da anni ed era normale che si sentisse confuso.
Paola non aveva intenzione di lasciarlo scappare, né tanto meno di lasciarlo solo. Cominciarono a frequentarsi, sotto le critiche taglienti di chi li circondava. Passarono l’estate più bella della loro vita, fra notti insonni, e feste, e alcool, e forse amore. Riuscirono a fronteggiare false amicizie, false illusioni, parole scontate, attacchi improvvisi, insieme, tenendosi per mano e non allontanandosi mai l’uno dall’altra.
Ma quell’estate giunse al termine. Firenze era così vicina. Il treno stava per partire.
Paola non riuscì a trattenere le lacrime: finalmente aveva ricominciato a vivere, aveva ucciso l’apatia che l’assillava, il cuore aveva ricominciato a batterle.
Mario le lasciò piano la mano e le sfiorò le labbra.
“Non ti dico che ti amo” sussurrò.
Paola sorrise, e il suo sguardo si perse col treno, all’orizzonte.


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DUE OCCHI NERI

di Ser Stefano

Ricordo la mia “prima volta” come fosse ieri.
No.
Mi ero imposto di essere sincero quindi... ricominciamo.
Ricordo molto vagamente la mia “prima volta”, quasi come fosse un sogno fatto da bambino, di quelli che si imprimono a fuoco nella mente ma che il tempo rende confusi i contorni.
Non ricordo il giorno né la situazione che ha generato l’occasione. Ricordo che ero agitatissimo, impaurito. Nuove sensazioni, la consapevolezza che era un passo importante nelle nostre vite. Un miscuglio di cose a cui non so dare un nome, forse neanche esiste.
Ho detto di voler essere sincero e così sarà. Non vi dico che sono stato uno stallone, che mi sono comportato da “figo”. Se dicessi di aver dato più di sei piccole “spinte”, mentirei.
Tramortito dall'estasi dei sensi, rimasi accasciato sul letto, ansante. Il mio respiro affannoso era quello di un atleta che ha fatto i cento metri, sicuramente non era quello di un maratoneta.
Colei che sarebbe diventata mia moglie, di lì a un decennio dopo, con tutta la delicatezza e la sensibilità che solo una donna può avere, mi guardò dolcemente ed esclamò – Come… già finito?
Se avesse preso un martello da carpentiere e mi avesse picchiato fino all’alba, non avrebbe sortito lo stesso effetto.
Comunque non mi sono demoralizzato. Cioè, un po’ si, ma non mi sono dato per vinto e già dal successivo incontro, le cose andarono migliorando. Il fatto certo è che da quella prima volta, il sesso era divertimento, strumento di piacere. Ormoni grandi come vitellini e assatanati più dei tori di Pamplona, ci accompagnarono per anni di pura delizia.
Mai avrei pensato di dare uno scopo a tal primitiva pratica.
Ma così è stato e l'atto sessuale si è evoluto. Ora quella ragazza è diventata una donna e ogni 45 secondi si aggrappa al mio braccio in preda alle contrazioni. Non posso fare a meno di stupirmi della sua forza. Mi stringe il braccio con così tanta energia che non raggiungerei neanche con un treno merci di coca.
L’infermiera si avvicina preoccupata. Penso che qualcosa possa andare storto. Lo si pensa sempre. È inevitabile pensarci.
- Signora – dice il donnone in camice verde – Se continua così dovremo ricoverare suo marito.
Ci guardiamo un attimo sbigottiti, poi ridiamo, scaricando un po’ la tensione.
Per dodici ore prosegue l’agonia di mia moglie e, di riflesso, anche la mia. Siamo entrambi esausti quando, con l’ultima spinta, nasce Maia. Non abbiamo tempo di gioire. Maia non piange.
Un giovane dottore (che fino a un secondo prima manco avevo visto) la prende e inizia a visitarla. Mi avvicino a lui. Dodici ore di strapazzamenti e più di trenta ore senza sonno devono avermi dato un aspetto minaccioso.
- Sta bene – mi dice prontamente il dottore – ma la mettiamo per sicurezza nell’acquario. Se mi vuoi seguire...
- Certo – gli rispondo pensando tra me e me che se buttano mia figlia in mezzo ai pesci, io butto giù l’ospedale a calci.
È veramente simile a un acquario ma almeno non c’è acqua ma una serie di sensori che riportano tutti i dati vitali della piccola.
- Sembra che stia bene – dice assorto il dottore – però è strano che non pianga.
Poi gli appare una nuvoletta sulla testa, con tanto di lampadina disegnata sopra – Ecco – esclama – ora la faccio piangere io.
Prende una siringa con un ago che in rapporto alla minuscola coscia di Maia sembra un trapano con la punta da sedici. Mi morsico le labbra, pensando alla faccia del medico senza tutti i denti davanti. ‘Devo fidarmi’ mi costringo a riflettere ‘avrà pure studiato per qualcosa’.
La piccola reagisce a quel violento trapanamento con un minuscolo “gne”, appena accennato. Il dottore è costernato. Non so se ridicolizzarlo o averne pena – Mai vista una cosa del genere. Tutti i valori sono normali. Non ha niente che non vada. Però non piange. Prima volta che mi capita.
A me non interessa. L’importante è che stia bene. Anzi, questa cosa mi riempie di orgoglio. La piccola è diversa dagli altri, ovvio, se somiglia anche solo un po’ al padre, non può essere diversamente.
Mi avvicino all’acquario. So che i neonati vedono appena delle ombre senza distinguere nulla. Ma Maia mi fissa e io mi paralizzo. Due occhi neri, spalancati mi stanno trafiggendo.
È inutile che dicano che un bambino non vede. Lei mi vede, ne sono sicuro. Sento il suo sguardo sciogliermi la faccia e penetrarmi nel cervello, nel cuore. Mi sposto di un passo e quei due fari di oscurità mi seguono. Ho la pelle d’oca su tutto il corpo. Può darsi che la lunga giornata mi abbia destabilizzato i sensi ma percepisco qualcosa di soprannaturale, quasi ancestrale. Non è da me, sono un tipo semplice e materiale. Sono consapevole di un contatto, una linea invisibile tra i suoi occhi e i miei. No, va molto più in là degli occhi. Va oltre la comprensione umana o, perlomeno, oltre la mia limitata comprensione.
Sembra quasi mi riconosca. Sembra che quei due occhi neri abbiano capito che sono il padre e mi stiano spiando per capire chi sono veramente. Trapassano la carne e mi vedono per quello che c'è sotto la maschera.
Non so se sarò un buon padre. Giuro che ce la metterò tutta, per la bambina che non piange. Quei due occhi neri mi hanno accettato e io ho accettato il mio ruolo, in un tacito accordo fatto di un impossibile sguardo.


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UN POMERIGGIO BIZZARRO

di Alessandro Napolitano

Esistono racconti di cui è impossibile perdere la memoria, fosse solo perché portano con loro un insegnamento e possono essere oggetto di riflessioni importanti. Sono avvenimenti speciali, dispensano emozioni, e non è raro che sappiano segnare il destino di chi li narra e di quanti li ascoltano.
Poi, ci sono storie altrettanto incredibili che hanno l'ambizione di non trovare un senso logico nella vita quotidiana. Hanno una forza dirompente, stravolgono l'ordine naturale delle cose e alterano l'esistenza di quanti incrociano il loro divenire. Di queste storie resta ben poco, di certo non il motivo del loro inizio e tanto meno la ragione per la quale diventano una seconda pelle da cui è impossibile svestirsi.
È di questa seconda categoria che voglio raccontarvi e lo farò con quanta più onestà porto nel cuore.
Un pomeriggio di ventidue anni fa, mi trovavo in casa da solo, i miei genitori erano al lavoro e mio fratello studiava fuori Roma. I ricordi di quei minuti si alternano come diapositive proiettate in dissolvenza, alcune di queste sono limpide, altre si confondono tra loro e perdono di definizione. Ancora oggi, questa incertezza, mi provoca un enorme disagio, una sensazione di smarrimento. Fate conto che è come avvertire caldo e freddo nello stesso istante; è vedere l'ago della bussola sfarfallare tra il nord e il sud; è dovere scegliere tra il bianco o il nero, senza avere il conforto di potere optare per un democratico grigio. Avvertire "precarietà" è un male, anche per quanti hanno fatto un'esperienza simile alla mia.
Tra le memorie di quel pomeriggio c'è il sapore del latte concentrato che mi riempiva la bocca. Mi trovavo seduto sopra il tavolo della cucina e succhiavo il nettare da un tubicino bianco e azzurro. Le gambe penzolavano a pochi centimetri dal pavimento e guardavo le scarpe da ginnastica che indossavano. La radio era accesa e trasmetteva "Mad World" nella versione originale dei Tears for Fears.
Ho alzato lo sguardo e mi sono accorto che l'orologio segnava le sedici in punto. È inutile che mi metto a studiare, ho pensato. E qui finiscono i ricordi sui quali potrei scommettere.
Sono saltato giù dal tavolo e mi sono avvicinato al frigorifero, ho aperto la porta e la luce al suo interno si è accesa.
Per la verità, accesa è dire poco. Questa ha iniziato a brillare sempre più intensamente, fino ad accecarmi. O magari chissà, forse quella luce è rimasta flebile come è sempre stata, ma è tutto intorno a essa che è collassato nel buio più profondo. In quel momento, senza alcuna possibilità che potessi essere vittima della suggestione, ho sentito una mano posarsi sulla spalla destra e stringerla forte.
All'epoca dei fatti ero un ragazzino tutto energia e sport. Da lì a pochi minuti avrei preso parte a una partita di basket e quella sera, non dimenticatelo questo particolare, sarei stato il protagonista di un evento speciale. Inoltre, ero preoccupato per lo studio, visto che la mattina seguente mi avrebbero interrogato e la mia preparazione non era adeguata. È importante sottolineare questi aspetti, perché vedete, quando ho avvertito la mano toccarmi, ho pensato ai miei nonni. Non a quelli che ancora oggi sono in vita. No, troppo semplice. Mi sono venute in mente le due persone che hanno lasciato questo mondo nei primi anni del 1970, che ho conosciuto solo da neonato.
La mia mente ha proiettato i loro volti sorridenti nella luce del frigorifero e quel tocco leggero sulla spalla è arrivato da loro. Una convinzione insolita per un ragazzo che stava facendo ragionamenti ben diversi.
Ho chiuso gli occhi e la pressione della mano è svanita. I miei pensieri hanno iniziato a navigare lontano, prendendo la forma di sottili linee parallele e accendendosi dei colori più disparati. Ho perso aderenza con la realtà, ma sono rimasto vigile e il mio stato d'animo è stato assaltato da un'euforia incontenibile.
Pronti a conoscere come si è evoluta la storia? Spero di avere la vostra fiducia perché è raro che trovi la voglia di raccontare quanto segue.
Quando ho riaperto gli occhi, mi sono ritrovato disteso sul pavimento della mia stanza da letto, collocata dalla parte opposta della casa e ad almeno dieci metri dal frigorifero. Ho guardato l'orologio, le sedici e ventinove. Mi sono affacciato sul corridoio e ho fatto una scoperta che mi ha lasciato senza fiato: la porta che dava sulla cucina era chiusa.
Non posso spiegare come abbia fatto ad attraversare l'intera casa, ad aprire e chiudere una porta, senza ricordare un solo passo. E soprattutto, non ho una risposta a quei trenta minuti di vita apparentemente persi. Sono rimasto cosciente, lo ripeto, ho seguito con l'immaginazione quelle linee colorate che si propagavano ovunque e galleggiavano in quella luce accecante. Un istante dopo ero da tutt'altra parte.
Molti anni più tardi, mi sono imbattuto in uno di quei test che tentano di stabilire se una persona è stata oggetto di abduzioni aliene. Ho risposto alle domande con estremo scetticismo e una sana dose di ironia. I risultati sono stati contrastanti, sempre che di risultati si possa parlare.
Ricordare quanto è accaduto mi provoca un fastidioso senso di smarrimento, ma l'essere stato al centro di avvenimenti tanto straordinari mi ha convinto a credere nell'esistenza di qualcosa di superiore. Non voglio fare riferimento a nulla di divino, mi basta pensarlo più evoluto di me.
Una volta lessi la frase di un tizio, scusatemi ma non ricordo il nome. Lui scriveva: "Abbiamo una predisposizione naturale a riempire gli spazi vuoti." Ecco, è come se fossi stato capace di riempire una delle infinite caselle che formano il cruciverba della conoscenza umana. La soluzione dell'enigma è ancora lontana e io, in tutta sincerità, non ho fretta di scoprire cosa davvero sia successo.
Quel pomeriggio di novembre ha avuto il merito di mostrarmi il sorriso dei nonni che non conosco e di regalarmi un'avventura bizzarra. Sono stati due omaggi unici e irripetibili, il preludio ideale per celebrare l'evento che mi avrebbe visto protagonista e di cui vi ho accennato qualche riga più in alto.
Perché vedete, per una strana coincidenza, quel pomeriggio di novembre era il giorno del mio diciottesimo compleanno.


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UN'ALTRA VITA

(fuori gara)
di Alhelì

9 Settembre 2007. Arrivo a Piacenza nella clinica dove verrò operata.
Ho scoperto nove mesi fa di avere un neurinoma al nervo acustico sinistro.
Mi guardo nel vetro del portone d'ingresso, troppo a lungo per essere semplice vanità. La risposta non è male: florida signora di quarantaquattro anni a giorni, lunghi capelli rossi, belli anche se non naturali, un metro e mezzo di energia, sorriso generoso.
Sono ancora abbronzata, la lunga estate siciliana e il suo sole mi hanno lasciato questa carezza sul corpo per ricordarmi che un'altra estate verrà.
Entro e comincio il rito dell'accettazione. Mi spediscono in reparto, nella mia stanza doppia.
Prelievi obbligatori; all'infermiera che parla con quell'accento dolce e strano per le mie orecchie abituate a suoni ben più duri e gutturali, chiedo quando potrò ricominciare a fare sesso, accompagnando la mia domanda con un sorrisetto malizioso. Mi guarda imbarazzata e mi suggerisce di rivolgermi al dottore.
Ho forse detto qualcosa di strano?
Sì, è vero un neurinoma non è un'appendicite ma non è neanche un carcinoma maligno. In fondo è una cosetta da un centimetro e mezzo.
C'è qualcosa che non mi quadra e questa brutta sensazione è rafforzata dall'ultima visita. Il dottore m'illustra la modalità d'intervento meno rischiosa per il mio cervelletto ma che comporterà la perdita totale dell'udito nell'orecchio sinistro.
Oh cazzo questo forse era scritto in una minuscola postilla in fondo all'opuscolo informativo che mi hanno dato mesi fa?
Io non l'ho letta e se l'ho letta ho fatto finta di non notarla. Gli chiedo per essere rassicurata: cosa sceglierebbe lui per sua moglie?
Silenzio imbarazzante, e poi sorridendo dice: — La morte! E mi comunica di essere divorziato.
Ci voleva per sdrammatizzare. Salgo in camera, il tempo non passa mai, sono a digiuno e non posso neanche bere.
Ho poco da dire a mio marito. Taciamo per non piangere perché le parole sono vuote adesso.
Entra un'infermiera che mi porge del leva smalto: devo lasciare le unghie dei piedi e delle mani pulite. Chiedo perché. È solo per controllare che non diventino nere durante l'operazione. La sua gentile risposta non mi tranquillizza.
Mi costringono a lavarmi con un disinfettante, tutta: capelli e corpo per prevenire eventuali infezioni. Il medicinale ha portato via con la sporcizia anche la luce.
Non c'è più luce dentro e fuori di me.
È notte adesso. È notte fonda, l'oscurità mi pesa e mi fa piangere.
Silenziosamente singhiozzo per non svegliare mio marito: non è ancora giunto il momento.
Provo, coprendo l'orecchio sinistro, a capire come vivrò da oggi in poi.
Vengo colta dal panico, non urlo ma corro in bagno a vomitare l'ansia.
Bussano alla porta, un'altra infermiera mi porta delle calze elastiche da indossare per evitare la trombosi, mi spiega senza che glielo chieda.
Ma cosa hanno intenzione di farmi? Sono tentata di scappare e continuare a portare con me il mio bel neurinoma, lì dove ha deciso di risiedere, per tutto il resto dei miei giorni. Ma non riesco a passare dal pensiero all'azione.
Mi portano il camice, mi svesto per indossarlo, sono nuda sotto e indifesa ovunque.
Alle sei vengono a prendermi in barella, non sono una condannata a morte ma la sensazione deve essere la stessa.
Mio marito mi segue finché non sparisco dietro una porta.
Due file di esseri odiosi vestiti di verde come carnevaleschi ramarri, mi aspettano in silenzio.
Due di loro mi afferrano e mi deturpano. Tagliano impietosamente i miei capelli da un solo lato, dall'altro no, nonostante le mie disperate richieste. È il protocollo che non lo prevede.
Li odio. Odio tutti, loro, me stessa, mio marito che non mi ha fermato, il dottore che ha fatto la diagnosi, Dio che mi ha cacciato in questo corridoio di ospedale. Odio i ramarri ancora di più quando ammirano a voce alta quei ricci rossi che cadono come foglie morte e il rumore della falciatrice che completa il lavoro copre le loro sciocche fucilate. Sento freddo in testa e nel cuore adesso.
Mi portano in sala operatoria. Sento ancora più freddo, forse sono già morta o forse sto solo dormendo attraverso un incubo. Mi legano. Chiedo perché; troppi perché in questi giorni e ogni perché ha una risposta. Devono operarmi girandomi sul fianco destro. Cerco con gli occhi il mio dottore quello bello e giovane che sorride e scherza sempre ma ora è serio e silenzioso e impettito come un bersagliere.
Tra le lacrime gli chiedo di fare in modo che io possa rivedere i miei figli.
Mi dice di stare tranquilla. Le ultime parole che sento sono: — Respiri signora e conti fino a dieci.
L'ultima cosa che vedo è la maschera dell'ossigeno avvolta dalla luce accecante che mette fine alla mia vita.
Quando riapro gli occhi, dopo un giorno incosciente in sala rianimazione, chiedo uno specchio. Osservo quella specie di mostro bendato nato in quelle sette ore di operazione, non lo conosco e non mi piace.
Lascio cadere lo specchio che s'infrange in mille pezzi proprio com'è accaduto a quell'altra.
Sono quattro anni che cerco di fare amicizia con questa me nuova e diversa, fragile eppure più forte, a volte vinco e sorrido con la smorfia che mi consente il mio viso spezzato.
A volte perdo, piango e impreco; cado e mi rialzo centinaia di volte ogni giorno.
Fa tutto meno male adesso, le cicatrici nel cuore e nella testa non urlano più e sembrano invisibili agli occhi degli altri.
Sogno a volte di essere normale, poi mi sveglio e, nello sforzo immane di vivere con la mia estranea, soffro ancora tanto e finisco con l'esprimere il mio dolore con parole come queste.
MASCHERA
Guardo allo specchio
La maschera del mio viso:
una pianura arida
solcata da pensieri e desideri vani;
stagni immobili di acqua putrida
dove nessuna luce trova spazio
per riflettersi.
Cunicoli oscuri
vuoti del soffio della vita
dove non passa alcun refrigerio;
uno stretto canyon non percorso dalla gioia
perché lì la gioia non può più arrivare.
Solo la foresta selvaggia
che circonda questa spaccata maschera di morte
sembra portare la vita
dove la vita
è stata tranciata.


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SENZA TITOLO

(fuori gara)
di Alessandra89

Uno sguardo e cominci a riflettere. Un solo sguardo...ferito, angustiato, e come rassegnato davanti a tanta indifferenza. "La povertà è nulla agli occhi di chi non ne conosce significato", penso tra me e me. Perché ho provato questa sensazioni di fronte a tale scena? Perché mi sono sentita ridicola al posto suo? "è stato quello sguardo", mi rispondo. Quegli occhi fissi, quasi delusi nel vedere così poca pietà anche in un giorno di festa; hanno suscitato angoscia, stupore, pena! Allo stesso tempo il rammarico fece capolino scagliandosi contro chi, come la maggior parte di noi oggi, ha tutto e non se ne rende conto. Perché lo facciamo? " La povertà è nulla agli occhi di chi non ne conosce significato", continuo incessantemente a ripetermi. Poi ci ripenso e trovo la risposta :-"In realtà, un cuore arido provoca più dolore di una tasca vuota..."


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UN TESTIMONE

(fuori gara)
di Triptilpazol


Non ho scelto di essere ciò che sono. Ho solo cercato. Perché sono curioso.
Da sempre sono stato determinato a rispondere a due domande: cosa sono e dove sono.
Non ho scelto di essere io ciò che sono, eppure ho cercato e ho svelato, perché sono sincero.
Mentre tutto muta e si rinnova.
Mentre le persone si affannano a restare ferme.
Sono sorde e cieche.
Imbrigliate nelle loro ragnatele.
Sono la pagina del libro, letta e fraintesa.
Noiosa, perché saccente.
Scomoda perché incontestabile.
Sono il bambino annoiato dai giochi scontati dei suoi coetanei.
Sono un viandante sulla soglia.
Il dubbio è l'unica certezza che ho.
Non ho scelto io di essere da sempre determinato perché curioso.
Non ho scelto né di essere determinato, né di essere curioso.
Non l’ho scelto perché non avrei potuto.
Come potrei, se pure avessi potuto essere stato io a scegliere, accertato che io è solo inganno e menzogna?
Una perversa illusione.
Ritengo che tanti individui, intelligenti per presunzione millenaria, ignorano le risposte ai due quesiti, che una coscienza dovrebbe porsi.
Se non altro per tentare di soddisfare una spontanea curiosità, troppo spesso sedata per indolenze personali o narcosi indotte.
Puntuali appuntamenti a cui si rimane impigliati, nell’attesa di esiti convenienti.
Tante persone hanno paura di sapere.
Temono la scomparsa dell’idea, magari neanche tanto consapevole, che ognuno ha di sé.
Preferiscono ignorare, piuttosto che rinunciare alle dipendenze che forniscono alibi al senso di cui hanno bisogno per poter dire io sono: piacere, considerazione, potere, alienazione.

Di io l’umanità discute da tempo nemmeno più documentabile.
Il concetto che lo giustifica è l’individualismo. Scelta diffusa di recente, per la giovane coscienza umana, spesso ancora impaurita da superstizioni medievali.
Un presunto io è un individuo, una persona.
Questa idea identifica la propria forma, è il soggetto delle relazioni.
Biologicamente un animale.
Un mammifero.
Frutto di trasformazioni di elementi semplici che combinano organismi complessi.
Come gli alberi, i lupi e i gatti.
Aggregati di forme di vita organica in simbiosi (cuore, cervello, polmoni, stomaco, sistemi vari) regolate da intelligenze genetiche.
Evoluzioni di stelle, capaci di coscienza.
Una persona somiglia più a una deformazione dello spazio, da cui dipende in assoluto per la propria sopravvivenza, che all’immaginifica credenza di poter esistere al di fuori di un ambiente, adeguato alle sue necessità.
Cibo, temperatura, forza di gravità, pressione, elettromagnetismo.
Senza tener conto dei bisogni affettivi.
In niente è autosufficiente.
È totalmente dipendente.
La pelle che riveste il corpo di una persona è più un collante che una barriera, per difendersi dal presunto esterno in cui è immersa.
Permette una immaginaria separazione che garantisce la possibilità di essere.
Dotti pensatori hanno dogmatizzato allegorie riguardo la sostanza (il sostantivo!) che potrebbe giustificare l’esistenza di un io: identità.
Magari una cura di ormoni potrebbe contribuire a un tentativo di equilibrio esistenziale.
Non esiste alcun io.
Ci sono solo testimoni. Per ognuno dei quali se stesso e tutto il resto sono solo oggetti per una storia.
La stessa con cui si giustifica e difende l’io.
Fantasma autolesionista.
In ogni caso, nessun dramma.
Stai leggendo solo una sequenza di segni grafici convenzionali.
La sintesi di un impulso che attraverso fenomeni elettrici suggerisce interpretazioni.
Una voce prodotta da una struttura davvero mirabile, che sembra esistere da tanto.
Un luogo straordinario e ingannevole.
Vuoto nel vuoto.


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