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Indice:
E
Regolamento delle Gare…
Namio Intile
Marcello Rizza
Roberto Bonfanti
Nuovoautore
Fausto Scatoli
Selene Barblan
Messedaglia
Giovanni p
Temistocle
Andr60
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presenta


Babi Yar

e gli altri racconti


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ebook della Gara stagionale d'autunno 2021


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'autunno 2021


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: memoriale dedicato ai bambini innocenti che furono vittime del massacro di Babi Yar (29-30 settembre 1941).


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un  ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Namio Intile

(vincitore della Gara d'autunno, 2021)


Babi Yar


Ucraina, 29 settembre 1941

Il C.S.I.R. era stato costituito in fretta e furia all'inizio di luglio e messo a disposizione dell'undicesima armata tedesca sul fronte sud, lungo il fiume Dnestr.

Mi ritrovai nel mio vecchio reggimento, il 79° Roma inquadrato nella divisione Pasubio, e all'inizio di luglio fummo inviati, attraverso sterminati campi di grano, solcati da torrenti gonfi d'acqua bruna, che si alternavano a colline colorate dai girasole, nel ventre del gigante eurasiatico.

Sulla strada non incontrammo altro che villaggi abbandonati e dati alle fiamme e colonne di civili in fuga dai combattimenti: tuttavia bastarono quelle poche settimane per farmi perdere le ultime illusioni sulla necessità del regime e ogni residua fiducia sulla lucidità del duce.

Già in agosto il C.S.I.R. aveva affrontato le prime dure battaglie con le retroguardie dell'Armata Rossa, sul fiume Bug, in luoghi dai nomi impronunciabili: Wosnessensk, Pokrovskoje, Yasna Poliana.

Ne uscimmo duramente provati, e io compresi che i tedeschi non avrebbero vinto così facilmente come tutti fino a quel momento avevano creduto e sperato, e come ci avevano raccontato alla partenza dall'Italia.

Capii, dopo averli affrontati, che i russi avrebbero combattuto sino alla fine, senza mai arrendersi, che la Blitzkrieg nazista con loro non avrebbe funzionato.


Non molto tempo dopo il mio arrivo, in un villaggio nei pressi di Kiev, mi trovavo al comando del mio battaglione, in attesa di ordini dal comando di reggimento, ai bordi della strada maestra, quando passarono alcune GAZ M1 requisite con su le insegne da Gruppenführer der SS, scortate da diverse motociclette.

Dopo avermi oltrepassato l'auto al centro si fermò bloccando il corteo, e dall'interno qualcuno trasse fuori una mano facendo segno di avvicinarmi.

Mi accostai al finestrino e riconobbi Manfredi Chiaramonte; da anni non avevo sue notizie, l'amico con cui avevo condiviso gran parte della mia giovinezza, dai tempi della scuola fino all'università, e poi il servizio militare fino alla campagna d'Abissinia.

— Ludovico Velez — esclamò lui, quasi per nulla sorpreso di trovarmi lì, a migliaia di chilometri da casa.

Mi presentò i suoi camerati: — Questo è il Gruppenführer Otto Rasch — disse orgoglioso, stringendo la spalla dell'ufficiale generale.

Il braccio destro di Heydrich a Berlino, seppi poi.

— E questo lo Sturmbannführer della LAH Sigfrid Baumann.

Scattai sull'attenti e feci il saluto militare.

— Mi sembra proprio impossibile — aggiunse sorridente, nel suo italiano che sapeva ormai di tedesco.

— Ananke ci fa rincontrare a diecimila chilometri dall'ultima battaglia! Quanti anni sono trascorsi? — Mi domandò, come se fosse davvero lieto del nostro incontro.

Indossava la divisa nero e argento delle SS, con le spalline di Standartenführer e le mostrine con i colori di un reggimento che non seppi identificare, ma su cui spiccavano due lettere che avevo imparato a temere: SD.

— Manfredi… — balbettai, stupito non tanto di trovarlo lì, quanto con quella compagnia tanto importante. — Sono passati quasi sei anni. Allora era vero quel che si diceva…

Mi osservò incuriosito, ma attese che io continuassi.

— Sei passato al nemico… — provai con una battuta aspra.

Senza riuscire a celare tutto il mio livore dietro quel sarcasmo.

Un desolante ghigno spezzò la bocca di Manfredi e ritrovai quel sorriso indecifrabile che avevo imparato a conoscere sin da ragazzo, e che più di una volta mi aveva turbato.

— Attention — mi sussurrò. — Mon ami comprend trés bien l'italien — e con un cenno della testa indicò il Gruppenführer seduto al suo fianco.

Uscì dall'auto, mi fece segno d'un largo sorriso, e afferrò poi il mio braccio iniziando una passeggiata, come se fosse la cosa più naturale del mondo e ci trovassimo in via del Corso a Roma invece che in una strada devastata di un villaggio ormai ridotto a un'unica rovina fumante.

In lontananza, a oriente, si intravedevano le cupole dorate della cattedrale di Kiev, mentre stormi di Stukas e di Messerschmitt ruggivano sopra le nostre teste, numerosi come nugoli di mosche sopra una carogna, carichi di bombe da sganciare sulla prossima preda oltre il Dnepr.

— Kiev è caduta e presto toccherà al resto dell'Ucraina… — m'informò, senza mostrare alcuna emozione. — La guerra procede nel migliore dei modi per noi.

Poi s'illanguidì e cambiò tono.

— Vedi, io non nutro rancore nei tuoi confronti. È trascorsa una vita e migliaia di chilometri da ciò che avvenne in Africa. Tra non molto questa guerra terminerà e il Nuovo Ordine, che da ragazzi avevamo desiderato e sognato, nascerà; e durerà per secoli.

Mi fermai pieno di fastidio. E sfuggii alla sua stretta. — Il nuovo ordine — ripetei, con una sfumatura di sarcasmo.

— Non ricordi, Ludovico? La nostra speranza era che tutto questo avvenisse il prima possibile. Dovresti gioirne, e invece leggo sgomento nei tuoi occhi — mi rimproverò.

Scrutai Manfredi, gli occhi azzurri e limpidi, il viso asciutto e quasi senza espressione, l'assenza apparente di sentimenti; ed ebbi la certezza che per lui nulla fosse cambiato dai tempi della campagna d'Africa e che, anzi, si fosse rafforzato quel modo di pensare, di vedere il mondo e di sentire la vita. E provai di nuovo quella strana malinconia, quella profonda tristezza, quell'inquietudine priva di contorni che avevo sperimentato al ritorno dal Corno d'Africa.

— Questo è il nuovo ordine per te?

E allargai le braccia, come un Cristo in croce, a indicare le macerie tutt'intorno a noi, i cadaveri dei mugik abbandonati sulla strada e ridotti a una massa informe dai cingolati dei panzer.

— Non ancora… lo ammetto, ma ci sto lavorando… personalmente — mi rivelò.

E mi parve raggiante.

— Presto tutta la zona sarà Judenfrei. E poi toccherà ai bolscevichi e agli zingari, e poi ancora a tutte le razze inferiori…

Rabbrividii e provai un senso di nausea. Tentai di irrigidire il ventre per evitare di rimettere l'unico pasto di due giorni.

E ricordai quella sera lontana, nella piana del Gebat, tra Makallé e Addis Abeba.

— E alla fine della giostra toccherà agli italiani? Perché solo alcuni tra voi stabiliscono, di volta in volta, quali siano le razze inferiori e quali le categorie da eliminare.

— Ti ripeto di stare attento, Ludovico — mi mise in guardia con un tono che non ammetteva repliche.

— Sei rimasto il solito sentimentale, un siciliano incapace di costruire il futuro, come tutti i siciliani, e persino di comprenderlo o interpretarlo. Proprio non riesci a cogliere il bene e le opportunità di questa situazione? Come fai a esser tanto ottuso da non afferrare i lati positivi di una tale, complessa, grandiosa, opera d'ingegneria sociale?

E mi fece cenno di aspettare. Tornò all'auto, scambiò due battute con Rasch, ed ebbi l'impressione che dei due fosse lui quello a dare ordini; poi si allontanò, non senza l'immancabile saluto al Führer.

— Come sei riuscito a salire tanto in alto, Manfredi? A far allontanare un Gruppenführer con un cenno?

Gli uscì un sorriso compiaciuto, quasi una smorfia. — I galloni si conquistano sul campo — si limitò a spiegare.

— E tu non cogli l'inutilità di questa immane carneficina, dove a ciascuno è concesso di dar sfogo all'illimitato spettro delle proprie pulsioni? Tutto cambierà, è vero, ma in peggio — affermai, e per farlo feci ricorso a tutta la mia risolutezza.

— Le vite umane non sono che un dettaglio insignificante nell'immensità del progetto — rispose calmo, come se l'orrore intorno fosse un dettaglio insignificante. — Ho fatto fucilare miei ufficiali per aver detto meno — ruggì, d'improvviso feroce: ma subito sorrise e si ammorbidì. — Dopo ogni vittoria, sai bene, è necessaria la pulizia. Vieni con me, dimentichiamo la guerra per oggi: ti voglio portare in un luogo dove ti potrai rilassare e metter da parte la fatica di questi giorni… uno dei vantaggi di essere uno SS Standartenführer.


Era un bordello quel vantaggio.

Come ce n'erano tanti al seguito degli eserciti, come era sempre stato e come sempre sarà, per rilassare i corpi e rigenerare il morale, per sostituire la stanchezza con un miserevole sfogo di pulsioni sessuali.

Tante ragazze giovani, molte probabilmente neanche maggiorenni.

Ma al contrario delle prostitute dei bordelli che avevo frequentato fino al quel momento, quelle non lo sembravano affatto, piuttosto ragazze di buona famiglia, appena uscite da un collegio o da una casa borghese, con ancora addosso i loro vestiti migliori.

E quegli sguardi tristi tradivano l'umiliazione per ciò che erano costrette a subire e, soprattutto, la paura per ciò che le attendeva alla fine del loro turno di lavoro "volontario" per il Reich.

— Questa è la nostra Frau Honecker, SS Hauptsturmführer — ci presentò Manfredi, in francese, accennando anche alla nostra amicizia di vecchia data.

— Ha qualche novità interessante per me? — Le domandò, questa volta in tedesco. — E qualche dolce ragazza slava per il mio amico capitano… può rimanere tutta la notte, se vuole — aggiunse.

La Frau annuì e sorrise accompagnandomi al piano di sopra.

Entrai in una stanzetta spoglia con un letto disfatto appoggiato al muro, la carta da parati verde ormai sudicia, e una finestra coi vetri rotti affacciata sulla strada.

— Was bist du? — Tu cosa sei, mi chiese la ragazza in tedesco, svestendosi e rimanendo nuda, come se obbedisse a un ordine e non le rimanesse altro da fare.

— Ich bin italianer, je suis un pauvre italien, couvrez-vous, s'il vous plaît — precisai, porgendole una vestaglia.

— Anche voi qui? — si meravigliò lei, con lo stesso francese. — Ma perché siete qui? Perché non rimanete nelle vostre belle città? Perché venite qui, a ucciderci? Cosa sperate di ottenere? — mi rimproverò aspra, facendomi morire dentro.

— Parce que c'est necessaire — mormorai, cercando di confortare me stesso più che lei, cercando di dare una risposta a me più che tentare di spiegare a lei.

— Quel est vôtre nom? — Le domandai.

— Mi chiamo Natasha… fino a tre settimane fa studiavo violino al conservatorio, prima che arrivassero i tedeschi a spazzare via le nostre vite — mi sussurrò, come se se ne vergognasse. — Mi hanno presa in un campo di granturco una settimana fa, mentre tentavo di fuggire, insieme ad altre ragazze ebree come me. Mi hanno convinta a servire in questo bordello militare in cambio della libertà. Mi hanno promesso che alla fine del servizio riabbraccerò la mia famiglia… che loro sono tutti in salvo in un campo di lavoro. Solo tre settimane di servizio mi hanno garantito. È buffo… una settimana fa non conoscevo gli uomini; adesso devo servirne cinque l'ora per diciotto ore, ogni giorno.

La osservai… sembrava ancora una bambina Natasha, con la pelle diafana di chi non vede il sole da troppo tempo e dita lunghe e sottili usurate dalle corde del violino; occhi tristi e gentili, ardenti per l'intensa stanchezza e la paura, la silenziosa disperazione che nasce dall'incertezza del proprio futuro.

— Il suo amico è un uomo importante, sa — mi rivelò Natasha. — Ha una terribile fama. Anche i generali della Wehrmacht chinano il capo davanti a lui. Ma lei… pare così diverso. Vraiment vous étiez amis?

— Oui, dans une autre vie — in un altro mondo, risposi.

Mi avvicinai e le offrii una sigaretta.

Natasha fumò voluttuosamente le pessime Milit italiane tagliate con lino e segatura, fumò come se quella fosse la prima sigaretta della sua vita… o forse l'ultima.

— Tous les italiens sont aussi gentils avec les filles? — Mormorò Natasha, con l'improvviso cambio d'umore che hanno i condannati a morte, quando un'improvvisa, incredibile, buona notizia riaccende una sopita speranza.

— Tutti gli italiani sono gentili. Gli italiani non sono cattivi — risposi. — Comme les russes.

Natasha si mise a piangere, singhiozzando lentamente, tenui accordi di viola in chiave di sol.

E infine lo chiese.

Era la domanda che valeva una vita.

L'unica domanda ad avere importanza.

— Credi che manterranno la parola? Che ci faranno andar via senza farci del male?

— Perché non dovrebbero? — Risposi sfiorandole il viso, ma sapevo bene che era una menzogna. — I tedeschi mantengono sempre la parola. Riprenderai a suonare il violino e diventerai una grande concertista, non temere — la incoraggiai, con la morte nel cuore.

Si addormentò, esausta com'era, mentre le carezzavo dolcemente i lunghi capelli biondi.

Poi, era quasi l'alba, afferrai la giacca e andai via.

— Herr Prinz Manfred — mi fermò frau Honecker nel suo tedesco dall'inflessione sassone, quindi balbettò in francese. — Le ha lasciato un biglietto e mi ha pregato di dirle che la verrà a prendere domani alle cinque. Si faccia trovare davanti al comando del suo reggimento. I suoi superiori saranno avvisati. La prega di essere puntuale — terminò, sfoderando un magnifico sorriso, come se il luogo in cui si trovava fosse il più normale del mondo e la sua una onorata professione.


Non ci sono monumenti su Babi Yar. Un burrone ripido come rozza pietra tombale…

Babi Yar, E. Evtushenko


Partimmo all'alba, su di una kubelwagen, diretti a un luogo chiamato dagli ucraini

Babi Yar

Manfredi mi pareva contento, come se stesse andando a un picnic, e rammentava i vecchi tempi, le gite al mare da ragazzi, gli anni dell'università a Torino, il servizio militare, l'addestramento nella Milizia Volontaria a Sora.

— Porti ancora l'ouroboros di Ananke — osservai, per sfuggire a quei ricordi.

— Ogni cosa nasce, muore e poi ritorna — replicò lui, e mi mostrò l'anello, all'anulare della sinistra, come una fede nuziale.

— Il serpente si avvolge al tempo, e tutto ritorna, unità nella diversità — osservò. — Accompagna la mia famiglia fin dal regno di Ruggero… una storia che ritorna sempre uguale: guerre, massacri, pace e poi ancora guerre — aggiunse, con una sorta di compiaciuta malinconia.

— Forse si può spezzare — azzardai. — È possibile spezzare la catena. Si possono non ripetere sempre gli stessi errori.

— Può darsi — ammise, con mia sorpresa. — Ho sempre seguito Ananke, non mi sono mai opposto a lei, come invece tenti ancora tu. Per questo sei qui con me — e mi sorrise. — Tu vedrai e capirai: poi cambierai il nostro destino.

— Vedere? Cambiare… — balbettai.

— Vedrai ciò che nessun italiano ha mai visto, prima di te. E, alla fine, comprenderai.

Rabbrividii. — Dove stiamo andando?

— Il nome non ti dirà nulla. È solo un luogo anonimo, dietro il cimitero di Kiev. Là aspettano gli uomini del mio Sonderkommando.

— Sonderkommando? — Feci pieno di stupore.

— Girano voci in Europa… da anni. Le menzogne che le coprono nascondono la realtà. Il nazionalsocialismo ha fatto grandi passi in avanti, ma continua ad aver paura delle parole e nasconde le sue stesse azioni, la sua stessa essenza; come se la verità fosse troppo orribile per essere rivelata, troppo cruda per essere raccontata. Ci costringono a nasconderci… bugie, depistaggi, verità dette a metà o dette al contrario.

Oggi avrai l'opportunità di guardare la realtà in faccia, senza veli — aggiunse, e diede ordine allo staffiere di partire.

Babi Yar era come una ferita sul terreno piatto, come un contorto letto di un fiume privo d'acqua che attraversava la periferia occidentale fradicia di pioggia.

Migliaia di civili erano in fila sulla strada, scortati e sorvegliati dai collaborazionisti ucraini, da giorni avevano avuto l'ordine di recarsi in quel luogo con i propri mezzi, tirandosi dietro lo stretto necessario.

— Cosa sta succedendo — domandai, con voce rotta, quasi gemendo. — Dove stanno portando questa gente? Sono civili… donne, vecchi, bambini.

— Non sono propriamente persone… sono ebrei, zingari. E bolscevichi: funzionari del partito comunista, commissari politici, con le loro famiglie. A questo servono gli Einsatzgruppen. A eliminare i nemici del popolo.

— Ma quali nemici… vedo solo donne, bambini, neonati — protestai sbigottito.

Non riuscivo a credere a quello spettacolo, a quel che accadeva.

Manfredi si avvicinò a un gruppo di SS, che lo salutarono saltando sull'attenti e alzando il braccio.

Puzzavano di alcool ed erano visibilmente fuori di testa, le mani lorde di sangue e le divise cosparse di resti umani.

Il fetore della morte avvolgeva ogni cosa, come le grida di uomini e donne disperati condotti a una morte orrenda insieme a tutti i membri delle loro famiglie.

— Siedi — mi ordinò Manfredi, e mi porse un trespolo di legno.

Vomitò dei secchi ordini in tedesco che non compresi.

Un centinaio di donne, alcune giovanissime, altre vecchie, molte madri con i figli stretti al seno, si avvicinarono.

I collaborazionisti ucraini urlarono loro qualcosa e le donne poggiarono a terra i pochi bagagli e piangendo iniziarono a togliersi gli abiti di dosso.

Alcune esitavano, ancora per pudore o bloccate dalla paura, e venivano massacrate con i calci dei fucili, i ventri aperti con le baionette, per incitare le altre a sbrigarsi, a correre senza perder tempo verso il luogo prescelto per la loro morte.

E i neonati, li lanciarono in aria facendo il tiro al bersaglio con le loro Schmeisser.

Poi, in un tripudio di follia, in mezzo a urla, spari, voci disumane, tutte vennero fatte scendere nel fosso.

Manfredi scese con alcune di loro, quasi confortandole, come un lupo che lecchi l'agnello prima di saltargli al collo.

E una volta giù estrasse la Lüger semiautomatica, sistemò le donne in file di tre e sparò loro al capo.

Un colpo ogni tre teste.

E poi ancora e ancora e ancora, fin quando la pistola non si scaricò.

— Un vero toccasana per l'economia del Reich — esultò. — Ventuno inumani con nove colpi.

Non ci vidi più. L'orrore superò ogni argine e mi costrinse ad agire.

Afferrai la pistola d'ordinanza e scesi nel fosso, intenzionato a uccidere Manfredi e a morire con lui. Ma non feci molta strada che due SS mi ghermirono alle spalle e mi disarmarono.

— Sei un inguaribile sentimentale — rise Manfredi. — Tuttavia mi hai dimostrato di non essere un vigliacco, come tutti i siciliani.

— Dovevo ucciderti quel giorno nella piana del Gebat — gli urlai in faccia, con tutta la rabbia di cui ero capace. — Dovevi morire tu, non gli altri uomini della colonna Diamanti! Io ti dovevo uccidere!

— Ma non l'hai fatto — mi disse con un tono pacato, e si avvicinò mentre tentavo di divincolarmi dalla stretta dei suoi sgherri.

Il suo viso aveva un'espressione dolce e mi carezzò, come aveva fatto con i suoi ebrei.

Poi aggiunse: — In quei giorni del trentasei ho compreso tante cose. E tante altre sono venute dopo, girovagando per quest'immenso braciere che è l'Europa. In Spagna, in Polonia, in Francia, qui in Russia. Adesso sono io che posso uccidere te, quando voglio, come credo. E potrò farlo sempre, perché io ho capito. Io ho visto Ananke in faccia.

— E allora uccidimi, che aspetti! — Gli gridai contro, dando fondo a tutto l'odio che avevo dentro.

— Non ti ucciderò — e mi abbracciò.

Mi trascinò lontano da quel massacro, lontano dai suoi uomini trasformati in mostri disumani, e il suo sguardo mi sembrò che si fosse addolcito.

— Se vuoi porre fine a questo macello un modo c'è — mi confidò, cambiando tono, come se mi parlasse per la prima volta.

Ed ebbi l'impressione che i suoi occhi si riempissero dell'antica luce mediterranea pervasa dalla Misura.

Ci avvicinammo alla kubelwagen, mentre non distante continuava a regnare l'orrore.

— Ma dovrai esser pronto a sacrificare ogni cosa — mi rivelò. — In cambio di milioni, decine di milioni di vite: non esiste altra via. Babi Yar non è che l'inizio, Ludovico.

La sua voce si era fatta sottile, come se stesse pregando.

— Continua — lo esortai, cercando di reprimere la diffidenza e il disgusto nei suoi confronti.

— Ho numerose amicizie all'interno dell'OKH — mi rivelò. — A fine agosto doveva avvenire una visita alle truppe del Duce e del Führer: dovevano visitare le retrovie, non lontano da Uman'. L'incontro invece avverrà domani, qui a Kiev. Insieme faranno visita al Savoia Cavalleria, a reparti della Legione Tagliamento e della LAH; insieme conferiranno delle onorificenze.

— Non capisco — balbettai, provando a farmi coraggio.

— Diversi esponenti dell'Alto Comando sono sicuri di andare incontro a una rovinosa disfatta; più volte, negli anni passati, hanno provato a eliminare il Führer per dare vita a un putsch. E con un governo militare porre fine al conflitto. Ma ogni volta i tentativi non si sono concretizzati.

Mi afferrò per le spalle e mi guardò dritto negli occhi.

— Questa è la volta buona — mi rivelò, pieno d'entusiasmo. Pensa quante vite potranno essere risparmiate.

— Immagino che avrai un posto d'onore nel nuovo governo… — lo rimproverai, aspro.

Cercavo ancora di capire quali fossero le sue reali intenzioni.

— Non chiedo nulla per me — fece, e, questa volta, mi parve sincero.

— E Goëring, il tuo Himmler? Non sono addirittura peggio di Hitler?

— Possiamo contare sulla fedeltà di molte divisioni dell'esercito. Disarmeremo le SS non appena giungerà notizia della morte del Führer — mi confidò.

Aprì il bagagliaio dell'auto e prese in mano una boccetta cilindrica, di vetro trasparente.

Svitò il coperchio e mi fece annusare il liquido incolore.

— Sembra acqua — mormorai. — Ti stai prendendo gioco di me?

Avvitò il coperchio. — Basta premere col pollice qui, è il detonatore, con forza, e il gioco è fatto.

Si avvicinò a una fossa piena di cadaveri e lo lanciò dentro. L'esplosione fu devastante.

La strage si fermò per un attimo, e poi riprese, come se nulla fosse accaduto.

Manfredi si avvicinò di nuovo.

— È un esplosivo sperimentale. Molto compatto e potente, quanto una granata da 81 per farti capire. Sono riuscito a inserire il tuo nome nella lista degli ufficiali che verranno decorati, Ludovico. Ti dovrà esser conferita la croce di ferro di prima classe: e faremo in modo che sia il Führer in persona ad appuntartela al petto.

— Le sue guardie del corpo mi perquisiranno — obiettai.

— Ti leveranno solo l'arma. Invece terrai la boccetta nella tasca della giubba, insieme alla mano, che fingeremo offesa. Se le troveranno dirai che si tratta di un tonico per l'endocardite contratta al fronte. Non ti faranno storie.

— Dunque mi chiedi di sacrificare la mia vita…

— No, Ludovico. Io ti sto supplicando; per cambiare la Storia, il Mondo… Non sospetteranno di te, e quando Hitler si avvicinerà…

— Per cambiare la Storia — ripetei.

E adagiò, tra le mie mani giunte, un'altra boccetta. Sul coperchio c'era una scritta che mi parve in inglese e una sigla:


Astrolite A.

Babi Yar


(fine)



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Marcello Rizza


Fragole, cioccolata e pasta dentifricia


Gildo non avvertiva più lo scandire del tempo. Il presente e il passato si armonizzavano in Kairos, nella cristallizzazione dell'attimo infinito, e per questo non aveva età. Il ritmo del pensiero lo faceva battere dal cuore metronomo, e se l'estetica della ragione va ad attingere da quell'organo, è lì che prende forma e vita l'anima.

Seduto su quella panchina, arredo del giardino tagliato di fresco, nell'agostana quiete, con i sensi sperimentava la natura e con la mente libera codificava e amplificava quell'esperienza sensoriale. Seguì il viaggio di un calabrone ronzante tra i boccioli e a ogni fiore a cui giungeva l'insetto dava il nome: Barbara, Jlenia, Alessandro, Vanda, Raffaella, Giovanna, Noemi, Claudia, Andrea, Itala. Erano nomi di persone care, che meritavano la dedica di un fiore, anche se non ricordava quando e perché quelle persone fossero state belle, quale tipo di percorso avessero condiviso quando lui aveva vissuto il tempo. Colse lo zampettìo di un inarcante millepiedi, certo che calzasse tutte scarpe da tip tap, e ne seguì il sincopato ritmo. Vide gli alberi lontani, ne udì scorrere la linfa e stillare la profumata resina sulle cortecce, ne colse la dilatazione vitale nella formazione dei nuovi anelli. Inquieti pettirossi cinguettavano e volavano incrociandosi su traiettorie brevi e precise.

Il vento lo soccorse, raccolse ronzii e calpestii, cinguettii e scricchiolii, e nel refolo li organizzò come strumenti musicali per concertare un flamenco, un sussulto a ballare. Per altri sarebbe stato impossibile ricavare una melodia da quei brusii. Gli altri fanno la limonata col limone, ma a lui piaceva prepararla con le fragole, la cioccolata e, era il suo ingrediente segreto, la pasta dentifricia.

Qualcuno lo vide pesantemente alzarsi dalla panchina, dimentico del bastone da appoggio, e avrebbero giurato che di lì a poco, con quei movimenti strani e quel passeggio involuto, sarebbe cascato a terra. Gildo si sentiva leggerissimo e forte mentre, come un Hidalgo di Cervantes, distratto dal fronteggiare greggi di pecore e assorto dalla bramata Dulcinea, stringendo a sé una nuvola, volteggiava al ritmo del suono andaluso. Come a Don Chisciotte, gli pareva di udire voci dispettose e malvagie che però destrutturava per togliergli potere, per addomesticarle e assimilarle agli altri suoni che orchestravano l'iberico canto. Nulla e nessuno l'avrebbe distolto da quella danza elegante e maschia, perché la nuvola gli sussurrava di continuare a stringerla nel ballo, che per lui si sarebbe fatta amante, e anche se non capiva più cosa volesse dire "amante", tutto ciò lo eccitava.

Si avvicinò una donna magra, asciugata da una vita dedicata al servizio, sui cinquant'anni, vestita con un camice bianco odoroso di lavanda. I capelli corvini erano raccolti a crocchia, quel mattino come ogni mattina dopo aver preso i voti, prima della liturgia della terza ora, prima che spuntasse l'alba. Impertinenti ciocche, che nelle ore trascorse a faccende si erano liberate, facevano capolino da sotto una candida cuffia. Con una piccola borsa di tela bianca, dove teneva i segreti rimedi ereditati dalle consorelle anziane, si muoveva in sicurezza, graziosa nei comportamenti e autorevole nel contesto in cui si trovava.

Raccolse il bastone da appoggio dell'uomo e porgendoglielo gli si rivolse: — Gildo… Gildo… la stavamo cercando. Non si affanni che fa caldo. È l'ora dell'iniezione.

Ma lui continuò a ballare con la sua creatura di cielo, con la sua Dulcinea dall'incarnato lattiginoso, incurante del richiamo. Nulla e nessuno l'avrebbe distolto da quella danza elegante e maschia.

La donna, sorridendo su chissà quale fantasia stesse vivendo il buon Gildo, pescò dalla borsa una caramella incartata di giallo. Gliela porse dolcemente, lo sguardo affettuoso e intrigante, sicura nella persuasione del suo gesto. La nuvola amante di colpo sparì, i piedi si quietarono, il corpo si protese verso la donna, con la mano aperta. Raccolse il dono di quell'angelo, scartò la caramella e la mise in bocca succhiandola. Distratto, con calma e a braccetto, mentre la donna gli chiedeva di quella danza e di quella fantasia, si fece accompagnare verso la struttura in stile coloniale che l'ospitava. Gildo non l'ascoltava e assaporava felice la caramella al limone che sapeva di fragole, cioccolata e pasta dentifricia.


(fine)



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Roberto Bonfanti


L'uomo che spazza


C'è un uomo che spazza tutto il quartiere.

Non il mio quartiere, uno limitrofo che raggiungo in pochi minuti, nelle mie ormai abituali passeggiate urbane.

In breve tempo l'ho esplorato tutto, si trova in una tranquilla zona residenziale; la strada principale che l'attraversa si interseca con angoli retti alle tante traverse, a loro volta ramificate a formare un complicato disegno labirintico fra le villette, le case unifamiliari e qualche spazio verde attrezzato, utile per le passeggiate dei cani, molto più numerosi dei bambini, da queste parti.

L'uomo è anziano, di più non so dire riguardo alla sua età, potrebbe essere un settantenne in ottima forma o un ottantenne in forma straordinaria. Ha movimenti svelti, decisi, direi nervosi, usa la scopa e la paletta con maestria, è quasi ipnotico nella sua azione di pulizia. Niente lo distrae dalla sua missione — non saprei con quale altro nome definire la sua attività — ben diversa dal lavoro di un netturbino, anche del più solerte. Il suo spazzare non è semplicemente pulire i marciapiedi e badare al decoro del vicinato, ha un che di ascetico, di indaffarata meditazione.

Lo avevo già notato passando in macchina, ma l'attenzione che richiede la guida ci permette solo un quadro grossolano dell'ambiente che attraversiamo, i dettagli sfuggono; la velocità ci dà qualcosa e ci toglie tanto.

Passeggiando, invece, ho iniziato a prestare attenzione a questa figura singolare, alla sua opera insistita. È un po' come quando vediamo un modello di auto che non avevamo notato prima e poi ci accorgiamo che ce ne sono molti in giro. Oppure come ascoltare distrattamente una nuova canzone alla radio e alla lunga iniziare a canticchiare il ritornello a ogni nuovo passaggio. In questo modo l'uomo che spazza ha conquistato la mia attenzione. Lo osservo a distanza, giro intorno a un isolato e quando l'ho di nuovo a tiro ne studio i progressi, fingo disinteresse mentre valuto i risultati del suo operare che, è questa la cosa sorprendente, sono ineccepibili: niente sfugge alla sua scopa. Mi sembra di avvertire il suo disappunto quando non trova qualcosa da raccogliere e vaga con lo sguardo in cerca di un rimasuglio da spazzare via, allora procede velocemente in avanti, sempre con gli occhi puntati verso il basso incurante del caos che lo circonda, la vita mentre si svolge, attento a cancellarne le tracce inevitabili che lascia dietro di sé.

Passeggiare, per come lo intendo io, non ha niente a che vedere con il footing, lo jogging, il walking o qualsiasi altra attività che finisca con "ing", è un esercizio più filosofico che fisico. Lascio vagare i miei pensieri e perdo la cognizione del tempo; ora, però, ho iniziato a fare una tabella mentale degli orari e dei luoghi dove lo incontro, cercando di indovinare i nostri incroci prima che avvengano. A volte ci riesco, altre volte no, probabilmente deve seguire un complicato piano operativo che per il momento non mi è del tutto chiaro.

Credo di aver individuato la sua casa, una villetta a un piano con giardino — curatissimo, ça va sans dire — perché è in quei paraggi che lo incontro più di frequente.

Ammetto di aver atteso con una certa impazienza e una punta di sadismo — di carattere puramente scientifico, per carità — che arrivasse la stagione del vento e delle foglie gialle, solo per vederlo alle prese con quella contingenza. A riprova della mia buonafede posso vantarmi di aver affrontato il freddo e le raffiche della tramontana, quando potevo starmene rintanato in casa al caldo in compagnia di libri e caffè, giusto per spiarne l'opera. L'uomo che spazza ha ripagato i miei sacrifici, l'ho visto intrepido sfidare gli elementi, caparbio nella sua missione, solo un po' rallentata dai più frequenti viaggi verso i cestini pubblici per svuotare la paletta ricolma del fogliame raccolto. Mi sono chiesto anche come avrebbe affrontato la neve, rara da queste parti, ma il clima mi è stato avverso in questo inverno mite e la mia curiosità è rimasta insoddisfatta.

Queste giornate di pioggia primaverile sottile e persistente, invece, mi invogliano a rimanere a casa e quasi mi dimentico dell'uomo che spazza. Ma è in quel "quasi" che abita la mia ossessione; basta un mattino di sole perché mi venga la smania di uscire e andare a cercarlo.

Che questa sia un'ossessione ormai mi è chiaro, la conferma l'ho avuta stanotte, in sogno. Lui non faceva niente di diverso da quello che fa nella realtà, spazzava la via e i marciapiedi, ma mi sembrava più cupo, per qualche indefinibile ragione meno concentrato nel suo compito, come se ci fosse un pensiero che lo distraeva. Ho visto che dopo il suo passaggio uno scontrino accartocciato era rimasto per terra, l'ho raccolto e gliel'ho mostrato. Mi ha guardato come se non capisse l'importanza di quella piccola mancanza, come se fosse una cosa da nulla, mentre per me era il segno di una sconfitta inaspettata, una crepa nella monolitica stabilità degli eventi.

Nel mondo delle cose reali non abbiamo dialogo, in questa dimensione, invece, è stato fin troppo loquace.

Mi ha tediato con una filippica sulle onde elettromagnetiche e sui loro effetti sull'organismo, forse per giustificare il grosso cavo nero che, ho notato, gli spuntava dall'orlo dei pantaloni e si avvolgeva in spire ronzanti, come un serpente in agguato, nell'erba del giardino di quella che credo essere casa sua.

Poi mi ha parlato a lungo — per ore? Il tempo onirico non si misura con l'orologio — della vita e della morte, ma non ha detto niente di nuovo, di interessante e rivelatore, niente che chiunque con una certa esperienza non sappia già.

Mi sveglio un po' demoralizzato, mi ci vuole del tempo per realizzare pienamente che il fascino di quella figura non sia uscito ridimensionato dalla sua deludente versione che mi è apparsa in sogno.

Ma la luce del giorno ristabilisce l'ordine naturale delle cose: lui non è cambiato, è la mia fase REM che mi ha teso un tranello, tentando di sminuire la sua ortodossia.

Con la bella stagione le mie passeggiate si fanno sempre più mattutine, qualche volta mi capita di anticipare le sue uscite, ma di solito lo trovo già al lavoro, in pantaloncini e scarpe da ginnastica, a torso nudo, con la pelle del colore del cuoio, come quella dei vecchi marinai bruciati dal sole.

A volte vorrei sapere perché fa quello che fa. Mi aspetto una complicata teoria filosofica secondo la quale l'ordine e l'armonia dell'esistenza si conquistano con un rito quotidiano di purificazione; ognuno deve trovare il proprio e quello è il suo.

Andando avanti in questo dialogo immaginario gli chiedo perché si limiti a pulire una zona circoscritta quando potrebbe estendere il suo compito ad altri quartieri, a tutta la città e poi, in un delirio metafisico, al mondo intero.

"Un uomo dovrebbe conoscere i propri limiti" è la sua risposta. Sorrido per la citazione e per questo gioco fra di noi. Il mio gioco, lui ne è del tutto ignaro.

Questa terza versione, tutta mia personale, dell'uomo che spazza si pone un po' a metà fra quella ciarliera e fatua del sogno e quella rigorosa e distaccata che vedo tutti i giorni. Probabilmente è il mio bisogno di diventare parte del suo mondo, di esserne attore, seppure comprimario, e non semplice spettatore.

Forse è proprio questo quello che temo, che non voglia rispettare il copione che scrivo per lui, che mi deluda con spiegazioni del suo comportamento banali e fuori dai miei schemi e aspettative. Meglio rimanere nel non detto, in una zona nebulosa del dubbio, dove il mistero conserva intatto il suo fascino.

Peggio ancora sarebbe scoprire che il suo agire deriva da una tara caratteriale o cognitiva. È facile immaginare quanta preoccupazione ne deriverebbe per i suoi familiari. Mi figuro l'imbarazzo di un nipote che paga l'eccentricità del nonno con gli sfottò degli amici, la pena di una figlia impotente di fronte a quella mania incomprensibile, la rassegnazione di una moglie ormai messa da parte nelle priorità e negli affetti.

Ma, in fondo, della sua vicenda umana poco m'importa, la cosa che mi affascina è la sua azione: spazzare non è come passeggiare, del mio vagare non rimane segno tangibile né ricordo, quello che fa lui lascia una traccia per sottrazione. Dove prima c'erano mozziconi di sigaretta, cartacce e foglie ingiallite ora non rimane più niente, la strada ha ritrovato la sua verginità.

Stamattina c'è uno sfaccendato che osserva l'uomo che spazza. Lo noto mentre passo e sulle prime spero che sia intento a guardare qualcos'altro, invece no, mi volto a controllare e non ci sono dubbi, è qui proprio per lui. Se ne sta lì con le mani in tasca, nella posizione del fenicottero, cioè in equilibrio su una gamba, mentre l'altra è ripiegata ad appoggiare il piede a un muretto di cinta. Lo studia con una sfrontatezza che mi irrita, io non ho mai osato arrivare a tanto. Vado avanti per qualche decina di metri e poi torno sui miei passi, rallento quando sono davanti a questo tipo, fingo di armeggiare con il cellulare e mi soffermo frapponendomi fra lui e il mio protetto. Lo sconosciuto mi ignora e si sposta un poco per non perdere la visuale dell'uomo che spazza, aumentando il mio fastidio. Riprendo il cammino e devo far appello al mio autocontrollo per non tornare indietro e dirgliene quattro, come meriterebbe. Più tardi, a mente fredda, rifletto sui motivi del mio disappunto.

Mi fa male ammetterlo, ma devo accettare questa irritazione per quello che è: gelosia. L'uomo che spazza è mio, l'ho scoperto io! Che cosa vuole questo intruso, questo parvenu del voyerismo antropologico? Perché non si cerca un soggetto tutto per sé, che diamine!

Sono turbato da questo sentimento, forse per una ragione più profonda che, finora, non ho afferrato in pieno.

Talvolta mi chiedo se l'uomo che spazza, tutto preso in un'attività che per lui dev'essere dilettevole e terapeutica come lo è per me camminare, segretamente spii il mio vagare senza che me ne renda conto; magari mi ha anche definito l'uomo che passeggia. O forse, semplicemente, vorrei che il nostro rapporto avesse questa natura speculare, ma temo che sia solo una mia chimera, perché lui, ostinatamente, a capo basso, spazza e non si cura di me.


(fine)



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Nuovoautore


Alveari metropolitani


Faccio parte della miriade di api operaie che ogni mattina lasciano il loro alveare e fanno vivere questa città senza colore.

Be', ape operaia è un termine frustrante. Ape impiegata, suona meglio, mi fa sentire un gradino al di sopra del nulla; la qual cosa non è molto ma è sempre meglio di niente.


Sono uno dei mitici e invidiati bancari! Sì, proprio quelli delle mitiche quindici mensilità, delle pensioni da paperoni, del posto garantito a vita. Sì, lo ammetto, sono un privilegiato in giacca e cravatta, dal sorriso smagliante e la felicità permanente… Tutto falso! Come l'illusione di benessere che ti ammalia camminando per le vie di questo carnaio chiamato metropoli!

Abito in un monolocale (io lo chiamo: monoloculo, viste le dimensioni lillipuziane della mia celletta) al dodicesimo piano di un alveare color del cemento, diviso in ben cinquantasette appartamenti, tutti della dimensione di uno sputo.

L'unica finestra si affaccia su una foresta di tegole e antenne, sotto le quali una selva di finestre si affacciano dentro altre finestre.

La mia vita ha uno svolgimento tragicamente lineare: colazione al mattino, corsa alla fermata della metro per raggiungere il posto di lavoro, rientro a casa, cena, televisore e poi letto.

Salvo rare eccezioni questa era la mia giornata tipo. Dico: era, perché da più di due anni ho iniziato a frequentare i residenti degli alveari dirimpetto alla mia finestra.


Stanco dei soliti programmi televisivi, iniziai a osservare… o per meglio dire: a spiare la vita degli altri, dei miei dirimpettai. E dalla mia postazione privilegiata ne avevo di finestre da visitare; alcune a un alito dal mio sguardo, altre un po' più lontane.

Andai a curiosare sin dove la vista mi permise di arrivare, poi, per vedere meglio quelli che consideravo ormai amici di famiglia, e acquisirne dei nuovi, comprai un potente cannocchiale; uno di quelli appoggiati su un treppiede con il quale, stando comodamente seduto sul divano, puoi tirarti dentro casa la finestra e l'intero appartamento del vicino. Un vero spettacolo, altro che i reality!

E da quel giorno la mia, e forse anche la loro solitudine, finì.

Aprire una finestra sulla vita degli altri, vederli muoversi, parlare, infervorarsi senza poter udire nessun suono uscire dalle loro bocche, cercando d'interpretarne il labiale, fu come assistere alla proiezione di un film muto agli albori della cinematografia; c'era pure il bianco e nero delle loro vite scolorite a completare il quadro e rendere il tutto molto verosimile.

Così, per donare un po' di colore e di movimento al loro piattume, decisi di diventare sceneggiatore, regista e doppiatore delle loro tragicomiche gesta.

Scelsi le finestre che più m'ispiravano, assegnai un nome ai protagonisti che vi si affacciavano e iniziai a girare il mio personale film sull'alienazione degli alveari metropolitani.


I primi interpreti a palesarsi sulla scena furono due anziani coniugi, presumo sulla settantina o giù di lì. Andrea e Ginetta, così decisi di chiamarli perché mi ricordavano i miei litigiosi nonni paterni.

Mentre li vedevo discutere in cucina, li doppiavo passando dalla voce baritonale quando interpretavo Andrea, a quella in falsetto indossando i panni di Ginetta.

— Te lo ripeto ancora una volta: ho incontrato Riccardo, ha voluto a tutti i costi offrirmi un caffè, non ho potuto dirgli di no, così siamo entrati nel primo bar, ci siamo seduti e parlando del più e del meno, il tempo è volato — , dicevo, doppiando in tono esasperato Andrea.

— Non ci credo! Tu non me la racconti giusta! Hai perso tempo perché quella puttana della prestinaia ti ha fatto gli occhi dolci e tu ti sei sciolto in brodo di giuggiole! Ma questa è l'ultima volta che ci vai da solo a prendere il pane. Da domani ci andremo assieme, e se la vedo sbattere le ciglia come una farfalla in amore… glielo cavo l'occhio languido! — urlavo, doppiando la voce stridula della Ginetta.

— Ma quali occhi dolci vuoi che mi faccia la prestinaia? Ha settantacinque anni, porta gli occhiali con delle lenti spesse un dito, quella schiaccia gli occhi per mettere a fuoco la vista mentre legge il peso sulla bilancia — , replicavo, ridendo, tornando a interpretare Andrea.

— Non ridere! Non prendermi in giro, sai! Altrimenti vado là e gliene canto quattro a quella! — ribattevo, infervorandomi, osservando l'infiammata Ginetta che lo afferrava per il bavero della giacca e lo scuoteva.


Oltre alla vita di Andrea e Ginetta, sceneggiavo e interpretavo anche quella di Armando. Ma con lui il doppiaggio non serviva.

Armando viveva solo, il mutismo e la cupezza dello sguardo narravano una solitudine immensa. Ingrandendo all'inverosimile il suo volto cercai, penetrando nel fondo degli occhi, di leggerne il pensiero.

Il dolore di un giovanile perduto amore, forse un tradimento, oppure una disgrazia. In ogni caso una delusione così grande dalla quale non si è mai ripreso, e da allora vive solo nel ricordo, guardando e baciando fotografie ingiallite che poi, come le carte di un eterno solitario, posa ordinatamente sul tavolo. Questo lessi nello sguardo pieno di struggimento di un cinquantenne.


Altre finestre accesero la mia curiosità, altri personaggi entrarono in scena, come protagonisti di una lunga narrazione, o comparse di una breve apparizione.


E poi c'era lei ad allietare cupi momenti. Viviana, così l'avevo chiamata in onore della mia collega di lavoro, che se la tirava perché era la preferita del direttore.

Viviana, la venere della scala B dell'alveare prospiciente il mio. Se non ci fosse stata lei a donare un po' di colore e calore al mio film, avrei smesso di girarlo da un pezzo.

Viviana, l'unica vera stella splendente nel firmamento della mia solitudine, entrava in scena preferibilmente il venerdì sera; solitamente in primavera ed estate, alcune volte in autunno e raramente d'inverno.

Il venerdì sera, prima di uscire con le amiche, Viviana si chiudeva in bagno, spalancava la finestra per far uscire il vapore, poi andava sotto la doccia e ci restava per una ventina di minuti; naturalmente con il freddo la finestra rimaneva socchiusa e allora d'inverno, e spesso d'autunno, addio spettacolo. Quando usciva dalla doccia, ponendosi davanti allo specchio del lavabo con indosso l'accappatoio, si asciugava i lunghi capelli, poi controllava minuziosamente ogni centimetro del viso e iniziava a truccarsi, concludendo con un finale epico!

Voltandosi verso la finestra spalancava l'accappatoio, e lasciandolo cadere a terra esibiva le sue grazie. Allargando le gambe si guardava il pube nero sapientemente aggiustato, ritoccandolo ai lati con il rasoio; poi prendeva una bomboletta spray e si spruzzava per bene il pube e fra le cosce: presumo con del deodorante intimo, sicuramente non con dell'insetticida. Infine usciva dal bagno e andava in camera a completare la vestizione adatta alla movida.

La serena bellezza e la voglia di divertirsi di Viviana m'illusero che sì, si poteva essere felici anche vivendo in un quartiere alveare. Ma mi sbagliavo, e lo scopersi nel modo più agghiacciante.

In un insolitamente caldo venerdì autunnale, la vidi aprire la finestra del bagno, salire nuda sul parapetto e, nonostante le urlassi di non farlo, lanciarsi nel vuoto allargando le braccia come se volesse volare via, lontano dalla città e da questa vita.

Il volo terminò pochi attimi dopo sul selciato, spegnendo con la sua vita le mie residue speranze che si potesse trovare la felicità in questo triste contesto.


Ho trascorso l'inverno, riflettendo sul perché di quel gesto. E ora, con la nuova primavera sono qui, sul lastrico solare del mio alveare, pronto a planare in direzione dell'ultimo prato di margherite, prima che l'asfalto lo fagociti, trasformandolo in una nuova immensa rotatoria, dove uomini alienati chiusi nelle loro scatole di latta si fanno centrifugare per lanciarsi nella via di fuga laterale che conduce alla prossima rotatoria, da dove proseguire dopo l'ennesima centrifuga verso un'altra e poi ancora un'altra, così fino alla fine delle rotatorie… o del tempo che la vita ha loro concesso.


(fine)



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Fausto Scatoli


L'ultimo volo del condor


— Ormai siamo arrivati, ma che fatica. Non so come hai fatto a resistere, Marcelo. Nelle tue condizioni, poi…

— Ehi, guarda che non sto morendo. Non ancora, per lo meno. — Anche se mi manca poco.

Gabriele lo scruta. Sa che il suo amico ha pochi mesi di vita. È condannato.

Per questo ha voluto venire qui. Per realizzare un sogno, prima di andarsene definitivamente da questo mondo.

— Però ti saresti potuto risparmiare questa faticaccia prendendo il bus ad Aguas Calientes.

— Gabriele, come fai a non capire? Cosa c'è di più emozionante che entrare qui, un luogo magico, percorrendo la "carretera" di Bingham come si faceva una volta? E poi, per piacere, smettila di compatirmi. Te l'ho già detto altre volte.

— Ok, scusami.

La biglietteria si frappone fra loro e la città, impedendo la visuale. Pagano e passano oltre. Le mura sono a cento metri.

Marcelo si ferma ad ammirarle, commosso. — Guarda, Lele. Guarda che meraviglia. — Ha gli occhi lucidi.

L'amico gli sorride, poi lo incita: — Andiamo a toccare quelle pietre magiche.

Si incamminano. A ogni passo vedono avvicinarsi qualcosa di unico e irripetibile. Non sono soli. C'è parecchia gente, come sempre a Machu Picchu, ma sono avvolti da una sensazione che li isola da tutto il resto.

Entrano nella città.

Le loro mani toccano pietre che hanno visto passare re, sacerdoti e semplici cittadini Inca, in un tempo che non tornerà. Un tempo avvolto ancora da parecchi veli di mistero, sotto molti aspetti.

Per gli dei, per quale assurdo motivo ho aspettato tanto per poter godere di queste emozioni?

— Questo è Intiwayrana, il Tempio del Sole. E quello laggiù è il Tempio del Condor. Ora li visiteremo.

La voce giunge alle loro orecchie come un rumore improvviso che fa sobbalzare, spezzando l'incanto.

— Italiani dappertutto. Ovunque sia andato, li ho trovati — dice Gabriele.

— Sì, ma non aggreghiamoci, voglio essere indipendente, almeno per una volta. Voglio girare da solo le vie di questa favola sospesa nel tempo.

— Certo, non ti preoccupare. Seguimi, ti mostro la Porta del Sole e la piazza principale, poi ti porto all'Intihuatana, "la pietra a cui si lega il sole". Dopo puoi girare quanto vuoi, ma prima devi venire con me.

Marcelo sorride. Sa che il suo amico è un esperto visitatore del luogo mentre per lui, figlio di una peruviana, è la prima volta. La madre gli ha parlato molto di Machu Picchu e degli Inca, facendolo innamorare, ma il suo tempo l'ha trascorso quasi tutto negli uffici, a Milano. Sempre dedito al lavoro. Talmente tanto da dimenticarsi di avere una vita da vivere. Fino a poche settimane fa.


— C'è una scalinata che ci porta alla pietra. Ce la fai?

Lo sguardo è sufficiente, a Marcelo non serve parlare.

Gabriele comincia a scalare la piramide a gradoni, seguito dall'amico.

— Eccoci in cima. Quella è Intihuatana. Forse era un orologio, esattamente non si sa. Secondo me serviva per osservazioni astronomiche, i sacerdoti Inca erano eccezionali in questo.

Marcelo si avvicina alla pietra. Nonostante l'altra gente, lui si trova nel silenzio più assoluto. È attratto da Intihuatana. La tocca e percepisce delle vibrazioni fortissime. Vi si siede e poi si sdraia.

— Marcelo, che fai? — Gabriele cerca di rialzarlo.

— Lasciami, sono solo stanco. E sento qualcosa di strano…


— Un chaski è arrivato poco fa e ha portato la notizia che aspettavamo: il Qhapac Inca verrà per Intiraymi, festeggerà il Sole con noi.

Ypanqi non è molto interessato, ha altri pensieri per la testa.

— Bene.

— Come? Ti ho appena detto che l'Imperatore sarà presto tra noi. Non sei contento?

Il giovane vede nel viso di sua madre una strana eccitazione.

— Perché sei così contenta? Non è certo la prima volta che viene.

— Lo so, ma stavolta può essere diverso. Il giorno della festa verrà sacrificata al Sole una delle vergini e potrebbe essere tua sorella. È nell'Acllawasi da oltre un anno, ormai…

— E tu ne saresti felice?

— Certo. È un onore donare la propria vita a Inti.

— Non pensi al fatto che poi non avrai più una figlia?

— Ypanqi, ma che stai dicendo? Una vergine sacrificata a Inti, finisce nell'HananPacha, insieme agli dei.

— Certo, certo… e comunque non sarei così sicuro della sua verginità.

Se ne va, lasciando la madre ammutolita a rimuginare sulle proprie parole.

Attraversa la città e giunge nei pressi del santuario dove vive Coyllur, la sorella, insieme alle altre prescelte.

Yahuar lo sta aspettando. Devono andare in cerca di harakkehama, l'erba rossa che leviga la pietra, e lui sa dove trovarla.

— Dal viso che hai, direi che non è una bellissima giornata. E non credo sia l'aria gelida — dice, sistemandosi l'awaska per ripararsi.

— Lasciamo perdere — risponde Ypanqi, — andiamo. Ti racconto per strada.


— Marcelo, come ti senti?

La voce è preoccupata. Marcelo apre gli occhi e sorride: — Lele, lasciami riposare. Poi ti racconterò una storia, ma ora la devo vedere.

Gabriele teme per l'amico. Sta delirando.

Decide di lasciarlo fare. Ancora un po', almeno. Ha pochi mesi di vita, meglio si diverta in ogni modo.


Rientrano, infreddoliti e stanchi, ma con i sacchi colmi di erba rossa. Per qualche tempo potranno lavorare la pietra tranquillamente, vista la scorta che stanno portando in città.

Yupanqi è tranquillo. Si è sfogato con l'amico, ma un'amara sorpresa lo attende.

Mentre si avvicina alla sua casa, nota un drappello di soldati a lato della stessa. Non lo sfiora il pensiero che sono lì per lui, non ne esiste motivo. Infatti sorride, visto che li conosce, e non capisce come mai non contraccambino.

Uno di loro gli si para davanti mentre sta per entrare.

— Yupanqi, sei in arresto.

Sbalordito, il ragazzo lascia cadere il sacco. — Perché?

— Per avere abusato di tua sorella.

— State scherzando? Come potete pensare che io… — vede sua madre. — Madre, sei stata tu? Cos'hai raccontato? Non puoi avere fatto questo!

La donna china il capo e torna in casa.

— Seguici. Se stai tranquillo non ti leghiamo.

— Ma non ho fatto nulla. Non ho mai toccato mia sorella…

— Dovrai dimostrarlo, altrimenti sai cosa ti aspetta. Che Apu sia con te.

D'improvviso si getta di lato, tentando la fuga, ma non è veloce a sufficienza.

— Ti avevo detto di stare buono. Ora Supay è sulle tue spalle, non irritarlo.

Yupanqi si dimena e grida, ma viene trascinato verso le prigioni del palazzo del Tukuyrikuq.


È disperato e sa che l'unica persona in grado di salvarlo era lei, Coyllur. Solo lei poteva confessare che l'autore della violenza sul suo corpo è loro padre, morto poche settimane fa in uno scontro con gli Ayarmacas.

Coyllur si è tolta la vita, sopraffatta dalla vergogna. Lui vorrebbe poter fare lo stesso; conosce il suo destino.

Sono innocente e non lo posso dimostrare. E mia madre, come ha potuto pensare questo.

Sua madre. È il pensiero più ricorrente e terribile.


— Non è giusto, non ha fatto niente. — La voce esce flebile, triste. Marcelo apre gli occhi e vede il volto di Gabriele chino su di lui. Non è solo, ci sono altre persone lì accanto.

— Non so di che parli, Marcelo, ma stai tranquillo. Ora ti portiamo giù.

Si scuote, alza un braccio.

— No, Lele, ti prego. Lasciami qui ancora un poco. Ora credo di avere capito il motivo di questo viaggio. Tra poco ti spiego tutto, ma lasciami qui.

Richiude gli occhi e pare addormentarsi, incurante del freddo e del luogo.


Cammina verso la morte, sospinto dalle guardie. Ha sempre considerato assurdo uccidere per fare un piacere agli Dei, ora tocca a lui la parte peggiore.

Oggi è Intiraymi e al Sole verrà sacrificato.

Si fermano ai piedi della piramide, dove gli Amautas stavano aspettando.

Yupanqi si guarda intorno, in silenzio. C'è anche il Qhapaq Inca, sulla portantina. Assisterà all'evento.

Uno dei Sacerdoti estrae un pugnale con la lama d'oro e comincia a salire i gradini, subito seguito dalle guardie con Yupanqi.

Sono in cima, davanti all'Intihuatana.

— Sapevi che avere rapporti con una Aqqla significa la morte, eppure lo hai fatto. Era la prescelta per la festa di oggi, quindi il Qhapaq ha deciso di sacrificarti al suo posto. Avrai l'onore di dare la tua vita a Inti tramite questa lama, creata con le sue lacrime e il suo sudore. Vuoi dire qualcosa?

Il giovane scuote la testa.

— Sdraiatelo sulla pietra — dice alle guardie, che eseguono immediatamente.

Gli occhi di Yupanqi vedono il cielo. Un condor volteggia. Apu Kantu.

— Il mio sangue laverà questa pietra, ma la mia anima vi rimarrà imprigionata fino a quando Apu Kantu tornerà a prenderla.

— Non dovevi parlare — ribatte il Sacerdote.

Alza la mano armata sul petto del giovane e colpisce. Nemmeno un rantolo esce dalla bocca della vittima.

La folla ai piedi della piramide lancia grida di giubilo quando viene mostrato il cuore del sacrificato. Il Qhapaq Inca annuisce e sorride.


Gli occhi si riaprono. C'è parecchia gente, tutto intorno.

— Finalmente, Marcelo! Stavolta ho preso paura. Ogni tanto facevi delle smorfie tremende, hai avuto un incubo? Ora ce ne andiamo.

— Aspetta, Lele, ormai sto per lasciare questo corpo.

— Ma cosa dici? Stai scherzando? O sei ancora in delirio?

— No, sto parlando seriamente. Dimmi, c'è qualche uccello nel cielo sopra di noi?

Gabriele solleva lo sguardo. Solo qualche nube, niente altro.

— No.

— Arriverà, vedrai. E in quel momento io e Yupanqi saremo liberi.

— Chi è Yupanqi? Marcelo, stai delirando…

— Un Inca, morto su questa pietra tanto tempo fa. Io sono venuto qui per salvarlo. Ho risposto alla sua chiamata.

Gabriele non sa più cosa fare. L'amico lo guarda e sorride: — Tranquillo, Lele. È tutto nella norma. Sento che sta arrivando.

— Chi?

— Apu Kantu, il condor sacro.

Un'ombra passa sopra di loro. Alzano tutti il viso al cielo e vedono un condor volteggiare.

— Ciao, Gabriele. Ci rivedremo.

— No, Marcelo, non puoi andare così…

Vede gli occhi dell'amico chiudersi per l'ultima volta, mentre un sorriso addolcisce quel volto sofferente, rendendolo sereno. Lo abbraccia piangendo, mentre alcuni dei nativi presenti si inginocchiano.

Si stacca e alza lo sguardo. Il condor compie un cerchio sopra le loro teste e poi si allontana.


(fine)



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Selene Barblan


Levare l'ancora


Una cornice nera, di plastica, contorna una figura serena, la mano sinistra al petto, distesa, rilassata. La mano destra porge un libro, luminoso, come il viso, che non mi guarda. I suoi occhi sono rivolti verso luoghi lontani, le guance sono solcate da pieghe asimmetriche. Un sorriso o una smorfia, non saprei dire. Attorno al capo un cerchio perfetto, azzurro, bordato di rosso. La divisa nera dà risalto alle mani, al viso, allo sfondo sognante, nuvole di zucchero filato in un cielo di un celeste improbabile.

L'immagine mi sovrasta, appesa, ma sembra quasi sospesa, decentrata rispetto al pulpito dal quale l'oratrice cerca di spiegare concetti, modulando la voce, rivolgendosi in modo magistrale ai vari interlocutori, ponendo interrogativi, sottolineando le parole importanti, danzando nello spazio ridotto del suo palco.

Non riesce però a coinvolgermi, sono distratta, annoiata. Il mio sguardo vaga. Ora guardo la composizione di fiori gialli che, a sinistra del Santo (che non so identificare), brillano anch'essi nonostante la polvere che si è posata nel tempo, sulle foglie di carta, sui petali artificiali.


"…se il bambino è in difficoltà a svolgere il compito…"


Le due grandi finestre arrivano quasi al soffitto, aprono verso l'interno, fintamente accoglienti. Le sbarre tolgono la speranza di far entrare l'aria, di evadere, vagare per la bella città, le tende velano e colorano di rosa i mattoni del "Beata Vergjne di San Luca".


"…il compito è più complesso perché è nuovo…"


Le grosse lampade sporche mi sembrano ghiaccioli esagerati appena usciti dal congelatore; la loro luce rimbalza sui perni dei due grossi ventilatori che, tristi, aspettano immobili il ritorno dell'estate.


"…perché il compito in sé richiede una certa dose di rapidità…"


Le ombre delle gambe delle sedie si intrecciano e sovrappongono come i rami dei cespugli fitti dove, a scuola, correvo a nascondermi nei minuti di ricreazione. Momenti che si dilatavano all'infinito, facendomi perdere il senso del tempo e anche lo spazio perdeva consistenza. Non ero più lì, non ero più una bambina in un giardino, ma un'ospite di un mondo caldo, ovattato, dove luci e ombre, sensazioni, odori prendevano il sopravvento e mi catturavano. Mi soffermavo sulle venature delle sottili cortecce, sulle file di formiche soldato, sui mucchietti di terriccio smosso da insetti o lombrichi esploratori. Mi sentivo talmente protetta dai cunicoli cavernosi e segreti da dimenticare tutto il resto, così che il suono del "gong" doveva risuonare parecchie volte prima di introdursi faticosamente nella mia coscienza. "Din, don, dan, …" inevitabilmente rientravo tardi in classe…


"…allenare la propria mente, è un'immagine che piace…"


Alle pareti pendono rappresentazioni di quadri che rappresentano fiori. Una croce, legno e oro. "Vietato fumare" dice il muro. Anche gli oggetti parlano. Di questo sono sempre stata convinta. Una delle tante particolarità che mi hanno spesso fatto sentire distante dai miei coetanei. Con loro riuscivo a giocare avventure spensierate, ma solo da sola con me stessa riuscivo a godere appieno della fantasia, potevo tornare a quel mondo dell'assurdo e della magia.


"…un contesto che acc…"


Sono tutti seduti, composti, attenti. Riescono a intervenire, parlare, discutere. Farsi capire, articolare pensieri. Io sono stanca di provarci. Ho tentato e stentato per tutta la vita. Forse semplicemente non sono fatta per tutto ciò. Non sono niente di speciale, non sono migliore. Ma non mi sento parte di loro. L'altro mondo mi appartiene di più.


Nell'aula la docente è ancora intenta a cercare le parole accurate per far passare i concetti fondamentali del corso, quando lo sguardo le cade sulla strana signora in fondo all'aula. Quella introversa, con la quale non ha scambiato molte parole durante le pause. Ora ha qualcosa di strano. La bocca è leggermente aperta. Lo sguardo fisso. E mentre la guarda la bocca si spalanca, il bianco degli occhi sorge a cancellare ogni forma di contatto. Gli occhiali scivolano, colano giù lungo il naso lungo. La testa prende una piega strana, si flette. Le spalle perdono tono, le braccia scivolano giù dal banco, la penna cade per terra.

L'insegnante si avvicina piano per capire cosa stia accadendo e vede fuoriuscire dal lato destro della bocca della donna un filo argenteo di saliva, che scorre piano sul mento, poi languidamente si stacca e va a bagnare la maglia sformata indossata dalla sua alunna. Lentamente come la goccia scivola anche il corpo morto, rimbomba a terra. Ogni legame, ogni attaccamento, ogni vincolo si scioglie.


(fine)



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Messedaglia


Il cavaliere del cielo


Che ci faccio qui? E come ci sono arrivato? Non ricordo nulla… Non so come e perché, ma mi ritrovo in un ambiente rurale, forse in aperta campagna. La fitta nebbia che mi circonda non mi concede altri indizi, fatta eccezione per un casolare che si erge di fronte a me. C'è una porta socchiusa, dall'interno filtra una luce tremolante. Tanto vale entrare, non ho molte alternative…

Mi trovo ora in una sala dove ci sono delle tavole apparecchiate: su ognuna di esse, sopra una tovaglia a quadretti, sempre la stessa, sono disposte con meticolosa precisione piatti, posate e un immancabile fiasco di vino rosso. Sembra di essere in una bettola dei primi del Novecento. Ma di avventori nessuna traccia. Mi guardo intorno. Appeso alla parete c'è un quadro con l'effigie di un pilota francese: è in piedi davanti al suo aereo, un Newport 11, la mano appoggiata sull'elica. Anche i nostri aviatori, soprattutto durante i primi mesi della Grande Guerra, hanno volato con questo splendido caccia: Francesco Baracca, Pier Ruggero Piccio, Fulco Ruffo e tanti altri… Mi gratto la testa. Da una stanza alla mia sinistra sento provenire dei rumori, simili a schiamazzi di bambini che giocano. Appoggio l'orecchio alla parete: sì, sembra proprio che ci siano dei ragazzini che si stanno trastullando. Cammino lungo il muro, apro con cautela la porta che ancora mi separa da quel trambusto. Mentre lo spazio visivo aumenta gradualmente, le immagini si fanno sempre più nitide e chiare. Un uomo, con la divisa militare degli Ulani, sta giocando a fare la carriola con un cane di notevoli dimensioni, verosimilmente un danese. Poi entrambi, animale e padrone, perdono l'equilibrio e cadono a terra. L'uomo ride a crepapelle, quasi gli lacrimano gli occhi. Si accorge della mia presenza e, visibilmente imbarazzato, si alza in piedi e si aggiusta la divisa. In silenzio raccoglie il cappello da cui, con gesti energici della mano, toglie via la polvere. Se lo mette in testa. Poi non lo guardo più. La mia attenzione viene infatti catturata dal suo compagno di giochi. Paradossalmente, il cane sembra vergognarsi ancor più del suo padrone e, per qualche istante, ho persino la sensazione di percepirne i foschi pensieri. A testa e orecchie basse si muove verso il fondo della stanza, sale sul tetto della sua cuccia e si mette comodo, con l'espressione imbronciata di chi è stato colto in fallo.

"Buongiorno, piacere di conoscerla, io sono l'Oberleutnant Manfred Von Richthofen, caposquadriglia della Jasta 11. "

Giro la testa, rimango senza parole. Sì, davanti a me c'è proprio lui, il leggendario Barone Rosso. L'ufficiale tedesco si è completamente ricomposto e non mostra più alcun segno di imbarazzo. O forse è semplicemente più bravo del suo cane a mascherarlo. Non posso credere ai miei occhi. Lui, un giovane Sigfrido, l'incarnazione di un eroe medioevale. Sulla sua giacca fa bella mostra la Pour le Merite, croce smaltata di blu e d'oro, la più alta onorificenza prussiana, che gli fu concessa alla fine del 1916, dopo che gli venne riconosciuta la sedicesima vittoria in aria. Durante la Grande Guerra le nazioni coinvolte nel conflitto iniziarono a usare il termine "asso" per indicare i piloti che avessero abbattuto almeno cinque aerei nemici. E lui, con le sue 81 vittorie accertate, fu il miglior pilota di caccia che la storia ricordi. Nel corso della guerra si guadagnò la stima dei superiori e il rispetto e l'ammirazione dei camerati. Capace di trasmettere fiducia e coraggio ai commilitoni, divenne un modello da emulare per tutti coloro che aspiravano a guadagnarsi la gloria in sella a un destriero fatto di metallo.

"Guardi che si sbaglia, finora sono accreditato di sole 60 vittorie, non certo 81, anche se confido di raggiungere presto il numero di abbattimenti che generosamente mi ha attribuito, piuttosto e anzichenò!"

Sono sconcertato, il mio interlocutore ha indovinato esattamente il senso dei miei ragionamenti. Ride.

"Sì, certo che sono in grado di capire quello che le passa per la testa. Perché è così stupito? Ah, si chiede come ciò sia possibile. Ma è ovvio, no? Io e lei percepiamo i pensieri del mio cane, io i suoi, ma non succede il contrario. Davvero non riesce a comprenderne il motivo? Signor mio, mi sembra che lei sia un po' ignorante in tema di leggi della fisica, scusi se glielo dico. E le assicuro che non c'è sarcasmo nelle mie parole. Le faccio una domanda: in che direzione si muovono i pensieri? Non lo sa? Non ci credo… Ma insomma, i pensieri, essendo più leggeri dell'aria, salgono verso l'alto. Be', ecco che, essendo lei, senza offesa, un po' bassino, io riesco a captare i suoi. Lei invece non è in grado di intercettare i miei. Come? Crede che, grazie a questo, io sia in posizione di vantaggio rispetto a lei? Non è proprio così, sa? Percepire i pensieri degli altri significa anche comprenderne il travaglio interiore e fare nostre sofferenze che nostre non sono. E io, che volo alto nel cielo, dove si raccolgono gli afflati umani che salgono dai campi di battaglia, ne so qualcosa. Ma ora bando a queste inutili tristezze. Io mi sono presentato, i principi della buona educazione esigono che lei faccia lo stesso. Di sicuro non è un pilota tedesco. È forse un asso francese? Come? Lei non è un aviatore? E tantomeno un asso? Ciò non va bene, sa? In questo posto sono ammessi solo coloro che si possono fregiare del titolo di asso. Dovrei chiederle di andarsene, ma oggi mi sento particolarmente di buonumore, e per lei farò un'eccezione. Mi palesi almeno il motivo per cui è giunto qui… Non lo sa? Com'è possibile? Le capita forse di girovagare come un sonnambulo, per poi risvegliarsi all' improvviso in un posto sconosciuto? E va bene, le parlerò un po' di me, visto che lei ha così poco da raccontare… Ogni tanto vengo in questa osteria, al confine tra Francia e Germania, per incontrarmi con gli assi inglesi e francesi. Ci unisce una profonda stima reciproca, anche se in aria ci affrontiamo in duelli all'ultimo sangue. Mangiamo e beviamo insieme e, naturalmente, ogni volta commemoriamo i caduti, brindando al loro coraggio e al loro valore. Come può vedere, le pareti sono tappezzate di ritratti di piloti tedeschi, francesi e inglesi che hanno sacrificato la vita per la patria. Si guardi intorno, è circondato da assi!"

Addita le immagini di decine di giovani eroi mentre, con la voce rotta dalla commozione, cita i nomi di commilitoni e di piloti nemici: "Georges Guynemer, Albert Ball, Max Immelman, Hans Berr, Sebastian Festner, Lanoe Hawker. A voi la gloria eterna! E poi lui, il più grande di tutti, Oswald Boelcke!" Mi mette una mano sulla spalla.

"Venga, sediamoci a tavola, oggi è un giorno speciale". Appena seduti prende un fiasco e riempie due bicchieri di vino rosso. "Esattamente un anno fa moriva il mio maestro, l'asso degli assi, Oswald Boelcke".

Che affermazione insensata, devo dare fiato ai miei pensieri, seppur consapevole che il Barone Rosso sarebbe in grado di percepirli anche se inespressi. "Ehm, il valore dell'asso Boelke è fuori discussione ma è lei, Oberleutnant Von Richthofen, il miglior pilota di caccia di sempre! Se ricordo bene Oswald Boelke ha ottenuto solo 40 successi, lei ha già da tempo superato tale traguardo".

"Ah, allora anche a lei è stato concesso il dono della favella… Comunque, non è questo il punto. Non sono i numeri che fanno grandi gli uomini. E ad ogni modo, sappia che se Boelcke fosse sopravvissuto a quell'incidente, a quest'ora ne avrebbe abbattuto almeno cento, di aerei nemici. Non ci sono dubbi. La sua tecnica era ineguagliabile. Quando gli ho chiesto qual era il suo segreto, sa cosa mi ha risposto? 'Mio Dio, è piuttosto semplice, punto direttamente il mio nemico, prendo la mira, faccio fuoco e lui va giù.' Per essere un grande pilota da combattimento non devi essere un acrobata o un tiratore provetto. Devi avere il coraggio di volare diritto contro il tuo avversario. Io sono un anonimo manovratore di aeromobili, lui è una leggenda".

Il tono della sua voce si fa sempre più cupo, in un misto di sconforto e disillusione. Guardandolo attentamente, mi accorgo che il suo volto è solcato da profonde rughe. Nonostante abbia poco più di vent'anni. È stata la guerra a scavare quelle voragini di solitudine e tristezza? Dopo aver tracannato in un unico sorso l'intero bicchiere di vino, probabilmente l'ultimo di una lunga serie, lo sbatte sul tavolo con un gesto energico.

"Lo confesso, dopo la morte del mio maestro ho pensato di mollare tutto, mi sentivo completamente svuotato. Dalle alte sfere arrivarono persino a propormi di smettere con le missioni e di svolgere incarichi amministrativi, lontano dal fronte. A detta dei superiori ormai ero diventato un simbolo per la Germania, e come tale non potevo rischiare di morire, l'effetto sul morale dei miei compatrioti sarebbe stato devastante. Sì, avevo quasi preso una decisione in questo senso… Ma quando ne ho parlato con mio fratello Lothar, lui mi ha dato un sonoro ceffone e mi ha detto: 'Manfred, non ti riconosco più! Davanti a me ora vedo solo un vigliacco, succube delle sue paure, incapace di trovare il coraggio di assumersi le proprie responsabilità!' Aveva pienamente ragione. Mi sarei sentito un verme se, col peso delle decorazioni e della gloria, avessi salvato la mia vita, mentre tutti i poveracci in trincea sopportavano sofferenze inaudite. E così ho continuato a volare. Perché un Richthofen non si tira mai indietro di fronte alle difficoltà che il destino gli riserva".

Il Barone si alza in piedi, inizia a girovagare inquieto per la stanza, si risiede.

"Alcune settimane fa sono tornato a casa, a Schweidnizt, nella bassa Slesia, per una breve licenza. Speravo di trascorrere qualche giorno di serenità con mia madre. Ricordo che un pomeriggio stavo guardando delle vecchie fotografie, mentre il cuore mi si gonfiava di gioia e nostalgia. Mi scorrevano sotto gli occhi le immagini dei miei vecchi compagni della 69a unità in Russia. Mia madre si alzò improvvisamente dalla poltrona dove era seduta, mi si avvicinò, indicando un pilota e chiedendomi cosa ne fosse stato di lui. 'Caduto in battaglia', risposi. Indicò poi un altro giovane. 'Anche lui morto', mormorai con un filo di voce. 'Non farmi più domande, le dissi, 'sono tutti morti'. Mi comprenda, già dopo i primi combattimenti aerei avevo capito che la guerra non consiste solo nella gloria e nel perverso compiacimento di avere ingannato la morte una volta di più, ma ne maturai la piena consapevolezza allorché il colonnello Von Riezenstein, comandante dell'87° reggimento della fanteria di riserva, mi inviò la fotografia del cadavere del pilota nemico da me abbattuto quando conseguii la mia 27a vittoria. In quell'occasione compresi che le mie vittime non erano macchine fatte di metallo, ma persone in carne e ossa. Da allora mi sono sempre portato dentro questo segreto, mascherando la sofferenza interiore con l'ardore giovanile e la posizione di comandante di squadriglia. Io sono il Barone Rosso e come tale mi sento carico di pesanti responsabilità. Il mio dovere è proteggere gli uomini della mia squadriglia, prepararli alle asperità del combattimento, mantenere alto il loro morale anche quando tutto sembra andare a rotoli. Per questo non potevo e non posso tuttora mostrare all'esterno quello che provo veramente".

L'espressione del viso e la postura, con la schiena ricurva e il capo leggermente piegato in avanti, le braccia allungate sul tavolo, quasi non avesse la forza di sollevarle, mostrano in modo esplicito il vuoto interiore che ha dentro. Repentinamente il Barone Rosso si gira verso l'entrata, dando l'impressione di essere in attesa di qualcuno. Ma non si fa vivo nessuno. A causa di quel movimento, scorgo un bendaggio voluminoso sulla sua testa, all'altezza dell'occipite.

"Vedo che ha notato la ferita… Circa due mesi fa stavo combattendo contro un velivolo biposto. A un certo punto l'osservatore ha cominciato a mitragliarmi da una posizione impossibile. Pensavo, che pivello, non riuscirà mai a colpirmi. Eppure, all'improvviso ho provato un forte dolore alla nuca e tutto è diventato nero. Ho perso il controllo del mio Fokker e ho iniziato a precipitare. Ero praticamente spacciato. Poi, di colpo, ho riacquistato la vista. L'altimetro segnalava 800 metri d'altezza. Riavviai il motore e ripresi quota. Guardi, la ferita non si è ancora rimarginata, in questo punto è larga all'incirca come un Taler." Mi soffermo a guardare quel profondo taglio da rispettosa distanza, mentre si toglie e si rimette la benda.

"Da allora, sono perseguitato da terribili emicranie. A volte mi sento quasi svenire dal dolore. Ma per quanto fastidiosa, non è questa la conseguenza più nefasta dell'incidente". Io lo guardo incuriosito.

"Da allora, soffro di allucinazioni… Ho avuto la prima circa tre settimane più tardi, dopo che il medico mi diede finalmente il permesso di tornare a volare. Stavo guidando la mia squadriglia, la Jasta 11, quando, tutto a un tratto, il mio Albatros si imbizzarrì e puntò in alto, verso il sole. Naturalmente ne rimasi accecato. Quando riuscii a riprendere il controllo del velivolo, dovevo trovarmi a un'altezza inusitata, forse oltre i 10000 metri. Consideri che di solito non voliamo mai oltre i 5000 metri. Be', appena mi tornò la vista guardai in giù, dove stava infuriando la terza battaglia di Ypres. Con immenso stupore mi resi conto che, da lassù, potevo distinguere nitidamente i volti dei soldati che combattevano sotto di me. Come se al posto degli occhi avessi avuto dei cannocchiali, capisce? Fui preso da sgomento. Nel giro di qualche istante quelle visioni scomparvero e mi convinsi che fosse stato tutto frutto della mia immaginazione. Mi lanciai allora in picchiata, per correre in soccorso dei miei commilitoni. Tuttavia, subito dopo aver sparato una prima raffica di mitra contro i fanti nemici, l'orrore si impossessò di me. Pensai di essere prossimo a impazzire…"

Di colpo si interrompe, assalito da ricordi così drammatici, Io pendo dalle sue labbra: "Perché, perché ha pensato di impazzire? Mi risponda".

Il Barone è visibilmente scosso, grosse gocce di sudore gli rigano il viso:" ebbene, la mia intenzione era quella di continuare a mitragliare la fanteria britannica ma…"

"Continui il suo racconto, la prego, mi dica cosa è successo!"

L'ufficiale tedesco respira affannosamente, lo sguardo perso nel vuoto. "Il mio Albatros, grondava sangue… In quantità tale da sommergere tutti i soldati che si fronteggiavano sul campo di battaglia, tanto che non ero più in grado di distinguere i nostri uomini dai nemici. Quel fiume di sangue aveva ricoperto completamente le uniformi dei fanti di entrambi gli schieramenti. Sì, era come se tutti i soldati indossassero delle divise rosso sangue… Preso dallo sconforto, decisi di tornare alla base. Ma il mio biplano non rispondeva ai comandi, e cominciò a spostarsi avanti e indietro lungo il fronte. Ero impotente, fui costretto ad assistere al massacro che si stava compiendo sotto di me. I soldati combattevano con una violenza inaudita. Tutti avevano un unico obiettivo: sterminare i nemici, non importa in che modo. Ho visto persino uomini disarmati affrontarsi a mani nude. Lottavano per interminabili minuti a calci e pugni, fino a quando uno dei due stramazzava a terra, esausto. E allora l'altro, con ferocia animale, si lanciava sul caduto per finirlo, strangolandolo con le mani o con una cintura. In qualche caso il colpo di grazia veniva dato con un morso alla giugulare… Dopo un tempo che mi era sembrato non finire mai, l'aereo ebbe pietà di me, e mi ricondusse al campo base. Mentre ero sulla via del ritorno, un turbinio di pensieri si affollava nella mia mente. Uno, in particolare, mi divorava l'anima: il colore del mio Albatros, di cui tanto andavo fiero, non era rosso fuoco, ma rosso sangue… Per la prima volta in vita mia non sono più stato sicuro dei valori in cui ho sempre creduto. Da generazioni noi Richthofen abbiamo raggiunto posizioni di prestigio nell'esercito tedesco, convinti che fosse nostro imprescindibile dovere obbedire ai dettami della madrepatria, anche a costo della vita. Per noi l'onore è una virtù irrinunciabile e la certezza di essere dalla parte del giusto ci ha sempre consentito di affrontare e superare difficoltà altrimenti insuperabili. Ma da allora tutto è cambiato. Quando, alla guida del mio velivolo, volgo lo sguardo in giù, vedo cose inenarrabili: uomini che si affrontano e si uccidono come bestie, ufficiali che sparano alla schiena dei commilitoni che esitano nell'andare all'assalto delle fortificazioni nemiche, gas che s'infilano negli stretti corridoi delle trincee compiendo silenziose stragi…". Scuote mestamente la testa.

"Non è così che deve morire un soldato. Quaggiù non c'è più onore, non c'è più dignità. No, non mi sento più di appartenere a questa razza terrestre. Ogni volta che rimetto piede nel campo d'aviazione, dopo una missione, mi rinchiudo nei miei alloggi, non voglio vedere nessuno, né fare nulla. Bastano tuttavia poche ore trascorse a terra che già mi sento soffocare, mentre un disperato bisogno di tornare a volare mi lacera dentro…" Il Barone Rosso sembra ridestarsi, batte un pugno sul tavolo.

"Sì, perché in alta quota tutto è diverso, solo nell'immensità della volta celeste riesco a respirare liberamente. Lassù noi ci sfidiamo a singolar tenzone. Ogni battaglia aerea, non importa quanti velivoli siano coinvolti nel combattimento, si risolve sempre in duelli singoli. Lassù i valori dei nostri avi regnano incontrastati!"

All'improvviso un orologio a pendolo appeso al muro batte due rintocchi. Il Barone Rosso si alza in piedi, il mento in su, il portamento nuovamente fiero e marziale. "Mi scusi, ma ora devo proprio andare, un asso francese mi attende in alto tra le nubi." Batte i tacchi e fa una piroetta su sé stesso. Dopo qualche passo si ferma e si volta verso di me, gli occhi gli brillano di vivida luce: "Sa, noi siamo i cavalieri del cielo…"


(fine)



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Giovanni p


Sangue di pietra


In una grotta vicino al mare dove il fragore delle onde copriva ogni rumore Petro si risvegliò dal suo sonno. Furono gli antichi a portarlo lì. Lo trasportarono con navi vetuste e primitive fatte di legno di cedro ritenuto sacro e rifinite in bronzo. Quelle navi venivano da lontano e arrivarono su quelle coste allora disabitate e selvagge. Gli antichi lo avevano scolpito nella roccia e con formule note solo a loro lo avevano animato dandogli il soffio della vita. Nessuno sapeva perché avessero creato Petro né perché lo avessero nascosto in una grotta vicino al mare. Di quel popolo antico e misterioso si sa soltanto che erano tante le insidie e pericoli che ne minacciavano la sopravvivenza. Si presume che ne abbiano creati altri di giganti come Petro, lasciandoli qua e là come semi pronti a sbocciare o vulcani in attesa di poter eruttare distruggendo tutto quello che avrebbero incontrato.

L'aspetto di Petro suggeriva un suo utilizzo bellico. Il suo corpo era inscalfibile, il suo organismo non necessitava di cibo e la fatica non apparteneva alla sua natura. I primi ricordi di Petro si rifacevano ai giorni della sua costruzione. Ciò avvenne in una città fantastica, nascosta fra le montagne nel deserto. Una città fatta di cupole d'oro e rame, lucenti e alte. Ricordava in maniera nitida gli scalpellini che lo scolpivano con strumenti fatti di diamante e metalli sconosciuti. Ricordava gli anziani vestiti di blu con le barbe candide e la pelle bruna che lo esaminavano parlandogli in una lingua che mai avrebbe risentito, neanche se avesse girato il mondo intero.

I soliti uomini si erano messi in mare e una volta individuata la grotta lo trasportarono dentro, utilizzando macchine fatte di rame e leghe nobili. Lo coricarono con una delicatezza quasi materna in quel luogo buio e umido. Una volta adagiato al suolo iniziarono a intonare una ninnananna. Petro sentì che il sonno stava prendendo il sopravvento, il suo corpo iniziò a irrigidirsi e il suo cuore rallentò fino ad assopirsi. Prima di andarsene, uno di quegli anziani vestiti di blu carezzò la sua guancia rocciosa e sussurrò nel suo orecchio:

— Sii libero. La tua forza non ci salverà, niente può arrestare la nostra fine. Forse non ci rivedremo più. Addio prodigio vivente.

Petro cadde nel sonno più profondo, sentendo l'aggressività che gli era stata piantata dentro svanire. Un altro anziano vestito di blu promise a Petro che se fosse vissuto abbastanza lo sarebbe venuto a prendere, ma lui dormiva già e non sentì quella promessa. Gli antichi però non tornarono mai e Petro entrò nel letargo senza conoscere il senso della sua creazione. Senza uno scopo dormiva mentre il mare urlava, e il tempo scorreva.

Molto tempo dopo in quella grotta dischiuse gli occhi, solo e disorientato comprese di essere orfano. Non sapeva cosa fosse il tempo né la vita. Esisteva e basta. La vista gli dava sempre il solito panorama buio fatta eccezione per i pochi e sottili raggi di luce che filtravano dall'esterno. Il mare e il suo ruggito interrompevano di tanto in tanto i suoi ricordi, l'unica cosa che possedeva al mondo. Si chiedeva dove fossero gli antichi, dove fosse la città dalle cupole d'oro e cosa le facesse scintillare dato che adesso era tutto buio. Illuminando le mani con la poca luce a disposizione capì di essere fatto di pietra, la solita materia della quale era fatta la caverna.

Quella caverna era come un enorme grembo materno dal quale prima o dopo sarebbe dovuto uscire. In alcuni punti del suo corpo il muschio era cresciuto come una seconda pelle, soffice e scura. L'acqua che gocciolava dal soffitto della caverna lo incuriosiva, non ne afferrava la natura né il senso. Non capiva se fosse qualcosa di vivo dato che aveva una sua dinamicità o se fosse inanimata come la pietra che lo circondava. La luce che andava a stamparsi sulle pareti e l'acqua erano gli unici elementi oltre la pietra. Provò spesso ad afferrare la luce, ma non aveva peso e sostanza. Notò poi che ogni giorno la luce colpiva i soliti punti, lo intuì perché incise il bordo dei raggi solari sulla parete della caverna e si accorse che ogni giorno quei raggi si muovevano andando a illuminare sempre i soliti posti. Non sapeva cosa fosse il tempo, ma comprese cosa fosse la costanza.

Dopo aver ragionato su questo, decise di andare incontro alla luce. Andandole incontro, la luce si fece sempre più intensa, fino al giorno in cui trovò l'uscita della caverna.

Fuori dalla caverna tutto era luce, tutto era fatto di colori. La prima volta si spaventò. Non aveva mai provato niente del genere. Sentì qualcosa di caldo scorrergli dentro e la sua pelle farsi più pesante. Senza che se ne fosse accorto aveva innescato un meccanismo di autodifesa che lo rendeva ancora più forte e resistente. Quando uscì per la seconda volta il coraggio era saldo in lui, decise quindi di esplorare il mondo circostante. Il mare e il cielo furono la prima cosa che riuscì a vedere e in un certo senso a capire. Si accorse che non erano la stessa cosa e notò che l'acqua era per lui qualcosa di pericoloso. Dei sassi sdrucciolarono in mare andando giù senza riemergere, questo gli creò un po' di ansia. Il cielo era alto, limpido e innocuo. Gli piacque. Si arrampicò su per la scogliera e arrivò in un bosco fatto di pini verdi. Toccò gli alberi, anche questi sembravano fatti di pietra ma notò che erano molto più fragili. La loro corteccia si sfaldava con estrema facilità. Non erano simili a Petro in nulla e di questo se ne dispiacque dato che gli piacevano. Vide poi degli animali e sentì che gli piacevano. Trovava belli i serpenti, lucidi e scintillanti. Amava i conigli soffici e timidi. Adorava gli uccelli dinamici ed esuberanti. Negli animali vedeva e sentiva qualcosa di strano. La vita e il movimento erano bizzarri per lui. Ma niente di tutto quello che trovava bello e interessante gli somigliava, questo gli fece sperimentare la solitudine e i sentimenti che ne derivavano.

Senza che afferrasse il concetto di tempo iniziò a interrogarsi su sé stesso, riesaminando i suoi ricordi per poi confrontarli con le sue nuove esperienze. Cosa lo teneva in vita? Quali erano i meccanismi che lo differenziavano dal resto delle altre creature? Quali erano i processi che innescavano le sue idee? Cosa scorreva sotto la pietra che lo componeva?

Iniziò a studiare il movimento del sole e delle stelle. Capì che la luce andava e veniva sempre nella stessa maniera. Ma non avendo concezione del tempo non dette troppo peso a ciò, anzi credette che il sole appartenesse al regno animale e come lui anche le stelle. Vedeva ogni giorno il sole e ogni notte la luna e le stelle. Erano lontani e luminosi. Durante le notti dove la luna splendeva pensava spesso agli antichi e alla loro città. Quando di notte pensava a loro il giorno seguente tornava alla grotta. Ma le possenti navi in cedro non c'erano e nemmeno gli antichi dalla pelle bruna e le vesti blu. La nostalgia e la speranza lo attanagliavano spesso facendolo sentire un estraneo, un alieno caduto dal cielo in un mondo bello, ma che non gli apparteneva.

Non era infelice, ma i suoi creatori li avrebbe rincontrati volentieri. Volentieri avrebbe rivisto i loro abiti blu, la loro barba bianca, riascoltato la loro voce. La loro ninnananna che ancora riecheggiava nella sua testa granitica era l'unico gesto di affetto che aveva ricevuto e che mai avrebbe scordato.

Poi un giorno qualcosa nell'aria mentre vagabondava fra i pini lo destò dai suoi pensieri. Inizialmente credette di aver sognato, di essersi immaginato tutto. Ma poco dopo la sentì di nuovo. Sentì la voce di un uomo. Non poteva sbagliare visto che nessun animale poteva replicare un suono come quello. Pensò subito agli antichi, forse erano venuti a prenderlo.

Seguì la voce e seguendola si accorse che il bosco spariva. Ai margini della vegetazione gli si parò davanti uno spettacolo singolare e bizzarro. In un agglomerato di sassi simili a grotte c'erano dei curiosi esseri. Avevano le fattezze degli antichi, delle similitudini nei tratti. Ma il disgusto che sentì non lo aveva mai provato. Quelli non erano gli antichi, quei "cosi" potevano avere due braccia e due gambe come loro, ma non erano loro. La loro lingua era volgare e fastidiosa, il loro tono nel parlare era rozzo. Gli abiti che portavano addosso erano logori e banali. Le loro case, che Petro aveva confuso per grotte, erano squallide. In niente quell'accozzaglia di pietre e ciottoli assomigliava alla città dalle cupole d'oro. In nulla la voce e le parole di chi lo aveva creato erano simili ai volgari rantoli di quelle bestie su due zampe.

La delusione diventò orrore quando li vide mangiare. Uccidevano e mangiavano gli animali che lui amava. Sentì l'impulso di ucciderli tutti, ma poi si domandò "a che fine farlo?". La loro natura era quella, misera e brutta. Non avrebbe vendicato la sofferenza delle bestie, le quali anche loro mangiavano e uccidevano, né avrebbe istruito quei mostri a una vita migliore. Sarebbe stata violenza fine a sé stessa se li avesse uccisi. Sarebbe di conseguenza diventato come loro, come l'unica cosa che odiava al mondo. I comportamenti degli uomini fecero sì che Petro iniziasse a guardarsi dentro, così da interrogarsi su cosa fosse giusto o sbagliato.

Il giorno si fece notte e le stelle e la luna apparvero. Si rallegrò del fatto che almeno loro non fossero spariti nelle loro disgustose bocche. I grilli frinivano nella testa di Petro, una melodia trita ma rassicurante. Era la musica della terra, utile a cose che lui non sapeva, ma che avrebbe voluto conoscere. Gli interrogativi sul mondo che lo circondava erano tanti. Avrebbe voluto capire tutto, ma senza un maestro, un amico o qualsiasi essere col quale comunicare era tutto complicato. Era come giocare a un gioco senza saperne le regole. Poteva solo osservare e ascoltare quello che lo circondava, trarre delle conclusioni che potevano essere giuste o sbagliate e questo solo grazie al suo intelletto continuamente martellato da interrogativi. Poi qualcosa di diverso lo fece sobbalzare. Un suono unico, una melodia che gli entrò nelle orecchie, qualcosa di nuovo, di mai ascoltato. Provò qualcosa di simile alla paura che lo aveva assalito il primo giorno fuori dalla grotta. Ma poi la paura svanì e diventò qualcosa di diverso, che non sapeva spiegare.

Si avvicinò verso quel suono delicato, simile in qualche modo alle parole degli antichi e quando capì da dove venisse fu stupore, confusione e meraviglia. Affacciata alla finestra di una casupola fatiscente una ragazza pregava illuminata da una candela. Era così bella da spaventarlo. Quella ragazza era una di loro, ma non era come loro. Non era viscida, né grezza. Era bella anche se non conosceva il significato di questa parola. Il suo volto non era volgare, come non lo erano le sue mani, né la sua voce delicata. Petro ascoltò le sue note vocali senza capire una sola parola. Ma non aveva importanza per lui. La candela poi si spense e la ragazza sparì nell'ombra. Tornò lì ogni notte e lei ogni notte pregava a voce alta, incantandolo.

Grazie a lei iniziò a elaborare e capire e apprezzare il concetto di bellezza. Era qualcosa di più profondo della meraviglia o dello stupore. Quelli li aveva sperimentati velocemente perché ciò che lo circondava, specialmente una volta uscito dalla grotta, era tutto una scoperta, una novità.

La sua intelligenza si era evoluta, portandolo a fare ragionamenti o speculazioni. Ma quella ragazza era qualcosa di più. Davanti a lei non ragionava. Si perdeva. Perdeva la sua abitudine di giudicare, di chiedersi il perché di tutto. Era bella, semplicemente bella. E non lasciava adito ad altro. Non c'era da chiedersi perché. Lui poteva solo star lì a fissarla, senza pensare ad altro.

Ascoltandola iniziò a capirla. Iniziò a tradurre in oggetti e concetti i suoni che lo affascinavano. Quella creatura unica chiedeva non si sa a chi delle ricchezze.

Per scoprire cosa fosse la ricchezza Petro dovette umiliarsi nel dover osservare gli altri uomini e donne. Non fu facile spiarli senza farsi vedere, ma ci riuscì.

Capì che la ricchezza e la felicità erano connesse, ma non erano la solita cosa. La maggior parte degli uomini bramava le ricchezze senza però mai ottenerle. Offendevano i pochi che ne possedevano e si lanciavano in sfuriate patetiche quando a sera si ubriacavano dopo aver faticato tutto il giorno. Altri rubavano, altri si vendevano, molti tradivano per queste ricchezze.

Aveva un opinione degli uomini sempre più bassa. Si domandò perché la ragazza, tanto bella e gentile, aspirasse alla solita cosa di quei ridicoli e gretti esseri. Ogni notte la vedeva e l'ascoltava, avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, per esaudire i suoi desideri. Lei di ricchezza a Petro ne aveva elargita tanta senza saperlo. Si sentiva ricco grazie a lei. Il senso di vuoto era sparito da quando l'aveva vista per la prima volta, avere un esistenza piena per lui era la ricchezza più grande.

Era comunque difficile capire cosa fosse materialmente la ricchezza. Gli uomini del posto barattavano tutto, non usavano ricchezze per sostentarsi. Un giorno però un uomo diverso dagli altri, uno che in quel paesino non aveva mai visto, arrivò da lontano. Gli altri uomini era ammutoliti al suo cospetto, docili e guardinghi. Le loro espressioni di fronte a quello straniero erano contrite, sembrava che lo temessero, ma ciò nonostante erano goffamente servili nei suoi riguardi. Quest'uomo, con sprezzo malcelato, tirò fuori di tasca una pepita d'oro lucente e tutti si misero in moto come burattini al suo servizio. Tutti correvano per accontentarlo, gli sorridevano e si sforzavano di essere meno brutti e rozzi. Lui li derideva e loro facevano a gara nel farsi deridere. Quella pepita riaccese i ricordi più lontani di Petro. Le cupole della città degli antichi erano fatte di quella sostanza luminosa. Gli antichi ne avevano da buttare di quel metallo straordinario. Certo, loro non lo usavano come moneta. L'oro degli antichi serviva per catturare i fulmini e innescare enormi macchine di straordinaria bellezza. Petro rise di quell'uomo. Usava un oggetto del genere per avere in cambio gli oggetti e i servizi di quei barbari.

La nostalgia per un momento gli appesantì l'animo, ma poi si rallegrò.

Di oro o ricchezze simili la terra è piena. Gli antichi glielo avevano detto, anzi era una delle sue mansioni trovare l'oro. Avrebbe trovato l'oro e lo avrebbe consegnato alla ragazza rendendola ricca. Sentì la felicità scorrergli dentro, qualcosa di caldo che nella sua vita aveva sperimentato poche volte. Aspettò con ansia il buio, poi avrebbe atteso la luce della candela e infine la voce della ragazza.


Anche quella sera le andò incontro dopo averla sentita pregare. Quella notte avrebbe dato qualsiasi cosa per poterla toccare. Si avvicinò lentamente. Lei non lo sentì né lo vide. Poi lui per la prima volta in vita sua parlò. Il suo fu più in rantolo, non aveva mai parlato in vita sua e nemmeno sentito mai il suono della propria voce. Rimase stupito oltre che imbarazzato, ma non volle farci caso visto che la ragazza lo aveva sentito e aveva smesso di pregare. Sentendo quel suono strano la ragazza si era bloccata, domandò chi ci fosse, ma nessuno le rispose. Un colosso di Pietra le stava di fronte, ma lei non lo vedeva. I suoi occhi, grandi e bellissimi, fissavano il vuoto e le sue mani si agitavano l'una con l'altra. Petro comprese che la ragazza non lo avrebbe visto, come mai avrebbe potuto vedere nulla. Pensò alla ragazza, ai suoi ricordi fatti di soli suoni, senza immagini ne colori. La ragazza domandò di nuovo chi fosse, Petro si sentì triste come mai si era sentito. Si fece coraggio e le chiese il suo nome

— Iris. Rispose lei con un po' di apprensione.

Vide i suoi grandi occhi verdi socchiudersi, non aveva paura e questo lo intenerì ancora di più. Avrebbe voluto accarezzarla, dimostrale l'affetto che lo scaldava sotto la sua scorza rocciosa. Ma si congedò, promettendo che sarebbe tornato per esaudire i suoi desideri. Lei lo lasciò andare credendo forse che un angelo fosse sceso in terra per ascoltarla.

Petro tornò nella caverna dalla quale era uscito molto tempo prima e iniziò a scavare. La pietra della caverna si sgretolava sotto i suoi possenti colpi. Un metro alla volta Petro aprì una voragine ciclopica, più estesa del villaggio di Iris. Senza vedere più il sole e la luna perse la cognizione del tempo. Scavò sempre più a fondo fino a che una vena d'oro illuminò il buio. Era riuscito nel suo scopo. L'oro era stato trovato e con esso anche molte gemme preziose. Ne raggruppò una quantità non indifferente che a mala pena riusciva a trasportare e una volta presa fra le sue possenti mani uscì dalla grotta. Fuori era buio, s'incamminò verso il villaggio di Iris, ma i punti di riferimento che ricordava erano scomparsi. Il bosco era praticamente sparito, adesso delle lunghe spighe avevano sostituito gli alberi. Con grosse difficoltà ritrovò il villaggio. Non era più squallido e fatiscente, sembrava più ordinato e curato. In giro non c'era nessuno, solo qualche gatto. Non si capacitava del perché ci fossero tanti cambiamenti. Poi vide una ragazza dove una volta Iris pregava. Anche la casa di Iris era cambiata, sembrava più grande e meno brutta. Si avvicinò a quella ragazza che nel buio teneva in mano qualcosa di luminoso. A farle luce non c'era una candela, ma una piccola sfera di luce che lui non aveva mai visto.

Fu invaso dalla gioia e per poco non fece cadere l'oro e le gemme. La ragazza era Iris.

Si avvicinò convinto di non essere visto, ma la ragazza alzò lo sguardo su di lui e rimase impietrita dal terrore. Lui non arrestò la sua avanzata e una volta al suo cospetto le mostrò l'oro e le gemme che aveva estratto dalla grotta. La ragazza rimase interdetta, non disse nulla, fu Petro a chiamarla per nome.

— Iris.

Lei guardò le ricchezze e poi il colosso di pietra che gliele porgeva. Cercò di dominare la paura e con un filo di voce.

— Io non sono Iris. Mi chiamo Rosa. Iris era mia nonna.

Lui rimase ammutolito.

— Purtroppo mia nonna è morta quindici anni fa. Era molto anziana. Mi dispiace.

Quelle parole scossero dentro di lui qualcosa che non si muoveva da molto, forse troppo, tempo. Iniziò a sentir scorrere dentro di se qualcosa di caldo. Quella sostanza gli ricordò istintivamente l'acqua. Riusciva ad avvertirne la consistenza anche se tutto avveniva dentro di lui. Il suo corpo si stava intorpidendo, un po' come quando gli antichi cantarono la ninnananna che lo fece addormentare. Ma stavolta era diverso. Un pezzo alla volta la sua enorme mole iniziò a sgretolarsi fino a diventare polvere. L'ultima cosa che vide furono gli occhi verdi di Rosa, identici a quelli di Iris, e poi più nulla. Ai piedi della ragazza rimase un piccolo cumulo di polvere nera, simile alla cenere ma con dei riflessi vetrosi. Dalla polvere spuntarono simili a dei funghi le gemme e l'oro che scintillavano sotto la luce della luna. Le gemme brillarono più forti dopo che il vento soffiò via la polvere nera. Quel manto nero volò leggero fino al mare, forse fino alla città dalle cupole dorate.


(fine)



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Temistocle


Io non vendo


Sopra le nuvole c'è sempre il sole, da qualche parte.

Così stava pensando Gustav mentre tornava a casa.

Aveva chiuso una mezz'ora prima la gioielleria e ora voleva pensare solo a una doccia, una mozzarella di bufala con olio e origano e una birra rossa.

Il tutto davanti alla TV che avrebbe potuto trasmettere qualsiasi cosa, perché a lui interessava solo il brusio di fondo.

Sopra le nuvole c'è sempre il sole, si diceva ripensando alla giornata di lavoro; e se le nuvole erano il negozio, il sole era la sua casa che l'aspettava accogliente.

Passò al semaforo col giallo e girò a destra sul viale che portava a una serie di villette. La terza era la sua.

A cinquant'anni Gustav si teneva fisicamente ancora bene, grazie anche al tennis settimanale e al footing che praticava ogni mattina.

Era sempre stato uno sportivo e il suo metro e ottantacinque di altezza gli aveva permesso di sviluppare anche una muscolatura invidiabile.

Viso sempre ben rasato e capelli a spazzola (che ormai cominciavano a virare sul sale e pepe) lo facevano assomigliare a un marine in servizio permanente.

Al contrario di Frederik, il suo socio nella gioielleria da più di dieci anni.

Frederik si era lasciato andare dopo che Eveline, la moglie, se ne era andata sei anni prima portandosi dietro la figlia. Il suo sport preferito era la scelta della bottiglia di vino da aprire e terminare nell'arco di un pranzo o una cena. E spesso anche di un mattino o di un pomeriggio.

Ma aveva la dote di essere simpatico ed empatico; un giullare, insomma.

Era per questo che Gustav lo aveva accettato come socio nell'attività: il suo savoir faire, il suo sapersi presentare ai clienti serviva alla causa specie quando l'acquirente era indeciso.

E un altro motivo che aveva spinto Gustav ad allargare la società era che Frederik ci metteva un bel po' di soldi.

Tuttavia questa loro miscela di caratteri e presenze non faceva molto bene alla ditta. Sempre più spesso ultimamente litigavano anche per minuzie, ma la ragione principale era che Frederik voleva mollare.

Più volte aveva chiesto a Gustav di sciogliere la società o almeno di avere la sua parte e liberarsi della gioielleria.

E questo Gustav non poteva permetterselo, soprattutto perché la parte di Frederik era la più grossa e lui non avrebbe saputo dove prendere i soldi per liquidarlo senza vendere la gioielleria che era molto ben avviata e con una clientela tra le più prestigiose della città.

Sopra le nuvole c'è sempre il sole, si diceva, ma ormai le nuvole erano arrivate fin lì: la Chevrolet Bel Air verde pistacchio di Frederik, infatti, era parcheggiata davanti a casa sua.

Gustav entrò nel vialetto che portava al garage e dallo specchietto retrovisore vide l'altra auto muoversi e mettersi dietro la sua.

E ora cosa c'è? Si chiese. Non bastano otto ore al giorno di discussioni continue?

Scese dall'auto, prese la valigetta e si avviò verso la veranda in legno su cui si affacciava la porta di casa, facendo finta di non aver visto la manovra del socio.

— Ehi, Gustav!

La voce di Frederik era allegra, come sempre, come se fosse lì per organizzare il barbeque domenicale.

Gustav si girò mentre saliva i gradini e fece all'amico un cenno di saluto con la mano.

Il tempo di infilare la chiave nella toppa e Frederik era già dietro di lui.

— Anche stasera stessa solfa Gustav? Verdurine, fettina e patatine? Ma quand'è che cambi e provi un bel McDonald?

Gustav entrò in casa e aspettò che Frederik entrasse per chiudere la porta; sempre senza dire una parola.

— Quand'è che cambi tu, piuttosto? Non vedi come sei ingrassato? — disse Gustav mettendo la valigetta sul tavolo. Si tolse la giacca e sedette sul divano.

— Cosa vuoi, piuttosto? Non mi dire che sei arrivato fin qui solo per fare una lezione di dietetica? — continuò mentre Frederik sedeva sulla poltrona in finta pelle rossa che era 'sua' quando andava a trovare l'amico.

— Ok, stasera stai nervoso… — il tono della sua voce era calato almeno di un'ottava. — Vengo subito al punto: ho trovato un acquirente.

Gustav rimase a guardare l'altro per un po'. Non sapeva se farsi una risata, essere arrabbiato o far finta di stare a ragionarci su.

— Quindi mi stai dicendo che nonostante sai come la penso su questa cosa, ti sei dato da fare, hai parlato in giro e, così per caso, un giorno ti si è parato davanti qualcuno che ti ha detto: "sai che c'è? Ho sempre sognato di comprare una gioielleria!" È così, vero?

— Gustav! Non fare lo stronzo! È una cosa seria! — sbottò Frederik.

Il tono della sua voce era risalito e per un attimo sembrò virare verso l'incazzato. Poi si raddolcì nuovamente.

— Hai capito quello che voglio dire. Finora ne abbiamo parlato tutti i giorni ma sempre in astratto, come un progetto futuro. Ora invece è una cosa vera, attuale: c'è un tizio che vorrebbe rilevare la nostra attività e a un prezzo che è anche superiore a quello che io avevo immaginato.

— Ecco: che "tu" avevi immaginato, perché come sai molto bene, "io" non ho nessuna intenzione di vendere la gioielleria.

Frederik stava facendo andare i neuroni a mille perché pensava che la cosa dell'acquirente possibile potesse portare una novità nelle loro discussioni permanenti.

Ma fu Gustav a parlare:

— Se proprio sei convinto della tua decisione, vendigli la tua parte e risolviamo così.

Frederik rimase spiazzato per un attimo, poi cercò di prender tempo.

— Ma guarda che non c'è niente di certo! Solo due chiacchiere al pub di sera. Si faceva per parlare, era solo un'idea: lui ha un bel po' di soldi da investire e noi vorremmo andarcene in pensione a goderci la vita. Così ho pensato che le due cose potessero quagliare insieme…

— Le due cose — rispose Gustav — non possono "quagliare" come dici tu, perché io non ho nessuna intenzione di andare in pensione e quindi di vendere. Ti ripeto: se vuoi, vendigli la tua parte.

— Ma lui è un tipo decisionista, sai di quelli che sono abituati a prendere le decisioni personalmente su tutto e non è disposto a spartire…

Gustav l'interruppe:

— Ma avete fatto due chiacchiere o avete stesso proprio un contratto? Perché mi sembra che per essere solo due chiacchiere sono abbastanza approfondite.

— Ma no! Ci mancherebbe! Cosa vai a pensare! Dopo un paio di bourbon cosa vuoi che si facciano discorsi seri…

— Ecco, benissimo allora. La mia risposta è sempre quella che ti ho dato da quando abbiamo iniziato queste inutili discussioni.

Nel silenzio che seguì si udirono dei colpi alla porta.

— Aspetti qualcuno? Una cenetta galante? Chiese Frederik buttando sul ridere una discussione che si stava facendo tesa.

— Ma quale cenetta galante, non aspetto nessuno… — rispose Gustav alzandosi e andando ad aprire.

Quello che successe dopo accadde in pochi istanti.

Appena Gustav ebbe aperto la porta, due uomini col volto coperto da un passamontagna fecero irruzione nella stanza. Tutti e due erano armati.

Il primo a entrare puntò la pistola contro Gustav e lo spinse fino a farlo cadere sul divano, mentre l'altro chiudeva la porta.

— Lui chi è? — disse l'uomo facendo segno verso Frederik.

Gustav riprese subito il controllo e disse a sua volta:

— Chi siete voi, piuttosto, e cosa volete?

L'uomo, alto e robusto, ribatté:

— Io faccio le domande, perché io ho questa — e mostrò l'arma.

Nel frattempo l'altro uomo era andato dietro la poltrona di Frederik e gli stava puntando la pistola alla nuca.

Gustav capì che era meglio assecondare quella gente.

— Lui è Frederik, un mio amico.

— Ah, il tuo socio!

— Come fate a sapere… — cominciò Gustav, ma l'uomo lo interruppe:

— Sappiamo, certo che sappiamo. Sappiamo che hai, anzi avete, la gioielleria ed è per questo che siamo qui.

— Cosa c'entra la gioielleria?

— C'entra, perché nella gioielleria ci sono i gioielli e i soldi. Sappiamo che non versi mai l'incasso giornalmente, che metti tutto in cassaforte e vai in banca una volta la settimana, cioè domani. Perciò ora lì dentro ci saranno un bel po' di soldi ad aspettare. E, se non l'hai capito, aspettano noi.

Gustav cominciò a focalizzare la situazione: era come aveva letto tante volte nei libri gialli: i cattivi arrivano a casa, sequestrano la famiglia e poi aspettano che uno di loro vada a prendere i soldi. Se non torna, i cattivi fanno una strage. Ma lui non aveva famiglia e loro non sapevano che Frederik era lì…

— Il nostro piano era un po' diverso, veramente… — disse l'uomo incappucciato. — Saremmo dovuti andare tutti insieme a fare una passeggiata per prendere i soldi, ma ora c'è il tuo amico e socio qui, quindi si fa una variazione sul tema. Io e lui restiamo qui a fare compagnia a… come ha detto che ti chiami? Disse rivolgendosi a Frederik.

— Frederik e…

— Non mi interessa altro. Stavo dicendo che noi restiamo qui a fare compagnia a Frederik e tu vai a prendere i soldi. Non vogliamo i gioielli, ché quelli si riconoscono facilmente e si possono rintracciare. I soldi invece hanno tutti lo stesso profumo. Hai… vediamo… un'ora e mezza per andare e tornare con la valigetta piena. Se non torni in tempo… penso che tu abbia capito cosa succederà al tuo amico e socio, vero?

Gustav assentì col capo. Rimase ancora qualche secondo seduto, poi si alzò e andò verso il tavolo.

— Dove vai? — sibilò l'uomo.

— Mi serve la valigetta se devo metterci i soldi.

— Ok, te la prendo io, non vorrei tu avessi qualche sorpresa dentro.

— Ma quale sorpresa…

L'uomo prese la valigetta, la aprì e svuotò il contenuto sul tavolo: qualche foglio intestato, uno spazzolino e un pettine.

— Che vita grama che fai, amico! Neanche una rivista porno, qualche foto di squinzie, che so'…

— Gliel'ho sempre detto che fa' una vita da monaco certosino! — esclamò Frederik.

— Qualcuno ha chiesto il tuo parere, socio? — disse l'uomo voltandosi di scatto. — Tu sei solo merce di scambio adesso, capito?

— Ok… — mormorò Frederik.

— Eccoti la valigetta. Sai quello che devi fare e quanto tempo hai.

Diede la valigetta a Gustav e guardò l'orologio.

— Sono le 21:30, se entro le 23 non sei qui, preparati a dover pulire quella bella poltrona domattina. Non mi sembra di dover aggiungere che chiamare la polizia non è salutare per lui e a questo punto neanche per te, ti pare?

Gustav guardò Frederik che ricambiò uno sguardo terrorizzato.

— Vai, Gustav, fai presto…

— Hai sentito? Fai presto, l'orologio è già partito.

Gustav uscì. Stava ancora cercando di metabolizzare quello che era accaduto negli ultimi quindici minuti.

Andò verso la sua auto, ma mentre saliva si rese conto che era bloccata da quella di Frederik. L'avrebbe dovuta spostare per uscire con la sua, ma pensò che avrebbe perso minuti preziosi.

Così andò verso la Chevrolet di Frederik e salì.

Le chiavi non erano nel quadro, ma sapeva che Frederik le teneva sempre nella tasca dello sportello.

Infilò la mano e le tirò fuori. Al portachiavi, una specie di fermaglio porta soldi in oro, rimase attaccato un foglio piegato in due. Lo gettò sul sedile del passeggero, sopra la valigetta.

A quell'ora non c'era molto traffico, ma era sempre bene rispettare il codice della strada, pensò Gustav; vedi mai che qualche zelante poliziotto decida che sto superando i limiti di velocità o abbia bruciato un giallo e mi fermi.

Uscì dalla traversa che dalla zona residenziale dove abitava immetteva sulla principale e dovette frenare bruscamente per non essere centrato da un pick up bianco che arrivava a tutta velocità.

La valigetta e il foglio caddero dal sedile, ma ora non aveva tempo per riprenderli.

Seguì il flusso del traffico.

Vide in lontananza un semaforo che era appena passato al giallo. Rallentò e si fermò allo stop dietro un paio di auto.

Si chinò a raccogliere valigetta e foglio e li appoggiò sul sedile. Buttò un occhio all'orologio dell'auto: erano trascorsi venti minuti, quindi era in perfetto orario.

La mente andò a casa dove c'erano Frederik e i due uomini armati.

Cosa sarebbe potuto accadere se non tornava in tempo?

Veramente alle ventitre e un minuto Frederik sarebbe stato ucciso?

Guardò verso la valigetta in cui doveva mettere i soldi e notò che il foglio che era poggiato sopra era intestato alla gioielleria.

Lo prese e cominciò a leggere. Era firmato da Frederik e aveva come destinatario un nome che non conosceva.

Sentì un clacson dietro di lui, alzò gli occhi e vide che il semaforo era diventato verde. Ingranò la marcia e ripartì gettando il foglio sul cruscotto.

Ma la curiosità lo vinse quando scorse sul foglio una cifra scritta in grassetto. Ed era una grossa cifra.

Nella testa cominciarono a rincorrersi immagini e situazioni.

Vedeva i due uomini armati e la cassaforte. Riandava alla discussione con Frederik di poco prima, al suo essere evasivo e gigionesco. Sentì lo stress a cui lo sottoponeva il socio, sempre con lo stesso argomento: vendiamo, vendiamo…

Accostò l'auto: doveva leggere quel foglio. Un minuto in più non avrebbe mandato a monte l'operazione e sarebbe tornato in tempo a casa per evitare che Frederik fosse ucciso.

Prese il foglio e lo scorse con calma da cima a fondo.

In pratica era un impegno della gioielleria (non personale di Frederik ma della ditta!) a vendere l'attività al sig. Males entro sei mesi per una cifra che era sicuramente sovrastimata. (Doveva dare atto a Frederik, comunque, che ci sapeva fare veramente.)

Ecco il motivo della visita improvvisa del suo socio! Della sua insistenza malcelata!

Avrebbe fatto di tutto per convincerlo a vendere perché si era impegnato per iscritto. E, da quel che vedeva, si era già intascato una sostanziosa caparra.

Gustav rimase appoggiato sul volante a fissare il foglio.

Come aveva potuto arrivare a tanto? E come pensava di convincerlo?

Questo "scherzo" stavolta non glielo avrebbe fatto passare. Doveva capire che quando era troppo, era troppo. Una volta finita quella storia assurda e criminale, l'avrebbe affrontato a brutto muso. Non la poteva passare liscia.

Guardò l'orologio del cruscotto: erano le 22:22. Era in ritardo, per la miseria!

Sarebbe riuscito in tre quarti d'ora ad arrivare in gioielleria, aprire la cassaforte (ci volevano cinque minuti solo per sbloccare il sistema di chiusura informatizzato), prendere i soldi e tornare di corsa a casa?

Immaginava già di arrivare in ritardo anche solo di cinque minuti e di trovare Frederik morto, ucciso con un colpo di pistola in fronte.

Ripartì sgommando sul brecciolino.

Quel rumore di pietruzze schizzate contro la carrozzeria interna dell'auto fu come una frustata. Come se qualcuno l'avesse colpito e quel colpo avesse rotto un involucro in cui si trovava imprigionato.

Esisteva un Gustav… dentro Gustav. Un Gustav che si era stancato di essere gentile con Frederik, che cercava di tenerselo buono perché, alla fine, aveva bisogno di lui, non solo economicamente.

Dieci anni vissuti insieme in negozio erano come dieci anni vissuti in famiglia, perché il negozio era la sua famiglia, la sua vita. E Frederik era in fondo l'unico parente che vedeva tutti i giorni.

Ma si sa che proprio i parenti spesso sono le peggiori persone con cui avere a che fare.

Lanciò l'auto in direzione della gioielleria. Fece un chilometro, svoltò a sinistra e vide subito l'insegna, che restava accesa fino alle ventitré.

Si fermò in seconda fila proprio davanti al negozio.

Prese la valigetta e, prima di aprire lo sportello, lo sguardo ricadde sul foglio di Frederik.

No, no, gli bruciava troppo quella cosa fatta alle sue spalle. Aveva sempre ritenuto Frederik un fanfarone, un frivolo, uno che si faceva portare dal vento del successo e dell'insuccesso; ma un traditore non l'avrebbe mai immaginato.

E invece… le prove erano davanti ai suoi occhi, nero su bianco e con tanto di firma.

Guardò l'orologio: le 22:53. Materialmente non aveva più il tempo di prendere i soldi e tornare a casa. Ma avrebbe potuto fare una telefonata, giustificare il proprio ritardo e dire che sarebbe comunque arrivato con la valigetta piena.

Scese dall'auto e rimase con la mano sulla maniglia dello sportello.

Cominciò a piovere.

In fondo, pensò, non sarebbe stato lui a premere il grilletto contro Frederik; non era stato lui a organizzare il colpo.

E, soprattutto, la firma sull'accordo di vendita non era la sua.

Tornò in macchina e si accese una sigaretta aspettando che si spegnesse l'insegna della gioielleria.


(fine)



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Andr60


Un giorno diverso in tribunale


1.

La giudice Donata Dalla Libera aveva avuto una nottata pesante: era rimasta sveglia per ore, a causa delle colichette della piccola Aurora. Ma aveva un contratto da rispettare, e non si poteva esimere: tutti i giorni, a mezzogiorno, puntuale come un cucù di Ginevra, in diretta su Rete 44 per Il Giorno in Tribunale.

— Cosa abbiamo oggi, Filippo? — Chiese, al ragazzo tuttofare.

— Dei casi molto interessanti, che faranno sicuramente il botto di audience, vedrà, signora Giudice. — Disse lui, entusiasta come sempre.

— Bah, speriamo. — Fece lei, dubbiosa; negli ultimi tempi, la trasmissione sembrava in fase di stanca, forse gli autori del programma non erano più così abili nel presentare casi curiosi.

Un uomo mingherlino, dall'aspetto insignificante, si avvicinò al banco, si presentò con nome e cognome e poi: — Signora Giudice, ho denunciato la mia vicina di casa a causa della maleducazione del suo cane, che continua a defecare nel mio giardino, nonostante le mie proteste ripetute.

L'uomo continuò con le sue rimostranze, e infine Donata disse: — Va bene, ho preso nota. Adesso ascoltiamo la controparte... Giovanna Capece, giusto?

— Esatto, signora Giudice. — Rispose, avvicinandosi, una donna corpulenta di mezza età con le braccia piene di tatuaggi variopinti. — Il mio vicino continua nel suo atteggiamento gretto, anti-animalista e razzista. Il mio Fuffy è un individuo affettuoso, che vuole donare gioia a chiunque, anche a chi non se la merita.

— Ma, signora Giudice, il suo cane continua a... — Cercò di interrompere l'uomo.

— Faccia silenzio, signor De Carlo. — Disse Donata, perentoria. — E stia attento a non insultare chicchessia, la corte non tollererà oltre.

— Ma io non... cioè io non volevo offend... — L'uomo cominciò a balbettare, ma Donata lo interruppe: — Silenzio! Dovrebbe sapere che la denominazione "cane" è un insulto, se rivolto a un componente di famiglia parola-privo e, come tale, meritevole di adeguata attenzione poiché incapace di difendersi. Dovrebbe vergognarsi, signor De Carlo, torni al suo posto.

Il denunciante, che si era alzato e avvicinato al banco centrale in preda all'agitazione, si risedette accompagnato da un brusio di disapprovazione da parte del pubblico.

La giudice si ritirò in camera di consiglio, lasciando come di consueto la parola agli spettatori in sala. La netta maggioranza era favorevole alla donna e a Fuffy.

Una giovane disse, sventolando il suo smartphone: — Ehi, Fuffy è questo, giusto?

La Capece, tutta contenta, sorrise: — Certo, questo è il nostro gruppo di famiglia su Instagram.

— Ehi, ma è un San Bernardo, chissà la cagate che spara... — Disse uno spettatore, subito guardato male da tutti.

Donata rientrò dopo dieci minuti: — Giuseppe De Carlo si lamenta del comportamento di Fuffy, ma non ha tenuto conto dei suoi sentimenti e del fatto che le deiezioni sono comunque un ottimo fertilizzante per il terreno; dunque è Fuffy — e, indirettamente, Giovanna Capece — a donare qualcosa a lui, che quindi non ha diritto ad alcun risarcimento; semmai, è il contrario. Considerando il costo del fertilizzante, direi che il signor De Carlo deve corrispondere cento euro mensili a Fuffy, per il dono che lui, nella sua ingenuità, considerava un regalo. Così è deciso.


2.

Il secondo caso aveva tutta l'aria di poter provocare agitazione nel pubblico; come sempre, quando c'erano dei trans di mezzo.

Infatti il soggetto che si presentò alla sbarra, Noemi D'Amore, era vestita come Carmen Miranda ma aveva una voce baritonale. Indicò un anziano, seduto all'altro lato dello studio, e disse: — Quel signore mi ha insultato pesantemente e ripetutamente, e su un mezzo pubblico, di fronte a tutti. È stata una cosa intollerabile. Esigo un risarcimento, affinché non accada più di essere umiliatǝ in questo modo. Noi trans siamo veramente stanchǝ di questa situazione, signora Giudice.

— Bene, si faccia avanti la controparte, il signor Giuseppe Vincenzi.

L'uomo si alzò con difficoltà dalla panca, evidentemente per problemi articolari dovuti all'età; andò alla sbarra e iniziò a parlare: — Signora Giudice, io non capisco. Come tutte le mattine, stavo andando in centro sul bus cinquantadue. Ero seduto, e quella signora si è avvicinata, dicendomi: — Mi lasci sedere, prego. Le scarpe mi fanno male ai piedi.

— Ecco, lo ha fatto ancora! — esclamò Noemi.

— Che cosa ho fatto? — Si chiese l'uomo, smarrito. — Come ho fatto a mancarle di rispetto?

— Oddio, di nuovo, non ci posso credere... — Noemi erǝ decisamente scandalizzatǝ.

La giudice lǝ congedò, e si ritirò, avendo il quadro completo della situazione.

Il pubblico si scatenò nel frattempo: — È intollerabile, Noemi ha ragione! I vecchi si dovrebbero aggiornare, oppure è meglio che non escano più di casa. — Esclamò un ragazzo pieno di piercing alle orecchie.

— Poverino, non è colpa di Giuseppe se il mondo in cui è cresciuto era incivile... — Fece una donna, nel tentativo di giustificare l'anziano, sempre più spaesato.

La giudice tornò, cinque minuti dopo: — La decisione è stata rapida, il caso è lampante; — esordì — il mondo nuovo, all'insegna della civiltà e della tolleranza, non è facile da metabolizzare per le vecchie generazioni cresciute nell'odio, nel razzismo e nel fanatismo, anche inconsapevole, come in questo caso. I soggetti trans che non hanno ancora fatto la transizione completa uomo/donna necessitano del suffisso ǝ, la schwa, che ha un suono intermedio tra a ed e: lo so, è un'ovvietà per noi, purtroppo per gli anziani come il pover'uomo qui presente non è così. Quindi, anche in considerazione della sua età e delle sue condizioni, delibero che Giuseppe Vincenzi non sia passibile di alcuna sanzione pecuniaria, ma che sia sottoposto a trenta sedute di linguaggio politicamente corretto, presso il circolo LGBTQX della locale circoscrizione. Così è deciso.

La giudice batté il martelletto e il suono venne accolto da un lungo applauso, anche se l'espressione di Noemi era tutt'altro che felice: avrebbe voluto una punizione esemplare, per quel vecchiaccio.


3.

Il terzo e ultimo caso della giornata si preannunciava caotico: lo studio si era riempito di una decina di donne urlanti, che si stavano avvicinando alla sbarra dei testimoni-denuncianti.

— Parli una di voi, prego. — disse Donata.

Le donne si guardarono tra loro, e quella con l'espressione più decisa disse: — Comincio io: mi chiamo Doris Ferri, e sono la portavoce del gruppo.

— Molto bene, Doris. Mi dica: cos'è accaduto?

— Un fatto oltremodo increscioso, signora Giudice; il qui presente Don Pace — e indicò col dito un uomo in abito talare, seduto in un angolo, — ha dato prova di totale insensibilità verso noi donne, in un'occasione sacra come la Santa Messa.

— Addirittura... che cosa può aver combinato di tanto grave? — Domandò la Giudice, incuriosita.

— Ignorando tutte le più recenti disposizioni in materia, provenienti dai vertici della Chiesa, non ha modificato il saluto finale ai fedeli e alle fedeli. In altri termini, ha volutamente ignorato noi donne.

— Non è vero! — Si alzò Don Pace, esclamando a voce alta, — Amen è un saluto universale, che comprende tutti!

Le sue ultime parole furono sommerse dal coro delle denuncianti: — Sei un maledetto maschilista che si nasconde sotto l'abito talare! Amen in realtà vuol dire A-men, e ci esclude automaticamente. Dovevi dire anche A-women, e non l'hai fatto!

— Ho capito il problema, adesso fate silenzio. — Donata cercava di riportare un po' di calma, anche se nel frattempo il pubblico si stava scaldando, parteggiando per l'uno o per le altre: — Hanno ragione le femministe credenti, lo ha detto pure il Papa. — diceva qualcuno.

Mentre qualcun altro: — Sono tutte assurdità, molti preti ignorano le nuove regole.

La testimonianza di Don Serafino Pace non servì a granché, solo a ribadire le rispettive distanze, assai lontane e inconciliabili, tra il parroco tradizionalista e le femministe.

Donata si ritirò in camera di consiglio e stavolta rimase più del solito, mentre anche tra il pubblico le due posizioni non riuscirono a trovare un accordo.

Quando Donata riemerse e si accomodò sullo scranno, si fece silenzio senza bisogno che suonasse la campanella, tanto il momento era solenne: — Non posso costringere Don Pace a pronunziare parole che lui non voglia; gli posso solo ricordare che è stata mia premura contattare il suo vescovo, e segnalargli l'anomalo comportamento del suo sottoposto. — A questo, ci fu un brusio di approvazione. — Come è già stato notato, Sua Santità stessa ha ripetuto più volte che la Chiesa deve essere inclusiva dell'universo femminile, e che bisogna partire dalle piccole cose, come il saluto finale ai fedeli e alle fedeli. Poiché la Chiesa del ventunesimo secolo è tollerante, anti-razzista e non violenta.

Pertanto, caro Don Pace, la invito caldamente a partecipare alle riunioni settimanali del collettivo femminista che si terranno nell'oratorio della sua parrocchia, a partire dalla settimana prossima, al posto della partitella di calcio che lei è abituato a giocare coi ragazzi. Ho telefonato al vescovo, mi ha detto che è perfettamente d'accordo. Così è deciso, la seduta è tolta.

A telecamere spente, Filippo si avvicinò a Donata: — Oggi è stata semplicemente meravigliosa, signora Giudice. — Disse, con voce tremante, — Quando ha parlato del nuovo ruolo della Chiesa mi sono anche commosso. — E si asciugò una piccola lacrima, con un gesto della mano. — Avremo fatto un'audience da paura, ne sono sicuro, vedrà!

— Me lo auguro, caro, me lo auguro. — Fece Donata, non troppo convinta.

Le squillò il cellulare: — Amore, come stai? E l'allattamento? Ah, benissimo.

Al termine della chiamata Filippo, che le era rimasto accanto, volle informarsi: — Sua moglie sta bene? Ho saputo che aveva un'infiammazione al capezzolo.

— Niente di grave, caro. Capita, alle puerpere.


(fine)


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