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La madre del prescelto
e gli altri racconti
ebook della Gara stagionale d'Estate 2019
Ebook della Gara letteraria stagionale d'Estate 2019
A cura di Massimo Baglione.
illustrazione di copertina: Mamma sul prato - free archive.
Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di Braviautori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.
Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it
Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.
I migliori testi di ogni Gara saranno pubblicati in un ebook gratuito e a ogni ciclo di stagioni pubblicheremo un'antologia annuale.
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Marco Daniele
(vincitore della Gara d'Estate 2019)
La madre del prescelto
Uno… due… tre… quattro… cinque… sei… sette…
Acquattata tra le fronde, Mirele aveva contato una mezza dozzina di goblin e un ufficiale umano accampati sulla riva del fiume. Gli ometti dalla pelle verdastra indossavano armature su misura di cuoio bollito e impugnavano daghe di eccelso acciaio tibaresco, che di sicuro non potevano essersi procurati da soli. L'uomo, invece, doveva essere un phaleriano, a giudicare dai capelli corvini e dall'armatura lamellare tipica dell'esercito di quell'impero. Aveva non più di trent'anni e una corta peluria sul volto, ben curata. Un sottile diadema di oro bianco gli cingeva le tempie, e al suo centro splendeva uno zaffiro di Nelumbo blu come il cuore del mare: quindi era anche uno stregone azzurro dell'accademia di Padmaranga.
Questo complicava non poco le cose. Mirele sapeva che l'ombra del Presidente Zagan si allungava ogni giorno di più anche sulla Selva Verturia, ma non si aspettava che fosse penetrata così in fretta in quei territori. Al massimo aveva temuto di incrociare qualche gruppo di cacciatori selvaggi, con i quali non avrebbe faticato ad avere la meglio: i goblin erano così poco avvezzi alla presenza umana che sarebbe bastato far rumore e recitare un banale incantesimo Ignis Minor per metterli in fuga, fossero anche una ventina. Ma con dei goblin già arruolati, armati e guidati da un mago azzurro phaleriano era tutto diverso, perché si sarebbero battuti sul serio, volenti o nolenti, costretti dal controllo mentale che lo stregone poteva esercitare.
In circostanze normali, avrebbe fatto dietrofront e cercato un'altra via. Di certo non poteva sbucare fuori dalle fratte e proporre di lasciar passare una che era ricercata nientemeno che dal Presidente Zagan in persona! Una risoluzione pacifica era fuori discussione.
Purtroppo quello era l'unico guado che era riuscita a individuare sul Watter nel raggio di miglia e miglia, dopo due giorni di estenuante peregrinare nella foresta, sempre all'erta, dormendo poco e niente.
— Cosa devo fare? — si domandò, tra sé e sé.
Poteva ritirarsi e cercare un altro guado più a sud, ma era un azzardo. La porzione meridionale della Selva Verturia era un'incognita: pochi esploratori avevano osato mettervi piede, non esistevano mappe anche solo vaghe e si raccontava di orrori indicibili, viverne umanoidi che vomitavano acido, mostri di carne putrida alti quindici o anche venti cubiti, scimmioni antropofagi.
Oppure poteva combattere, anche se questa seconda opzione non la attirava. Non era una sanguinaria. Non aveva imparato la magia per bruciare vivi altri esseri viventi. I goblin non avevano alcuna colpa se un tiranno li aveva costretti a servirlo. E nemmeno il giovane mago azzurro era da biasimare: obbediva agli ordini del suo sovrano, probabilmente non sapeva nulla dei motivi per cui una ragazza di nemmeno vent'anni era ritenuta così pericolosa per l'intera nazione di Phalerion.
A quel punto, sentì scalciare dentro di sé. Portò la mano destra sul proprio ventre e abbozzò un sorriso, nonostante la situazione tutt'altro che rosea. Non era giusto sopprimere delle vite per passare il guado, ma non lo sarebbe stato nemmeno negare a quella che si stava formando dentro di lei la possibilità di venire al mondo. Tanto più se dal suo destino dipendeva quello di migliaia, milioni di uomini e di donne presenti e futuri.
In una frazione di secondo, la mente di Mirele risalì il fiume del tempo, ripercorrendo le tappe del viaggio che l'aveva condotta fin lì.
Ricordava vagamente la grande villa nella campagna di Tarquanda in cui aveva vissuto i primi sette anni di vita, circondata da persone alte e senza volti, senza nomi: glieli avevano rimossi dalla mente quando l'avevano portata all'accademia di Pandora, ancora bambina, per recidere ogni suo contatto col mondo esterno e aiutarla a diventare una maga votata solo allo studio e alla magia. Eppure poteva capitare che qualcosa fosse risparmiato dal trattamento e così era successo a lei, solo che quelle poche memorie superstiti dell'infanzia emergevano dal suo inconscio frammentarie e consunte.
Ricordava con molta più precisione le lezioni di magia teorica e applicata, le interminabili conferenze dell'Archimandrita Velesion, le prove d'esame nelle catacombe sotto Pandora per recuperare qualche paccottiglia nascosta lì dai maestri e spacciata per chissà quale manufatto antico, le ore notturne trascorse a studiare in extremis in vista di un tostissimo esame di Piromanzia di livello IV o di Divinazione avanzata.
All'epoca si era ritrovata spesso a odiare quella routine, a sperare di crescere presto e abbandonare Pandora per mettersi al servizio di qualche re o di qualche ordine di stregoni. Se avesse saputo cosa l'attendeva, forse non sarebbe stata così ansiosa di crescere.
Ricordò il primo bacio dato a Ricasol, due classi più avanti di lei, all'ombra del fico che troneggiava solitario nel cortile ovest e a tutte le fantasticherie successive sulla loro vita insieme. Ricasol era un ragazzo alto e robusto, con uno sguardo innatamente torvo ma dal cuore d'oro, sensibile. Si dilettava scrivendo versi e sarebbe stato un grande poeta, se la mano ossuta della Morte non si fosse posata troppo presto sulla sua spalla.
Ricordò il giorno in cui era giunta la notizia che le armate di Zagan, neo-eletto Presidente di Phalerion, erano in marcia verso Pandora.
Hithertho, la sua migliore amica dell'epoca, le aveva raccontato subito tutto quello che sapeva su quell'uomo:
— Dicono sia così abietto che l'hanno cacciato persino dall'accademia di negromanti di Carcossa. E per fare una cosa del genere quei necrofili…
— Ha usato i suoi poteri per manovrare gli oligarchi di Phalerion e dopo che l'hanno eletto Presidente li ha sterminati tutti. È un tiranno, non di nome ma almeno di fatto.
— Vuole sterminare o assoggettare tutti i maghi del mondo, finché alla fine sarà il solo a controllare la magia. È per questo che sta venendo qui. Ma i maestri e l'Archimandrita sono troppo saggi per mettersi a opporre resistenza, non credi?
— Sai che odia gli Yevaniti? Sarà per i loro capelli rossi, sarà perché cianciano sempre di quel loro dio Oannis. Ha già iniziato a chiuderli nei ghetti… ma qualcuno dice che li manda nelle Latomie di Ossidiana. Poveracci, lì si muore come mosche!
Quell'ultima cosa aveva fatto rabbrividire Mirele, perché anche lei era una Yevanita dalla chioma rubiconda e temeva ciò che le sarebbe successo. Però subito Hithertho l'aveva rassicurata: — Sei una maga, se anche ti mettesse le mani addosso non sprecherebbe un'utilizzatrice di magia. Si farà andare bene i tuoi capelli, fidati!
Ricordò l'evacuazione di Pandora, la fuga nelle gallerie che si dipanavano sotto l'accademia per miglia e miglia, dapprima ordinata, poi resa caotica quando le prime belve dell'abisso avevano attaccato e le file di studenti si erano disperse senza che gli insegnanti potessero fare qualcosa per tenerle sotto controllo.
Per mesi Mirele aveva vagato in quelle caverne, prima di ritrovare il volto amico del maestro Gorgedo che l'aveva riportata alla civiltà, e intanto aveva patito il freddo, la fame, la sete, i morsi degli insetti, ma soprattutto la paura. Paura di morire all'improvviso in quell'oscurità dimenticata dagli Dei, paura di essere catturata e torturata da Zagan l'uccisione di Yevaniti, paura di perdersi nelle viscere della terra e non rivedere mai più la luce del Sole.
Ricordò, e come avrebbe potuto dimenticarlo, il giorno in cui le rivelarono la profezia. Si trovava a Najufa, la città delle sabbie dove i maghi di Pandora si erano riuniti per organizzare la resistenza contro Zagan.
Il nuovo Archimandrita, Myrorod, l'aveva convocata in quello che era momentaneamente il suo ufficio: una sala ampia, piena di pergamene salvate per miracolo dal sacco di Pandora, con le finestre che si affacciavano sulla grande via di Najufa percorsa a ogni ora dai dromedari e dai carovanieri. Era stato brusco e diretto nella rivelazione, l'aveva affondata nel cuore della giovane rossa come un sicario senza la minima pietà.
— Tu partorirai il Prescelto, come dice la profezia di Amnon. Ti unirai al principe Elha Gibbor, l'ultimo della stirpe di Emet, e porterai in grembo colui che sconfiggerà Zagan. Una volta che l'avrai partorito, saremo noi ad addestrarlo così come abbiamo addestrato te, solo che grazie al sangue che scorrerà nelle sue vene sarà più potente di qualsiasi mago. Più potente anche di Zagan. Così ha detto Amnon:
Dalla terra delle vigne verrà
una vergine dalla chioma di fuoco
e il marchio di Inanna sul corpo,
e dalla stirpe di Emet
un giovane virgulto, forte e in salute,
e dal suo seme…
Le ginocchia di Mirele non avevano retto.
Volevano costringerla a fare una cosa del genere solo perché un vecchio pazzo aveva biascicato una profezia in un momento di delirio? E poi come facevano a dire che la donna in questione era lei? Era la sola ragazza coi capelli rossi originaria di Tarquanda con un neo dalla particolare forma nota come "marchio di Inanna"?
Mirele desiderava quando chiunque altro la morte di Zagan, ma doveva compiere un sacrificio del genere? Non c'erano altri modi per batterlo? Quella congrega di stregoni secolari e potentissimi non potevano unire le forze contro il tiranno? A cosa serviva studiare per decenni se poi ti ritrovavi a essere un vecchio Archimandrita incartapecorito che scarica tutta la responsabilità sulle spalle di una giovane donna?
Doveva davvero concedersi a uno sconosciuto, farsi ingravidare come una giumenta da uno stallone? E poi doveva vedersi strappato dalle braccia il neonato appena partorito? Quale cuore di pietra poteva anche solo concepire un'idea del genere?
E Myrorod gliel'aveva detto in quel modo, senza minimamente prepararla, senza indorare la pillola!
Oh no, lei si sarebbe ribellata! Doveva dire no e protestare! Si sarebbe appellata al maestro Gorgedo, lui sì che avrebbe preso le sue difese! Non avrebbe mai portato in grembo un figlio perché costretta da altri, foss'anche per la salvezza del mondo!
Ricordò anche il giorno in cui conobbe il principe Elha. Per incontrarlo si erano spostati a nord, a Flos, la città tra gli alberi. Per tre mesi i maghi si erano assicurati che Mirele fosse tenuta sotto controllo, che non uscisse mai dalla sua stanza né che tentasse la fuga. Quella prigionia forzata l'aveva infine fatta cedere, l'aveva rassegnata al proprio destino.
Ma fu in qualche modo di conforto scoprire che anche il principe si sentiva così. Le era bastato un semplice sguardo per riconoscere nei suoi occhi la stessa sottomissione a un destino scelto da altri, la stessa angoscia di dover generare un figlio solo perché fosse di altri. Probabilmente non avrebbe mai potuto amarlo, ma almeno non l'avrebbe odiato, non per quello che li stavano costringendo a fare…
Ricordò di essersi resa conto, a un certo punto, di amare quel principe triste quanto lei, se non di più. O comunque di provare qualcosa che avrebbe definito "amore", perché non aveva chissà quale esperienza al riguardo. L'unico altro ragazzo nella sua vita era stato Ricasol, ma lui era poco più che una cottarella. Elha, invece, l'aveva fatta sua e se per qualche secondo faceva finta che non fosse successo per imposizione dei maghi le sembrava di vivere una vera e propria favola.
Ricordò tutta la portata del dolore che l'aveva travolta vedendolo morire davanti ai propri occhi. Zagan era piombato su Flos come un martello sull'incudine, travolgendo tutto e tutti, portandosi dietro un'armata di saccheggiatori, stupratori, distruttori.
Sarebbe morta anche lei, se Gorgedo non l'avesse spinta a forza su uno degli ultimi grifoni rimasti e non fosse rimasto a tener testa al negromante, per pochi secondi, prima di soccombere, mentre la bestia chimerica e la sua preziosa passeggera volavano via.
Un dardo fiammeggiante aveva colpito il volatile a un'ala, ma fortunatamente il grifone era già così in alto che la sua caduta l'aveva portato ben oltre le mura di Flos, sul limitare della Selva Verturia. E lì Mirele, dopo essersi voltata un'ultima volta verso la città tra gli alberi che bruciava, aveva iniziato il suo viaggio solitario. Destinazione: Yetzirah, la città dei savi.
Non poteva indugiare ancora a lungo, doveva prendere una decisione. Presto la notte sarebbe calata e le rupi dall'altra parte del fiume sembravano un ottimo posto per fermarsi a riposare, almeno un paio d'ore.
Mirele cacciò via dalla mente qualsiasi dubbio, qualsiasi scrupolo morale, qualsiasi briciolo di pietà verso l'altrui vita che le fosse rimasto. Si trattava di sopravvivenza, pura e semplice sopravvivenza. Ma non era un'egoista, no, perché sopravvivendo lei sarebbe sopravvissuto anche suo figlio, e un giorno avrebbe sconfitto Zagan e liberato le Terre Verdi dalla sua tirannia.
Le sue labbra si mossero automaticamente e recitò nell'antica lingua enochiana la formula magica Mors ex Igne. Era una formula lunga e complessa, ma lei non poteva sbagliare. La ripeté così come le era stata insegnata, chiudendo gli occhi e concentrandosi su ogni singolo suono, bisbigliando le sillabe a voce abbastanza bassa per non essere udita dai goblin e dall'ufficiale phaleriano ma anche scandendole per bene.
Un lampo di fuoco esplose nella riva del fiume. Il turbine incendiario si elevò per una decina di metri, una furia inaudita che all'istante bruciò carne e cuoio, sciolse ferro e oro, senza che un grido si levasse dalle gole delle povere vittime colte alla sprovvista. Mirele poteva sentire il calore della fiamma su di sé anche se era abbastanza lontana da essere al sicuro, e quando esse svanirono nell'aria, un orrendo puzzo di carne e viscere bruciate e di ceneri si levò. Fu troppo: si piegò in avanti e vomitò il misero pasto di qualche ora prima, un paio di frutti e di radici.
Quando riuscì finalmente a volgere lo sguardo nel punto dove erano accampati quei sette disgraziati, la prima cosa che notò fu lo sfavillio dello zaffiro di Nelumbo, miracolosamente sopravvissuto all'olocausto.
Meno di un'ora dopo, la giovane donna dai capelli rossi era sdraiata su un giaciglio fatto alla bell'e meglio con le fronde. Osservava il vasto cielo stellato sopra di sé, mentre i ricordi delle notti trascorse all'aria aperta con Hithertho, giocando a indovinare questa o quella costellazione, si accavallavano e si rincorrevano nella sua mente.
Il piccolo dentro di lei scalciò ancora. Si accarezzò il ventre, sorridendo. Sarebbe arrivata sana e salva a Yetzirah e da lì si sarebbe spostata ancora più a est, ancora e ancora, lontano dalle armate di Zagan. Avrebbe trovato un buon posto dove far nascere e allevare suo figlio. Poi si sarebbe assicurata che venisse addestrato a dovere, per padroneggiare la magia e diventare ciò che era destinato a essere. Ma intanto l'avrebbe allevato lei, gli avrebbe dato l'amore che suo padre le aveva potuto donare per pochissimo tempo.
Le insidie della Selva Verturia erano molte, ma lei le avrebbe superate così come aveva superato tutte quelle passate. Non l'avevano uccisa gli orrori striscianti nelle grotte sotto Pandora, né Zagan e i suoi soldati piombati su Flos, e nemmeno i goblin appena bruciati.
Sarebbe sopravvissuta, e con lei suo figlio. Perché lei non era una donna qualsiasi. Lei era la madre del prescelto.
(fine)
Lorenzo Scattini
Vaux, 1 giugno 1916
Carissimo François,
la sorte è strana alle volte. Sembra solo ieri quando mi scrivevi dal fronte e leggevo le tue missive stropicciate, vergate su pezzi di carta di fortuna, con quella tua grafia già di per sé sgraziata resa ancora più nevrotica dalla fretta. E adesso faccio altrettanto, mentre tu sei a casa.
Ti godi il riposo, immagino. Del resto l'hai comprato a caro prezzo, con una gamba. È triste pensare che per uscire da questo inferno bisogna per forza rimetterci qualcosa. Chissà se sarà così anche per me. Proprio l'altro giorno un compagno del nostro plotone è stato congedato, dopo che una granata gli ha distrutto le gambe. Povero diavolo. Andrà via dal fronte, ma quanto è rimasto di lui? E non mi riferisco solo al corpo.
Sono passate due settimane da quando sono stato mandato qui a Vaux. Io, che a malapena avevo messo il naso fuori da Eygurande in diciannove anni di vita, adesso sono all'altro capo della Francia. Sicuramente avrai sorriso quando Giselle te l'ha detto, ripensando a quante volte dicevo che prima o poi avrei girato il mondo. Certo speravo di girarlo in un altro modo.
Stamattina mi è arrivata una lettera proprio di Giselle, in cui mi raccontava di te, del tuo ritorno a casa e della medaglia che ti hanno dato. Penso sia il minimo, dopo che hai perso la gamba. Mi chiedo cosa hai pensato quando te l'hanno data: ti sei sentito un eroe, François? Io non vedo eroismo in questa guerra. Non è come nei romanzi di Dumas. Qui vedo solo fango, sangue, sudore, sofferenza, lacrime, budella, ma non vedo eroismo. Non vedo neanche nemici, perché se mi fermo a pensare ai boches che siamo stati mandati a combattere e alle condizioni in cui vivono mi rendo conto che sono vittime tanto quanto noi. Sono vittime di chi gioca con le nostre vite, standosene al riparo nelle retrovie. Ecco, se devo cercare dei nemici non posso non pensare a quegli ingrati maiali che si ingozzano al sicuro e ci mandano a morire. E non mi riferisco solo ai generali, François: pensa a tutti quei politici che se ne restano a casa, a cianciare di difesa della patria e di lotta alla tirannia del Kaiser, tanto non solo loro quelli che ci rimettono la pelle. Che ipocriti!
Ma basta, non voglio sprecare questa lettera lamentandomi, amico mio.
Vorrei tanto che tu fossi qui. È egoistico da parte mia, lo so, e di certo non lo dico perché vorrei farti rivivere quest'orrore; ma se tu fossi qui con me, nel fondo dell'inferno, sarebbe tutto più sopportabile. Per fortuna non sono completamente solo, qui. Sai che sono piuttosto timido, eppure non ho faticato a legare con gli altri soldati. Forse è la guerra che ci spinge a socializzare il più possibile, per non impazzire al pensiero della morte sempre incombente su di noi.
Io vorr.
Cavolo, un'esplosione mi ha fatto sobbalzare. Penso che i boches abbiano iniziato i bombardamenti. Ma sarà roba di ordinaria amministrazione, suppongo: qualche colpo di mortaio sparato solo per intimidirsi a vicenda, qualche granata che esplode dove non c'è nessuno.
Io sopravvivrò a questa guerra, François caro. Sopravvivrò e tornerò da te e da Giselle. Penso proprio che la sposerò. Me ne sono reso conto solo adesso, qui sul fronte, a contatto continuo con la morte. L'ho sempre amata, ma solo adesso mi rendo conto di ciò che dovrei fare. Sarà dura scriverle una lettera e trattenermi dal mettere su carta quello che provo, quello che vogl.
Questa lettera fu ritrovata al termine dei combattimenti per Fort Vaux, miracolosamente intatta tra le dita di un cadavere orrendamente mutilato dalle granate. Il soldato sembrava averla stretta al petto per proteggerla dalle esplosioni, quasi valesse più della sua stessa vita.
(fine)
Roberto Bonfanti
Cose che si rompono
— Voglio riprendere una moto.
Stiamo facendo colazione, Sara deve andare in ufficio, mentre io oggi rimango a lavorare a casa. Lei sta bevendo il caffè, ne prende ancora un sorso prima di parlare.
— Una moto?
— Sì, ne ho vista una che mi piace, ieri, da un concessionario, una Triumph.
Ho un biscotto in mano, lo studio per un po', lo rimetto nella scatola. Passano alcuni secondi, poi lei parla di nuovo.
— Ne avevamo già discusso, mi sembrava che fossimo d'accordo.
— No, in realtà non ne abbiamo mai parlato veramente. Ho venduto la Kawasaki tre anni fa perché tu avevi paura e non ci volevi salire. Ora…
Non finisco la frase, riprendo il biscotto e lo osservo di nuovo, come se mi fosse sfuggito qualcosa.
— Ora? Claudio, sei sicuro di aver bisogno di una moto?
Sospiro.
— Non ho detto che ne ho bisogno, ho detto che la voglio prendere. È usata, non spenderò una follia. Lavoro, me lo posso permettere.
— Senti… lo capisco che è stato un brutto periodo, prima tuo padre, poi tua madre…
Il biscotto si spezza fra le mie dita, la voce mi esce un paio di toni troppo alta.
— I miei non c'entrano per niente! Sto… parlando… di… una… motocicletta.
Separare le parole con una pausa mi aiuta a tornare calmo. Ma la conversazione sta prendendo una brutta piega. Sara appoggia la tazza sul tavolo, evito di guardarla. Tutta la mia attenzione si concentra ancora sui frammenti del biscotto. Lei decide di cambiare discorso.
— Stasera siamo a cena da Francesca, te lo ricordavi vero?
Vorrei mettermi a urlare, alzarmi di scatto, prendere a calci qualche sedia. Ma, improvvisamente, mi sento svuotato, privo d'energia. Ho l'impressione di osservare la scena dall'esterno. Anche la voce non sembra la mia, è piatta, monotona.
— Vedi, Sara, noi non discutiamo delle cose, non c'è bisogno di metterci d'accordo. Sei sempre tu quella che fa le scelte, cosa facciamo, dove andiamo, chi vediamo.
Ora è lei a perdere la calma.
— Perché tu non fai niente! Non hai iniziativa! Non prendi mai decisioni! Ti lasci scivolare la vita addosso, giorno dopo giorno, te ne stai nel tuo mondo, come se non ti importasse di nulla!
— OK, forse hai ragione, ma le cose cambieranno. Dici che non decido mai niente? Ora ho deciso che voglio prendere quella moto. Vedi? Sto già facendo progressi.
Mentre parlo cerco di ricomporre i pezzi del frollino, di farlo tornare intero. Ma certe cose non si possono aggiustare. Lei si alza, prende la giacca e la borsa, fa un paio di passi poi si volta. Riesco quasi a sentire la sua irritazione vibrare nella stanza, come un ronzio.
— Di questo passo finirai per accusarmi di averti rovinato la vita! Pensi che io non ti capisca? Che ti costringa a fare quello che non vuoi? Pensi questo?
— No, Sara, non ti sto accusando di niente, non c'è bisogno che tu la prenda così male. Mi compro una moto, è una tragedia?
— Basta! Non mi sembra il caso di continuare questo discorso. Ora devo andare al lavoro. Ti va bene per le otto?
Potrei semplicemente dire di sì, ma non lo faccio.
— No, non mi va. Non voglio andare a cena da Francesca, stasera.
Finalmente mi decido a incontrare il suo sguardo. Cos'è quello che leggo nei suoi occhi? Rabbia? Odio? Delusione? Tutto questo e anche un po' di pena, per me. Se ne va senza dire una parola, non sbatte neanche la porta.
Avrei voglia di spogliarmi, tornare a letto e rimanerci fino a stasera. Ma forse è meglio di no. Ho sentito dire che starsene a letto tutto il giorno è uno dei principali sintomi della depressione.
Guardo l'orologio appeso al muro.
Segna le otto e dieci e l'inizio della fine della mia storia con Sara. Una lunga agonia di litigi, silenzi e incomprensioni che ci porterà a lasciarci definitivamente, fra poco più di otto mesi.
(fine)
Carol Bi
Al Cinema (…ti odio)
Tre settimane e nemmeno un messaggio, un flebile segnale che potesse darmi la certezza che ero ancora nei suoi pensieri, anche se in brevi momenti della giornata. Non riuscivo più a ingoiare nemmeno un boccone e le mie ore di sonno notturno si erano drasticamente ridotte a due, massimo tre, intervallate da continui e angoscianti risvegli. Al lavoro passavo la giornata a guardare dalla finestra il parco di Santa Caterina: mi concentravo sulla robusta quercia a pochi metri dall'edificio immaginando che i suoi rami si allungassero come braccia, rompessero il vetro del mio ufficio e mi avvolgessero e stringessero come un boa, graffiandomi la pelle con la ruvida corteccia; poi mi ridestavo all'improvviso e senza rendermene conto mi ritrovavo con la mano sul collo faticando a respirare. La scena era più o meno la stessa tutti i giorni, con poche, minime varianti.
— Attacchi di panico, tesoro — mi ripeteva Alice tutti i giorni e aggiungeva — Tu non stai bene, quanti chili hai perso? E poi non ti trucchi più, sei sempre in disordine e, scusa se mi permetto, il tuo odore potrebbe essere usato come repellente… Iris, sono preoccupata per te, dovresti…
Alice parlava, parlava, parlava, ma io ero sempre concentrata sulla mia ipnotica quercia e tutto quello che avveniva intorno non mi riguardava, chiusa in un mondo che mi stava consumando ogni giorno un po' di più.
Era un giovedì mattina quando il cellulare suonò. Era lui. Le mani mi tremavano, tutti i muscoli contratti mi dolevano e mi impedivano di muovermi. Mi sedetti sul letto con le gambe incrociate, la camicia da notte appiccicata come carta velina alla schiena sudata; il cuore batteva nel petto incontrollabile. Mi accorsi che mi stavo graffiando l'interno coscia e un rivolo di sangue macchiò il lenzuolo. Rimasi per un attimo a guardare la macchiolina rossastra che impregnava il tessuto assumendo una forma che paradossalmente pareva proprio la mia quercia.
Guardai il cellulare con l'ardente desiderio di leggere il suo messaggio e allo stesso tempo con una paura folle di perderlo per sempre.
Inspirai profondamente catturando ogni singola particella del profumo di quella nuova, giovane giornata estiva che stava per cominciare. La radiosveglia gracchiò all'improvviso facendomi sobbalzare e scivolare il cellulare dalle mani.
Lo recuperai velocemente e senza altre esitazioni premetti l'icona della bustina e lessi il messaggio: — Ore 23.30 cinema Verdi, piazza XX settembre, sala 3, posto A15. Camicetta bianca, gonna nera lunga, capelli raccolti, trucco leggero.
Nient'altro.
La mia eccitazione si trasformò in autentica rabbia: dopo tre settimane soltanto una serie di indicazioni, o meglio, veri e propri ordini.
Ma poco importava, il desiderio di rivederlo era troppo forte, prevaricava qualsiasi dubbio, consapevolezza, timore e buonsenso.
Entrai nella doccia senza attendere che l'acqua si intiepidisse, rimasi almeno venti minuti col capo chino facendomi scorrere l'acqua lungo il collo. Quando uscii, facendo attenzione a non scivolare, mi sentii rigenerata, improvvisamente libera, positiva, leggera, mi pareva che tutto fosse straordinariamente meraviglioso e che da quel momento in poi la mia vita sarebbe stata perfetta.
Andai al lavoro pettinata, pulita e ordinata. Per tutto il pomeriggio non pensai ad altro che alla mia serata. Fantasticavo su quello che mi avrebbe detto per giustificare il suo silenzio, le sue scuse, il mio perdono, le sue mani intrecciate alle mie, la sua bocca sul mio collo, il suo profumo, i miei sospiri, noi due.
Uscii dall'ufficio alle 17.10 e mi precipitai a casa di mia madre e frugari nel suo armadio in cerca di una camicetta bianca, la gonna già ce l'avevo. Trovata!
Corsi a casa, andai in bagno, mi feci un'altra doccia, mi asciugai velocemente e indossai biancheria intima firmata, camicia e gonna. Poi davanti allo specchio mi acconciai i capelli come richiesto; il trucco tenni quello del mattino. Alle 21.00 ero già pronta. Mi guardai allo specchio: sembravo la versione di me stessa vent'anni dopo.
La sala era buia e il film già cominciato. Mi feci spazio tra gambe, piedi e ginocchia in cerca del mio posto.
Lo vidi, lui era là, con gli occhi fissi sullo schermo. Mi avvicinai, urtando la sua gamba. A quel punto si voltò e mi sorrise, il sorriso più bello del mondo.
Mi scusai con la donna alla sua sinistra per averle oscurato per un attimo lo schermo e raggiunsi il mio posto.
Mi sedetti accanto a lui con la voglia di baciarlo, toccarlo… avevo quasi le lacrime. Si voltò, mi guardò e mi sorrise nuovamente. Lo vidi alzare la mano sinistra… finalmente… chiusi gli occhi e mi preparai a ricevere il suo tocco.
Nulla.
Riaprii gli occhi, cercai la sua mano e vidi che era scomparsa sotto la gonna della sconosciuta sedutagli accanto. Vidi la mano muoversi lentamente sotto la veste mentre il respiro di lei cominciava a trasformarsi, il petto si gonfiava e le gambe si contraevano leggermente. Potevo chiaramente sentire l'odore della sua eccitazione.
Lui toccava lei, ma guardava me con grande soddisfazione.
Questo era troppo, mi sentivo umiliata, calpestata, furiosa. Mi alzai di scatto tra le proteste del ragazzo seduto dietro e corsi fuori dalla sala inciampando più volte sugli scalini. Nessuno se ne accorse. Il caldo era opprimente, insopportabile, mi strappai i primi tre bottoni della camicetta, mi sentivo soffocare. Appena uscita dalla sala mi appoggiai al muro esausta, in lacrime; mi feci scivolare lungo la parete fino a sedermi a terra tutta rannicchiata, quasi a voler scomparire. Cercai di concentrarmi sulla mia quercia per non pensare a quello che stava avvenendo a qualche metro da me. Il cuore mi stava letteralmente uscendo dal petto, lo potevo chiaramente vedere e sentire mentre spingeva la cassa toracica. Tremavo.
Senza nemmeno rendermene conto gridai, urlai con tutto il fiato che avevo nel mio esile e provato corpo.
In quel momento, dalla sala, un fragoroso applauso generale premiò la pellicola e la colossalità del film.
(fine)
Daniele Missiroli
L'avvertimento
A diciotto anni Angelica sposò Charlie.
La cerimonia fu officiata nella cattedrale di Gilford e tutto il paese vi partecipò. Così si faceva per i matrimoni della nobile casata Mayer, che possedeva un'infinità di terre nei dintorni, anche se nessuno, nemmeno il fisco, sapeva bene quante fossero le loro proprietà.
Capelli neri e lunghi in un viso dolce e aggraziato, indossava il vestito più costoso che i cittadini di Gilford avessero mai visto. I quattro fratelli minori di Charlie, tutti sposati con donne che avevano più del doppio dell'età di Angelica, erano felici per lui. Un colpo di fulmine da parte di entrambi, pensarono. Il fatto che il padre della sposa lavorasse per i Mayer come stalliere e la madre fosse la loro cuoca era irrilevante.
Tutte le cognate la accolsero come una sorella, come devi fare se sei la moglie di un Mayer. Dell'età di Charlie, che aveva una trentina d'anni più di lei, non si parlava mai durante le cene in famiglia. Anche perché, se qualcuno l'avesse fatto, Cordelia, moglie del secondogenito, avrebbe di certo puntualizzato, con la sua stridula voce, che la differenza era di trentacinque, non di trent'anni. Nemmeno Rebecca, moglie del terzogenito, amava molto Angelica. Le augurava spesso di avere tanti figli come lei, che ne aveva cinque. In questo modo, le diceva, "capirai cosa vuol dire". Non le spiegava mai, però, il significato di quella frase. Penelope, moglie del penultimo fratello, non la poteva sopportare, perché troppo bella e longilinea. Non come lei, piccola e con un seno prosperoso. Susan invece, moglie del più piccolo, la ammirava, perché nei suoi occhi vedeva l'amore per il marito. Quello, cioè, che era scomparso dai suoi da diversi anni.
Gentile, affettuosa, dolce, disponibile con tutti, Angelica era amata, almeno a parole, da tutta la famiglia. Quanto era piacevole intrattenersi con lei in cucina a far torte e sformati, oppure nelle riunioni salottiere della domenica con le altre mogli. Quando qualche donna si lamentava del proprio consorte, lei scuoteva la testa con benevolenza e aggiungeva: — Charlie no, lui non è così! Il mio Charlie sì che è un marito perfetto.
Certo, dopo quindici anni di matrimonio, qualcosa era cambiato. Lui non la baciava più al risveglio, né quando usciva per andare in ufficio. Era diventato scontroso e si arrabbiava per un nonnulla, ma lei minimizzava questi problemi familiari.
— È affaticato per il troppo lavoro, bisogna capirlo — ripeteva a tutti.
Nonostante questo, Angelica rimaneva cordiale e sorridente com'era sempre stata. Solo il suo aspetto non era lo stesso. Le mani erano diventate paffute, i fianchi si erano ingrossati e il seno si era deformato. L'altezza era rimasta inalterata, la larghezza no.
Il suo altruismo e la sua bontà d'animo si manifestarono anche quando ci fu la tragedia.
Charlie aveva assunto Mandy, una giovane cameriera di colore, per tenere in ordine il suo studio, stipato di libri, documenti e soprammobili. Lui era molto scrupoloso; non tollerava che gli oggetti fossero spostati nemmeno di un millimetro e spesso restava ore a illustrarle meticolosamente cosa fare.
Un giorno, Mandy stava togliendo dal giardino le foglie che il vento vi aveva accumulato. Mentre spazzava a ridosso della casa, purtroppo il vento le fece cadere in testa un grosso vaso di fiori.
Angelica le rese omaggio con la corona di fiori più costosa.
— Mi dispiace per lei — disse alle cognate, durante il funerale, — ma bisogna stare attenti quando si va nelle case altrui!
Qualche tempo dopo, Charlie si ammalò e il suo medico gli disse che doveva prendersi un mese di riposo. Non volendo stare con le mani in mano, decise allora di scrivere le sue memorie e assunse Emily. Tutte le mattine, quella giovane studentessa andava a casa Mayer e si chiudeva nello studio con Charlie. Lavoravano senza sosta tutto il giorno, e a volte Charlie, prima di cena, doveva farsi una doccia da quanto era accaldato.
Ahimè, la sfortuna si accanì di nuovo contro la famiglia Mayer. Mentre usciva dalla porta principale, un pesante vaso di fiori piombò in testa a Emily.
— Sapete — disse alle cognate, durante il funerale, — Charlie si sente così responsabile che ha insistito per pagare le spese per intero!
Dopo quel giorno, la vita in casa Mayer riprese a scorrere tranquilla. Angelica cucinava torte e sformati e si intratteneva in indulgenti conversazioni salottiere con le altre mogli.
Tempo dopo, una donna della servitù andò in pensione e, fra le tante, si presentò per un colloquio di lavoro una giovane ragazza molto carina. Charlie la fece accomodare nel suo studio e stava leggendo il suo curriculum, quando sentì un frastuono provenire dal cortile. Si precipitò alla finestra e vide che era caduto un grosso vaso di fiori che, per fortuna, non aveva colpito nessuno.
Charlie si affrettò a congedare la ragazza.
(fine)
L. Grisolia
L'uomo sul balcone
L'uomo era sempre lì. Ogni volta che Davide si sedeva sulla sua sedia per una sigaretta, lui era lì, sul balcone di fronte al suo. I due palazzi erano separati da una modesta distanza e non era mai riuscito a vederlo in maniera nitida. Gli sembrava un uomo di mezza età, magro, non troppo alto. Aveva i capelli scuri e quando si portava un libro, Davide riusciva a intravedere lo scintillio di un paio di occhiali. Non si erano mai parlati né incrociati per strada, ma, dopo tutti quegli anni, quel momento era diventato un qualcosa di molto intimo, o almeno così credeva Davide. Spesso accompagnava le sue sigarette con un sottofondo jazz o blues e allora, strizzando gli occhi, riusciva a vedere l'uomo muovere leggermente la testa a tempo. Si compiaceva sempre nel vederlo apprezzare la sua musica. Davide adorava quei momenti di tranquilla solitudine, erano per lui dei piccoli piaceri quotidiani a cui non avrebbe mai rinunciato e, con il tempo, l'uomo era entrato a farne parte. D'altronde la sua vita era per lo più noiosa, ripetitiva, la classica routine dell'uomo medio. Era diventato tutto ciò che da ragazzo ripudiava. Un uomo frustrato, deluso dal suo lavoro e dalla sua vita e che alla domanda "come stai?" rispondeva sempre con un "si tira avanti", seguito da un sorriso rassegnato. Aveva addirittura perso interesse nelle donne, tutto quel flirtare per poi forse finire a letto gli sembrava una fatica inutile, un vizio al quale si era già concesso troppe volte. Ormai si limitava a commentare nella sua testa le donne viste per le strade di Roma, consolandosi al pensiero che, se solo avesse voluto, si sarebbe potuto infilare senza troppa fatica tra le loro lenzuola. Non sbagliava, nonostante i suoi quarant'anni era ancora un uomo attraente, aveva mantenuto un fisico snello e longilineo, ma non privo di muscoli. Invece viveva da solo, mangiava cibi surgelati e ogni sera si godeva un bicchiere di Amaro del Capo e una sigaretta in compagnia di quell' uomo misterioso. Si trovava spesso a fantasticare sulla sua identità. A giudicare dalla quantità di libri che divorava su quel balcone sembrava un tipo piuttosto istruito e anche i suoi gusti musicali sembravano raffinati. Indossava spesso una vestaglia grigia mentre altre volte portava un completo di colore blu scuro con tanto di cravatta, ma mai qualcos'altro. Davide, in quei quattro anni, non era mai riuscito a inquadrarlo. Gli sembrava di essersi aperto di più, attraverso la sua musica, rispetto all' uomo che invece si limitava a leggere qualche libro del quale, inoltre, era impossibile distinguere il titolo. Eppure, era sicuro che ci fosse qualcosa di più di una semplice coincidenza nei loro "incontri a distanza".
Un giorno di inizio novembre, Davide si era appena accomodato sulla sua sedia e, voltando lo sguardo verso il balcone davanti al suo, si accorse che per la prima volta l'uomo non stava né leggendo né gustandosi una sigaretta. I suoi occhiali scintillavano riflettendo la luce del sole e davanti a lui, su un tavolino, si intravedeva una strana forma che l'uomo stava delicatamente intagliando. Davide ne fu subito affascinato, finalmente si stava aprendo anche lui, stava mostrando qualcosa di personale. Senza pensarci troppo prese il cellulare, scattò una foto e rientrò di corsa in casa con la sigaretta ancora accesa. Il telefono era nuovo, costoso quanto inutile… fino a quel momento. Nonostante avesse ingrandito parecchio il tavolino con sopra la "scultura", la definizione dell'immagine era ancora buona. Dal colore sembrava fosse legno e dalle forme pareva essere il corpo di una donna. Si contorceva su sé stessa e, anche da quella distanza, Davide riusciva a percepire una smorfia di terrore che le attraversava il volto. Rimase qualche secondo a fissare lo schermo del suo cellulare. L'eccitazione iniziale si era tramutata in curiosità e inquietudine. Non capiva perché fosse così turbato da quella semplice statuetta di legno.
Da quel giorno, almeno una volta a settimana, l'uomo si presentava con un nuovo ciocco di legno da intagliare, raffigurando uomini e donne straziati dal dolore. Davide era affascinato da come quei movimenti così aggraziati, delicati e precisi potessero creare un qualcosa di così terrificante come quelle statuette. Ogni volta che l'uomo stava per finirne una, Davide scattava una foto per vederla da vicino. Non vi fu una volta che non ne fosse terribilmente inquietato. Intanto le settimane passavano, poi i mesi e, dopo una quantità indefinita di statuette e di foto diverse, arrivò il periodo dell'anno che Davide più preferiva, l'inverno inoltrato. L'inverno delle notti fredde, delle piogge torrenziali e del vento gelato che taglia il viso dei viandanti notturni. Per Davide il tempo avverso era una scusa per tenersi alla larga dal resto del mondo, dalla socialità. Si sedeva sul suo balcone e si godeva lo scatenarsi dell'ira dei cieli. Durante una di quelle notti invernali, però, Davide non era sul suo balcone, ma là fuori, nel mondo. Più precisamente nella caotica metropolitana romana, anche se, a causa dell'orario, era tutto tranne che caotica. Due ragazzi, con birra alla mano e sigaretta all'orecchio, stavano parlando delle conseguenze di un ipotetico attentato al papa.
— Seee vabbè, metti caso succede quei fasci cattolici fanno le crociate due punto zero, con bazooka e armi chimiche — disse il ragazzo al quale mancava un pezzo di carne circolare dall'orecchio.
L'altro, che sfoggiava una capigliatura apparentemente casuale ma che era di sicuro frutto di un lungo lavoro, rise sguaiatamente annuendo. Davide sospirò e fece cadere la testa all'indietro, appoggiandola sul vetro. Rivolse lo sguardo all'altro lato del vagone dove, in piedi in un angolo, c'era un uomo magro, con pantaloni larghi e logori e una felpa nera. Indossava un cappello rosso con la visiera con sopra il cappuccio della felpa. Del viso si intravedevano solo le labbra screpolate che, inarcandosi in un sorriso, mostrarono i denti sporchi dell'uomo. Due denti d'oro gli scintillarono ai lati opposti della bocca. Davide ne fu turbato, distolse lo sguardo e chiuse gli occhi. Si concentrò sul suono continuo della metropolitana sui binari e si fece trasportare dal dondolio del vagone. Per poco non si addormentò. Aperti gli occhi si accorse che sul sedile davanti a lui c'era qualcosa. Lentamente mise a fuoco e più i contorni si facevano nitidi più Davide sprofondava nell'incredulità. Davanti a lui giaceva una sua perfetta riproduzione alta forse trenta centimetri, intagliata nel legno. Era raffigurato seduto, con le gambe accavallate e con una mano si stava portando una sigaretta alla bocca. La prese frettolosamente e la mise nel suo zaino, si muoveva come se non volesse essere visto. Stava per chiudere lo zaino quando si fermò di colpo guardando al suo interno. Vi aveva riposto la statuetta con la base rivolta verso l'alto e solo in quel momento si accorse che riportava un'incisione sul fondo.
"Chi viene immortalato ha già visto calare l'ultima notte. Per te ho fatto un'eccezione.
L'uomo sul balcone".
Chiuse lo zaino. Si alzò e uscì dalla metro. Camminando verso l'uscita si voltò, il vagone era vuoto, niente ragazzi e niente uomo inquietante. Si diresse verso casa con il cuore che gli scoppiava. Non se l'aspettava, era un gesto esplicito, non era da lui, lui che neanche lo degnava di uno sguardo nei loro "incontri a distanza". Pensò che prima di farsi rivedere sul suo balcone avrebbe rimuginato parecchio sulla statuetta e sulla sua incisione. Non voleva farsi trovare impreparato dall'uomo, aveva chiaramente voluto mandare un messaggio e un messaggio… necessita una risposta.
Per tutta la notte non fece altro che bisbigliare tra sé e sé il testo dell'incisione. Più ci pensava più ne era turbato, era di sicuro inquietante. L'uomo all'angolo del vagone… doveva essere lui. Davide non trovava nessun'altra possibile spiegazione. Quindi lo aveva pedinato, era un'azione ben pianificata, metodica. Non pensava si sarebbe potuto spingere a tanto. Decise che era il momento di tentare un approccio diretto, anche se non sapeva bene cosa aspettarsi. Fino a quel momento gli era sembrato una persona normale, certo le sue statuette erano piuttosto macabre, ma poteva essere una scelta artistica. Quell'ultima statuetta, però, era diversa. Un atto improvviso, eclatante sicuramente non segno di una persona equilibrata. Era forse la cosa più interessante successagli negli ultimi dieci anni.
Era una bella giornata, il sole risplendeva in cielo dopo la tempesta e una leggera brezza accarezzava la pelle di Davide che, a qualche decina di metri da casa sua, fissava il portone di una palazzina fumando pensieroso una sigaretta. Si era ripromesso di ponderare a lungo sugli eventi del giorno prima, ma la curiosità si insinuava tra i suoi pensieri a ogni momento. Decise quindi di agire il prima possibile. Citofonare al portone condominiale era fuori discussione, cosa avrebbe potuto dire al citofono? "sono io"? No, sarebbe stato metodico anche lui, nel suo piccolo. Si sedette davanti al portone aspettando che qualcuno entrasse nella palazzina. In questo modo sarebbe riuscito a intrufolarsi nel palazzo e a presentarsi direttamente alla porta de "l'uomo sul balcone". Bastarono pochi minuti, il tempo di una sigaretta, e una signora carica di buste si presentò in fondo alle scale del vialetto. Davide finse un sorriso cordiale e la aiutò a portare la spesa nell'ascensore. Era dentro. Fece quattro piani di scale a passo svelto, poi si fermò. Una porta blindata, di legno color marrone chiaro troneggiava sul muro del pianerottolo. Nessun nome sul campanello, nessuno zerbino con scritto "welcome", solo quella porta liscia, lucida, pulita. Il cuore di Davide cominciò a battere talmente veloce che era sicuro stesse emettendo un suono continuo. Era paralizzato. Aveva quasi trovato la forza di girarsi per tornarsene di corsa a casa in preda al panico, quando il suono dell'aprirsi dello spioncino ruppe quel silenzio angosciante. Un suono leggero, lento, stridulo. Poi l'abbassarsi della maniglia.
— Non mi aspettavo di vederti così presto, Davide — disse con sicurezza una voce dolce mentre la porta, aprendosi lentamente, mostrava prima una stanza scura, sovrastata da torri di libri, e poi la sagoma di un uomo.
Quando la porta si aprì completamente, la luce che entrava dalla finestra del pianerottolo mostrò un uomo magro, capelli neri, leggermente stempiato e con la fronte alta. Aveva i lineamenti del viso quasi spigolosi, ma simmetrici. Indossava un completo blu con giacca e cravatta… era lui, non c'erano dubbi. Davide era ancora paralizzato e fissava negli occhi l'uomo. Ne era attratto. Il suo sguardo magnetico gli impediva di scappare a quella situazione surreale.
— Entra, abbiamo molto di cui parlare, gradisci un bicchiere d'acqua? — disse allontanandosi di fretta verso l'interno della casa.
Davide cominciò ad avanzare lentamente verso l'ingresso con passi tremanti. La casa non aveva mobili ma, in compenso, era talmente stracolma di torri di libri e di ciocchi di legno che sembrava la miniatura di una metropoli. L'oscurità dominava in ogni stanza. Piccoli fasci di luce, provenienti dai fori delle serrande, attraversavano la casa.
— S-si g-grazie — era talmente tanto tempo che non proferiva parola che fece fatica a far uscire il suono dalla bocca, la sua voce era roca e tremolante, quasi irriconoscibile a Davide stesso.
— Scusami per il disordine… nessuno è mai voluto entrare qui dentro — disse la voce suadente.
— Quindi q-qui dentro non ci è mai e-entrato nessuno?
— Non ho detto questo — rispose sorridendo.
Davide si sedette sull'unica sedia presente nella cucina, l'uomo si sedette di fronte a lui su una cassettiera. I suoi occhi sembravano celare più di quanto volesse mostrare. Davide fece un sospiro e tentò disperatamente di riprendersi, si schiarì la voce.
— Perché la statuetta? — disse cercando di mantenere ferma la voce, che invece avrebbe voluto tremare come una foglia.
— Perché non avrei potuto fare altrimenti — dal suo viso il sorriso non si spegneva mai, o comunque mai del tutto.
— Dimmi, tu lo sai in che mondo viviamo, Davide? — proseguì guardando Davide dall'alto in basso. Riusciva a essere imponente nonostante la corporatura esile.
Davide alzò lo sguardo con le sopracciglia aggrottate,
— Noioso? — borbottò.
Fece un risolino — Quello sicuramente, Davide, ma più precisamente viviamo in un mondo di cause ed effetti, un mondo nel quale questi due principi sfuggono al nostro potere. Persino le nostre scelte più razionalmente ponderate sono causate da eventi esterni e interni che non possiamo assolutamente controllare e inoltre… — si fermò di colpo notando l'espressione confusa sul viso di Davide.
— Quello che voglio dire è che viviamo in quel flusso di cause ed effetti che è l'universo e chi pensa di poter avere una qualche tipo di influenza attiva e consapevole su questo flusso è un povero illuso — disse cercando approvazione nello sguardo di Davide che, anche se a fatica, stava riuscendo a seguire il filo del suo discorso. Si era tranquillizzato, non stava ben capendo se quello era un tentativo di conversazione o qualcos'altro ma il suo battito cardiaco stava rallentando.
— …Quindi non credi nella libera scelta? Voglio dire… nel libero arbitrio? — disse timidamente sperando di aver capito il senso del discorso.
L'uomo sbuffò — Ah, il libero arbitrio… un altro dio a cui abbiamo creduto per troppo tempo.
Davide fece un sorriso nervoso.
— Vedi — proseguì l'uomo — il flusso mi ha portato da te per dirti ciò che non ho mai detto a nessuno, per dirti che vita ha voluto per me l'universo — si chinò su Davide e avvicinò la bocca al suo orecchio — Io uccido, Davide, e uccido perché non posso fare altrimenti, perché questo è ciò che le cause hanno voluto per me e se tu ora avessi intenzione di attaccarmi o gridare aiuto, sappi che dopo diciotto anni di violente e brutali uccisioni nessuno sa della mia esistenza — disse accarezzandogli la guancia con un lungo coltello che scintillò attraversando uno dei fasci di luce provenienti dall'esterno.
Gli occhi di Davide si spalancarono, i muscoli gli si irrigidirono e la fronte gli si imperlò quasi subito di sudore, emise un gemito sofferente. Cercò di rimanere perfettamente immobile.
— Dai non puoi esserne poi così tanto sorpreso, l'incisione era piuttosto chiara — si appoggiò al muro alla destra di Davide, toccandogli la spalla con il coltello.
— …I loro ultimi attimi mi rimangono sempre impressi… è per questo che decido di immortalarli, sono anche diventato bravo mi sembra, non credi? — Davide, tremando, annuì con le gocce di sudore che ormai gli correvano sulle guance.
L'uomo fece un sospiro profondo — So cosa stai pensando e ti sbagli, non ho intenzione di ucciderti… però dovrai fare quello che ti dico — lanciò un'occhiata inquisitoria a Davide.
Davide annuì di nuovo. Si sentiva uno stupido. Prima regola del manuale per rimanere vivi: non dare retta agli sconosciuti… soprattutto se vi recapitano statuette inquietanti. Ma per lui quell'uomo non era uno sconosciuto, erano più di quattro anni che condividevano il momento più intimo della giornata. Lì, su quei due balconi, così lontani eppure così vicini. Davide era spaventato, ma stava lentamente riprendendo a ragionare. Gli credeva, forse per disperazione. Pensava davvero che se avesse seguito gli ordini dell'uomo, quel giorno non sarebbe morto.
— No, amico mio, oggi io non ucciderò proprio nessuno. Sarai tu a uccidere… e non lo farai per me, lo farai perché è a questo che porta il tuo cammino — disse facendogli scorrere la punta del coltello lungo la spalla.
Davide cominciò ad ansimare, il cuore gli batteva talmente forte da bloccargli il respiro. I pensieri tornarono ad annebbiarsi e a incespicare l'uno sull'altro rendendosi incomprensibili. Si trattenne dal gridare mordendosi il labbro superiore ed emettendo un gemito disperato.
— E se così non fosse, allora semplicemente non succederà. Non muori dalla voglia di sapere quale effetto potrebbe scaturire da queste cause? — continuò l'uomo cominciando a girare lentamente intorno alla sedia dove era seduto Davide.
— Comunque non ti preoccupare mi sono già occupato io della tua vittima… nessuno la verrà mai a cercare. Ti sta aspettando, seguimi. — gli fece cenno con il coltello di alzarsi e Davide obbedì.
L'uomo lo portò davanti a un'altra porta blindata, in fondo all'oscuro corridoio che attraversava l'appartamento. La porta era di colore bianco, era logorata e sul lato sfilavano una decina di lucchetti arrugginiti di diverse dimensioni. Al centro vi era una finestrella in vetro rinforzato che sembrava più solida della porta stessa. L'uomo gli porse un mazzo di chiavi.
— Sono numerate, i lucchetti vanno dall'alto verso il basso. Aprili.
Davide, con le mani tremanti, cominciò a fare ciò che gli era stato ordinato. Dopo che con grande sforzo era riuscito ad aprire i primi quattro lucchetti, si abbassò per passare al quinto e non poté fare a meno di lanciare un'occhiata attraverso la finestrella. Intravide i due piedi sporchi di una persona sdraiata in posizione supina. Rabbrividì e strinse le labbra una contro l'altra, trattenendo le lacrime che cominciavano a inumidirgli gli occhi. Il lavoro meccanico dell'apertura dei lucchetti gli restituì un po' di lucidità. Loro erano in due, l'uomo era da solo. Se fosse riuscito a liberare quella persona in qualche modo, forse avevano qualche possibilità di sopravvivere. In quel momento l'ultimo lucchetto cadde a terra. L'uomo con un leggero calcio spalancò la porta. La stanza era illuminata da una luce al neon che ronzava nel silenzio. Le pareti, il pavimento e persino il soffitto erano coperti da un telo di plastica. Al centro vi era un robusto tavolo di plastica con sopra una donna. Aveva i capelli biondi ma sudici di sudore e la pelle candida e lucida. Le erano state legate braccia e gambe con delle cinghie.
— Benvenuto nella mia sala hobby, insonorizzata e dotata di tutti i comfort. Ti presento la nostra nuova compagna di giochi — puntò per un secondo il coltello verso la donna poi lo riposò subito sulla spalla di Davide — Allora, ti spiego come andranno le cose. La signora al momento è sedata, presto si dovrebbe svegliare ma le farò comunque un'iniezione per velocizzare le cose. Poi ti darò la chiave di quel cassetto — indicò con lo sguardo un cassetto sotto il tavolo — lì troverai qualsiasi aggeggio tu voglia utilizzare per uccidere la nostra amica. Come avrai già notato questa stanza è una gigantesca busta di plastica quindi, finito il lavoro, impacchettiamo il tutto e lo facciamo scomparire. Mentre preparo l'iniezione ti terrò d'occhio con questa — si tirò fuori dai pantaloni una pistola — Così non ti viene in mente di fare scherzi, intesi? — Davide annuì.
Aveva intenzione di fare scherzi. Le cinghie che legavano la donna erano bloccate da due fibbie di metallo situate entrambe dal lato di Davide. Doveva essere delicato e sfruttare al meglio quei brevi momenti in cui l'uomo avrebbe dovuto distogliere lo sguardo. L'uomo incominciò a indietreggiare puntandogli la pistola, prese una siringa ancora sigillata nella custodia. Per aprirla abbassò lo sguardo e Davide, con la mano che teneva dietro la schiena, fece lentamente pressione sulla fibbia che bloccava le braccia della donna. La fibbia fece un leggero scricchiolio. Leggero… ma non abbastanza per il silenzio che regnava in quella stanza della morte.
L'uomo alzò lo sguardo di colpo — Che diavolo stai facendo? — si avvicinò con due lunghi passi, posò sul tavolo la siringa che aveva estratto dalla confezione e appoggiò la canna della pistola tra gli occhi di Davide.
Sbuffò deluso — Ahh andiamo! L'universo ha davvero intenzione di deludermi con un finale così banale? Devo davvero uccidere due persone oggi? E io che volevo rilassarmi e godermi lo spettacolo — premette ancora più forte la pistola sul viso di Davide.
In quel momento un urlo si levò dal tavolo e una mano, munita di siringa, sbucò da dietro la testa dell'uomo cominciando a trafiggerlo prima sulla fronte, poi sugli occhi. Piccoli schizzi di sangue imbrattarono il viso di Davide, che incredulo cercava disperatamente qualcosa da usare come arma. Tra le urla disperate dell'uomo, la donna, ormai più che sveglia, gli salì sulle spalle e con gli occhi sgranati gli piantò la siringa in gola trascinandola poi per diversi centimetri. Un improvviso spruzzo di sangue caldo si rovesciò sul petto di Davide. L'uomo cadde a terra agonizzante e la donna, in preda alla foga, si lanciò su Davide trafiggendogli mani e braccia con la siringa. Le braccia gli si ricoprirono di sangue, cadde a terra accanto all'uomo che continuava a emettere versi soffocati. In preda al panico più totale, Davide sentì sotto la sua mano insanguinata la pistola che poco prima gli era stata puntata alla testa. Non ci pensò neanche un secondo. La prese. La puntò. Premette il grilletto. L'espressione di rabbia e foga sul viso della donna si spense in un secondo, mentre un piccolo fiume di sangue cominciava ad attraversargli il viso. Aveva un foro nero sul lato destro della fronte. Si accasciò per terra con un tonfo. Davide ansimava e tremava. Non sarebbe dovuta andare così. Ora era diventato un assassino. Era diventato un assassino perché non aveva potuto fare altrimenti. In quel momento vi fu un colpo di tosse sofferente. Davide voltò lo sguardo e si accorse che "l'uomo sul balcone" si muoveva ancora, stava premendo con forza sulla ferita alla gola.
— P… a… re c-che abbia s… bat… t… tuto le al… i la f-farfal-la giusta — disse soffocando nel suo stesso sangue, poi abbozzò un sorriso.
Davide si alzò, sputò un grumo di sangue, guardò fisso negli occhi l'uomo… e gli piantò due pallottole nel cranio.
(fine)
Gabriele Ludovici
Il vino del presidente
Il surrogato di caffè inizia a borbottare nel bollitore. Questo suono è una sveglia non ufficiale che segue quella delle sei. Ma tanto sono sempre in piedi già da un'ora, nei dintorni il traffico umano comincia presto.
Verso il liquido marrone nella mia tazza di latta e mi trascino fuori dalla baracca. Kirp è già attivo, guaisce di fame. Mentre gli riempio la ciotola con gli avanzi della cena, getto il solito sguardo alla dom del professor Sirel. È avvolta da un tale silenzio…
Jahimann Sirel aveva ricevuto la sua dom quarant'anni fa, quando il governo si prodigava a elargire piccoli eremi contadini a tutti i miei connazionali che si erano distinti in qualche ramo della scienza. Il professore Sirel era un celebre chimico, "celebre" almeno per chi poteva permettersi di leggere giornali o possedere un televisore.
Quel luminare mai si sarebbe immaginato di dover trascorrere gli ultimi anni di vita a pochi metri da una specie di baraccopoli. Ma tant'è: il Paese è fallito da un pezzo, in campagna c'è spazio e le lamiere non mancano.
Sorseggio il mio surrogato, ripenso al mio primo incontro con Sirel, avvenuto pochi giorni dopo aver costruito la mia "dimora" a fianco della sua. Il professore non incuteva rispetto: piccolo di statura, infagottato in un cappotto antidiluviano, un volto talmente rugoso che pareva un ritratto accartocciato. Non so perché avessi attirato la sua attenzione, ma una sera, gracchiando qualcosa di appena comprensibile mi invitò nella sua dom. La spoglia verandina che si affacciava sui campi incolti era buia, Sirel soffriva il razionamento energetico.
— La tua è una vita di merda, vero? — esordì.
Mi venne da ridere al pensiero che lui si preoccupasse della mia situazione. Gli parlai del licenziamento dalla fabbrica; della mia ex moglie impazzita dopo aver trovato il nostro piccolo morto di freddo nella culla; dello sfratto e dei continui arresti per vagabondaggio. Annuì stancamente, poi comprese che era giunto il suo turno di vuotare il sacco. Prima di rispondermi, notò il mio interesse verso il suo calice di vino; percepivo il lieve moto ondoso rossastro al suo interno, causato dalle sue mani tremanti, oltre al buonissimo profumo.
— Frena, questa roba non è per te.
Sirel si alzò dalla sedia di paglia, entrò nella dom e tornò con una bottiglia di acquavite.
— Fattela bastare perché ne ho di cose da raccontarti…
Non mentiva, parlò a lungo. Da giovane aveva vinto dei premi internazionali, ma la sua carriera si era assestata sugli alti e bassi dei governi che si erano succeduti. Dalle interviste in TV ai peggiori licei di provincia, per intenderci, fino al declino della ricerca scientifica del Paese. Una moglie morta di parto, due figli (Roman e Aleksa) che di professione lo spogliavano di ogni bene per addolcire le loro nottate in città.
— Sei stato fortunato a veder morire tuo figlio, e… credimi, l'avidità sarà la disgrazia dei miei — sibilò, con gli occhi annacquati dall'alcol. — Non c'è più rispetto per i padri, non credi?
Ero indeciso se strangolarlo o dargli ragione, nel dubbio mi congedai con il proposito di rivederci nei giorni successivi.
Non potei che onorare la promessa: il vecchio professore, poco dopo ogni tramonto, cominciava a chiamarmi; mi faceva trovare una scodella di zuppa e l'acquavite schianta-fegato. Era un povero cristo come me, in fondo. Sorseggiava il suo prezioso vino rosso bestemmiando come un orso rabbioso, lamentandosi degli acciacchi e della solitudine. Alternava serate di pura ira a brevi periodi di paciosa rassegnazione, in cui trovava persino il modo di raccontarmi i fasti di un'esistenza vissuta, nonostante tutto, da privilegiato.
Col tempo, Sirel si ridusse sempre più a un mucchio di stracci raglianti. L'estate sembrava corroderlo e una sera mi accolse con due eleganti casse contenenti delle bottiglie di vino dall'etichetta blu e oro. I colori del vecchio governo.
— Adesso sono tue.
— Scherzate?
— No. È tutto ciò che mi rimane, mi furono regalate dal presidente in persona. Mi raccomando: non aprirle.
— Perché?
— Io…
Diavolo d'un Sirel. Sulle prime non è che credetti troppo alle sue parole, ma quando lo vidi uscire dalla dom in una bara, portato in spalla da alcuni funzionari del Comune, capii che non mi aveva preso per i fondelli. Decisi così di sotterrare le casse di vino, dal momento che non avrei potuto trarne nulla.
Passò una settimana dalla morte del professore; un mattino, all'alba, sfondarono la mia porta. Nel giro di pochi secondi mi ritrovai spalle al muro, tempestato di bastonate da due energumeni.
— Dal notaio risultano certe bottiglie… parla o da qui non esci vivo.
Capii.
Indicai loro dove le avevo sotterrate. Mentre mi costringevano a disseppellirle, cercai di ricordare come si chiamasse quella sostanza chimica con la quale Sirel, mediante una lunga siringa che trapassava il sughero del tappo, aveva contaminato il vino, trovando il modo di avvelenarsi con dolcezza e morire con calma. Mi strapparono le casse dalle mani prima che potessi riferirglielo.
Adesso nella dom non abita più nessuno e intorno a quelle mura aleggia un silenzio che, a ripensarci ora, mi rimette in pace col mondo.
(fine)
Isabella Galeotti
Le avventure di Otis
Sono un notaio mancato, ascensorista per necessità, con molte storie da raccontare.
La prima che mi viene in mente è quella dell'ortensia.
Siamo negli anni ottanta.
Venni chiamato con il cerca-persone dalla centralinista del centro operativo. Andai al furgone e accesi la radio.
— Scansafatiche, c'è un'ortensia finita in buca Viale Piave 13 passo.
Le risposi che sarei intervenuto subito, nonostante il suo apprezzamento. Riflettei un secondo e la richiamai.
— Dolores, sei sicura che c'è un'ortensia in ascensore?
— Un momento che controllo — rispose.
Dopo qualche fruscio e sgancio-aggancio di linea, mi ritrovai a parlare direttamente con l'interno della cabina.
— Buongiorno, sono il tecnico, chi c'è in ascensore?
— Buongiorno signor tecnico sono Ortensia Pasini. Non ho paura, ma ho dei meravigliosi vasi di gerani qui con me. Venga subito, perché devo annaffiarli o moriranno. Dimenticavo, signor tecnico, oggi la Valeria mi deve restituire un bel pò di quattrini, ho appuntamento con lei per le sedici. Vero che per quell'ora sarò fuori?
— Sto arrivando, certo, io sono Otis, si metta comoda, signora Ortensia. Per un momento ho creduto di soccorrere dei fiori. — Risi.
— Grazie Otis, gliene sarò grata, anche lei come nome sta bene. Per il mio sono abituata a questi equivoci, purtroppo. Mia mamma e mio papà erano giardinieri. Le chiedo: posso canticchiare qualche vecchio motivetto?
Le risposi: un nome, una garanzia e che sarebbe stato un piacere ascoltarla. Quindi lasciai la radio accesa. Arrivato, presi la cassetta dei ferri e mi avvicinai al palazzo. Sul portone vidi un tizio con le mani posate sui fianchi che si guardava attorno. Il portinaio.
— Plesto, Oltensia aspetta, plesto — mi gridò.
Inforcai le scale e arrivai al secondo piano. Lì un signore in vestaglia mi fermò e mi chiese:
— Gradirebbe un buon caffè? L'ho appena intazzato.
Mi attirò intazzato, feci cenno di sì: c'è la signora Ortensia bloccata in ascensore.
Lui fece un sorrisetto malizioso, solleticando il fazzolettino bianco ricamato che spuntava dal taschino sinistro. Entrando nell'appartamento, mi indicò le pattine, aggiungendo:
— Stia attento a non lasciarmi segni sul pavimento.
Mi fece strada, anche lui strisciando, fino in cucina, dove vidi una donna seduta a tavola.
— Ciao, Enrico," disse la donna, e proseguì: — tutto bene a scuola?"
Io guardai l'uomo e dalla sua espressione capii che avrei dovuto stare al gioco.
— Sì, mi hanno interrogato sul diritto civile. — Lei ribatté: — Bravo vedrai che diventerai un eccellente notaio, come il tuo papà.
Mi accomodai e bevvi il caffè. Dopo l'uomo mi riaccompagnò fino alla porta e disse:
— Grazie.
Mi salutò chiudendo l'uscio con una doppia mandata. A quel punto ripresi la mia cassetta, che avevo lasciato sul pianerottolo, e proseguii la salita. Nemmeno dieci scalini e incrociai un cane enorme che stava scendendo velocemente con una voce alterata che lo seguiva.
— Ucci, non uscire, ti prego. Non andare in strada. Ucci, Ucci.
Un ragazzone di colore si stava precipitando per agguantarlo, mi vide da lontano e mi incitò a fermare la bestia. Nel frattempo il peloso mi sorpassò. Quindi il ragazzo e io scendemmo alla conquista del quadrupede. Nonostante le preghiere di fermarsi, la sua voglia di libertà fu tale che oltrepassò il marciapiede piombando in strada. Sentimmo un tonfo seguito da un guaito: capimmo che era stato investito. Quando arrivammo fuori, senza fiato, un massiccio umano inveiva contro il dogsitter in questo modo:
— Non farti più vedere, disgraziato. Se ti prendo ti ammazzo.
Il destino fece sì che proprio il suo padrone lo aveva investito. Lasciai questa situazione per raggiungere Ortensia e rincuorarla. Arrivato al quarto piano, mi accolsero dei bambini che giocavano e mi beccai una pallonata sugli stinchi. Svicolai. Finalmente arrivai all'ottavo piano. Sì, uno in più. La cabina per la manovra è sempre al piano superiore. Trovai una donna che stava armeggiando con le catene per la manovra a mano. Le domandai con autorità:
— Cosa sta facendo qui? Come ha fatto a entrare? Chi le ha dato le chiavi?
La sagoma femminile indietreggiò, e confusa mi disse che la cabina era sempre aperta. Poi scappò. Scostai la porta e vidi quello che non avevo mai avuto modo di vedere in una cabina di salvataggio. Bottiglie di vino, fardelli d'acqua, passeggini! Rimasi allibito. Notai anche alcuni pulsanti manomessi. A quel punto procedetti con la manovra e alla fine la cortese signora Ortensia fu portata in salvo con i suoi fiori.
Per la manomissione chiamai il caposquadra, che a sua volta fece intervenire un detective e la polizia. Seppi dopo qualche tempo che la cara signora Ortensia prestava soldi, ma gli interessi erano altissimi. La donna che vidi in cabina quel giorno fu arrestata per tentato omicidio; avrebbe dovuto rendere a Ortensia un bel gruzzoletto di denaro, che non aveva.
Quante storie. Mia nonna voleva facessi il notaio, come il mio papà, invece… un nome, una garanzia.
Ho ancora due minuti prima di riprendere il turno. Se volete vi racconto di quando rubarono i tastini numerati dei piani, sapete cosa ne facevano? Devo andare mi chiama Dolores.
(fine)
Draper
Hako, help me
Apro gli occhi. Il salotto è un acquerello rosa fenicottero. Ho di nuovo pianto nel sonno. C'è umidità, caligine, mi sudano le sinapsi. Sono uno Sputnik alla deriva, perso nell'orbita d'un soggiorno démodé. Falci di luce gialla ibridano le ombre afose della stanza. Un allarme. La centralina domotica segnala un problema. È la pre-allerta meteo.
— Istantanea report, per favore.
Dai fono-diffusori sgocciola piano la robo-voce di Ophelia, attenzione, avverte, precipitazioni a PH 3 attese per mezzogiorno, parla di piogge acide, eppure ascoltarla è l'unico balsamo che ho, previsti livelli di H2SO4 sulle due punto due parti per milione.
All'improvviso un'ondata di nausea, no, forse è nostalgia. Dio, quanti Long Island Aesthé ho bevuto ieri sera? Decisamente troppi, scopro — oltre un velo di lacrime tremola il digitimer, segna le nove di mattina. Sono in ritardo. Al chiosco ci sarà già calca, hanno bisogno di me per confezionare quei Fruttaccinos alle bacche di Goji, ma perché dovrei alzarmi? Là fuori non c'è niente, solo smog e anonimali da marciapiede.
Doppio bip, l'Hamlet Software s'attiva a tradimento. Dovresti essere al lavoro, ammonisce, un'assenza dall'impiego può costare ammende pecuniarie e licenz.
Lo ignoro, lo spengo. Attorno a me cala il buio, un'oscurità striata soltanto dal giallo fluo del segnale meteo. Da risacca, il moto della nostalgia si fa mareggiata. Schiuma.
No, bucare il turno al Kokonut non mi costerà mai quanto aver perso lei. Mi manca da morire, ma più scorre il tempo, meno riesco a ricordare. E se di colpo svanisse tutto?
— Hako.
Pronuncio quel nome ad alta voce e Ophelia m'interfaccia alla neuro-teca.
Come un fiore di loto, l'ologramma vermiglio di Hako sboccia al centro della stanza. Bagliori elettrici le sfrigolano a fior di pelle, finché il mio avatar non la stringe a sé.
Il loro… Il nostro contatto sprigiona scintille viola. C'è odore d'ozono nell'aria.
Eccola — penso — l'unica donna che abbia davvero trasceso la post-modernità, perennemente assorta a scrutare il cielo, con quel nasino puntato a Est di un sogno.
Sulle pareti sfarfalla un teleshow lo-fi pieno di memorie, e così la rivedo sorseggiare una Saint Pepsi al nostro primo appuntamento, mentre le sfioro i capelli, poi guardo le sue labbra chiare, la spiaggia, baci in punta di piedi, mi dice. Il nebulizzatore diffonde il suo profumo in Smell-O-Vision. Sa di vaniglia e salsedine. Hako, dove sei?
Continuo a chiedermelo. Dovrei smettere, però non voglio. Non voglio dimenticarti.
Mi sento smagnetizzato, sai, come un vecchio Betamax, ma osservarti mi dà sollievo. I tuoi occhi, soprattutto, quelli non sono cambiati — sempre vivi, due finestre al neon spalancate su piogge di stelle cadenti. — Ophelia — ordino — Avvia Esprit.
Adoravamo quella canzone.
Aiutami a non dimenticare, Hako, ti scongiuro. Un giorno troverai qualcuno, mi rassicura lei, col suo sorriso che glitcha fondendosi a un panorama del monte Fuji.
Allora la supplico. Non lasciarmi di nuovo solo, non oggi. Vorrei uscire, vorrei alzare la testa come facevi tu e trovare uno scopo. Mi senti? Sono io. Ti prego, parlami. Salvami.
Lentamente, una frase a metà fra caratteri kanji e hiragana si sostituisce agli ologrammi. La riconosco subito, era uno dei suoi proverbi preferiti. Sorrido di tristezza.
失敗を繰り返すことで、成功に至る。
"Ripetuti fallimenti conducono al successo", traduco a mente. La neuro-teca si spegne.
È sempre questo il tuo messaggio, Hako? Quanto ancora dovrò fallire per rivederti?
(fine)
Angelo Ciola
Un filo d'olio
Non sbagliava mai. Non era mai successo, eppure, questa volta, Leo25, il super computer, non era riuscito a prevedere i risultati. Come era possibile? In un primo momento il governo cercò di nascondere la cosa, ma l'errore era troppo evidente e divenne l'argomento principale di tutti i talk show. Alla fine intervenne la Corte Suprema che dichiarò non valide le elezioni. Non era concepibile che i risultati finali non corrispondessero alla perfezione con quanto previsto da Leo25. Ma fu quando arrivò il secondo errore che si diffuse il panico. Le previsioni economiche effettuate da Leo25 differivano di un 0,037% rispetto al risultato finale. Per tutti i tecnici era impossibile che fossero sbagliate. Da più di 20 anni ormai, era il componente principale del sistema informatico integrato, il computer dal quale dipendeva l'intera rete informatica nazionale, controllava ogni attività e, fino ad allora, non aveva mai fornito dati discordanti. La tecnologia si era evoluta al punto che nessun essere umano poteva comprenderla. Ogni nuovo elaboratore, ogni modifica e ogni variazione informatiche erano progettate, sviluppate ed elaborate dai computer. Per ironia della sorte, quel nome, "Leo" era stato originariamente dato in onore della più grande e versatile mente dell'umanità: Leonardo da Vinci. Come Leonardo l'elaboratore era l'unico che possedeva e padroneggiava tutte le informazioni e le possibilità del suo tempo; già dai tempi del vecchio Leo14, tutto ormai veniva governato dall'elaboratore centrale.
— Allora, cosa possiamo fare? — disse il Presidente al professor Panizza, considerato il massimo esperto informatico della nazione.
— Ci stiamo lavorando, ma al momento ben poco. Da troppo tempo abbiamo delegato ogni decisione alle macchine, nessuno è più in grado di metterci mano.
— Ma se Leo25 non è più affidabile è un disastro! — gridò il Presidente, mettendosi le mani nei capelli.
Il vecchio commesso, rimasto nella sala, in attesa di istruzioni, si avvicinò ai due e, imbarazzato, decise comunque di esporre la sua opinione.
— Scusatemi Onorevoli, se disturbo, ma forse conosco qualcuno che può provare a fare qualcosa.
I due girarono la testa verso il commesso sorpresi.
— Com'è possibile che lei conosca qualcuno più competente di me e del mio staff? — disse, con fare arrogante, il professore.
— No… No… io non dico che sia più competente di voi. Ma, vedete, in città c'è ancora una persona che ripara le vecchie cose. Io, il mese scorso gli ho portato una antiquata bicicletta e lui l'ha riparata tranquillamente. Ripara di tutto, elettrodomestici e macchine varie. Dicono che sia molto bravo nel rimettere a posto le cose.
— Riparare le cose, pensavo che ormai non lo facesse più nessuno, — disse perplesso il Presidente — adesso con la stazione 3d casalinga si riesce a produrre tutto e a costi più bassi. Non c'è più né la necessità né la convenienza di riparare.
— Vede Onorevole, c'è ancora chi si ostina a non buttare via le cose, vogliono aggiustarle, dicono che a volte ci si affeziona anche agli oggetti.
— Sai cosa dico io invece, — concluse il Presidente — siamo talmente disperati che voglio far vedere Leo25 al tuo amico, non vedo altra soluzione.
Il giorno dopo Arturo, il vecchio artigiano, arrivò al Ministero con la sua cassetta degli attrezzi. Quando fu di fronte al grande computer lo esaminò con calma. Gli girò attorno, aprì ogni sportellino, controllò tutti i cavi, mentre il Presidente e, una decina di tecnici in camice bianco, sorvegliavano ogni sua mossa, preoccupati che quel vecchio incompetente potesse danneggiare l'elaboratore.
Dopo un po', l'artigiano si sdraiò per terra e infilatosi in un pertugio a fianco del computer chiese che gli passassero la sua valigetta.
— Faccia attenzione! Non tocchi nulla, se non è sicuro. — Esclamò il Presidente.
Qualche lieve rumore, proveniente dall'elaboratore, fece rizzare la pelle ai preoccupati spettatori. Poi, dopo pochi secondi, Arturo, riemerse con un gran sorriso sulle labbra.
— È possibile far ripetere al calcolatore le procedure discordanti? — chiese.
Il responsabile della sala macchine impostò immediatamente il programma e tutti attesero trepidanti il risultato.
— Magnifico — disse il tecnico — i risultati coincidono perfettamente. Non c'è nessuna differenza.
— Grande! — esclamò il Presidente — Non ci avrei mai creduto!
Poi, si rivolse stupito verso Arturo.
— Ma cosa ha combinato lì sotto? Come è riuscito ad aggiustarlo?
— Vede Eccellenza, in tutto quel caos di schede e circuiti, ho notato un piccolo ingranaggio leggermente bloccato, mi è bastato versarci sopra un filo d'olio.
(fine)
Slifer
Sotto un cielo d'ebano e lucciole
Sollevo lo sguardo al cielo e vedo una distesa infinita di nero, punteggiata di briciole luminose.
Siamo fuori città, lontano dai lampioni e dalle luci dei locali che normalmente impediscono di contemplare gli astri. Intorno a noi c'è solo un silenzio interrotto a intermittenza dal frinire dei grilli o dal fruscio delle fronde.
Il disco lunare splende in mezzo al cielo. La sua pallida luce argentea s'irradia nel vuoto. Osservandola meglio capisco perché gli orientali parlino del coniglio della Luna: la disposizione delle macchie più scure rispetto alla superficie più chiara crea effettivamente la sagoma di un roditore.
— Domani parto — mi dice Eleonora.
Continuo a guardare sopra di me, ma le rispondo: — Continuare a ripeterlo non lo renderà meno piacevole, lo sai.
C'è della mestizia nella sua voce, quando ammette: — Sì, lo so.
Con un po' di attenzione si può risalire di costellazione in costellazione fino a individuare Perseo e Andromeda. Secondo il mito erano marito e moglie, lui la salvò dalle grinfie di un mostro marino e la sposò. Adesso stanno per l'eternità nel cielo, insieme, indivisibili. Come vorrei che potesse essere così per tutti. A cominciare da me.
— Senti, Eleonora — mi faccio forza — C'è una cosa che devo dirti.
— Dimmi.
Distolgo lo sguardo dal cielo d'ebano, cerco gli occhi di lei. Belli, azzurri, grandi e pieni di vita. Riesco a vederli persino in quell'oscurità a malapena rischiarata dalle luci del cielo.
— Io…
Vorrei poterle dire che la amo. Potrebbe rifiutarmi, lo so che ha sempre preferito altri tipi di ragazzi, ma ci tengo che lo sappia prima di partire, forse per sempre. Certo, oggigiorno ci sono i cellulari, internet, le mail, Whatsapp, potremmo sempre tenerci in contatto; ma ho già perso di vista tanti vecchi amici di liceo andati a studiare fuori, so già che perderò anche lei. Quindi ci tengo che parta sapendo la verità.
— Io…
Esito.
Il verso solitario di una civetta rompe il silenzio.
— No, niente. Spero ti troverai bene a New York.
Distolgo lo sguardo da quei begli occhi azzurri e torno a fissare il cielo, immobile nella sua eternità. E mi ritrovo a invidiare le stelle, che vivono così beate, senza le preoccupazioni e le angosce di noi mortali.
(fine)
Stefyp
Come il fuoco di un falò
Lucienne guardò la sua immagine riflessa allo specchio. Era sempre andata fiera dei sui capelli, lunghi fin quasi al fondo schiena, ricci, non proprio rossi piuttosto color fuoco: — come la fiamma di un falò — le diceva sempre sua madre.
Non riusciva a rinunciarvi. Erano il suo punto di forza e le permettevano, tra l'altro, di nascondere le sue orecchie troppo grandi.
— È ora — sospirò — non posso più aspettare. — Aveva tergiversato a lungo, ma non poteva più permettersi di pagare le multe salate che riceveva di continuo. Suo marito l'aveva avvertita: — se non te li tagli tu, lo faccio io questa notte. Siamo in bancarotta ormai, un'altra multa e siamo rovinati.
— Fatti forza, ci si fa l'abitudine, all'inizio ti senti strano, poi passa. Anzi magari ti piaci di più — questo le diceva la gente per convincerla.
Tutte storie. Lei non voleva farci l'abitudine, lei non si sarebbe mai piaciuta senza i suoi capelli.
— Ma è la legge, non può farci nulla — le ripeteva suo marito fino allo sfinimento.
Inutile continuare a chiedersi il perché di questo nuovo decreto. Non c'era un perché. Era solo l'ennesimo capriccio di chi li governava. Non c'era nessun motivo e non avevano neanche finto di trovarne uno.
Giornali e talk show si erano dati da fare per tentare di dare una spiegazione: avevano invitato ospiti illustri, giuristi, costituzionalisti, politici di alto rango. Ma niente da fare il motivo non saltava fuori. A saltar fuori di continuo invece erano le multe, gli arresti, i licenziamenti di chi non si assoggettava.
Le centinaia di proteste e manifestazioni organizzate in tutto il paese erano state represse con decisione.
I titolari delle catene di coiffeur più prestigiose avevano preteso una spiegazione, picchiando i pugni su parecchi tavoli e facendo appello alla loro fama e al "Lei non sa chi ho pettinato io".
Modelle e indossatrici di fama mondiale avevano sfilato vestite solo dei loro lunghi capelli per protestare contro quell'imposizione.
Attori di cinema e teatro disperati avevano smesso di recitare: — come si fa a recitare una scena d'amore credibile se davanti hai una collega con la testa pelata — urlavano a chiunque li volesse ascoltare.
Attrici di cinema e teatro disperate avevano smesso di recitare: — come puoi recitare una scena d'amore credibile se davanti hai un collega che scoppia a ridere appena ti guarda — urlavano a chiunque le volesse ascoltare. Ma niente da fare, non li aveva ascoltati nessuno.
Le bambine piangevano disperate rimirando la loro collezione di nastri, nastrini, forcine e mollette, mentre psicologi e luminari dell'età evolutiva discutevano sull'opportunità o meno di rasare anche le bambole.
Al convegno: "Una barbie dai capelli fluenti, valido aiuto per la crescita armonica delle nostre fanciulle?" gli stessi luminari, in disaccordo tra loro, si erano accapigliati per ore.
I negozi di parrucchieri avevano tentato il colpaccio triplicando i prezzi delle rasature, con il risultato che il colpaccio l'avevano fatto i rivenditori di rasoi elettrici.
Una nota industria di cosmetici aveva lanciato sul mercato una crema che aveva del miracoloso: con due o tre applicazioni i capelli non sarebbero più ricresciuti. Qualcosa vendette, ma per altre parti del corpo. Nessuno osò mettersela in testa. Chissà, magari il governo un giorno ci avrebbe ripensato…
Lucienne era giunta alla consapevolezza di essere sola in quella sua disperazione. Il marito non voleva e non poteva comprenderla. Affetto da un'alopecia precoce dall'età di 18 anni, pareva esaltato da questa nuova prospettiva. Finalmente non si sarebbe più dovuto preoccupare della sua testa pelata, anzi! Dispensava consigli su come proteggersi dai raggi solari, regalava cappelli e pacche sulle spalle: — viviti questa tua nuova vita da uomo pelato e cogli tutte le opportunità che ne verranno — diceva agli amici.
Con un sospiro Lucienne prese il rasoio con una mano e infilò l'altra tra i capelli. Li sentì morbidi, vellutati, profumati.
Un raggio di sole penetrò in quel momento dalla finestra incendiando il suo capo in mille colori. — Come la fiamma di un falò…— le parve quasi di sentire la voce di sua madre.
Buttò allora il rasoio in un angolo della stanza. — Stupida, stupida, stupida — urlò a se stessa. — Perché non mi sono decisa prima!
Prese un borsone, vi gettò qualcosa alla rinfusa e cercò le chiavi dell'auto. Era ora di fare quello che aveva in animo di fare da quando era iniziata quella storia.
Se c'era un modo per uscire da quella assurda situazione era quello di unirsi a loro. Avrebbe passato la sua vita in clandestinità e combattuto con loro fino alla morte, se necessario.
Sapeva bene dove trovarli. L'avevano avvicinata un giorno per strada mentre piangeva con l'ennesima multa tra le mani e le avevano passato un biglietto di nascosto — Vieni con noi — avevano bisbigliato — raggiungici. Abbiamo bisogno anche di te. Firmato F.L.C. Fronte Liberazione Capelli.
(fine)
Alessandro Mazzi
Sonno profondo
Quel giorno qualcosa non andava. Me ne accorsi subito, non appena aprii gli occhi.
La sveglia sul comodino segnava le undici. Sarei dovuto essere a lavoro da almeno tre ore e avrei dovuto preparare la colazione per Katy e Annie.
Scesi dal letto, circondato dal buio della stanza. Nessuna luce filtrava dalle finestre, nonostante la mattinata fosse quasi al termine e il sole dovesse essere ormai alto nel cielo.
Pensai a Linda, mia moglie. Se n'era andata a lavoro senza nemmeno degnarsi di svegliarmi; un fatto che definii molto strano dal momento che ogni mattina il suo bacio del buongiorno decretava la fine dei miei sogni.
Nemmeno Katy e Annie, le mie due figlie, si erano preoccupate del mio sonno profondo.
Scesi le scale senza darmi troppa pena per il ritardo sul lavoro; poco male, avrei telefonato e mi sarei giustificato in qualche modo.
In cucina trovai i resti della colazione, e a giudicare dall'odore di bruciato che si espandeva per la stanza, pensai in cuor mio, che le due bimbe, nonostante l'impegno, non fossero ancora pronte per partecipare a Master Chef.
D'improvviso mi balzò all'occhio un biglietto scarabocchiato con una penna rossa.
Riconobbi la grafia di Katy, che con mano incerta mi aveva lasciato un messaggio. Pensai che fosse un gesto molto carino da parte sua e lo lessi ad alta voce rompendo il silenzio tombale della casa.
— Ciao papà. Io e Annie ci siamo arrangiate con le uova e i pancake. Abbiamo provato a svegliarti, ma è stato praticamente impossibile. Mamma ti dice sempre di non mangiare troppo pesante prima di andare a letto. Sembravi quasi morto!
Sembravi quasi morto. Tre parole che iniziarono a rimbombare negli immensi corridoi della mia testa, come una campana nell'ora di preghiera.
Pensai che la prossima cosa da fare sarebbe stato chiamare il mio capo e tranquillizzarlo sul fatto che fossi ancora vivo. Mi immaginai davanti al suo muso inferocito, mentre giustificavo la mia assenza con qualche assurda storia. Scomodare un'invasione aliena sarebbe stato eccessivo; probabilmente l'idea della cena messicana mal digerita sarebbe stata più verosimile.
Avevo bisogno del mio cellulare e così presi a salire le scale; di solito lasciavo il telefono sul comodino della camera da letto, in modo che fosse ben visibile e non lo dimenticassi prima di uscire di casa.
Spalancai la porta della stanza che da anni condividevo con mia moglie; l'oscurità mi avvolse e mi lanciò il suo invito a entrare.
Una sensazione di terrore irrazionale invase il mio corpo, scuotendolo da testa a piedi.
Con la mano destra cercai l'interruttore sulla parete; avrei acceso la luce e ogni paura si sarebbe dissolta. E invece così non fu.
Non appena riuscii ad accendere il lampadario, l'abbagliante luce alogena della camera rischiarò ai miei occhi la vista di qualcosa di inquietante e inatteso.
Una sagoma scura se ne stava rannicchiata sotto le coperte, proprio sul lato del materasso che avevo occupato fino a pochi minuti prima.
L'ignota presenza sembrò non accorgersi di me né tanto meno sembrò infastidita dal bagliore che proveniva dal lampadario.
Iniziai ad avvicinarmi, più turbato che mai, mentre la tensione irrigidiva ogni nervo e muscolo del mio corpo.
Sembravi quasi morto. Ripensai a quelle parole e ancora la mia mente fu scossa come da un oscuro presagio.
Trovatomi a pochi passi dal mio ospite, scostai leggermente le coperte per scoprirne il volto, mentre le mie mani tremavano all'impazzata in preda a spasmi incontrollabili.
Nella stanza il silenzio regnava sovrano, interrotto soltanto dal battere dei miei denti, che stringevo con forza per scaricare la tensione.
Davanti ai miei occhi si aprì un'immagine sconvolgente: un volto pallidissimo, dal colorito grigiastro e con due enormi occhi sbarrati mi fissò da sotto le coperte che avevo leggermente spostato.
Lo sguardo spento non lasciava trapelare alcun segno di vita.
Quell'uomo doveva essere deceduto da diverse ore.
Cercando maggiori risposte agli interrogativi che iniziavano ad accalcarsi nella mia mente, liberai l'intera sagoma dal fagotto delle lenzuola.
Fu soltanto allora che i dubbi divennero certezze e le certezze si trasformarono in vivido orrore.
Cercai di gridare senza però riuscirvi.
Il cadavere che occupava il mio letto era una persona che conoscevo fin troppo bene.
Ero proprio io.
(fine)
Massimo Centorame
Nella Notte
Sofia portò lo sguardo verso lo specchietto retrovisore. Dietro di lei un grosso SUV le respirava addosso, sfiorandole il paraurti e lampeggiando in maniera ossessiva. Strizzò nervosamente gli occhi e la notte buia si fece per un attimo ancora più scura.
Doveva essere lui: "Il vecchio pirata della notte" di cui parlavano i giornali. Il suo cuore iniziò a palpitare e lei poté contarne i battiti. Doveva chiamare Marco, il suo compagno. Volse lo sguardo verso il vano portaoggetti. Il cellulare scarico e spento. Cosa non avrebbe dato per tornare indietro nel tempo e accettare l'offerta di Tiziana, che le aveva steso il suo caricabatterie poco prima di lasciare lo studio.
Inghiottì un bolo di saliva che le incendiò lo stomaco e premette il piede sull'acceleratore. Buttò nuovamente gli occhi sullo specchietto retrovisore e per un attimo il SUV del pirata divenne un puntino scuro. Tirò un sospiro di sollievo. Poi di nuovo quello sfarettare. Strizzò gli occhi fino a che non le fecero male e il cuore riprese a palpitare più intensamente che mai. Era ancora lui, ancora più vicino. Così vicino da poter distinguere un uomo al volante. Dietro di lui qualcuno ansimava e si contorceva.
Le mani curate di Sofia grondavano sudore. Il volante iniziò a sgusciare via come un'anguilla appena tirata fuori dall'acqua.
Non poteva fermarsi. L'avrebbe sicuramente uccisa. Ma neanche poteva andare più veloce di così, perché la strada stretta e la notte buia non glielo consentivano.
Era la fine: non avrebbe più rivisto Marco, né i propri genitori, né sarebbe tornata più a lavoro.
Poi un'idea. Si accostò quanto più poté al ciglio della strada, senza rallentare. L'uomo le si affiancò, all'istante. Lei iniziò a tenerlo sotto tiro con lo specchietto laterale, mentre quello continuava ad avanzare rapidamente. Il muso del grosso SUV aveva quasi raggiunto l'altezza della portiera. Era giunto il momento. Il viso di Sofia teso. Inarcò le sopracciglia, digrignò i denti e serrò gli occhi. Ogni singolo muscolo del suo corpo era contratto. Strinse con quanta forza aveva il volante e sterzò bruscamente a sinistra fino a colpirlo. Gli pneumatici urlarono sfregando con violenza sull'asfalto. Quindi lo schianto contro un grosso pino piantato ai margini della strada.
Ce l'aveva fatta. Lo aveva speronato. Rivolse per l'ultima volta lo sguardo verso lo specchietto retrovisore. Il fumo usciva copioso dal SUV distrutto. Inspirò profondamente e chiuse gli occhi. L'ansia si sciolse, ma non l'adrenalina. Tornò a guardare la strada davanti a sé e accelerò vogliosa di rientrare a casa. Doveva raccontare tutto a Marco.
Sofia aprì il portone e rientrò. Buttò la borsa a terra e raggiunse di corsa il compagno in cucina.
— Non sai cosa mi è successo?!
Esclamò tanto stravolta quanto incredula.
— Sì tesoro, un attimo. Sembra che ci sia stato un incidente lungo la provinciale, quella che fai tutti i giorni per tornare dal lavoro.
— Sì, sì, è proprio di questo che ti voglio parlare! — confermò lei annuendo febbrilmente, mentre alla TV la giornalista continuava a descrivere l'accaduto:
— Siamo sul luogo dell'incidente. Purtroppo ci comunicano che le vittime sono due: un uomo e una donna, entrambi molto giovani.
Sofia ebbe un sussulto. Portò gli occhi verso la televisione e attonita iniziò a seguire le labbra della cronista.
— Da quanto sostengono gli inquirenti, la ragazza era incinta e in procinto di partorire. Sembrerebbe, infatti, che i due si stessero dirigendo di corsa in ospedale. Ma purtroppo non ce l'hanno fatta.
Marco spense la TV. Sofia, assente, continuò a fissare lo schermo nero da 40 pollici. Poi il compagno poggiò il telecomando sul piano cucina e, voltandosi verso di lei, le chiese:
— Allora, cosa volevi dirmi?
(fine)
una produzione
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