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E
Regolamento delle Gare…
Namio Intile
Domenico Gigante
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Andr60
Athosg
Alessandro Mazzi
GeraGera
Giovanni p
Giuseppe Ferraresi
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Nunzio Campanelli
sezione 16
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presenta


Clair de lune

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale di primavera 2023


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Ebook della Gara letteraria stagionale di primavera 2023


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: spartito di Clair de lune.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Namio Intile

(vincitore della Gara di primavera, 2023)


Clair de lune


Il dieci dicembre è morto Luigi Pirandello.


A maggio era caduta Addis Abeba, e il nostro amato Re aveva coronato il sogno d'esser imperatore. A luglio, in Spagna, il colpo di stato nazionalista aveva sancito l'inizio della guerra civile, mentre a settembre il congresso di Norimberga s'era pronunciato sulla denuncia del patto di Locarno e la militarizzazione della Renania.

Vedevamo nubi scure, minacciose, addensarsi ovunque, ma semplicemente le ignoravamo, esibivamo ottimismo, nutrivamo una fideistica fiducia nella saggezza del nostro duce. Ma per me quel 1936 fu l'anno della laurea in medicina, terminato l'internato preparavo gli esami per la specializzazione.

La sera di quel dieci dicembre mi ero rifugiato nella sagrestia della chiesa di San Giuseppe dei Teatini, quel capolavoro rococò quasi invisibile dalla via, poco discosta dal Teatro del Sole, tra via Maqueda e l'antica via Toledo, dove un mio zio fungeva da cappellano maggiore e la sera teneva una sorta di circolo culturale frequentato da preti, per lo più, e da qualche qualificato civile, tra cui il sottoscritto.

Le nostre conversazioni, in quelle infinite serate al termine dell'autunno, spaziavano dall'esegesi delle Sacre Scritture secondo Agostino al rapporto tra immaginazione e deduzione trascendentale delle categorie in Kant, fino a scivolare prosaicamente sulle opportunità offerte all'Italia dalla conquista dell'Impero e, non so perché, anche quella sera, come ogni sera, sarebbe terminata con una feroce critica di mio zio al Concordato del '29.

Conversare con preti vecchi di senno e di esperienza mi faceva bene, e alla fine della giornata ottenevo il risultato di riuscire a liberarmi dei miei affanni.

Zio Nené in passato aveva tanto insistito con mio padre perché seguissi la carriera ecclesiastica. Ma era stato netto a proposito: farà ciò che vuole. E io l'avevo preso alla lettera: da uomo libero, avevo scelto di curare il corpo piuttosto che l'anima.

Eppure a quelle discussioni tra preti, dove proponevo io l'argomento iniziale come lanciando il pallino sul tavolo da bigliardo, sul sesso degli angeli o sulla crescita del petrosino in inverno, sulle figure retoriche o su quelle grammaticali, sulle varie esegesi degli evangeli non riuscivo a sottrarmi. Forse perché in teologia, come in filosofia, alla fine chi ha ragione è convinto di avere torto e viceversa: e al termine di tanta obliquità tutti i salmi finivano in gloria e ognuno se ne tornava a casa sua soddisfatto di aver avuto torto o ragione, perché in fondo sia l'uno sia l'altra immancabilmente coincidono.


E io me ne tornavo a casa quella sera, colmo di parole di commiato dei miei preti per la morte del nostro amato Luigi, si può dire uno di noi, tante erano state le volte in cui lo avevamo chiamato in causa, preso ad esempio, anche solo citato. Erano già quasi le dieci, e mi trascinavo dietro quelle discussioni con Monsignor Agrusa, canonico di Santa Maria la Nuova, la Cattedrale di Palermo. E col suo alito, che sapeva di fumo recente e di passito, mi riversava le sue considerazioni sui personaggi in cerca d'autore.

Imboccavamo la Discesa dei Giudici, lasciata la Martorana a destra e Santa Caterina d'Alessandria a sinistra, e scendevamo a passo lento verso il mare, a quella Piazza Marina dove era stata la vecchia Al Halisa araba. Da lì risalivamo per via Partanna e ci infilavamo per la via del Merlo, un angolo silenzioso e buio della vecchia città aristocratica che andava scomparendo.

E sostavamo, una sosta quasi d'obbligo, davanti all'augusto palazzo di un antico Pari del Regno e Grande di Spagna, il principe di Mirto Francantonio Filangeri Lanza.

Il palazzo era un grande parallelogramma, un isolato di ricordi, antiche grazie, perdute glorie, che andavano indietro nel tempo a quell'Angerio, figlio del Duca di Normandia, fondatore del Regno insieme ai due Altavilla.

Quello spiazzo, dinanzi al portone d'ingresso, era illuminato da un lampione, lesto a proiettare la sua tenue luce sino ai balconi del primo piano.

Mi sentivo triste ma forte in quello scorcio di dicembre, in quel mese che in futuro sarebbe stato notato da qualcuno per la morte di Ricardo Reis. Avevo la testa piena di idee, forza, teorie, di letteratura, pittura, di frammenti di Eraclito, della Patetica di Beethoven, di scienza. Ero consapevole delle possibilità della professione medica, e vedevo il mio futuro dietro l'angolo. Percepivo la frenesia che anticipa, prepara, grandi conquiste.

Eppure quell'angolo della mia Palermo mi offriva un senso di rilassamento.

Da mesi mi fermavo lì a quell'ora.

Alzavo gli occhi al balcone del primo piano e lei compariva puntuale per farsi ammirare: giovane e bella, altera, con un abito svolazzante color crema a motivi floreali.

Se ne stava affacciata ogni sera, alla stessa ora, ad aspettare me.

Era alta e flessuosa, i capelli castani, quasi biondi, acconciati con uno chignon basso dietro la nuca, capelli che parevano di seta.

Ci avvicinammo, io e Monsignor Agrusa, proprio sotto al balcone.

Potevo quasi vedere gli occhi di lei risplendere nell'oscurità, quando distrattamente si accendeva una sigaretta.

— Eh, il mio caro dottorino — mi canzonava allora don Agrusa. — Avete il vostro amore che vi attende ogni sera, e voi che fate? Non c'è dubbio — aggiungeva. — Proprio alla stessa ora. Sarebbe il momento di darsi da fare.

Gli sorridevo imbarazzato, mormoravo delle scuse.

— Ma cosa va pensando, monsignore. Le sue sono solo fantasie. Sarà perché questo dicembre pare ancora settembre.

— È bella — mormorava lui, quasi estasiato. E mi sembrò, da un momento all'altro, capace di spogliarsi da quella divisa nera e viola. — Davvero una donna splendida, di sicuro è la figlia del principe, o magari la nipote — sospirò, e volle una delle mie sigarette, forse per smettere di pensarci su.

Annuivo, distratto dai seni ricolmi di lei, liberi di esser ammirati dalle inferriate a petto d'oca dei balconi.

Dopo aver lasciato monsignore, davanti la Congregazione della Fede nei pressi di Santa Teresa alla Kalsa, sentivo gli occhi della mia dama seguirmi, li sentivo sulla pelle, nella mia carne e più tardi, sapevo, li avrei rivisti nei miei sogni.

Eppure non sapevo nulla di lei, se non dove abitasse, e mi ero astenuto dal chiedere in giro, dall'informarmi, quasi che sapere fosse l'unico modo per spezzare l'incanto, e nelle mie fantasie la paragonavo a una madonna fiorentina del Trecento intenta a suonare il salterio per il suo amore, un giovane come me, l'unico autorizzato a sospirare per lei.


Le sere seguenti, alla fine delle nostre discussioni, non vedevo l'ora di poterla rivedere, anche solo per qualche istante, a distanza, affacciata a quell'augusto balcone.

Dicembre stava per terminare, passato il Santo Natale io e monsignore intraprendevamo la solita passeggiata serale. L'aria era tersa e fredda e al balcone, per la prima volta da settimane, lei non si fece trovare.

Rimasi deluso, quasi fosse un tradimento.

— Andiamo, dottore — mi disse il mio monsignore accondiscendente. — Ogni bel gioco...

Gli diedi ragione, tra me e me, era quasi una liberazione. Stavamo per riprendere il nostro cammino verso casa quando udimmo le note di un pianoforte provenire da una delle finestre aperte sul balcone.

Riconobbi subito il terzo movimento della Suite Bergamasque di Debussy, il Clair de Lune. Le note parevano brillare nell'oscurità, all'inizio un pianissimo in un'atmosfera evanescente, passando poi a un tempo rubato dove la melodia si animava crescendo poco a poco; ascoltammo la musica divenire più mossa e, con gli arpeggi di semicrome, giungere a un registro acuto passando, con modalità più intense, a una tonalità di Do diesis minore.

Restammo muti, in silenzio ad ascoltare, e mi si inumidirono gli occhi. Dalla finestra aperta cominciai a distinguere un debole bagliore, come di lume.

Ascoltammo in religioso silenzio riprendere il motivo iniziale, con leggeri arpeggi, in un pianissimo che andava morendo fino alla conclusione finale.

— Abbiamo toccato il cuore pulsante della vita — mi venne da dire, cogli occhi al cielo, quasi in un mormorio.

La risposta che non mi aspettavo fu: — È vero, siamo alle sorgenti della bellezza e del creato — aggiunse il mio monsignore turbato e lo sguardo a terra, come se aspettasse una zampata del demonio aggredirlo dalle profondità.

Non appena la musica cessò lei comparve, bella come non l'avevo vista mai.

Una bellezza impaziente, c'era in lei come un desiderio, una voluttà che non mi sapevo spiegare. Il suo sguardo inquieto passava da noi all'orizzonte stellato, come se non fossimo il soggetto della sua attenzione, come se lei aspettasse qualcun altro provenire da un punto sperduto al di là dal cielo.

Il mattino dopo era l'ultimo giorno dell'anno. Mi svegliai con calma, feci colazione, mia madre e le mie sorelle già indaffarate con i preparativi del cenone di fine anno. Non seppi resistere e mi avviai da casa, dalle parti di via Perez, verso il centro.


Mi accompagnava Margherita, la mia bastardina selvatica ma affettuosa. Da via Oreto giunsi a piazza Giulio Cesare e da lì imboccai la via Roma verso la città antica.

Deviai per la via di Sant'Anna, dove si apriva la piazza con la splendida chiesa barocca e, quasi di fianco, il Palazzo Bonnet austero di fronte all'immenso barocco di palazzo Ganci. Non so perché, invece di procedere per via dell'Alloro, deviai per via Lungarini, che mi avrebbe portato di fianco a Palazzo Mirto.

A circa una cinquantina di metri dalla mia meta Margherita si fermò e iniziò a ringhiare.

La richiamai all'ordine, provai a calmarla con le carezze, ma per poco non mi azzannò la mano pietosa e imprudente.

— Che hai, Margherita? Non c'è proprio nessuno qui. Si può sapere cosa ti prende? — La rimproverai.

Ed ecco, alle nostre spalle, comparire lei, vestita, mi parve, come l'avevo vista la sera prima.

A tu per tu riuscivo per la prima volta a indovinare il colore degli occhi, non castani ma scuri quasi a sembrare viola e a far da contrasto con i capelli chiarissimi e l'incarnato pallido. Mi sorrise, e il suo mi parve il più celestiale degli inviti.

— Finalmente vi vedo — provai a dire, e mi accorsi di aver adoperato un modo di dire sgangherato e inappropriato.

Continuò a sorridere e mi parse di sentire il suo respiro profumato carezzarmi il viso.

Esistevano ancora le dee, mi domandai. Era candida come la neve, ma dai suoi occhi scintillavano fiamme.

Mi prese sottobraccio e mi propose: — Passeggiamo?

Non ebbi il coraggio di rispondere, ma mi avviai quasi tremante con l'ardire di porgerle il braccio.

La sua voce sembrava avere le medesime tonalità delle note del Chiaro di Luna.

— L'ho ascoltata suonare iersera. Eravate voi — provai a dire, per rompere il ghiaccio.

— È bello vedervi. Eravate nella mia mente stamattina, ed eccovi qua. Non vi pare una strana coincidenza? — Mi disse

— Anch'io vi pensavo. Per questo sono venuto sin qui. Forse il mio desiderio ha aiutato la fortuna.

Non rispose nulla ma sorrise ancora. E il suo mi parve il sorriso più delizioso del mondo.

Aveva un cappottino soffice, ma col bavero rialzato. Ogni tanto si voltava verso di me e rideva.

E io, confuso, non capivo se ridesse di me o per la gioia di rivedermi.

— I vostri occhi sono magnifici — le dissi a un tratto, che il coraggio s'era fatto più spesso. — Sembrano delle ametiste. Non ho mai visto occhi più belli — rivelai imbarazzato.

— Vi credo — disse seria. E quella serietà mi tranquillizzò. — Voi mi ricordate tanto una persona.

— Una persona cara, spero.

Si fece improvvisamente triste e silenziosa.

— Come vi chiamate? — Provai a recuperare il tono gioviale di prima.

— Non importa. Facciamo così: per voi sarò la dama dagli occhi viola. Che ne dite?

Arrossii, mi sentii contento, e per un po' mi venne a mancare il respiro, quasi da credere di poter morire soffocato.

Riprendevo a porle domande, ma più aumentava la sua reticenza più si alimentava la mia curiosità e la mia passione.

Percorrevamo Piazza Marina dalla parte dello Steri e ci trovammo sul corso. Mi condusse per via Partanna fino al prospetto principale di Palazzo Mirto.

Capii.

— Deve proprio abbandonarmi? — Era un'implorazione.

— E allora venite con me — disse, seria come mai fino ad allora era stata.

Sollevò il batacchio per colpire il mascherone del portone d'ingresso.

La porta si aprì come d'incanto, ma entrando non mi accorsi di nessun portiere.

Ci trovammo nella grande corte interna. Il palazzo dal di dentro pareva ancora più maestoso che dal di fuori.

Tremavo di piacere, di stupore, di paura, di felicità, di ansia.

Mi sentivo smarrito.

Fino a quel momento Margherita ci aveva seguiti a distanza. Ma ora, dentro il palazzo, si era avvicinata a me e aveva ripreso a ringhiare, vidi il suo pelo color crema drizzarsi.

— Stai calma, Margherita — provai di nuovo a tranquillizzarla.

— Potete lasciarla qua, non tema per lei — propose la mia dama dagli occhi viola.

— E fissate il guinzaglio a quell'occhiello, se volete.

Obbedii e poi la seguii lungo la grandiosa scala a forbice splendida nei suoi marmi rosati.

Percepivo il suo profumo, ma non riuscivo a distinguerne le fragranze, non avevo mai sentito prima d'allora un profumo tanto intenso e paradisiaco da darmi l'impressione di provenire da mondi sconosciuti e lontani, un'essenza di boschi perduti, cieli stellati, brividi notturni.

Mi invitò a entrare in una stanza. Era quella, credetti, da cui ogni sera l'avevo vista affacciarsi. In un angolo v'era un gigantesco Fazioli a coda, quello da cui l'avevo ascoltata suonare la sera prima, immaginai.

Era aperto, si poteva intravedere la sua meravigliosa meccanica, il gioco delle corde già ascoltate vibrare, la cassa armonica ben sviluppata, i martelletti colorati di rosso percossi coi tasti dalle lunghe dita di lei.

Ma era l'intera stanza a essere strabiliante. Sedie dagli alti schienali, consolles, secretaires, specchi, armadi civettuoli, boiserie, seta finissima decorata alle pareti insieme a opere del Tintoretto, di Tiziano, del Parmigianino, in un trionfo di ameni panorami e di madonne soavi.

— Il vostro mondo è un incanto, una favola — le dissi. — Quello è un Bronzino — domandai stupito.

Lei annuì. — È una favola incantata — mi corresse. — Volete che vi suoni qualcosa?

— Volentieri — le concessi.

E suonò per me i Notturni di Chopin, dall'undicesimo al quattordicesimo, appassionatamente, disperatamente.

Ero commosso, senza parole, senza fiato, non potevo credere stesse succedendo proprio a me.

Le sue dita scivolavano sui tasti incorporee, eppure mi pareva di poter sentire il suo battito, le sue risonanze, percepivo lo spessore dei suoni come se questi propagassero riflessi argentei sull'acqua, poi sui monti, poi in cielo, per finire sulla Luna, fino alle stelle.

— Volete darmi un bacio? — Mi disse alla fine.

Mi avvicinai a lei tremante e poggiai le mie labbra sulle sue, senza fretta, lasciando una traccia nell'aria.

Lei mi prese la testa tra le mani e mi baciò avida, a lungo, con forza, con disperazione.

— Tu mi farai impazzire — disse alla fine. — Adesso vai — mi comunicò impaziente, come se si fosse spinta oltre.

Mi avviai verso l'uscita. Nel cortile ripresi Margherita, che pareva essersi calmata.

— Non ci vedremo mai più — mi disse quando fui fuori dal portone.


E il mondo sembrò crollarmi addosso, ogni felicità preclusa per sempre.

Ma il mondo non crollò, solo lentamente andò in frantumi.

Conclusi i miei studi, trovai un posto in ospedale, a Catania, abbastanza lontano da dimenticare la mia principessa, la mia dama dagli occhi viola. Nel 1940 ricevetti la cartolina di precetto, e mi mandarono al fronte, in Africa, come ufficiale medico.

Non ci volle molto a veder sgretolare la nostra fede sotto le bombe degli aerei nemici.

Venni ferito, persi un occhio, catturato dagli inglesi a Tobruk e spedito in uno dei loro campi di prigionia in India.

Tornai a Palermo solo nel dicembre del 1945.

L'antica città aristocratica non esisteva più, era stata squassata dai bombardamenti del maggio-giugno 1943. Quasi tutti i palazzi nobili erano stati distrutti o gravemente danneggiati, ovunque mi voltassi v'erano cumuli di macerie e gente lacera che si vendeva per un tozzo di pane.

Seppi di Monsignor Agrusa, morto il nove maggio del 1943, nel collasso della sacrestia di San Giuseppe dei Teatini, insieme ad altri nove confratelli e a una quarantina di sfollati.

— Quattromila morti in sole tre ore di bombardamenti — mi disse un collega medico, abbastanza anziano da non essere arruolato. — Ci avresti mai potuto credere? Palermo non esiste più.

Avevo perso anche i miei genitori e le mie sorelle minori nel crollo del rifugio antiaereo di via Oreto. E io, da quel momento, non avevo creduto più a niente e non ero mai riuscito a piangere neanche la loro morte. La vita esige d'esser vissuta, mi ripetevo.

C'era fame di medici, anche mezzi orbi come me, presi posto all'ospedale civico e fu lì, dopo qualche settimana, che incontrai un paziente affetto da una serie di patologie tali da richiedere l'attenzione della mia specializzazione.

Stavo provando a tirarmi su, come tutti.


Si chiamava Bernabò Camastra, mastro Bernabò, lo chiamavano tutti in corsia.

Era vecchio, vecchissimo, sfuggito ai bombardamenti per essersi rifugiato a tempo debito in campagna, e, appresi dalla sua voce, era stato Maestro di Casa di Palazzo Mirto.

Mi informò delle vicissitudini del vecchio Filangeri, morto nel '41 senza eredi, né vicini né lontani, e come tutto il patrimonio sarebbe dovuto passare allo Stato.

— Ma che fine ha fatto sua figlia, la principessa? — Gli domandai un giorno, alla fine della visita mattutina.

Mastro Bernabò mi osservò stralunato.

— Lei la conosceva, dottore?

— Sì, l'ho conosciuta brevemente, prima della guerra, subito dopo essermi laureato. Aveva quella magnifica stanza quasi all'angolo con la via del Merlo. Quella col pianoforte a coda. L'ho sentita suonare più volte, un vero angelo.

— Era bellissima, la principessa — mi confidò mastro Bernabò. — D'una bellezza quasi angelica. Ed era un'ottima pianista. E quella, ricordate bene, era proprio la sua stanza.

— Cosa le è successo?

— Oh, è morta. Morta di dolore per il suo grande amore morto in guerra. Era il principe Stefano Lanza di Branciforte. Erano fidanzati e dovevano sposarsi.

— Oh, mi spiace. Sono desolato davvero. Questa guerra ha seminato solo lutti e distruzione — dissi rammaricato.

Il vecchio Maestro di Casa, dubbioso, iniziò a scrutarmi il viso.

— Però, mi dovete scusare, dottore. Vossìa non pare così grande. Ma lei, quando si è laureato?

— Nel 1936, a settembre.

— Nel 1936? Ma io parlavo dell'altra guerra. La principessa è morta di mal d'amore nel 1920. Da allora il principe suo padre ha tenuto la sua stanza sempre chiusa.

Rabbrividii, mi venne la pelle d'oca. E non seppi cosa rispondergli.

— Mi sarò sbagliato — provai a scusarmi. — Magari la ragazza che ho incontrato io era una nipote. O solo un'ospite del principe.

Il vecchio mi sorrise. — Non aveva nipoti, né ha ospitato mai nessuno a palazzo dopo la morte della figlia. Era il Clair de Lune, vero?

Annuii, incerto.

— La sentivo anch'io alle volte, quella melodia, provenire da quelle stanze. E lo raccontavo al principe suo padre. Ma non volle mai darmi retta — si guardò intorno furtivamente, come se temesse di essere sentito. — Suonava per lei, vero?

Ci riflettei qualche attimo. — Suonava per me — ammisi.

E finalmente ritrovai tutte le lacrime che la guerra m'aveva strappato.


(fine)


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Domenico Gigante


Susette


"Io lavoro al bar di un albergo a ore.

Porto su il caffè a chi fa l'amore.

Vanno su e giù coppie tutte uguali.

Non le vedo più manco con gli occhiali."

(Herbert Pagani, Albergo a ore)


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Egon Schiele, L'abbraccio, 1917, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna


Mi trovavo a Milano da pochi giorni, invitato a tenere alcuni seminari in facoltà. Erano molti anni che non rimettevo più piede a casa. Nulla ormai mi legava a quella città. I miei genitori erano morti poco dopo che ero partito per gli Stati Uniti. Gli amici li avevo quasi tutti persi di vista, quando si erano sposati e avevano iniziato a fare figli. Gli unici che cercai, in quel breve periodo, furono Nadia e Francesco. Lei era stata una mia compagna di università ed ex-fidanzata. Erano una coppia molto carina, socievole, borghese. Francesco lavorava per una qualche società di consulenza; Nadia, invece, era entrata (dopo molti sforzi) all'università come ricercatrice. Due persone di cultura, senza figli e con un certo senso dell'umorismo tipico del loro ceto, che poi era anche il mio. La sera in cui conobbi Susette ero a cena da loro.

Abitavano in un vecchio palazzo vicino a largo della Crocetta. L'appartamento era stato ristrutturato in modo elegante e moderno. Un impianto di filodiffusione trasmetteva in tutte le stanze musica jazz, che avrebbe dovuto metterci a nostro agio. Nadia aveva preparato un succulento roast beef per impressionarmi, e c'era riuscita. La conversazione era stata molto piacevole per tutta la cena. Mi avevano chiesto della mia esperienza negli Stati Uniti e io avevo dato un'immagine alquanto brillante della mia vita, che invece era tutt'altro che entusiasmante: apatica e piuttosto solitaria, sempre alle prese con la noiosa routine di un piccolo campus universitario. Tutto sembrava filare liscio nella quieta monotonia di un'artificiosa ospitalità, fino a che Nadia non cominciò a parlare della sua attività di ricercatrice.

— Gli studenti… i dottorandi sono troppo remissivi. Accettano passivamente di essere annullati dai professori. Non reagiscono. Non è più come ai tempi dell'Onda. A quel tempo facevamo sul serio — proruppe Nadia riferendosi al movimento studentesco, a cui avevamo aderito durante il nostro ultimo anno alla Statale. Lei amava riesumare vecchi episodi dei nostri trascorsi alla facoltà di Lettere: forse perché la facevano sentire ancora una contestatrice di quel sistema che l'aveva accolta e integrata.

— Ti ricordi quando occupammo i binari a Lambrate? — mi puntò il dito con gesto complice.

— Non è che ricordi poi molto di quel periodo. — risposi con aria di scherno — Mi sembrava sempre di essere fatto, anche quando non avevo fumato nulla.

— Ma dai! Non fare sempre il solito fricchettone. C'eri anche tu — mi punzecchiò. — Ci vennero a prendere di peso quelli della brigata mobile. E le prostitute lì alla stazione che ci guardavano come fossimo degli imbecilli. Che stronze! — sorrise.

— Gli stavi rovinando la piazza — la stuzzicai.

— Vaffanculo! Non sono mai stata una di quelle. Mi davo solo un po' da fare — replicò stizzita.

Ci fu un lungo silenzio. Francesco era palesemente in imbarazzo a sentir parlare la moglie così dei suoi trascorsi sessuali, anche se all'epoca ancora non si conoscevano.

— Per fortuna hai messo la testa a posto. — dichiarò con il pragmatismo tipico dell'ingegnere milanese — Altrimenti non ti avrebbero mai fatto entrare all'università.

Lei lo ignorò, infastidita da quella battuta, e proseguì rivolta a me: — A proposito di prostitute, lo sai che è successo ad Alberto?

— Certo che non lo so! Saranno sette anni che non lo sento più — risposi caustico alla domanda.

— Be'! Te lo dico io, allora. Lo hanno beccato con una di quelle. La moglie lo ha lasciato di punto in bianco.

— Mi sembra un po' esagerato per una scappatella — replicai senza particolare interesse.

— Chiamala scappatella! Stava con una ragazzina. Poteva quasi essere sua figlia. Sembra se ne fosse invaghito, come in un romanzo di Nabokov. Pare le avesse fatto delle promesse… di aiutarla o che so io! — insistette infervorata. — Ti rendi conto! Farsela con una puttana qualunque. Per giunta straniera e minorenne. Con la famiglia da cui viene. Con una moglie deliziosa come Charlotte. — Pronunciò quel "deliziosa" attorcigliando la lingua sulle labbra, quasi fosse miele.

Per un attimo immaginai la scena: Alberto che rinnegava platealmente il suo passato e scappava con quella ragazza per sottrarla alla sua famiglia benpensante e alla moglie svizzera calvinista. Provai quasi tenerezza (forse orgoglio) per lui. — Una volta non ti saresti espressa così. Avevi meno pregiudizi. Ti sei imborghesita — le sbattei in faccia senza pensarci su. Mi guardò esterrefatta, inorridita, quasi l'avessi toccata nei suoi più profondi principi.

Francesco provò a intervenire per spegnere l'incendio. — Lo sai che Nadia ha lo spirito di un puritano — disse rivolto a me. Nadia lo incenerì con lo sguardo.

— È tardi e domani ho lezione. Sarà meglio che vada a dormire — colsi l'occasione per congedarmi. — È stata un'ottima cena. Grazie mille! — Mi alzai, presi la giacca e Francesco mi accompagnò alla porta. — In bocca al lupo! — lo incoraggiai strizzando l'occhio. Non feci in tempo a scendere la prima rampa che udii le urla della moglie rimbombare per le scale.

Uscii da casa loro brillo e disilluso. Quella serata così anonima e l'infelice conclusione non avevano fatto che acuire il mio senso di noia e solitudine. Sentivo il bisogno di riempire quel vuoto con qualcosa di profondamente provocatorio e scandaloso per la mia gente, per noi relitti di una stagione di contestazioni, l'ennesima, mancata all'appello con la storia. Fu proprio l'immagine dei grossi seni di Nadia compressi da quel maglioncino nero, che mi tormentava da diversi minuti, a eccitarmi, conducendomi verso l'incontro proibito e decisivo.

Quasi automaticamente mi diressi nella zona della Stazione centrale in un bar di via Vitruvio che conoscevo dai tempi del liceo, anche se lo frequentavo solo per prendermi gioco dei suoi avventori. Era un locale aperto tutta la notte e frequentato da prostitute più (diciamo così) discrete, che non ci tenevano a dare troppo nell'occhio: per lo più italiane, donne senza protettore, casalinghe disperate, qualche scambista. Quelli che lo bazzicavano sapevano cosa aspettarsi. Mi sedetti a un tavolino un po' appartato e non ci volle molto per essere adescato.

— Ciao! — Alzai lo sguardo per trovarmi di fronte una ragazza di poco più di vent'anni, che indossava una maglietta bianca molto scollata, una minigonna nera, degli stivali sopra le ginocchia e un lungo soprabito di lana. Risposi al saluto con un cenno del capo.

— Posso sedermi? — domandò accomodandosi senza aspettare una risposta. Aveva con sé un succo d'arancia con una cannuccia. Tirò su un sorso, continuando a fissarmi. — Vuoi un po' di compagnia? — mi chiese in modo esplicito. — Sì! — risposi. — Qui di fronte c'è un albergo a ore, che ha una stanza libera. Se ti va, sono sessanta euro. — Trovai l'approccio alquanto convenzionale, ma efficace. Mi alzai, pagai la birra che avevo consumato solo a metà e ci dirigemmo in fretta dall'altro lato della strada.

Non ci trattenne alcuna formalità. Il tizio alla reception ci diede una stanza al secondo piano senza fare domande o chiedere documenti. Salimmo per le scale, perché non c'era ascensore. Fu in quel momento che iniziai ad avvertire un senso di malessere alla bocca dello stomaco, come se stessi per violare una zona proibita delle mie fantasie. Mi tornò in mente l'immagine di Alberto e della sua Lolita.

Entrammo nella stanza che appariva alquanto anonima, se si eccettuano le pesanti tende lilla, che evidentemente servivano a rendere più discreta l'attività che si andava solitamente consumando tra quelle pareti. La mia accompagnatrice si tolse il soprabito e lo appese a un attaccapanni fissato al muro. Lo stesso feci io con più disagio. Non avevo idea di cosa dovessi fare — di come avvenivano solitamente questi incontri. In modo istintivo mi avvicinai al comodino e posai lì i sessanta euro.

— È la prima volta? — chiese. — Sì! — Notai che fino ad allora non mi aveva rivolto altro che domande e io non avevo fatto altro che assentire meccanicamente. — Si vede! — sorrise in modo sfuggente. — Non ti preoccupare. Lascia che ci pensi io.

Si mise in ginocchio davanti a me, tirando un po' su la gonna in modo che potessi vederle il sedere. Cominciai ad avvertire un'erezione. Mi slacciò i pantaloni e li abbassò un po' in modo da poter tirare fuori il mio pene e iniziò una fellatio.

Non ci volle molto perché venissi. L'ansia, l'eccitazione e lo stimolo insieme erano troppo forti, perché potessi resistere più di pochi secondi. Mi piegai, ansimando come un adolescente al suo primo rapporto. Lei si alzò, sputò lo sperma in un bicchiere di plastica sul comodino e cominciò a risistemarsi la gonna per uscire. Io mi ero seduto sul bordo del letto. Mi sentivo atrocemente imbarazzato, frustrato, fragile.

— Non andartene via, ti prego! — la supplicai. Lei sembrò ignorarmi. — Sono qui a Milano per pochi giorni. Non conosco nessuno. — mentii — Non mi va di rimanere solo questa notte. Ti pagherò tutto il tempo che passerai con me. — Solo a quel punto lei mi rivolse lo sguardo. Sembrava piuttosto seccata, ma si sedette sul letto accanto a me. Provai di nuovo un senso di disagio, come un viaggiatore in un paese sconosciuto.

— Come ti chiami? — chiesi per rompere l'imbarazzo.

Lei mi squadrò, infastidita dalla domanda. — Susette!

— Come Susette Gontard! — esclamai compiaciuto. E fui sorpreso dal ricevere in risposta uno sguardo incuriosito. — Non è il tuo vero nome, vero?

— No! — disse — E tu?

— Carlo! — risposi. — È il mio vero nome — sottolineai in modo allegro e accogliente.

— Che fai nella vita, Carlo? — Pronunciò la frase con tono ironico, come se volesse stare a quel gioco dei convenevoli.

— Sono un professore di greco.

Questa volta l'espressione che incontrai era chiaramente di interesse. — Cioè?

— Be'! Insegno Greco antico in un'università americana. — Feci un breve silenzio, come se non ci fosse altro da aggiungere, ma il suo sguardo mi incoraggiò a proseguire.

— Sono più di dieci anni che vivo lì. Sembra che gli americani abbiano una gran voglia di conoscere Omero. E, può sembrare assurdo, ma hanno anche un mucchio di soldi da spendere in studi sulle strofe saffiche. — Immaginai di aver pronunciato parole alchemiche. E invece la mia interlocutrice non appariva affatto confusa.

— Sono anche abbastanza famoso, sai! Mi hanno invitato, come ex alunno della Statale, a tenere dei corsi: cose tipo — il linguaggio politico nel Prometeo di Eschilo — dichiarai enfatizzando il tema di uno dei miei seminari. Ancora una volta mi stupii per il fatto di non aver suscitato i soliti sorrisi di scherno o battute sarcastiche. Desideravo enormemente capire il perché.

— E tu, invece, che fai? — chiesi senza pensare a quanto appariva stupida la domanda. — Cioè, voglio dire, a parte questo! — accompagnai l'affermazione con un gesto alquanto insulso con le mani.

— Cioè a parte fare la puttana?!

— Sì, scusami! — dissi imbarazzato.

— Studio. — Fece una breve pausa, come a indagare se poteva fidarsi di me. Il mio sguardo d'interesse dovette rassicurarla. — Studio all'università: filologia germanica.

— Adesso è più chiaro il riferimento a Susette — annuii soddisfatto della mia intuizione.

Lei accolse il mio entusiasmo con un: — Già!

Un silenzio imbarazzato — questa volta da entrambe le parti — scese nella stanza. Quelle confidenze erano state alquanto strane per una coppia come la nostra e adesso necessariamente provavamo un senso di nudità, che esulava dallo stare insieme per consumare un rapporto sessuale basato sullo scambio di denaro.

— Scusami! Sono molto sorpreso. Sapevo che c'erano ragazze che si prostituivano per pagarsi gli studi, ma pensavo che…

— Che fossero più idiote o seguissero corsi più comuni?

— No! Non intendevo questo. Credevo che frequentassero posti diversi.

Lei fece una smorfia di disagio. — Be'! In genere è così. Ma io sono nel giro da poco e mi sto facendo una clientela. Per questo bazzico i bar, come quello dove mi hai incontrato.

— Capisco! Ti è andata male stasera. Sei incappata in un novellino come me — dissi sperando di sembrare spiritoso.

— No! Anzi, sei stato una bella sorpresa. Non so niente delle università americane. Deve essere fico insegnare lì. Pagano bene?

— Sì, pagano abbastanza bene, ma non è così entusiasmante come sembra. E poi ho fatto una cazzata: una storia con la moglie di un collega. Lei era molto più grande di me e io completamente preso da questa storia clandestina. Alla fine lei è rimasta con il marito, ma la vicenda è uscita fuori in qualche modo e io ho finito per non essere più ben accetto. Nulla di particolare: sguardi sfuggenti, inviti mancati. Però era chiaro che non facevo più parte del loro mondo. — Chinai il capo in segno di delusione. — Adesso sono piuttosto freddi con me, laggiù.

Mi guardò teneramente, come se mi comprendesse. Evidentemente anche lei non si era integrata bene in questa città e il lavoro che aveva deciso di intraprendere non doveva aiutarla: troppi segreti da nascondere; troppi luoghi da non frequentare di giorno per non essere riconosciuti.

— E tu, invece, perché fai questo lavoro? — approfittai della nascente complicità per saperne di più.

— Sono qui con una borsa di studio, ma non mi basta neanche per l'affitto della stanza. I miei non possono darmi una mano e quindi... mi arrangio. Ho provato a fare la commessa in un negozio di abbigliamento. Poi, però, un'amica mi ha aiutato a iniziare il mestiere e in questo modo guadagno molti più soldi di quanti ne possa spendere. Direi che il gioco vale la candela, no? — Mi scrutò come a cercare approvazione.

— Perché i tuoi non possono aiutarti? — chiesi con l'ingenuità di chi non ha mai dovuto lavorare — almeno non seriamente.

— Che ti credi! Vengo da un piccolo paese del Sud: un buco con le fogne pagate dalle rimesse degli emigrati in Argentina. Mio padre è morto due anni fa di infarto. Mia madre faceva la casalinga e si è dovuta mettere a servizio presso altre signore. Mi dà qualche soldo ogni tanto... pochi spicci... ce la fa a mala pena per sé. — Si interruppe un attimo come presa da un senso di colpa, poi concluse: — A lei ho detto che faccio la cassiera in un supermercato.

— Capisco! — le dissi in modo apparentemente un po' convenzionale, ma che era tutt'altro che formale. Percepivo nitida la sofferenza di quella ragazza e il bisogno di comprensione e di intimità, come se la realtà mi avesse appena pestato un piede per svegliarmi dai miei sogni: una storia come tante altre, totalmente estranea al mio mondo, simile alle altre in tutto, se non per il fatto che questa stava davanti a me. Sentii all'improvviso che era caduto ogni velo di imbarazzo e di reticenza tra noi due. E in questa complicità sempre più stretta l'abbracciai forte e finii, non so come, per baciarla. Lei ricambiò senza riluttanza. E finimmo per fare l'amore.

Quando mi svegliai verso le quattro del mattino, non c'era più. Aveva raccolto le sue cose e se ne era andata, prendendo i soldi che avevo lasciato sul comodino. Al loro posto c'era un bigliettino: — Se ti va ancora di stare con me, questo è il mio numero di telefono. Susette.

La chiamai diverse volte prima di tornare negli Stati Uniti. Ci davamo appuntamento al bar di via Vitruvio. La trovavo sempre lì a bere il suo succo d'arancia al bancone. Indossava rigorosamente una minigonna studiata per immaginare cosa sarebbe successo dopo. Sorridendo mi invitava a sedere accanto a lei. Prendevo qualcosa da bere anch'io e ci intrattenevamo senza fretta. Poi attraversavamo la strada diretti al nostro albergo a ore. Chiedevamo sempre la stessa stanza: quella con le tende lilla. Se capitava che non era disponibile, tornavamo al locale o vagabondavamo senza meta per un po', aspettando che si liberasse. Avevamo ormai inconsciamente deciso che quella stanza era la nostra stanza e che lì potevamo parlare e fare l'amore come in nessun altro posto.

Poco a poco perfezionammo i nostri incontri: questo gioco sottile nella mia vita così priva di giochi. Di Susette adoravo quella capacità di sedurmi con un sorriso, la rapidità di una rana nei salti mentali quando parlavamo dei miei corsi all'università e la leggerezza con cui poteva accettare ogni mia speciale richiesta senza le trattative e i negoziati delle mie amiche del versante diurno della società. E questo a prescindere dalla tariffa che lei sempre segnalava e incassava senza approfittarsi del mio felino riposo accanto al suo corpo. Alla fine darle del denaro ogni volta che ci incontravamo non era troppo diverso che portare dei fiori od offrire una cena a Nadia. Non ho mai veramente percepito l'incongruenza tra me che la baciavo per un diritto acquisito e lei che mi accoglieva con un sorriso gratuito che valeva più di qualsiasi somma di denaro. Valori falsi, senza dubbio, ma non più falsi di quelli diurni frequentati dalle persone borghesi e perbene, che incontravo ogni giorno. Lo so che sto tratteggiando un'ipocrita felicità pre-adamitica, che tutto era convenzionale e falsamente anarchico e non si può sperare di ritrovare lo stato di purezza originario in un albergo a ore. Ma a Milano (o in qualsiasi altro posto) devi inventarti delle isole; altrimenti è il bulldozer a tempo pieno: o così o la formazione coniugale che pochi sanno portare a compimento; e di certo non io. Semplicemente avevo trovato la mia isola in Susette.

Talvolta i nostri appuntamenti si concludevano con una cena di mezzanotte, in cui potevamo parlare senza il peso di quello che ci aspettava dopo. Erano momenti molto intimi, che potevano riservare delle trappole. La sera prima di partire le chiesi se non aveva paura che, prima o poi, sarebbe finita a letto con un suo professore. Piegò la testa in basso e, quando la rialzò, il suo sguardo era pieno di disprezzo per me. Ne fui amareggiato. Pensai che il problema fosse che le avevo messo ansia con quella domanda: la paura di ritrovarsi additata da tutti, smascherata agli occhi della sua famiglia. Mi rendo conto solo ora di aver profanato con quell'accenno alla sua professione un momento che lei mi stava concedendo liberamente e che era fuori dal nostro commercio; avevo spezzato una fiducia e un rispetto reciproci: un tacito accordo come quello che si tesse tra due amanti. Finì così che ci salutammo un po' freddamente e il giorno dopo tornai alla mia consueta esistenza di professore.

Non ho saputo più nulla di lei per due anni. Poi ieri all'improvviso è riapparso il suo nome sul mio cellulare. Un messaggio WhatsApp, poche semplici parole: — Salve! Lei non mi conosce. Sto inviando lo stesso messaggio a tutti i contatti di questa rubrica per avvisarvi che Giulia ci ha lasciato una settimana fa. Mi spiace darle in questo modo la notizia e spero di non averla disturbata. — La comunicazione si chiudeva così, senza nessuna firma. Rimasi interdetto. Chiunque aveva mandato quel messaggio era certamente al corrente di quale lavoro facesse Susette e forse avrà deciso, in un gesto di compassione, di proteggere il suo segreto con la famiglia. Oppure, preferivo pensare, era stata la stessa Susette a scriverlo per troncare ogni legame con tutti i suoi ex-clienti; e anche come una sorta di castigo: per suscitare un ricordo imbarazzante o un rimorso crudele in noi che eravamo stati insieme a lei. Con me aveva colto nel segno.

Non so perché sto scrivendo queste righe. Forse spogliare Susette è stato per me come mettere a nudo i miei desideri nascosti. Nel perdermi in questa storia breve e strana ho la sensazione di aver ritrovato me stesso: un'autenticità clandestina e romantica, fuori dagli stereotipi di una vita borghese, come in un romanzo dell'Ottocento. Adesso, però, ho anche la consapevolezza che, nel condividere un'esperienza intima ed estrema con lei, Giulia mi ha macchiato di rosso, lasciandomi irrimediabilmente legato e complice della sua esistenza: un filo sottile che si è spezzato all'improvviso portandosi via un pezzo della mia anima. O, chissà, il mio è solo il rimpianto per aver perso, forse per sempre, una cosa bella.


(fine)


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Alberto Marcolli


Era di maggio e brillava gioventù


Già imbruniva mentre lasciavo la filiale di Luino della Banca Popolare, diretto al solito posteggio, quando mi si presentò davanti un manifesto funebre.

Riguardava una certa Enrica Nanut di anni 55, vedova Bellorini, mancata prematuramente all'affetto dei suoi cari.

Indugiavo raramente su simili annunci, ma un tuffo al cuore mi bloccò impietrito sul posto! Quel cognome, così insolito dalle nostre parti, riaccese in un lampo remoti ricordi. Era proprio la bella Enrica del lido di Monvalle, l'incantevole compagna dell'estate sul lago più meravigliosa della mia vita.


Giovanissimo e sfaccendato, mi ero diplomato da un anno e, con la scusa dell'imminente chiamata per il servizio militare, tiravo avanti con pratici lavoretti mattutini, utili se non altro a tacitare le barbose lamentele di mia madre. I pomeriggi e le sere, invece, li trascorrevo al caffè Barzola, unico tra i tanti bar di Angera a essere ben fornito di tavolini e sedie all'aperto, nonché di un padrone tollerante, che digeriva amabilmente la presenza un po' scomoda di un folto gruppo di compari del mio stesso stampo: pochi soldi e tanta fantasia.


Sul finire dell'inverno, ci aveva lasciati per sempre la buonanima di nonno Gustavo. Incolmabile era il vuoto causato dalla perdita di quest'ometto arzillo, lucidi baffetti neri, sigaro toscano e farfallino incantatore, che suppliva alla cronica assenza di papà, ispettore assicurativo perennemente in viaggio per lavoro. Era perciò toccato a nonno Gustavo insegnarmi con disinvolta franchezza tutto quanto, secondo lui, un ragazzino doveva conoscere, prima di tuffarsi nelle esperienze della vita adulta.

A volte, il nonno si lanciava in lunghe descrizioni delle avventure da lui vissute durante il ventennio tra le due guerre, quando era il valente capitano del piroscafo Piemonte. Di qua e di là del lago era un continuo movimento di carrozze e nobildonne in abiti lunghi, e le presenze negli eleganti alberghi di Stresa e Pallanza vantavano più teste coronate che fiori di magnolia nei giardini. Sbocciavano i grandi amori tra il tintinnio dei calici di cristallo, i valzer viennesi e i bagliori delle parure di diamanti.

Nonno Gustavo si era conquistata, in quel tempo, la fama di lupo di lago. Amici e conoscenti ne parlavano come di un vero artista nella pesca, non di pesci ma di femmine, meglio se straniere e un po' stagionate. Le sceglieva con cura tra le più esperte in quella nobile arte che a lui premeva esercitare sopra ogni cosa, agiatamente al riparo nei solitari alberghetti lungo la costa.

Era un'apparizione abituale la sua pilotina mentre appoggiava tranquilla alle banchine dei porticcioli, preferibilmente a Ispra, come pure a Cerro o Ranco, accompagnando la dolce cattura del momento.

Il nonnino mi aveva lasciato in eredità il suo amato motoscafo e un concreto gruzzolo con cui acquistare un nuovo motore e pagare il corso di scuola nautica. Serviva la patente per quel "nove metri".

La barca era un gioiello. Custodita nei cantieri nautici di Lisanza, era in ottime condizioni di scafo e d'arredo; un cabinato tutto in legno naturale, con sedili in morbida pelle bianca, uno spazioso prendisole e un soffice divano a poppa.


Sostituito il motore e ottenuto il permesso di guida, la mattina del viaggio inaugurale, ostentando una competenza che ero ben lungi dal possedere, liberai gli ancoraggi e varcati i bastioni del porto d'Angera, mi lasciai trasportare, senza una meta, dall'incanto del nostro lago.

A quel primo giro ne seguirono presto altri. Lentamente imparavo a dominare il mezzo, prevedendone i comportamenti bizzarri, da cavallo di razza. Mi distendevo al soffio gradevole del libeccio vespertino o m'irrobustivo al morso della tramontana che, valicato l'altopiano del Gottardo, scivolava rapida sulla valle Maggia, riversando sulle acque increspate lo sbuffo dei ghiacciai della Leventina. Ogni paesino abbarbicato sui ripidi pendii, ogni scoglio tuffato nel blu d'acque limpide e profonde, ogni isoletta incantata, tra parchi e palme vigorose, regalavano emozioni sempre nuove.

Superato il periodo di rodaggio, iniziai a vagabondare beatamente su e giù per il lago. A volte sostavo al lido di Monvalle, dove mi raggiungeva Giorgio, un ex compagno di scuola, abitante in quei luoghi. Se eravamo di buon umore, si ripartiva per i castelli di Cannero, a Cannobio o alle isole Borromee. Più spesso c'installavamo per ore alla locale osteria, inventando viaggi in paesi esotici e tresche mozzafiato: sogni mai realizzati, purtroppo.


Un giorno, accostando come d'abitudine, notai a pochi passi dalla sponda una coppia di ragazze, una bionda e l'altra mora, che se ne stavano sotto un bersò di glicini in fiore, sul limitare di un vasto prato verdeggiante. Una villa prestigiosa dominava dall'alto: le ampie vetrate rivolte a sud. Le ragazze ascoltavano delle canzonette da un mangiadischi a batteria, grande invenzione dell'anno, con l'aria un po' annoiata di chi indugia nell'attesa di un evento improbabile. La biondina sfogliava una rivista, credo fotoromanzi, l'altra, concentrata sulla copertina di un 45 giri, attirò la mia attenzione per i lunghi capelli nerissimi e la carnagione pallida come l'avorio, che spiccava nella luce diafana del lago.

Scelsi il percorso lungo l'arenile, così mi sarei trovato proprio di fronte a loro, prima d'imboccare la stradina per il paese. Mentre le contemplavo silenzioso, la ragazza mora si voltò all'improvviso, fulminandomi con uno sguardo cosi penetrante che ondeggiai per l'emozione, confuso in quell'abisso di mistero. Ripreso il controllo, salutai con un timido cenno di saluto e proseguii silenzioso verso la piazzetta, ficcandomi subito dentro il bar, nell'attesa di Giorgio.

Alle mie domande interessate, lui si mostrò fin troppo preparato, confidandomi come in paese si era chiacchierato a lungo in merito alle vicende che m'incuriosivano. Il suo nome era Enrica Nanut, nata nel '39 o '40 a Fiume da genitori friulani della provincia di Gorizia, emigrati in Istria. In seguito ai tristi avvenimenti del '45, la famiglia aveva superato molte tribolazioni, finché dei lontani parenti avevano accolto i Nanut qui a Monvalle, dove il padre, di professione lattoniere, era riuscito a prosperare, impiantando una piccola azienda d'idraulica.

L'arrivo in paese di questa ragazzina forestiera, sciupata e intimorita, non suscitò particolari pulsioni nei giovanotti della sua età, alquanto rozzi e non abituati a legare con facce nuove. Ma un migliorato tenore di vita e qualche vestitino nuovo l'aiutarono a sbocciare in tutta la sua procace bellezza, fresca e delicata, invidiata dalle coetanee e desiderata dagli uomini.

Un certo giorno capitò a casa Nanut un compito signore, già ingrigito, con un piglio da signorotto di campagna, vagamente démodé, ma assai rassicurante agli occhi della giovine, che bramava protezione, non aneliti travolgenti. Si trattava del dottor Marco Bellorini, direttore della Banca Commerciale, venuto a offrire i servizi del suo istituto per l'aziendina del padre.

Quella giovane provocò nel nostro uomo uno sconquasso di voluttà. Li dividevano alcuni lustri, ma lei rispondeva docilmente alle sue galanterie, per nulla respinta dall'ostentata eleganza e dalla pancetta prominente. Le visite s'infittirono, con enorme vantaggio per gli affari paterni, che si giovarono di condizioni da re, poiché il Bellorini non ambiva a procurar profitti per la Banca, bensì all'esclusiva sui favori della figlia.

Si mormorava in paese come la nostra Enrica non avesse palesato esitazioni, i genitori la incoraggiarono e in breve i due si fidanzarono. Il Bellorini, tuttavia, temeva imbarazzanti ripensamenti e usò tutta la sua influenza per sveltire i tempi. Superato l'inverno, Enrica e Marco divennero così marito e moglie, sistemandosi a Laveno, in un gran palazzo patrizio, con gli anziani genitori del Bellorini e uno stuolo di servitori.


Da Giorgio appresi, inoltre, che il Bellorini, assorbito dalla sua importante attività dirigenziale, era costretto a lasciare la moglie sovente sola. Questo il motivo delle frequenti capatine qui al lido di Monvalle.

— I parenti dell'Enrica dipingono il marito come gelosissimo, ed è stato il timore per le sue reazioni a evitare, fino a ora, ogni intrusione fra i due — Proseguì Giorgio.

Va da sé che queste paure non erano sufficienti a impedirmi di sognare un seguito avvincente, dopo quel primo incontro.

Pilotavo sino al lido, ancoravo la barca, verificavo la posizione delle due ragazze e sparivo all'interno, controllando dall'oblò di prua le loro mosse.

Enrica ascoltava i discorsi dell'amica e sorrideva. A uno spettatore distratto tutto sarebbe apparso regolare, ma non per me. C'era in lei un'ansia contenuta e un'ombra di malinconia attraversava il suo volto. Sembrava un uccellino fuggito per qualche ora dalla sua gabbia, incerto tra il ritorno a un comodo pasto o il libero cielo. Aspettava forse che fossi io il primo a uscire dal guscio?

Avrei dato dieci anni di vita pur di riuscire a rompere gli indugi, ma pavido e impacciato non riuscivo a immaginare alcun appiglio decente con cui imbastire un dialogo dignitoso, finché un bel giorno la fortuna fece uno strappo alla regola, soccorrendo un codardo, e non il solito audace.


Era il venerdì di un maggio odoroso.

Quel pomeriggio la Cinquecento posteggiata sulla stradina, che Enrica usava per rientrare a Laveno, non voleva saperne di mettersi in moto. Io seguivo la scena dal consueto posto d'osservazione, e mai più avrei previsto la mossa della bella Enrica. Mostrandosi perfettamente consapevole della mia presenza, mi lanciò un eloquente segnale d'aiuto.

Come un bambino sorpreso a rubare le ciliegie, dovetti abbandonare il rifugio e tentare, con poca convinzione, di avviare il motore. Capivo di dover cogliere al volo quest'opportunità inaspettata, offrendo a Enrica un passaggio sulla pilotina, ma come sempre esitavo, incapace di vincere la mia dannata timidezza.

Alla fine fu la presunta preda ad agire, chiedendomi, senza titubanze, il favore d'accompagnarla a Laveno.

Mortificato nel mio ridicolo orgoglio, tentai di sfoggiare tutto l'entusiasmo di cui ero capace e in un secondo montammo sulla barca e via, muovendoci disinvolti con il motore a un terzo di potenza.

Enrica era raggiante, io ero emozionato come un attore al debutto. Finalmente eravamo soli, e non servivano tante parole, bastava l'incanto del Verbano. Oltrepassato il promontorio di Santa Caterina, incappammo in un venticello frizzante che, a tratti, c'investiva di poppa. Era l'inverna, che dal golfo d'Ispra saliva su fino alle Borromee. Quell'anno la bella stagione era arrivata in anticipo: la giornata era limpida, ma l'aria era rimasta freddina. Enrica, vestita con un leggero copricostume, ebbe un brivido e cercò riparo sotto coperta. D'istinto rallentai, accostando a riva. I nostri sguardi s'incrociarono. Avvertivamo entrambi che qualche cosa doveva capitare, ma non quella sera: il marito aveva organizzato un ricevimento in villa.

Arrivati a Laveno, Enrica giurò d'aver gradito quel breve viaggio e mi chiedeva di tornare a riprenderla la mattina dopo, visto che la sua auto era rimasta a Monvalle.


All'indomani, quando Enrica apparve puntuale al limitare del porto, un signore accanto a lei si presentò come Marco Bellorini. Reagii alla sorpresa temendo che Enrica, insicura delle sue scelte, avesse preferito informare il marito dell'accaduto, prima di risalire sulla barca di uno sconosciuto.

Il Bellorini mi lodò per la cavalleresca offerta di soccorso a favore della moglie, ammise di non essere mai salito su una barca e volle che gli mostrassi ogni cosa. Aveva forse già intuito i nostri progetti, oppure Enrica era stata così convincente da allontanare ogni gelosia?

Esaurite le curiosità, il Bellorini salutò affettuosamente la sua Enrica, montammo in barca, misi in moto e ci allontanammo con la prua rivolta a sud.


Un sottile vento di levante formava delle onde lunghe, che la pilotina cavalcava tranquilla. Ricordando quanto aveva osservato con ammirazione il giorno prima, Enrica mi chiese indicazioni su una torre campanaria e delle antiche costruzioni a picco sulla roccia. Era l'eremo di Santa Caterina, le spiegai: la perla del lago, le cui origini si perdevano tra storia e leggenda.

Nel milleduecento era stata la dimora del beato Alberto Besozzi, un losco trafficante che, sbattuto con la sua barca, durante una tempesta, contro gli scogli, era incredibilmente scampato da morte sicura. Folgorato da quel prodigio, aveva rinnegato tutta la sua vita passata e, donato ogni avere, si era ritirato, come eremita, in questo luogo, lontano dai peccati del mondo, fino alla sua morte, avvenuta dopo quarant'anni di penitenze.

Enrica, attirata dalla mia descrizione, volle farci una sosta. Appoggiata la pilotina a uno dei pali usati come attracco dai battelli di linea, la bloccai per bene e, reggendoci a vicenda, si riuscì a balzare su un'ondeggiante passerella di legno. Una ventina di ripidi gradini, scavati nella roccia, ci condussero all'interno di un piccolo giardino a terrazza, per entrare poi in un bel porticato ad archi. Da lassù il panorama era impagabile. Spaziava dal bianco immacolato della catena alpina all'estremo orizzonte, al verde intenso delle colline degradanti sul lago, al blu cerulo dell'acqua, a tratti calma, altrove arricciata dalla scia di rare imbarcazioni che filavano frettolose, dirette all'altra sponda. Un cortile interno apriva alla vista della chiesa, con la sagoma massiccia del campanile a strapiombo sulla roccia.

Enrica disse che fin dal suo arrivo a Monvalle, cinque anni addietro, aveva sognato di poter vagabondare per il lago con una barca, curiosando in libertà ogni angolino remoto.

Io non mi perdevo un istante. Ero rapito dai suoi occhi, dal suo sorriso, dalla sua voce allegra. Avrei voluto baciarla, eppure non osavo, ma, a dispetto del mio tergiversare, come due fiordalisi spinti da una folata di vento ci ritrovammo all'improvviso più vicini. Enrica si alzò in punta di piedi, le nostre labbra si cercarono e si unirono dolcemente, in un attimo lunghissimo.


I rintocchi dell'orologio della torre ci sorpresero inattesi: erano già volate due ore dalla nostra partenza da Laveno! Rapidamente ritornammo a bordo e con il motore a pieni giri raggiungemmo di gran carriera il lido di Monvalle.

L'amica ci stava aspettando, impensierita per il ritardo, mentre noi ignari del tempo avevamo vissuto il nostro primo momento di felicità. Enrica mi presentò scherzosamente come il suo capitano di vascello e così conobbi anche l'amica. Si chiamava Paola. Era una tipetta bionda, sui venticinque trent'anni, minuta e tutto pepe, con una vocina garrula e gli occhioni irrequieti, che mi squadravano impertinenti da capo a piedi. Con una scusa Enrica entrò nella casa, seguita da Paola, mollandomi lì per una decina di minuti, prima di vederle ricomparire sulla porta. Gli sguardi maliziosi di Paola erano davvero eloquenti: conosceva il nostro segreto.

Per una volta seppi intuire al volo i propositi di Enrica e li anticipai annunciando che il capitano reclamava, per l'indomani, l'onore d'ospitare a bordo le due ragazze più graziose del Verbano per una favolosa gita sul lago. Dimenticai volutamente la mia intenzione di presentarmi sul molo scortato dal buon Giorgio. Non pretendevo certo di sorprendere quelle due furbette, ma affermare l'autorità del capitano, questo sì.


Il mattino appresso il lago era un incanto, il cielo era azzurro, le ragazze bellissime e nonno Gustavo ci benediva da lassù.

— Capitano in plancia. Tutti a bordo! — gridai, e in un batter d'occhio eravamo già lontani, con una lunga scia di schiuma alle nostre spalle.


Quell'estate vide le più leggiadre gite in barca della mia vita. A volte si arrivava al ponte di Sesto, oppure si sostava alle isole Borromee o ai castelli di Cannero. Per prudenza, scendevamo a terra solo su spiaggette isolate, ma ogni luogo era per noi il più fantastico del mondo. Non c'erano preoccupazioni, Enrica e Paola badavano a tutto l'occorrente, Giorgio era il mozzo, e io dovevo solo pilotare e godermi ogni palpito delle lunghe giornate in loro compagnia.

Giorgio e Paola si mostrarono liberi e spensierati. Altro non chiedevano che girare per il lago, privi di una meta, e dio sa quanto lo si fece. Enrica non mancava di starmi vicino, contagiata dall'allegria del gruppo. Ci nutrivamo del piacere di guardarci, di sfiorarci, di scambiarci, appena possibile, dei baci ardenti che, pur attizzando un desiderio forzatamente frustrato, mi rinfrancavano sull'ineluttabilità della recita finale: si trattava di attendere l'occasione propizia.


Ai primi d'agosto avevamo programmato una gita più lunga. Avremmo sconfinato in acque svizzere. Si stabilì di partire da Laveno di buon mattino. Costeggiando sino al valico di Zenna, avremmo raggiunto Magadino per il pranzo, e poi passeggiato per i vicoli e le piazze di Locarno.

Sulla via del ritorno, a pomeriggio inoltrato, avevamo già superato la rocca di Caldè, quando ci sorprese uno di quei diluvi d'estate che piombano in un baleno, e non ti lasciano nemmeno un secondo per pregare. Prima uno sbatacchiamento di tuoni e una rovina di fulmini, poi il lago s'infuriò e la barca iniziò a dimenarsi come un mulo imbizzarrito. Eravamo a ridosso di un tratto di costa rocciosa, e accostare a riva avrebbe significato fracassarsi sugli scogli! I miei tre passeggeri, terrorizzati, si rivolgevano imploranti verso il loro capitano. Inutile ripetere quanto le gambe tremassero pure a me, mentre tentavo di convincere, soprattutto me stesso, che non si viaggiava su una barca qualunque, quella era la leggendaria pilotina di nonno Gustavo: la protagonista di mille battaglie. Non avevamo scelta, si doveva proseguire e avere fiducia.

Quando apparve tra le brume della bufera la punta San Michele e svoltammo nell'insenatura di Laveno, quasi in salvo, avevo già esaurito da tempo le suppliche a tutti i santi del calendario. Entrammo, dopo un'eternità, nel porto. Gettai l'ancora e fissammo la barca con triple cime al primo ormeggio del lungo muraglione in pietra. La furia non accennava a calmarsi e dovevamo organizzarci per la notte; riparammo, grondanti come fontane, nel bar della baia, per stabilire il da farsi. Giorgio aveva una zia che abitava in paese e lo avrebbe senza dubbio ospitato, ovviamente con Paola. Per quanto mi riguardava, Enrica garantì che l'episodio era eccezionale e non ci sarebbero state difficoltà ad accomodarmi in una delle camere per gli ospiti.

— Marco è a Roma. Tornerà dopodomani, — disse poi.

Telefonai al caffè Barzola, pregando di mandare qualcuno degli amici ad avvisare mia madre che non sarei rientrato a casa con quella burrasca, preferendo fermarmi a Laveno per la notte, a casa di un'amica. Ci congedammo da Giorgio e Paola, e ci avviammo correndo sotto un uragano di pioggia.

Finalmente al coperto sotto il portone di casa Bellorini, Enrica si affrettò a suonare il campanello. Si avvertì un certo trambusto e si presentarono ad aprire ben tre domestici: c'era poco da spiegare, la nostra condizione parlava da sé. Entrammo. Enrica ordinò. Un servitore mi guidò lungo un corridoio dalle pareti cariche di quadri con i cornicioni dorati, fino alla porta di un appartamentino vero e proprio, con camera, disimpegno e servizi annessi.

Dopo un bagno caldo e con i vestiti asciugati e stirati da un solerte cameriere, avevo ripreso la forma migliore. Ritrovai da solo la strada per il salone, dove Enrica mi aspettava con i due suoceri.

— Vi presento Piero, il valido capitano dell'imbarcazione con la quale ho iniziato a conoscere il nostro lago — disse Enrica.

Bravo! Bravo! — risposero in coro i due vecchietti.

Seguì una cena modesta.

Dopo circa una mezz'ora i due genitori si ritirarono in un salottino. — Questa sera c'è Perry Mason e guai a non vederlo dall'inizio, — ci dissero, in tono di scusa, non immaginando che noi non si sperava di meglio.

Rimasti soli, fu Enrica, come sempre, a stabilire il modo in cui ci saremmo comportati. Ero già abituato alle sue prodigiose soluzioni, eppure mi stupì di nuovo, collocando il nostro appuntamento notturno nella camera matrimoniale dove dormivano lei e il Bellorini. Come spesso accade, la realtà supera la fantasia, e quella notte di sicuro ne usammo parecchia.

Enrica donava tutta sé stessa a un ragazzo del suo tempo, arrendendosi a quel desiderio giusto e naturale, malignamente negatole da un crudele destino.


La mattina seguente, un po' scura in volto, Enrica rivelò che sarebbe rimasta a Laveno per almeno una settimana. Il marito rientrava da Roma e, avendo ottenuto un periodo di riposo, intendeva spenderlo a casa, accanto alla moglie.

— Una sosta non farà male, — meditai. Ci separammo con un caloroso abbraccio e ritornai alla mia Angera.


Rividi Enrica al nostro lido di Monvalle, ma non c'era l'allegria consueta. Paola era sparita in giardino e Giorgio l'aveva seguita a ruota. Cominciavo a preoccuparmi. Forse il marito sospettava o peggio, aveva le prove del tradimento: un bel pasticcio.

Enrica alla fine si decise a parlare.

— Caro Piero, — disse, — Marco mi ha chiesto di trasferirmi con lui a Roma per alcuni mesi, forse un anno. Il tempo di concludere un importante incarico in Banca d'Italia.

Rimasi senza parole, a metà tra il rincuorato e lo stupito.

Lei proseguì: — Tu farai il tuo servizio militare. Poi riprenderemo a viaggiare su e giù per il nostro magico Verbano.

— È solo una breve parentesi, — considerai. — Nulla è compromesso.

Il nostro congedo fu sereno. Eravamo giovani e la vita ci sorrideva.


Ai primi d'ottobre partii per la Scuola Militare Alpina e vi rimasi sedici mesi, prima da allievo e poi da istruttore.

Il rapporto con Enrica si era conservato con poche veloci telefonate e tante cartoline di saluti, dal mare di Ostia lei, dai campi invernali ed estivi io.


Me ne stavo chiuso in camera pensando a come riprendere la bella festa interrotta prima della naia, quando vidi dalla finestra una lussuosa automobile, con autista in divisa, parcheggiare sotto casa. Ne scendeva un signore di mezza età, in giacca, cappotto e bombetta: l'aspetto era di un ministro in missione diplomatica. Eccolo dirigersi al portone e dare due energiche scampanellate.

Era il Bellorini che veniva a farmi una proposta. Affermò, senza mezzi termini, d'aver sospettato fin dall'inizio il mio interesse nei confronti della sua Enrica, sospetto trasformato in certezza il giorno in cui aveva letto una frase scritta su una cartolina indirizzata alla moglie. Ammise, tuttavia, come da giovane fosse capitata pure a lui una simile avventura, e dunque conosceva bene, per averli vissuti in prima persona, gli impulsi incontrollabili che infiammano i ragazzi. Quelle sue esperienze ora gli suggerivano di giudicare quanto accaduto tra me ed Enrica come una comprensibile scappatella e nulla più, a patto di terminare ogni relazione.

Ebbi netta l'impressione che quel maturo signore amasse sinceramente la moglie e le avrebbe perdonato ogni cosa, pur di non perderla. A me consigliava, da buon padre di famiglia, di mettere la testa a posto e cercarmi un onesto impiego. A questo proposito, mi fece intuire l'opportunità di un'assunzione, come segretario, alla Popolare di Angera, bastava lo volessi. Il suo amico, direttore del personale, gli avrebbe fatto volentieri il favore.

La sorpresa era notevole, e non trovai nemmeno la forza di protestare un'improbabile innocenza. Su mia richiesta, il Bellorini acconsentì a concedermi qualche settimana di tempo per riflettere.


Era essenziale rintracciare Enrica. La decisione sul da farsi, giunti a questo punto, era tutta nostra. Visitai inutilmente i luoghi della nostra fantastica estate. La cercai con ogni mezzo, implorando invano la collaborazione della sua amica Paola, scrivendo... telefonando! Purtroppo alle chiamate non rispondeva mai di persona e le mie lettere rimasero tutte prive di risposta.

Quel silenzio ostinato dimostrava, mio malgrado, come a Enrica fossero ritornate le passate angosce, e ogni sua aspirazione fosse soffocata dalla paura d'opporsi alla volontà del marito. Confidai la mia pena pure all'amico Giorgio, in cerca di un impossibile conforto.

Mi ritrovai solo.

Pensavo a mio padre, che viaggiava da trent'anni, senza mai un lamento. Forse era veramente giunta l'ora di mettere giudizio. Con forti rimpianti finii per comunicare al Bellorini di accogliere la sua offerta di lavoro, rompendo ogni rapporto con la signora Enrica.


Nel corso della vita, come in quella di tutti, i periodi di tormento non sono mancati, accompagnati spesso da una vaga nostalgia per quella pazza estate sul lago, unita al ricordo mai sopito per Enrica, conosciuta troppo tardi per pretendere che diventasse mia.

Nei momenti no, mi era anche tornata la vaghezza di voler riannodare quel filo spezzato, ma ogni volta esitavo, nel timore di sciupare il ricordo di grandi emozioni, vissute in un tempo ormai lontano.


Che strazio leggere il tuo nome su questo brutto muro! Ora mi mancherai per sempre, cara compagna di quel maggio odoroso.


(fine)


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Andr60


La merce


1.

Primo giorno di lavoro, non ci posso credere! Dopo un colloquio piuttosto informale e qualche domanda sul mio corso di studi, l'esaminatore mi dice — Le faremo sapere — e, tre giorni dopo, mi arriva la lettera di assunzione.

Giuro, per poco non mi veniva un infarto… e ora, eccomi qui.

Vengo presentato al caporeparto e a coloro che saranno i miei colleghi, scordo tutti i nomi tranne quello di Denise (la più carina della compagnia) e prendo posto alla scrivania.

— È tutta per me? — chiedo, stupito di tanta grazia.

— Naturalmente. — mi risponde il capo, come se fosse la cosa più naturale del mondo dare un ufficio, anche se condiviso, a chi era precario da anni e senza la minima speranza di avanzare di grado.

Sì, rispondere a quell'annuncio "Cercasi ricercatore tuttofare" è stata davvero la cosa migliore che abbia fatto in vita mia.


2.

In cosa consiste il lavoro? Già, non ne ho parlato, che sbadato. È presto detto: qui ricreiamo la Natura o, in termini meno enfatici, progettiamo e realizziamo organi umani artificiali. Certo, sono un po' cari, ma siamo appena all'inizio. Come sempre, appena si comincerà la produzione su larga scala, i prezzi caleranno e tutti se li potranno permettere, è una delle leggi di mercato.

Io mi occupo della messa a punto della struttura microscopica del rene, in particolare della crescita in vitro della sua unità funzionale, il nefrone. Un compito entusiasmante, per cui sto divorando i testi di anatomia e fisiologia urinaria.

Intanto, ho chiesto a Denise se voleva uscire con me: ha nicchiato, sorridendo; secondo me, se insisto, ci sta.


3.

Oggi è venuto a farci visita nientemeno che il grande capo. No, non il mio caporeparto ma lui, proprio lui: Mister Flax, cioè Colui che tutto muove da queste parti — e anche altrove.

Pare sia l'uomo più ricco del mondo, oppure facente parte del terzetto che governa l'Olimpo della Finanza. Sembra che, a quelle altezze, sia difficile anche stimare l'ammontare esatto delle proprietà possedute; se la Novum Organum decolla (e questo è il motivo della sua presenza presso i comuni mortali come noi) Flax potrebbe diventare il numero uno senza alcun dubbio di sorta.

Fa un giro panoramico dei vari laboratori e si sofferma sul nostro: il caporeparto è visibilmente emozionato, quando gli mostra i risultati, anche se Flax conserva un'espressione impenetrabile, da consumato giocatore di poker.

Con la stessa espressione mi chiama da parte: — Chi, io? — faccio, incredulo.

— Lei è il dottor Smith, giusto?

— Sì, signore. — rispondo, con un lieve tremolio nella voce.

— Non sia così timido, non la mangio mica. — dice, stavolta con un cenno di sorriso, invitandomi a seguirlo.


4.

Ci troviamo nello studio del caporeparto, occupato per l'occasione, e io sono seduto di fronte a Flax. Comincio a sudare: troppe emozioni, tutte insieme.

Poi lui inizia a parlare, e io non posso credere alle mie orecchie: — Sa, è mia abitudine occuparmi dei neoassunti, soprattutto se sono promettenti come lei, dottor Smith.

— Gr… grazie, signore. — comincio a balbettare, e mi do dello stupido.

Lui riprende: — Lei è qui da poco, forse non è al corrente degli organi già in produzione.

— Ecco, non di tutti, poiché sono davvero molti, anche se altrettanti sarebbero necessari. — rispondo io, riprendendo un po' di colore.

— Proprio vero. — annuisce Flax, e continua. — Purtroppo però sono subentrati dei problemi. Piccoli, per carità, ma fastidiosi.

— Che tipo di problemi? — domando io, sorpreso dalla notizia inattesa.

— Il funzionamento delle ghiandole è molto complesso, lei lo saprà meglio di me. La tiroide artificiale, ad esempio, è deludente.

— Davvero, signore? Strano, nel resoconto trimestrale non se ne fa cenn…

— Andiamo, Smith, non penserà che il resoconto dia ragione di tutto ciò che capita in azienda? Ha idea delle fibrillazioni degli azionisti? — mi fa, stavolta con una piega amara della bocca. — Piuttosto, l'ho chiamata perché a mio figlio è stata diagnosticata una malattia alla tiroide, e sarà necessario asportargliela.

— Oh, mi dispiace tanto, signore. Però noi qui potremmo fare un riesame dell'organo difettoso e…

— Veramente avevo in mente un'altra cosa, per lei.


5.

Non sono riuscito a ottenere da Denise un appuntamento, poiché ho cambiato reparto. Una decisione improvvisa, arrivata da Flax in persona.

È stato di parola: una stanza extralusso, un'operazione praticamente indolore, insomma un trattamento di riguardo per un paziente speciale, me. Certo, dovrò assumere per bocca pastiglie di ormoni tiroidei per tutta la vita, ma credo ne sia valsa la pena.

Ora ho uno studio tutto mio, scrivania in mogano e poltrona avvolgente riscaldata; ah, anche una segretaria che mi ha già fatto l'occhiolino, credo che si chiami Glenda, o Rhonda, o qualcosa del genere. Penso che lo scoprirò stasera, a cena, a casa sua. E domani mi metterò a lavorare, ventre a terra, per il nuovo nefrone.


6.

Nonostante i nostri sforzi, siamo a un punto morto: lo scambio di elettroliti non è mai ottimale, probabilmente a causa del fatto che le cellule replicate artificialmente dell'ansa di Henle non fanno il loro lavoro. Il fatto è che è dannatamente difficile replicare esattamente a livello molecolare un organo animale, umano o di topo o di maiale che sia, e le repliche con materiali non biologici hanno sempre difetti o causano effetti dannosi e non previsti. E ciò è davvero seccante.

Ed ecco che arriva anche lui, Flax, a rovinare una giornata già pessima: — Dottor Smith, — mi dice in tono preoccupato, — non ho buone notizie.

— In effetti nemmeno io. — metto le mani avanti, noto però che ha un aspetto diverso, dall'ultima volta che ci siamo visti; sembra malato.

— Lei ha voluto fortemente questo progetto, e io gliel'ho lasciato. Ma il tempo è scaduto, purtroppo. — dice, e sembra davvero dispiaciuto.

— Che cosa intende? C'era una scadenza? Non ne ero al corrente.

— Dottor Smith, la scadenza è… la mia. Ho assolutamente bisogno di un trapianto renale, altrimenti dovrò andare in dialisi.

— Comprendo, ma che ci posso fare? Il rene artificiale non funziona, e non so se e quando riusciremo a…

— Dottor Smith, mi ha già aiutato una volta per mio figlio, ora le chiedo di farlo per me. D'altra parte, si può vivere benissimo anche con un rene solo.

— Sì, però se la natura ce ne ha dati due un motivo ci sarà. — rispondo io, ma con poca convinzione.


7.

Flax aveva ragione, si può vivere bene anche con un rene solo. Indubbiamente non posso più fare stravizi, devo condurre una vita regolare e mangiare cibi poco elaborati ma, in fondo, è un piccolo sacrificio per ciò che mi attende: l'ultimo piano, l'ufficio accanto al capo supremo.

Flax è letteralmente rifiorito, da quando il mio rene lavora dentro di lui, e non manca mai di provare la sua riconoscenza, come quando mi ha fatto trovare Samantha (la sua segretaria) a casa mia, per il dopocena.

Il progetto del rene artificiale ormai è andato, passerò a quello della crescita in vitro delle cellule cardiache. Sto raccogliendo della bibliografia in merito, quando Flax bussa alla mia porta: — Dottor Smith, la posso disturbare?

— Ma certo, signor presidente, dica pure.

— Lei sa quanto le sono grato, per tutto ciò che ha fatto per mio figlio e per me. — esordisce, sedendosi davanti a me. Poi, prosegue: — È quindi con un certo imbarazzo che mi trovo costretto a chiederle un ennesimo favore, sperando che sia l'ultimo.

Ha l'aria davvero imbarazzata, segno che la cosa è piuttosto seria; mi faccio guardingo, e chiedo, circospetto: — Non sarà qualcosa riguardo alla sua salute e, indirettamente, anche alla mia?

Lui tergiversa, si vede che sta cercando le parole giuste, e poi fa: — La ricerca sugli organi biologici artificiali ha fatto passi da gigante anche grazie alla microchirurgia, e alla possibilità di impiantarli ricostruendo microvasi e nervi. Non per tutti è stato così (e la mente di entrambi va al recente fallimento del progetto rene) ma per molti sì. E questo vale anche per il sistema nervoso centrale.

Io rimango in silenzio, e lui continua: — Mi hanno diagnosticato il morbo di Alzheimer in fase iniziale, per ora localizzato alla corteccia frontale. Tutti i neurochirurghi che ho interpellato mi hanno assicurato che un trapianto di poche migliaia di neuroni, prelevati da un donatore, potrebbe arrestare o almeno rallentare di molto la degenerazione in atto. Per quanto riguarda il donatore, non ci sarebbero grossi rischi.

Io continuo a rimanere in silenzio; mi pare che Samantha sia insufficiente per un pezzo del mio cervello, allora lancio una proposta: — Accetto, a patto di avere una quota di azioni della sua holding e una congrua somma depositata in un conto cifrato di una banca delle Cayman.


8.

Mi sono svegliato e ricordo poco, di me. Riconosco lo zio Flax, lui è gentile e viene a trovarmi spesso, mi porta tanti dolci e giochi. Io però preferisco lo scivolo e l'altalena, anche se inciampo spesso quando corro, non so perché. Gli altri bambini sono più piccoli e mi prendono in giro, mi chiamano — Scemo, scemo! — allora io cerco di picchiarli però non devo, lo zio Flax mi ha detto che sono cattivo se lo faccio. I bambini sono fatti così, e io non posso farci nulla. A volte mi faccio la pipì addosso, però c'è una signora tanto gentile che mi segue e che ha tanta pazienza. Dopo mi porta a casa, all'istituto. Mi trovo bene, all'istituto. A volte faccio strani sogni, che mi spaventano tanto, allora chiudo gli occhi forte forte finché non passano, e poi dormo tranquillo. Mi trovo bene, all'istituto.


(fine)


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Athosg


Una fine ingloriosa


Il primo pensiero del mattino volgeva sempre lo sguardo al passato, a tutti i miliardi di motivi, errori, inconcludenze che lo avevano condotto fino a lì. Tutto ciò durava lo spazio di un secondo, un lampo che il cuscino assorbiva per la notte successiva.

Un paio d'ore dopo quel tormento quotidiano, Antonio girava lungo la strada che attraversava il paese, aveva bevuto tre caffè e attendeva il momento opportuno, intabarrato in un cappotto marrone abbastanza grande da coprirgli la giacca nera stazzonata e la cravatta gialla.

Verso le dieci vide Carolina, la figlia maggiore di Anna Mescuti, entrare in casa per farle la solita visita. La madre aveva da poco compiuto ottantatré anni ed era ancora in gamba. Aveva quel tipico sorriso delle signore anziane, un che di bonario e amorevole che le facevano amico tutto il vicinato. Le ragazzine del quartiere la chiamavano nonna Anna, e lei distribuiva a piene mani caramelle e dolci preparati con le sue mani, insomma un'atmosfera serena come nei film del dopoguerra. Era sempre vissuta in quella grande casa che aveva visto passare tre generazioni. Recentemente era stata ristrutturata, una ventata di fresco e di nuovo dopo la morte del marito.

Antonio aveva abitato in quella zona dell'alta Brianza tanti anni prima, e da un po' di tempo tornava per fare qualche colpo.

Si travestiva con facilità. Il suo campionario di abbigliamento era composto di un paio di tute da lavoro e un completo molto vissuto giacca, pantalone e cravatta. La tecnica con il tempo si era affinata; si presentava nel bel mezzo del mattino nelle case delle sue vittime, spacciandosi per tecnico di una fantomatica società che gestiva l'energia elettrica. Oppure in giacca e cravatta provava a vendere degli improbabili computer.

Le vittime erano sempre anziane, e ci voleva ugualmente una certa tecnica per imbrogliarle. Parlantina veloce, sguardo fisso e richieste che cercavano sempre una risposta immediata. In gioventù, dopo aver visto offuscare la luce dei sogni e aver silenziato la coscienza, aveva fatto qualche colpo in banca, ma sette anni di prigione gli avevano fatto cambiare idea. Le rapine erano diminuite perché non giravano più contanti come un tempo, e i trucchi delle polizie erano diventati troppo difficili da evitare.

Allora era passato a questi imbrogli che fruttavano ancora bene. Il fatto di non avere un'arma, gli garantiva una pena minima nel caso qualcosa fosse andato storto, Ogni colpo, ne riusciva in media uno ogni sei tentativi, fruttava dai cinquecento ai mille euro. Né armi né violenza, il suo bazooka era la lingua. Veloce, avvolgente, amica, pronta a dare consigli su come difendersi dal freddo o dal caldo.

Le sue vittime le coccolava, prima di arrivare al plot dell'azione, chiedeva loro lo stato di salute, se la famiglia stesse bene, se i nipotini studiassero a scuola. Riusciva ad avere in poco più di cinque minuti la fiducia di questi anziani. Certo, pensava Antonio talvolta, questo tipo di truffa aveva qualcosa di meschino. Però lui doveva sbarcare il lunario, e si convinceva che le sue vittime fossero benestanti e che non avrebbero subito troppi danni da quelle piccole somme sottratte loro con l'inganno. Naturalmente degli aspetti psicologici che ne seguivano dopo ad Antonio non gliene fregava quasi nulla.

Quel giorno aveva già calcolato tutto. Una volta vista la figlia salire in macchina e allontanarsi, si avvicinò alla casa. Si sistemò la cravatta e la giacca, si ravviò i capelli. Estrasse dalla valigetta ventiquattrore il foglio che rappresentava la fattura da incassare e suonò il campanello.

Dopo circa due minuti Anna aprì la porta principale.

Faceva freddo.

— Buongiorno signora, sono Alessandro Manzoni. Vengo da parte della Ergas per farle vedere una fattura non ancora incassata — le disse a voce alta per farsi sentire meglio.

La donna lo guardò e aprì il cancello d'ingresso. Antonio entrò osservando circospetto la zona. Non vide nessuno e proseguì con passo più veloce.

— Sa che lei somiglia tanto a mio cugino Giorgio. La stessa altezza, lo stesso portamento, la stessa voce.

Era tipico che le vittime riconoscessero qualcuno nella persona che avevano davanti. Era uno strano meccanismo psicologico che Antonio non aveva mai compreso appieno, ma che spesso si trovava ad affrontare. Facilitava il dialogo e la vicinanza, rendeva intimo ed eterno un incontro che sarebbe durato una decina di minuti al massimo.

— Oh bene signora Anna, una buona notizia. Lo vede spesso questo Giorgio? — chiese incuriosito.

— Ora molto meno, abbiamo la stessa età e tanti acciacchi, ma abbiamo compiuto tanti viaggi insieme — le rispose Anna.

— E dov'eravate stati di bello? — insistette Antonio.

Era necessario far parlare la vittima, rimanere attenti e colpire nel momento di stasi della conversazione.

— Allora, mi faccia pensare. A Parigi, Londra, Berlino, New York e tante altre città, la lista sarebbe lunghissima.

Antonio cominciò a pensare che sarebbe stata un osso duro. La signora era troppo ciarliera e lucida. Aveva voglia di parlare e introdurre l'argomento non sarebbe stato facile. Doveva passare subito all'azione, perché non poteva dilungarsi troppo nella conversazione.

— Ecco signora, le spiego il motivo della mia visita. Sono qui per incassare una fattura della Ergas, la società che eroga il gas a casa sua. Come sicuramente si sarà accorta, o glielo avrà detto sua figlia, l'ultima bolletta non è stata addebitata in banca. Poco male, non si preoccupi, non le è sospeso l'allacciamento, soprattutto con questo freddo! Sono cinquecentoottanta euro riguardanti il bimestre di ottobre e novembre. Meglio se mi paga in contanti, perché l'azienda non incassa assegni. Sa com'è, tutte le spese bancarie ci mangiano il guadagno — disse tutto di un fiato.

Le sottopose una fattura con riportato il suo nome, una serie di numeri, riquadri colorati e il totale in fondo ben evidenziato in rosso.

La signora lo guardò incuriosita.

— Come sempre Carolina non mi ha detto nulla. Le dico di tenermi al corrente di tutte le spese, sì mamma, non preoccuparti. Ecco invece cosa succede. Adesso la chiamo.

Antonio diventò rosso in viso. La situazione era già oltre il limite giallo del pericolo.

— No signora — intervenne a precipizio — non la disturbi. Legga la fattura, è tutto chiaro.

— Ah. — La donna divenne pensierosa, era rimasta ai ricordi del cugino e ora si ritrovava con un bel problema da risolvere. I debiti le avevano sempre fatto paura, tutto, anche i grandi lavori di manutenzione, li aveva sempre pagati subito, senza cambiali e scadenze che le avrebbero tolto il sonno.

— Il problema è che non tengo soldi in casa. Mi sono rimasti solo cento euro.

Antonio intuì che aveva trovato un bel pollo da spennare ma era stato sfortunato. Maledì la figlia e disse alla signora.

— Facciamo così: prendo i cento euro e le lascio un biglietto che lei terrà come ricevuta di acconto. Settimana prossima passerò per il saldo. Intanto lei avrà parlato con sua figlia e potrà sistemare tutto. Non la chiami adesso per una cosa così semplice.

Anna lo guardò stranita, accennò un andirivieni indeciso, poi gli sorrise, aprì il cassetto del tavolo da cucina e gli mise davanti i cento euro. Antonio prese un foglio dalla valigetta e le rilasciò una ricevuta. Per completare l'opera riportò anche il numero della fattura.

Mise i cento euro nel portafoglio e si apprestò a salutare la signora.

— E la fattura? Non la prende?

— Oh, che sbadato. Grazie signora, è stata gentilissima. Ci vediamo settimana prossima.

— Va bene signor Alessandro. Buon lavoro — gli disse accompagnandolo alla porta. Lui uscì a passo molto spedito, si girò un momento e vide che la signora lo salutava con la mano.


Fuori faceva freddo, il vapore dalla bocca usciva come fumo da una ciminiera. Antonio aveva studiato tutto nei minimi dettagli e l'azione era stata precisa e senza tentennamenti. Purtroppo, non tutte le ciambelle uscivano con il buco, si disse mentre saliva in macchina imprecando a voce alta. Poteva essere una grande giornata, e invece si era rivelata un mezzo fallimento. Ormai la piazza era diventata terra bruciata, e per i prossimi colpi avrebbe dovuto spostarsi di una cinquantina di chilometri. Aveva dei basisti che gli passavano le informazioni. Ma questo non era sufficiente, perché toccava a lui controllare la zona, seguire gli spostamenti dei parenti per poi apprestarsi a sferrare l'attacco. Ci voleva tempo e i rischi aumentavano. Forse anche quel tipo di truffe avevano i giorni contati.

Uscì dal paese e imboccò la tangenziale. Viaggiava a velocità di crociera rimuginando l'accaduto. La signora era sveglia e attiva, però aveva pagato senza il minimo dubbio. Si congratulò con sé stesso per essere stato così convincente. Perlomeno aveva rispettato tutti i tempi e i modi dello schema prefissato.

Si fermò in un bar. Si sedette vicino all'entrata e nell'attesa dell'ordinazione prese a leggere il giornale. Politica e sport erano gli argomenti principali. Antonio era informatissimo, perché aveva già sentito una decina di giornali radio. In fondo a destra, nella cronaca locale, lesse di alcuni misteriosi personaggi che ipnotizzavano le persone anziane per poi derubarle. Lì per lì non fece caso che questi non erano altri che suoi colleghi. Fu il barista, arrivato con il panino su un piatto e un bicchiere di vino in mano, che glielo fece capire.

— Bastardi, come si fa ad avere il coraggio di approfittare degli anziani. Ne trovassi uno, lo appenderei subito a quell'albero.

Antonio lo guardò, intimorito dalla mole possente del suo fisico e addentò il panino.

— È vero.

Il barista continuò nella sua invettiva.

— Pensa amico, a tre chilometri da qui abitava un ometto di novant'anni. Leggeva il giornale, camminava, beveva ancora il suo bicchiere di vino, era una leggenda vivente. Un giorno due bastardi sono entrati in casa e con una scusa si sono fatti consegnare l'oro che era appartenuto a sua moglie defunta. Quando lui si è accorto di esser stato fregato è andato in crisi. I figli hanno cercato di distrarlo, ma lui da quel giorno non si è più ripreso. Tu cosa faresti a simili disgraziati? — gli domandò a voce alta.

Antonio trangugiò il boccone e bevve un sorso di vino. Si sentì quasi preso in causa.

— Hai ragione, sono cose che non si fanno.

— Non si fanno? Io li appendo per i coglioni e poi do fuoco alla pianta! — urlò l'uomo.

Antonio era rosso in viso, posto peggiore non avrebbe potuto trovare. Si sentiva confuso, l'energia e la verità di quell'uomo lo mettevano con le spalle al muro. Finì in fretta il panino. Si alzò lentamente, sorrise e chiese il conto. Il barista era lanciato nella sua parabola, spiegava per filo e per segno ai pochi avventori, dove li avrebbe portati, cosa gli avrebbe detto e le torture che avrebbe inflitto.

— Se ne trovassi uno! — urlò ad Antonio nel porgergli lo scontrino. Antonio era terrorizzato, sembrava che l'uomo sapesse qualcosa sul suo conto. Pagò in fretta con i cento euro e scappò via, salutandolo frettolosamente.

Arrivò alla macchina con il cuore in gola. Tanta era la fretta di lasciare quel bar che si era dimenticato di bere il caffè.

Accese il motore per riscaldarsi e cominciò a fumare nervosamente. Le parole dell'uomo sembravano gli avessero aperto un pertugio nel petto e cominciava a respirare a fatica. Scese dalla macchina e camminò un po'. Stava bene, quell'ansia crescente creata dal dubbio che giaceva da tanto tempo, dormiente ma mai definitivamente scomparso, si era acquietata. Ripensò al vecchietto della storia e cominciò di nuovo a sentirsi male. Vomitò tutto quello che aveva velocemente mangiato in quel bar. Con la gola arsa si accese un'altra sigaretta. L'ansia saliva forte sino a spezzargli il fiato. Non riusciva a riempire tutta la cassa toracica. Arrivato a un certo punto, non poteva più inspirare. Ripensò alla vecchietta della mattina. Anna, magari anche lei sarebbe caduta in depressione. Doveva assolutamente allontanarsi il più possibile dalla zona.

Ripartì sgommando. Tanta era la tensione, da non riuscire a controllare la macchina. Si sentiva solo, un verme che strisciava nel mondo a infettare le persone per bene. Un essere senza scheletro, mucillaginoso, che si attaccava agli anziani per portargli via quel poco che avevano, smidollandoli poco alla volta, con astuzie di quarta serie approfittando del loro essere indifesi.

La strada era dritta tra le montagne innevate. Accese la radio. La spense. Guidando si ricordò di un numero di telefono che in un giorno di crisi aveva chiamato. Era un ente dove c'erano operatori che ascoltavano depressi, malati e tante altre persone con problemi vari. Telefono amico o qualcosa di simile. Si fermò in una piazzola di emergenza, e guardò nel portafoglio. Sudava. Trovò il numero, lo aveva conservato per i giorni peggiori. E quello lo era. Era partito carico e sicuro, e ora si ritrovava sull'orlo di una crisi.

Si diresse verso l'ospedale più vicino. Lì avrebbe potuto comprare una tessera e chiamare dal telefono posto nell'atrio. In tutti gli ospedali ce n'era almeno uno, pensò. Parcheggiò nel piazzale. Erano le cinque del pomeriggio e la luce si era oscurata, attendendo la sera. Faceva freddo. Il termometro segnava meno sei.


Cinquanta chilometri più in là Carolina entrò in casa della madre.

— Mamma, perché non rispondi al telefono.

— Uff, l'u minga sentì (non l'ho sentito).

Carolina capì che la madre era emozionata. Ogni volta che accadeva qualcosa di insolito, un guasto, una visita improvvisa, un qualcosa che interveniva a interrompere la rigida quotidianità, sua madre cominciava a parlare in dialetto.

— È successo qualcosa?

— È sta chi vun ch'el vuleva i danè d'una buleta. Vurèvi ciamàt, a la fin gu dà cent euro (È venuto uno che voleva i soldi di una bolletta. Volevo chiamarti ma alla fine gli ho dato cento euro.)

— Mamma, dovevi chiamarmi. Era un truffatore. Ti ha preso qualcos'altro?

— Ma no, el me parèva un disperà. Savevi no se fa, per mandal via ghi u dà. L'è 'ndà cumè un can levrè. (Ma no, mi sembrava un disperato. Non sapevo cosa fare, per mandarlo via glieli ho dati. Se n'è andato via di corsa.)

— Mamma, non farlo più, mi devi chiamare! — protestò Carolina.


Antonio entrò nell'ospedale. Il bar era ancora aperto. Prese un caffè e una tessera da venti euro, non voleva che la comunicazione s'interrompesse per mancanza di credito. Il verme dentro di lui cominciava a strisciare sempre più ambiguo. Ne sentiva l'acre odore, il suono delle piccole squame dentro il suo corpo era continuo e forte, copriva anche le voci delle persone che gli passavano accanto. Non aveva neanche la forza di telefonare dal cellulare, perché tutto doveva restare anonimo. Chiese alla ragazza dietro il bancone dove ci fosse un telefono a scheda. Gli rispose che era al quarto piano, nel pianerottolo antistante al reparto di medicina.

Prese l'ascensore insieme a tante persone che andavano a trovare i malati. Udiva i loro discorsi, le loro speranze. Alcuni erano più rassegnati, con lo sguardo sincero guardavano il led che riportava i numeri dei piani. Correva lento l'ascensore. Dentro qui sono il peggiore, pensò Antonio.

Finalmente arrivò a destinazione. Uscì e subito vide la sua ancora di salvezza. Si sedette su una sedia e fece il numero. Il verme si era fermato.

Dovette ritentare un paio di volte, perché trovava sempre occupato. Poi finalmente una voce femminile rispose.

— Buonasera, sono Anna. — La voce che risuonava nella cornetta era giovane e nel sentire il nome Antonio trasalì.

— Buonasera, mi chiamo Alessandro e volevo parlare un po'.

— Buonasera Alessandro, com'è andata la giornata? — cominciò Anna per metterlo a suo agio.

— Non lo so, oggi è tutto terribile. Innanzitutto voglio dirle che mi sento un verme. Un essere spregevole che cammina la notte, strisciando radente i muri. E sento un verme che corre dentro di me, nelle budella, poi sale in gola e ridiscende nella pancia.

— Alessandro, non si butti giù così.

— Anna, quello che sto per dirle farà schifo anche a lei.

— Mi dica, fuori il rospo e vedrà che starà meglio — lo incitò la voce.

— Anna, ha un bel timbro, la sento serena.

— Alessandro, per favore, non tergiversi. Ci sono molte persone in coda. A me fa piacere parlare con lei, però dobbiamo seguire una linea.

La voce ora si era indurita. Tante, troppe persone avevano scambiato quel numero per una chat erotica.

— Va bene. Devo dirle subito che mestiere faccio. Io sono un truffatore, della peggior specie.

— In effetti la truffa è un furto senza scasso, un'opera dell'ingegno diabolico. Non è una bella cosa.

— Ha ragione, Anna. Io sono un truffatore seriale. Ho fatto tanti danni e da qualche tempo mi sono specializzato nel circonvenire gli anziani. Mi travesto da operaio con tanto di tuta o mi agghindo in giacca e cravatta, presentandomi come l'uomo di fiducia che deve riscuotere la bolletta non pagata. Non guardo in faccia a nessuno, povero, ricco, malfermo sulle gambe o nella testa. Sono diventato un professionista, freddo e duro come il ferro.

La tecnica era la stessa, quello che aveva memorizzato nel cervello veniva espresso a parole con velocità doppia rispetto al normale.

Dall'altra parte ci fu un momento di silenzio. La voce non rispose per un minuto. Antonio attese paziente, felice di aver sparato tutte le sue cartucce. Si sentiva la coscienza libera, come se si fosse tolto un fardello insopportabile da portare.

— Amico, così non va bene. Hai chiamato per cercare una parola d'incoraggiamento, non per lavarti la coscienza. Sei un pezzo di merda, ecco quello che sei. Pensa solo se quei vecchietti fossero i tuoi genitori. Che cosa penseresti? Oltre al danno materiale hai sfregiato la loro esistenza.

Antonio ascoltò quella voce con supponenza, erano pensieri che già avevano percorso in lungo e in largo il suo cervello.

Rimase in silenzio.

— Smettila, brutto verme. Vai a restituire la somma che hai estorto questa mattina, e chiedi scusa. E non farlo più. Mai più. Vaffanculo brutto stronzo.

La voce interruppe la comunicazione.

Antonio si era immaginato Anna come una dolce ragazza che lo avrebbe ascoltato per fargli capire che sbagliava. La veemenza della sua reazione lo aveva lasciato interdetto. Ripose la cornetta e si appoggiò allo schienale della sedia con lo sguardo perso sulla porta d'entrata della corsia.

Fuori era buio.

Rimase seduto tanto tempo. Vedeva la gente passare dinanzi a lui come ombre senza volto. Ripensò a quando era bambino, a sua zia che lo portava all'ospedale a trovare sua madre. Così piccolo, era impaurito dalle infermiere con il camice bianco e intontito dal gran caldo che regnava in quelle stanze. Da lì sua madre non ne sarebbe più uscita, sconfitta da un tumore al seno. Cominciarono a scendere delle lacrime sul suo volto, e lui non faceva nulla per fermarle. Erano una sorta di liberazione da tutta la tensione accumulata nell'ultima parte di quel pomeriggio da tregenda.

Uscì sul piazzale del parcheggio. Erano le nove di sera e il led della temperatura posto su un palo all'esterno riportava meno otto. Era un freddo inverno solitario. Si accese una sigaretta e si diresse verso la macchina. Stava per spegnere il mozzicone per terra, come sempre incurante dei tanti avvertimenti ecologici. La telefonata con Anna lo aveva messo sottosopra.

Aprì la portiera dell'auto e la mise in moto, regolando il riscaldamento al massimo, poi tornò verso l'atrio, dove trovò un portacenere. Le lacrime scendevano copiose lungo il viso. Ritornò verso la macchina. L'asfalto era ghiacciato. Camminava a piccoli passi. Fece per salire, quando un piede scivolò via. Perse il contatto con il terreno, sfiorò la portiera e cadde di schiena picchiando la nuca sul pavimento dell'auto. Fu un colpo fortissimo. Una frazione di secondo, dove avvertì il dolore e poi più nulla. Tentò di muovere le gambe per alzarsi, provò a usare le braccia per prendere il cellulare e chiamare aiuto.

Niente da fare, era completamente bloccato. Sentiva il freddo penetragli nelle ossa e sorrise amaramente. Anche il verme dentro di lui se n'era andato. La luna lo guardava dall'alto, vedendo un uomo immobile, con gli occhi sbarrati che fissavano il cielo stellato. Non passava nessuno. Il gelo ormai lo aveva avvolto in un abito bianco luccicante, mentre stava attraversando il confine del mondo dei morti.


La mattina successiva gli infermieri del primo turno lo ritrovarono nella medesima posizione. Ricoperto completamente di bianco e rigido come un manichino. Un rivolo di sangue era fuoriuscito dall'orecchio, e alcune gocce avevano tinto di rosso la superficie biancastra dell'asfalto. Chiamarono subito un medico. Questi accorse e accertò la morte per assideramento. Lo trasportarono all'obitorio, dove avrebbero svolto l'autopsia.

Tagliarono tutti i vestiti, sfilandoli da quel corpo rigido. Ora era nudo, come il verme che il giorno prima girava dentro il suo corpo.

In tasca, tra i vestiti umidi e spiegazzati, trovarono un foglio. Una fattura di euro cinquecentottanta, ben segnalata con inchiostro rosso.

Il suo triste testamento.


(fine)


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Alessandro Mazzi


Appuntamento


Uno sguardo all'orologio: le sette e quarantacinque, ora di darsi una mossa. F. scende le scale, si infila la giacca e in una frazione di secondo è in macchina, lanciato a tutta velocità verso il lavoro.

Alla radio Lenny Kravitz canta "Where are we running?" e per un momento F. se lo domanda davvero: dove stiamo correndo? Poi se lo ricorda: è il grande giorno, quello dell'appuntamento che aspetta da anni. Non ci sarà un momento da sprecare perché il tempo è sovrano e non aspetta nessuno.

Parcheggia al solito posto, scende dall'auto e in men che non si dica è ai distributori automatici a bere il secondo caffè della giornata; poco importa che soffra di pressione alta: una giornata impegnativa come quella richiede il giusto apporto di caffeina.

Sono le otto e dieci. Ancora quattro ore e venti minuti prima dell'appuntamento. F. inizia a caricare i pacchi sul furgone come un forsennato; suda talmente tanto che la maglia sarebbe già da buttare in lavatrice. Il cuore fatica a tenere il ritmo e pompare sangue in ogni parte del corpo.

Si domanda se abbia senso prendersi così sul serio e vivere una vita sul filo del rasoio, sospeso tra i movimenti inesorabili delle lancette di un orologio e le leggi di un freddo e artificiale algoritmo che non tiene conto dei bisogni fisiologici di un essere umano.

Capisce che non può perdersi in pensieri di tale entità, non oggi che è finalmente giunto il grande giorno.

Il furgone è carico. È il momento di partire e consegnare tutto entro le fatidiche dodici e trenta. Un rivolo di sudore gelido gli cola dalla fronte: ansia? Insicurezza?

Il piede è pigiato a tavoletta sull'acceleratore: cento, centodieci, centoventi chilometri orari per risparmiare uno, due, tre secondi massimo sulla tabella di marcia. Non male come cifra.

Lo stomaco brontola a metà mattinata, tra una consegna e un sorriso di sfuggita a qualche cliente. Fermarsi a mangiare un boccone è fuori discussione. Cinque minuti di stop potrebbero comportare l'annullamento di tutto il vantaggio accumulato fino a quel momento correndo come un pazzo.

Vantaggio su chi o cosa? Ancora una volta le domande sfiorano solo marginalmente i pensieri di F. che non può farsi distrarre da nulla: mancano solo due ore e mezza. Sente che tutto il suo correre nella vita troverà un senso lì, nell'appuntamento. Un cliente gli offre un caffè e lui rifiuta in maniera cortese; mentre il mondo cammina a passo di lumaca, lui procede come un Frecciarossa su binari di fuoco diretto verso… Cosa?

Pensa che un giorno la smetterà con quella vita e se la prenderà finalmente con calma. Poi ricorda le sue ultime ferie e l'ansia di non riuscire a visitare tutti i luoghi che si era prefissato, le corse e rincorse per rispettare la tabella di marcia.

La gola si stringe e il fiato viene a mancargli al sol pensiero. È sempre stata una maratona e non si è mai trattato di soli quarantadue chilometri. Piuttosto un'esistenza intera passata a inseguire qualcosa, o a fuggire dall'inesorabile scorrere del tempo.

Ciao. Buongiorno. Sono di fretta. Vado. Arrivederci. No, grazie. Non ho tempo. Alla prossima. Non posso aspettare. Mi scusi, sono di corsa. Scappo. Svelto. Faccia velocemente. Si sbrighi.

Accelera. Sali. Scendi. Corri. Carica. Scarica. Respira. Inspira. Espira. Fatica.

Mille diapositive di visi sconosciuti che scorrono via alla velocità della luce.

Le campane col loro suono annunciano che è mezzogiorno. Trenta minuti.

Il furgone si è svuotato di tutti i suoi pacchi, F. invece di tutte le sue energie. Sente le gambe pesanti, la vescica che esplode e lo stomaco che ribolle come un vulcano prima dell'eruzione. Il sole gli abbaglia la vista e cerca di farsi scudo con la mano sinistra; non riesce a sollevare il braccio. All'improvviso sembra sia diventato un blocco di marmo freddo e pesante.

Dodici e ventinove minuti.

F. accosta un momento: ha bisogno di prendere fiato giusto un secondo prima dell'appuntamento. La portiera del lato passeggero si apre. La ragazza in nero si presenta e sale con fare deciso sul furgone.

Si siede accanto a F. e lo fissa negli occhi. Lui fa lo stesso e il tempo si congela.

— Una vita intera trascorsa a correre solamente per questo momento? — le domanda lui senza staccarle un momento lo sguardo di dosso

— Ritieniti fortunato ad aver saputo fin dall'inizio il giorno del nostro incontro. A pochi è fatta questa grazia! — esclama la fanciulla allungando una mano ossuta e raggrinzita verso l'interlocutore.

— Pur sapendolo ho continuato lo stesso a correre come un pazzo. E tutto questo per arrivare dove? — F. quasi piagnucola pronunciando le ultime parole.

— Per arrivare qui con me ed essere puntuale al tuo appuntamento con la morte.

Lei lo abbraccia e finalmente il tempo è solo una parola senza significato persa tra mille altre.


(fine)


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GeraGera


L'uomo nell'aspirapolvere


L'uomo dell'aspirapolvere abitava in una casa di due piani, vicino al cinema della cittadina di PHILTRO. Lui, ogni giorno, dedicava più di due ore ad aspirare tutta la casa, rendendola la più pulita del quartiere. La sua famiglia era molto contenta, specialmente sua Moglie Molly, che si spaccava la schiena in un lurido fast food per 500 miseri dollari al mese.

Purtroppo, però, col passare del tempo l'uomo dell'aspirapolvere era sempre più stanco per tutte quelle faccende domestiche.

Una notte non riusciva a dormire e, dopo essersi alzato, andò in bagno, tirò su la tavoletta del cesso e, mettendosi a pisciare rigorosamente in piedi, gli venne in mente che il giorno seguente la pulizia della casa l'avrebbe fatta non più aspirando la polvere ma aspirando direttamente tutta la casa, completa di mobilio e di tutto.

Così, il giorno seguente si alzò molto presto, prese il suo amato aspirapolvere e, dopo averlo acceso, aspirò i mobili, poi ogni stanza, porte comprese, poi la casa stessa, cioè mura e finestre e tetto, poi il giardino e, non contento, aspirò anche tutto il quartiere. Infine, tutta la città di PHILTRO.

Da quel giorno l'uomo dell'aspirapolvere vive dentro la sua aspirapolvere e con lui tutta la sua famiglia e tutta la sua città, che appunto dà il nome a un'importante componente dell'aspirapolvere… il PHILTRO.


(fine)


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Giovanni p


La scheggia nel cuore


Fa freddo, lo sento dentro ogni fibra del mio corpo. Riesco solo a tremare, il fisico non risponde alla mia volontà. Provo a distendere le gambe, ma non ci riesco. Le mani sono serrate e gli avambracci sembrano fatti di marmo. Il sole irradia tutto, la sabbia e gli aghi di pino secchi come fiammiferi.

Il mio cappotto scotta, ma la pelle sotto di questo è congelata. Mi alzo, il freddo mi attraversa come una scarica elettrica. Come un'onda d'urto, partendo dal petto tutto viene raggiunto. Mi alzo in piedi ma barcollo, le caviglie suonano come rami stroncati a ogni passo. Il mare è di fronte a me, blu, profondo, piatto, fastidioso.


"Si può odiare il cielo, è possibile odiare il mare?"


Forse non sono solo pazzo, forse non sono nemmeno più vivo. Il mio cuore pulsa, ma la mia vita è stroncata. Cammino verso la pineta, mi ero addormentato al sole per scaldarmi, ma il sole oggi scalda tutto meno il mio sangue, tanto vale muoversi. La pineta mi accoglie col suo tappeto di aghi dorati ma, nel suo interno, in profondità è diverso. Tutto è cupo e gli aghi all'ombra sembrano fatti di cenere. Ho gli occhi appannati, velati al punto che l'ombra sembra notte.

I miei passi suonano verso la parte più buia della pineta, a un tratto però una pigna si stacca da un ramo e il suo colpo sordo accende il tremore nel mio corpo. Non sono più nella pineta, alle mie spalle non rumoreggia più il mare, sono circondato dalla neve.

Le caviglie cedono, finisco a terra e alcuni aghi arpionano la pelle delle mie braccia e della faccia, ma è nulla, e nulla sento infatti. La faccia di Luca diventa enorme, vedo solo quella. I suoi occhi sono aperti come mai avrebbero potuto essere. Il suo sguardo, cosa posso dire… il suo sguardo non posso sostenerlo. Come ogni volta, che sia nei miei incubi o nelle realtà, la scena si ripete.

Lui è lì, aggrappato a dei sassi, e io sono sempre al solito posto, davanti a lui. Era una bella giornata, perfetta per una ferrata in montagna. Tutto andava bene, neanche nevicava, poi Luca vuole una foto mentre sta in posa su uno strapiombo. La foto la devo scattare io, mi pare una cazzata gli dico, ma va bene farò questo sforzo. Lui si mette in posa, ma scivola.

È talmente esperto che credevo scherzasse, ma poi il suo sguardo mi trafigge, le sue mani perdono la presa, la sua morte viene annunciata da un botto sordo. Il tremore mi rimescola le ossa, i miei denti sono quasi del tutto andati, sbriciolati da questo spasmo che li fa sbattere fra di loro. È un anno che tremo così, giorno e notte. Non ci sono farmaci che possano aiutarmi, né conforto che mi possa accogliere.

Provo a scaldarmi, ma non ci riesco, provo a stare fermo ma il controllo di me ormai è perso.

Mi ripeto che quella che è caduta a terra è solo una pigna, ma il tremore non passa. Luca non è morto per colpa mia, lo so ma il tremore non passa. Parte tutto dal mio petto, inizia da lì e poi raggiunge tutto. Inizio a trattenere il respiro fino a che non sento la morsa del tremito allentare la sua stretta. Il mio corpo ha pace, la testa mi gira, sudo freddo. Disteso a terra riacquisto sensibilità, sento gli aghi di pino bucare.

Che bello il sudore freddo mentre esce dalla mia pelle, ogni volta spero che sia l'ultima, ogni volta spero lavi via il mio male.

Mi sfioro il petto, il punto da quale parte tutto fa ancora male. È come avere una scheggia. Come sempre, dopo ogni crisi, rivedo il funerale di Luca, gli abbracci con i suoi cari, le interminabili sedute dallo psicologo e infine lo psichiatra che mi prescrive farmaci su farmaci.

Tutto inutile, la scheggia c'è mentre Luca non c'è più, che tremi o no lui non tornerà mai.

La luce infiamma le mie palpebre chiuse, il sudore freddo sta ghiacciando la mia faccia. Mi alzo e apro gli occhi, qualcosa di strano si sta muovendo nella pineta. A un centinaio di metri di distanza un ombra fa scricchiolare gli aghi di pino sotto il suo peso. Non prova ansia né paura, sono preparato alla morte, ho già tentato, ma senza successo. Un'ombra simile a quella di un orso sta vagando per la pineta senza una meta precisa. Saltella qua e là come se fosse un enorme coniglio ripiegandosi su sé stesso per poi schizzare verso i rami più alti, quelli che in posizione eretta non potrebbe raggiungere.

Mi ha visto, anzi sicuramente mi aveva visto durante la mia crisi di nervi dalla quale mi sono appena ripreso, lo so perché interrompe i sui balzi solo per rimanere qualche istante a fissarmi. Ad ogni modo non ha l'aria di pericoloso, anche se il suo aspetto è talmente inquietante da non sembrare neppure umano.

Decido di avvicinarmi, ma appena ho dimezzato la distanza un odore forte mi aggredisce. Un tanfo tremendo, indefinibile.

L'uomo dall'età indefinibile adesso passeggia per la pineta scalzo, si è stancato di saltare.

Questo personaggio si volta a guardarmi, mi fissa e ride come se avesse visto la cosa più buffa di questo mondo. Mi faccio avanti, il suo aspetto visto da vicino è peggio di quanto sembrasse rispetto a prima. È alto, capelli arruffati e sporchi di terra e tutto il suo corpo è coperto di escoriazioni che lacrimano pus. Le unghie delle sue mani e dei piedi sono nere come il carbone.

Al minimo movimento i suoi abiti laceri perdono povere come i cipressi perdono il polline se scossi dal vento. Eppure quest'uomo è strano, i suoi occhi sono vividi e brillano di intelligenza. Quando il suo sguardo incrocia con il mio sono obbligato a distoglierlo per fissare gli aghi che tappezzano la pineta, la sua risata è intrisa di scherno, sa che è riuscito a umiliarmi. Quegli occhi sono profondi al punto da ricordarmi due tetri pozzi, benché il loro colore dovrebbe riportarmi alla mente il cielo o il mare. Non sono gli occhi di un balordo quelli che mi puntano, mi domando chi possa essere.

Faccio un passo verso di lui, ma sputo gli esce dalla bocca, come un chicco di grandine schizza verso i miei piedi, senza arrivare a colpirmi.

I suoi modi sono in linea col suo aspetto, mi fa l'occhiolino e riparte tenendo in mano un'enorme torcia elettrica che teneva nascosta sotto i suoi stracci, forse rubata da un cantiere dato che è sporca di vernice.

Decido di seguirlo, non solo mi incuriosisce, sembra addirittura messo peggio di me. Dentro di me ho bisogno di sapere che qualcuno stia peggio di me, non per godere del suo malessere, ma per persuadermi che possa continuare a vivere, dato che altri ci riescono.

Si volta di tanto in tanto a guardarmi, ma non diciamo nulla. Usciamo dalla pineta, il sole ci piove addosso.

A un certo punto lui si ferma mi indica il paese poco distante, mi fa cenno di stare zitto, portando l'indice alla bocca, per poi mettersi a ridere senza fare rumore.

Dopo tanto tempo sento una punta di sollievo partire dallo stomaco, mi sento stupido invece che disperato, quindi per un attimo mi sembra di essere più umano, più vivo.

La strada per il paese è breve, arriviamo dopo qualche minuto.

Lui mi sta davanti di una trentina di metri, io lo seguo mesto. Il paese è piccolo e bianco, la piazza fa il suo lavoro zeppa di gente occupata al cellulare o a chiacchierare. L'uomo si ferma di nuovo, accende la torcia elettrica e sghignazza guardandomi. Lo osservo, impalato come se mi avessero murato, mentre fa il giro della piazza puntando la sua torcia contro ogni persona che incontra. Il sole è così forte che la luce della torcia è invisibile, malgrado questa sia enorme. Ogni persona sembra assorta al punto da sembrare un paese di sonnambuli, solo lui e la sua torcia riescono a rompere l'incantesimo, a riportare tutti nella realtà.


La moltitudine di persone che popolano la piazza sembrano essere una persona sola, di fronte a quel fenomeno umano. Tutti uguali, tutti attoniti, tutti con la solita espressione di disgusto e disagio stampata sulla faccia. Nessuno ride, qualcuno si tappa il naso per il puzzo, ma soprattutto nessuno interagisce con quell'uomo e la sua torcia. Lui dal canto suo illumina ogni persona, poi o sputa o scuote la testa prima di andarsene. Dei bambini che giocano gli passano vicino, uno di questi si ferma a guardare l'uomo, lui per la prima volta parla dicendo: — Levati di mezzo, con te non vale.

La voce di quest'uomo è così brutta, così stranamente sgradevole che il bambino scappa a gambe levate.

Alcune donne propongono di chiamare la polizia, ma poi un ragazzo si avvicina all'uomo. Questo ragazzo, ripreso col cellulare da una ragazza bella ragazza, porta in braccio un vassoio con affettati e formaggi. Una volta in prossimità dell'uomo si volta verso chi lo sta riprendendo, sorride e dopo aver messo alcune banconote sul vassoio lo porge all'uomo. Questo non guarda nemmeno per un momento il vassoio, ma punta la sua torcia contro la faccia del ragazzo: — Te meno di tutti.

Il ragazzo non bada alla sua affermazione, si volta verso il cellulare che lo sta riprendendo e appoggia il vassoio ai piedi dell'uomo con un gesto plateale.

La ragazza riprende tutto e sorride contenta, ma il suo sorriso è destinato a rinchiudersi presto. Il silenzio diventa assordante, nessuno fiata, l'uomo si è abbassato la lampo di pantaloni, o almeno quello che rimane di questi, e urina sul cibo e i soldi distesi nel vassoio. Lo sdegno è così forte che si potrebbe toccare con mano, l'uomo spegne la torcia e torna verso la pineta, tutti guardano il vassoio zuppo di piscio.

— Niente, un cazzo nemmeno oggi, come ieri e come prima di ieri.

Le sue parole rimbombano nel silenzio totale, nessuno controbatte.

Mi passa davanti, se non fosse così sporco lo bloccherei.

Perché un uomo che non è pazzo si dovrebbe comportare così? Cosa voleva dimostrare con quella torcia?

Lo vedo rientrare nella pineta, lo seguo, gli urlo di aspettare, ma lui mi ignora. Mi avvicino e una volta dentro la pineta vinco la repulsione, lo afferro per un braccio e lo costringo a fermarsi. Mi rendo conto di aver commesso un errore, dal tono dei suoi bicipiti mi rendo conto che è un uomo prestante, sicuramente molto più forte di me. Lui mi fissa con disgusto e spunta per terra, poi dice: — Lasciami io con i pazzi non ci parlo.

Queste parole sono un pugno nello stomaco.

— Lei non mi conosce, come fa dire che sono pazzo?

Lui sputa di nuovo e risponde: — Prima cosa qua non c'è nessuna lei, seconda cosa lo hai scritto negli occhi, la pazzia ti ha scavato il viso, il dolore sta distruggendo il tuo corpo. I tuoi abiti da signorino possono ingannare le bestie che c'erano prima in piazza, ma non me.

— Perché chiami quelle persone bestie?

— Perché dove non ci sono uomini ci sono animali, io cerco l'uomo, ma non lo trovo. L'uomo non c'è.

— Non hai illuminato me.

Lui scoppia a ridere, dopo aver sputato ed essersi pulito la bocca e dice: — Con i pazzi è come con i bambini, non vale. Ma se ci tieni.

Dopo aver acceso la torcia la luce della lampada inizia a scansionarmi mentre i denti grigi dell'uomo restituiscono qualche piccolo bagliore dovuto al riverbero.

Dal canto mio cerco di non muovermi, mi sforzo di non respirare.

Una domanda rimbalza nella mia testa: — Perché mi sto sottoponendo a questa buffonata? Sono così disperato?

— Nel complesso fai schifo come tutti gli altri...

Sento l'impulso di alzare le mani, ma riesco a trattenermi.

— Ma qua c'è qualcosa che m'interessa...

La luce è ferma sul mio petto, nel punto esatto dal quale il tremore dilaga quando vado in crisi.

— Immagino non ti dispiaccia se me la prendo...

Il suo sorriso è perso in una smorfia così ripugnante che sento il bisogno di scappare via, ma lui me lo impedisce bloccandomi e buttandomi a terra. Ha una forza tremenda, ferale. Io sono disteso a terra con lui che preme le sue ginocchia sul mio torace. A un certo punto le unghie nere di questo pazzo lacerano la mia pelle. Il dolore è così intenso che non riesco neppure a urlare, per fortuna dura poco. La sua mano zozza è intrisa di sangue quando si alza, sangue che mi gocciola addosso fa rumore sordo sulla mia camicia.

— Finalmente qualcosa di interessante.

Io rimango a terra, il sudore mi bagna mentre provo a muovere le braccia. Dopo molto mi alzo, il sangue gocciola macchiando i vestiti che lo assorbono. Poi un botto, mi volto e una pigna per poco non mi cade in testa. La rabbia mi assale, afferro la pigna e la scaravento lontano. Bestemmio, mi agito, urlo. Poi aspetto qualcosa che non arriva, qualcosa che manca. Guardo le mie mani, sono ferme, come tutto il resto del corpo.


(fine)


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Giuseppe Ferraresi


E la chiamano estate


In quel giorno d'agosto la spiaggia appariva la location di un film. Non un filmetto di quelli con i cantanti e le attricette e le "spalle" comiche, Al Bano e Romina, Gianni Morandi, Little Tony, Franco e Ciccio, Nino Taranto… Non questo, bensì qualcosa con Gassman e Jean-Louis Trintignan. Forse per via del solleone che picchiava imperioso rendendo la sabbia bollente sotto i piedi, se ti azzardavi a traversare la distanza dall'ombrellone alla battigia senza sandali. Sullo chalet del lido, qualcuno al Jukebox aveva messo Gino Paoli, il Paoli di "Sapore di Sale", un evergreen ormai in quell'agosto del 1965.

La musica arrivava fino agli ombrelloni in fila "privilegiata", cioè quelli più vicini alla riva. Non dava fastidio a Heiko, pur era abituata ad ascoltare ben altro, soprattutto quegli scandalosi inglesi che minacciavano di scalzare i Beatles dal loro regno fatato, e il menestrello americano, voce della protesta e la contestazione giovanile. Quel giorno particolare poi, sembrava che il suo cervello fosse in pausa. Vedendola, l'avresti detta una studentessa universitaria in relax dopo le fatiche degli esami nella sessione estiva, una delle tante. Spiccavano, forse, i suoi capelli bruni, del colore dell'ala di un corvo, lisci come la seta, portati raccolti in una semplicissima coda di cavallo da ragazzina. Osservandola con attenzione, ti saresti però reso conto che Heiko con era una delle normali ventenni sparpagliate per il lido… E in quel momento non si stava rilassando affatto, bensì cercava di tenere calmo il suo cervello, farne una lavagna sulla quale un bidello avesse passato il cancellino.

Era tutta colpa di quel giorno: il 6 agosto 1965. Cosa avrebbe significato per tutta quella gioventù e anche quelli più grandi, quelli maturi, se lei avesse urlato a pieni polmoni scandendo lo stesso giorno dello stesso mese, ma di una data di venti anni prima? Niente. Per lei invece quel 6 agosto 1945 significava molto. Sua madre del resto era morta intorno a quella data di agosto. No, non a Hiroshima, ma non cambiava tanto: uccisa poco prima della fine della guerra in cui non aveva creduto, e che anzi aveva odiato con tutta sé stessa. Uccisa poco prima di poter avere dalla vita quello a cui aveva diritto. Caduta come un'anti-eroina sui suoi ultimi metri prima del traguardo.

E la rabbia scrisse ideogrammi di fuoco su quella lavagna che Heiko si sforzava di tenere sgombra, pensando solo pensieri anodini. Digrignò i denti in una smorfia feroce. Si alzò di colpo, progettando di recarsi al bar per una birretta. Ci ponzò un attimo su, perché nonostante tutto le sembrava una mossa audace: una signorina al massimo poteva ordinare una coca cola o un "tropical", un cocktail analcolico di menta e latte di mandorla. Però poi scosse le spalle: "Al diavolo, ho venti anni adesso. Posso fare quel che mi pare!".

Così si diresse verso il lido. Prese una Peroni e tornò indietro, all'ombrellone. Si sedette sulla sdraio. Accese una sigaretta.

Passò un bagnino. La vide e scosse la testa: Birra e sigarette: attenta ragazzina…

Il tono condiscendente non contribuì a schiarire l'umore di Heiko: — Sono nata nel '45: sai contare? — replicò ruvida.

Il bagnino alzò le braccia e andò oltre.

"Ecco, l'ho fatto di nuovo." pensò lei" "Sono stata scortese e acida. Finirò come una vecchia zitella, di quelle che borbottano sempre". Però poi digrignò di nuovo i denti. Lo fece perché in un guizzo si rese conto di essere osservata: — Di nuovo… — mormorò sotto voce. Non era irritata, ma nemmeno contenta. Sapeva quale fosse il significato di quegli sguardi: lo aveva appreso da quando aveva tredici anni.

A tredici anni infatti, la maledizione delle donne della sua famiglia materna, aveva iniziato il suo lavoro con lei. Fino a ora, gli sguardi della gente erano stati di discredito, di riprovazione, di ripulsa persino: lei era la pupattola color zafferano, la bambina dagli "occhi storti", la figlia scandalosa di un padre non meno scandaloso e di una madre che sicuramente sarà stata "una poco di buono di quei paesi là". Dai tredici anni, quando era diventata donna, precoce tra le altre della sua età, ancora bambine in cui la femminilità iniziava appena appena a delinearsi, aveva cominciato ad attrarre un altro genere di sguardi. Era uno sguardo di quel tipo che adesso si sentiva sulla pelle.

Si voltò rapida come una volpe che pensa al da farsi. Una volpe delle leggende del paese di sua madre. E ti potevi sbagliare? Sempre lui.

Lui, un bel ragazzo moro, che si allenava da play boy. Un play boy di quelli veri, che non fanno nulla per esserlo ma lo sono, con una specie di grazia, se non vocazione, naturale. La fissava da sotto il suo ombrellone. Ma non era questo, bensì il modo come la fissava: in tralice, sottecchi. Sguardi furtivi, come dovessero rimanere segreti; come non stesse bene esplicitarli, cosa avrebbe detto la gente?

Heiko digrignò di nuovo i denti. Poi la sua natura le mandò un input. Stavolta decise di cogliere il suggerimento e di seguirlo. Sciolse la coda di cavallo, e i suoi capelli neri come l'ala di un corvo e lisci come seta, presero a scenderle lungo le spalle. Non solo: cominciò a fissare ostentatamente il giovane. Lui carpì quegli sguardi, ma vi rispose con occhiate sottecchi. Un gioco di sguardi truccato.

Dopo un po' però lei si stancò. Scrollò le spalle. Si stiracchiò sulla sdraio. Raccolse il libro che aveva con sé, e si immerse nella lettura. Quasi subito però si bloccò e alzò la testa, percependo un'ombra accanto a lei.

— Ciao! — fece il ragazzo alto e moro. L'accento meridionale ne aumentava il fascino.

Heiko arrossì all'istante. — C… ciao. — balbettò.

Lo sapeva, lo sapeva: si metteva sempre nei guai. E adesso in che modo ne veniva fuori? Accidenti ma come le era balzato in testa di mettersi a fare la civetta?

Però poi con la coda dell'occhio notò tre o quattro ragazze: guardavano nella sua direzione. Sferrò un'occhiata al giovane moro che sembrava presa da uno di quei film di Sergio Leone con quell'americano biondo che lei vedeva al cinema d'essai, un localino incassato tra due palazzotti in una strada secondaria della sua città.

Lui scosse la testa. — Non è come pensi — si affrettò a dire.

L'occhiata di lei conservò la stessa intensità. — E secondo te come penso che sia? — disse.

Lui mise le mani in avanti, con i palmi rivolti verso l'esterno. — Non ti stiamo prendendo in giro — fece.

— Ah, no? — replicò lei.

Il ragazzo annuì, forse non sapendo nemmeno bene a cosa annuisse. — Senti, lascia stare quelle: non c'entrano… Invece io… diciamo che vorrei spiegarti…

— Vorresti spiegarmi cosa? Cosa ci sarebbe da spiegare? La sfigata che si fa delle illusioni; o peggio, la sfacciata che ci prova convinta di essere Brigitte Bardot… Ovviamente ti fa piacere, no? Però c'è un però. Un però grosso come un grattacielo… C'è o non c'è questo però?

Colto alla sprovvista lui si trovò sprovvisto di parole.

Heiko annuì. — Oh si che c'è questo però. Mica sta bene far vedere di essere interessato a una ragazza… Ovviamente non a una ragazza qualunque, ma a questa ragazza — si indicò con vemenza, si fece anche un po' male piantandosi quasi il pollice nello sterno.

Lui tentò di negare. — Ma no, non è così.

Anche Heiko scosse la testa. — Invece è proprio così — mormorò.

— Ti sei offesa — disse lui. Sembrava davvero rammaricato.

— Il punto non è offendersi — continuò lei. — Bensì constatare la realtà. La mia, la tua realtà. Rispondimi sinceramente: ti faresti vedere in giro con me? Mi porteresti ovunque ci sia gente a guardarci? — e con la testa fece segno di "no". — Ma se anche ora ti senti a disagio sotto gli occhi di tutti…

— No, non è così, è…

— La colpa è della gente? Di quelli che guardano? Non dico di no: la gente giudica. E allora sentiamo: come affronteresti tu il giudizio della gente? Non l'affronteresti. Non vuoi affrontarlo. Non daresti a loro tutto il torto. Non glielo dai. Ti vergogni di te stesso, invece. Perciò continua a girare dietro le ragazze italiane e lasciami in pace. Non sei quello che cerco, né sono io quella adatta a te.

Avrebbe voluto aggiungere "solo non guardarmi più" ma le sembrò eccessivo: la sua solita cortesia.

E il ragazzo replicò col silenzio. Un lungo silenzio. I secondi si dilatavano imbarazzanti. Alla fine si allontanò a testa bassa, senza voltarsi dietro. Heiko lo vide rimpicciolire, come un ricordo del passato. Bé, c'era da dire che almeno non le aveva promesso mari e monti sapendo di non poterli mantenere.

Ma lei avvertì la solita cosa strisciarle addosso. Non era proprio terrore, ma di certo nulla di gradevole. Quella cosa che le faceva compagnia da una vita, ormai.

Chiuse gli occhi per un attimo. Quando li riaprì si ritrovò ancora su quella spiaggia, non in un posto che potesse chiamare casa. E la spiaggia era ancora affollata e assolata. Non era cambiato niente; non poteva cambiare niente.

Accese una sigaretta. Fissò quella spiaggia con tutto ciò che conteneva. — Non posso farci niente se non sono come voi — disse a sé stessa. — Io sono Heiko. Heiko e basta.

Bevve un sorso di birra a canna. Ormai era diventata calda.


(fine)


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Ishramit


Epimeteo liberato


— Datti una mossa, fratello!

Alzò gli occhi al cielo. Il picco aguzzo della montagna si stagliava verso le sfere serene. L'aquila si assentò dal suo pasto, spargendo gocce di fuoco sulle rocce. Planava tranquilla e fiera.

— Fratello!

A che stava pensando? Tra le rocce cercava qualcosa per… Ma non riusciva a figurarselo. I ciuffi di arbusti spinosi sarebbero stati un buon cibo per la capra, a cui aveva dato la tigna e zampe agili e tenaci.

— Fratello, tirami giù!

Allungò un braccio verso le corde lontane. L'aquila stridette: era proprio maestosa nel cielo, che buon uso faceva dei doni che le aveva affidato! Mai un volo tanto sublime fu altrettanto meritato!

— Zio, cosa fai? Aiutami a salire!

Il piccolo Deucalione aveva gli occhi piegati di rabbia, le guance rigate, il vestito di pelle tutto sgualcito, le mani ferite e sporche di terra. Sputò e provò ad arrampicarsi di nuovo sulla parete quasi liscia.

Quelle mani! Era proprio come suo padre, che artista sarebbe diventato! La terra sarebbe stata sua amica, così docile per quelle dita! E Gaia gli avrebbe dato tanti figli: sì, uno così un giorno avrebbe potuto far fiorire la vita dalle rocce!

L'aquila scese in picchiata, si posò sul suo braccio. Gli artigli lo pizzicavano, lui sorrideva scrutando negli occhi fieri. Pulì con le dita il becco sanguinoso: che compito ingrato per un così nobile uccello!

— Fratello, svegliati! Devi liberarmi dal mio tormento, non coccolarlo!

L'aquila stridette e risalì con ampi cerchi verso il suo pasto. Deucalione, incredulo, gridò:

— Zio!

E perse l'equilibrio, rotolò a terra e le rocce gli graffiarono tutta la faccia.

Gli tese una mano, quello la colpì.

— Non voglio niente da te! Non servi a niente! È tutta colpa tua se mio padre è legato lassù!

L'aquila straziava il fegato di suo fratello. Il carro di Elio, glorioso, era un fuoco tanto più grande di quello per cui si versavano tante lacrime su tutta la Terra.

Il pianto dirotto del fanciullo lo distrasse dai suoi pensieri.

— Papà, come farò senza di te? Tuo fratello non ci può salvare! Verranno i fulmini, verranno le belve, saremo preda di tutti! Spegneranno il nostro fuoco! — Prese una pietra e con rabbia se la lanciò alle spalle.

A cosa stava pensando? Ah già, doveva fare come gli aveva detto… Chi avrebbe potuto aiutarlo? Non l'aquila di certo, anche se… Certo, aveva fatto proprio bene a dare all'elefante quella grande mole, nessuno gli avrebbe fatto del male.

— Dé-dé piagge?

La piccola Pyrra… Il suo volto era più luminoso del sole, più bello di quello di sua madre. Camminava malferma sui piedini nudi, sull'erbetta dolce. La pelle candida del corpo tutto nudo la faceva sembrare una perla preziosa ritrovata all'improvviso in mezzo a un campo; le ciocche libere al vento un'aurora dorata.

— Papà, Dé-dé piagge…

Lo prese per mano, tenendo stretta nell'altra il suo prezioso vasetto. Lo portò vicino a Deucalione.

— Dé-dé, pecché piaggi?

Deucalione non rispondeva: aveva smesso di piangere. Già le mani polverose afferravano le braccia tenere, e baciandola picchiettò le gote già rosse col sangue delle sue labbra. Subito la pulì come poteva, poi provò a pulire il fango che le aveva lasciato addosso nel tentativo. Lei ridacchiava, a sua volta gli puliva la faccia dalle lacrime con la mano libera.

La bimba alzò quindi la testa, un lacrimone le fece brillare l'occhio.

— Tìo male…

Guardò di nuovo Deucalione e sorrise, poi agitò in aria il vasetto.

— Male passa! Tìo gioca ancora! Dé-dé no piagge, apetta tìo, tato tonna!

Deucalione la strinse forte, e baciò la manina che stringeva il vasetto prezioso.

— Fratello, mi senti? — gridò lui, finalmente — Guarda come sono belli, non mi pento di niente! Nudi e scalzi ammutoliscono anche gli dèi, potevi pensare a un dono come questo? Stringi i denti, sii paziente, scenderai nella giusta stagione. Questa volta non seguirò il tuo consiglio: tocca a me pensare!

— Fratello, così mi tradisci? È l'ennesimo inganno di Zeus! È pericolosa come sua madre!

— Tìo, guadda! — Pyrra scoppiò a ridere, mentre agitava entrambe le braccia verso il cielo. L'aquila stridette, facendole eco, planò in basso, fece un giro sulla testa dei due bambini e volò via lontano.

Pyrra batteva le mani sul vasetto e rideva. Anche Deucalione rideva, e persino il volto di Prometeo si addolcì.

— Non è un inganno, è un dono! Aspetta e vedrai cosa faranno questi marmocchi: li terrò lontani dalla fretta, e con calma raccoglieranno insieme i mali che abbiamo seminato.

— Aspetterò… fratello. Ma allora vattene di qui, e pensa a loro. Possono rimanere scalzi e nudi solo finché a coprirli sarà l'ombra di un titano.


(fine)


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Roberto Di Lauro


Alfio e... Annarita


Alfio vive in un lussuoso appartamento, abbastanza ampio con cinque stanze più accessori e un'ampia terrazza. Gli fu regalato in occasione del suo matrimonio, dalla sua famiglia. Poi il matrimonio è naufragato, per colpe non sue, e se lo è tenuto, iniziando una vita da divorziato.

Il posto ideale per il suo relax sarebbe il piccolo studio, ricavato nella stanza con esposizione nord e con vista sulla collina. È un posto fresco, lontano dall'arsura estiva delle altre stanze, affacciate sul lato sud.

Nonostante questo comodo appartamento, il luogo dove si sente a casa è un locale privé, molto riservato, sul lungomare della città. Qui può avere la compagnia femminile e un amico barista con cui chiacchierare. Ma ciò che veramente lo porta in quel locale, è la sensazione di non dover rispettare certi canoni sociali per essere sé stesso. Può essere libero come e quanto vuole.


In un pomeriggio assolato, dopo il lavoro presso l'Agenzia giornalistica, Alfio si reca nel suo locale.

— Luigi, ti ricordi la mia amica universitaria Annarita? La feci venire qui, in questo locale per un appuntamento.

— Chi? A sì… quella castana. Carina! Ma perché ne parli?

— È un po' che ci penso. Mi ritorna in mente sempre più spesso in questo periodo, e non capisco il perché.

— Accidenti! Il nostro stallone s'è innamorato! — dice Luigi, sottolineando con un tono di voce scherzoso l'ultima parola.

— Non sfottere! E se pure fosse, sarebbe un bel passo in avanti per me.

— Non ti fissare, non la vedrai più. Chissà dov'è ora. — replica Luigi.

— L'ho sentita tempo fa, e mi ha detto che viveva in Spagna, su di un'isola, ma non ricordo quale. — dice con amarezza Alfio.

— Non la pensare. Su, dimmi cosa ti posso preparare, cosa vuoi bere?

— Dammi un Martini bianco "On the rocks". — dice Alfio, sedendosi sullo sgabello vicino al bancone.

— Eccoti servito. Oh guarda chi è entrata. Una bella panterona nera. Ti piace?

— Sei sempre il solito porcone, Luigi. Devo cercare di risalire a quella discussione. Devo capire qual è quell'isola.

— Ancora? Non ci pensare più! Ascolta me e guardati in giro. Guarda quante signore ci sono da conoscere, guardati le new entry del locale.

— Sinceramente, in questo momento, avrei bisogno di donne con cui parlare, non fare sesso. A te non capita mai di aver bisogno di dialogare con una donna, senza la necessità impellente di metterle le mani addosso?

— Certo, nel nostro club ci sono signore laureate. Quando sono libere, e vogliono avere una discussione acculturata, io sono qui. — risponde Luigi con tono giocoso.

— Non sfottere! Queste donne del club sono buone solo per una cosa, e tu lo sai. — dice Alfio con un tono serioso.

— Scusa, Alfio, ma la tua Annarita, rispetto alle nostre belle donne, cos'ha di speciale?

— È intelligente, ci puoi parlare quanto vuoi, e se parla lei c'è da imparare, tanto è brava nella sua materia (Ingegneria). Ho saputo, tempo fa, che si è realizzata nel suo lavoro. È diventata un'ingegnera di ottimo livello, usando la sua preparazione universitaria prima e la pratica sul campo poi. — dice Alfio con un velo di malinconia.

— Comprendo. Oh! Guarda! Bionda in arrivo a ore sei. Bionda in arrivo a ore sei. In avvicinamento! — ripete Luigi con tono gioviale.

— Alfio, infastidito da Luigi, sbotta a voce alta, e tenendo in mano il bicchiere, si gira di scatto, e inavvertitamente, bagna il petto della bionda dietro di lui.

La signora rimane ferma e impassibile, con occhi stupiti.

Alfio abbozza delle scuse, ma la signora, dopo essersi ricomposta, si ritira in un altro lato del locale.

— Bravo Alfio, e questa l'hai persa. Ci potevi parlare, quattro chiacchiere e via negli appartamenti.

— Era buona solo per essere ……

— Hey amico! Cosa dici?! Ti vedo male, molto male. Non avrai qualche metamorfosi da qualche parte? — dice Luigi con un tono scherzoso. E poi prosegue: — A parte gli scherzi, Alfio, ma nel nostro club, oltre a una quota di donnine, che tu conosci bene, e non ti nascondere dietro quel bicchiere, ci sono anche donne laureande, donne istruite che non hanno niente in meno alla tua Annarita. Quindi non buttare giù il nostro ambiente, perché tu in questo ambiente ti ci trovi bene, giusto?

— Diciamo che mi sono trovato bene, soprattutto nel periodo post divorzio. Ma se domani mattina, dovessi fare una scelta, di quelle che ti cambiano la vita, e dovessi scegliere tra Annarita e questo locale, secondo te cosa farei?

— Per me tu verresti qui, un cocktail e via con una cougar, in uno dei nostri mini appartamenti, qui dietro il locale. Ti conosco, amico. — risponde Luigi strizzandogli l'occhio.

Alfio ripresosi dopo il suo Martini, si alza dallo sgabello ed esce sulla terrazza vista mare. Vi sosta un po', giusto il tempo di inspirare quell'aria di mare e rilassarsi. Prima di andare via, da una grossa mancia al suo amico Luigi.

— Ci vediamo, Luigi. E mi raccomando, tieni alto l'onore di questo locale.

Luigi capisce che qualcosa è cambiato, e replica: — fa attenzione, Alfio. Su quella strada è facile perdersi. Troppi errori per troppa gente.

Alfio chiude il discorso: — per me non sarà così. Ho in programma un cambiamento per il mio lavoro, e sarà definitivo. Fatto quello, sarò in grado di dare stabilità anche alla mia vita privata.

— La cosa si fa seria. — replica Luigi con un tono non più scherzoso.

— E come farai con l'agenzia?

— Me ne creo una io, non so se qui o all'estero. Andrebbe bene in Spagna, per esempio. Per ora, devo andare.

Luigi, ormai, perse le speranze di convincere Alfio a cambiare idea, lo saluta in spagnolo: — Yo entendí todo. Saludos, amigo. Y si tienes problemas, si quieres hablar con alguien, llámame.


(fine)


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Xarabass


È tutta colpa vostra


Jenna è seduta al tavolo della pasticceria. Indossa un vestito rosso attillato, capelli biondi cortissimi e lineamenti tipici di persone frutto di incroci fra varie etnie. Ammira la fantastica veduta che da sul lago e sui monti innevati. Una leggerissima frescura preannuncia l'arrivo dell'autunno.

Il suo ospite è in ritardo. Ordina una brioche e un cappuccino. Osserva la barca a vela che placidamente avanza beccheggiando. C'è pace e tranquillità. È in attesa di ricevere il benestare di tutte le unità di terra prima di dare inizio all'operazione. "È una giornata splendida, se solo oggi non dovesse morire così tanta gente." pensa.

Arriva il suo ospite: un uomo, alto due metri, volto sorridente e una t-shirt bianca che inneggia all'invasione aliena: Alien saves the Earth. Please! (Alieno salva la Terra. Ti prego!)

La donna, un'aliena del pianeta Alters, si mette a ridere: — Mi raccomando: l'incontro deve rimanere segreto! Non era così che ti avevo detto?

Marc, serissimo, si siede al tavolo, non prima di essersi guardato in giro. Fissa per un attimo il volto di Jenna, l'extraterrestre, e risponde a bassa voce: — Come insegnano tutti i racconti gialli bisogna mettersi in vista per nascondersi.

E cercando con lo sguardo la cameriera, pone una domanda sarcastica: — Se io gridassi a tutti i presenti che tu sei un'aliena mi crederebbero?

Jenna, alquando innervosita: — Sei proprio un idiota.

— Ora ti faccio vedere — Marc sfida l'amica chiamando la cameriera con uno sguardo:

una ragazzina piena di tatuaggi tribali e uno strano orecchino viola che parte dal lobo sinistro e arriva al naso.

L'inserviente, si accorge dell'uomo e si dirige verso il tavolo e come da protocollo chiede le ordinazioni: — Buongiorno, cosa le posso portare?

— Buongiorno signorina, vorrei un cappuccino e una brioche alla crema.

Facendo una pantomima da smemorato, rincara: — Ah, la mia amica, un'aliena di Alters, vorrebbe una spremuta di arance — e continuando a prendere in giro l'amica e la cameriera: — Oggi è un po' acida, potrebbe portarle anche due bustine di zucchero?

La cameriera guarda entrambi stizzita e scrive l'ordinazione sul suo IPad e se ne va senza proferire una sola parola: — Guarda te che gente rompiscatole; e pensano di essere divertenti…. — Si volta verso la collega che la scruta in modo interrogativo e con un cenno collaudato da anni di lavoro insieme risponde con un'alzata di spalle: — Degli idioti!

Appena la cameriera si allontana, Marc estrae la pistola, o meglio l'arma laser donatagli dagli extraterrestri e l'appoggia sul tavolino.

Jenna, arrabbiata e ringhiante, gli prende la mano e gli intima violentemente: — Metti via quella cosa. Imbecille.

Marc, con un espressione tesa e attenta, risponde sottovoce: — Ci hanno appena denunciati alla polizia, mi preparo a difenderci contro la squadra speciale.

Jenna sputa in faccia a Marc.

— Per fortuna che questo è un vostro gesto per disapprovare un comportamento, altrimenti mi sarei offeso pesantemente. E scoppia a ridere pulendosi il volto.

Lo scherzo è andato oltre, Marc mette ripone la pistola nella custodia posta sul polpaggio sinistro e comincia a osservare il lago.

— OK, basta. Ciao. Come stai?

— Bene. Non smetterei mai di bere i cappuccini.

L'aliena sembra essersi calmata e l'uomo comincia a pentirsi della maglietta: "Un'entrata eccessivamente teatrale." pensa.

I due rimango in silenzio a guardare la barca che armeggia la piccola vela per cambiare direzione.

Marc, sorridendo, comincia il discorso che non vorrebbe sentire; tutta la sua spavalderia sta scomparendo: — Quindi la cosa si farà? Nessun ripensamento?

La voce calma e risoluta della donna conferma: — Sì, nessun ripensamento. Siamo qui per questo.

Jenna ripete il discorso che per giorni e giorni ha dovuto far ingoiare a Marc: — La terra è un bene raro, ed è un patrimonio di tutti i popoli dello spazio. Voi la state distruggendo.

Marc le si avvicina al volto e cerca di convincerla per l'ennesima volta: — La terra è nostra, non potete cacciarci.

Jenna vede che sta arrivando la cameriera con l'ordinazione e cerca di concludere velocemente il discorso: — Siamo miliardi di esseri là fuori e i pianeti abitabili sono pochi… e voi lo state distruggendo.

È una conversazione fatta e rifatta migliaia di volte e il finale è sempre lo stesso. Nessuno cambia la sua posizione.

— Marc, il Sole fra soli due miliardi di anni diventerà una gigante rossa e distruggerà la terra, non abbiamo molto tempo. Dobbiamo riattivare la sua linfa vitale, dobbiamo ricostruirla. È per il bene di tutti.

Marc si appoggia alla sedia in segno di resa e guardandosi intorno come se fosse un ultimo sguardo alla vita presente, aggredisce Jenna: — E voi pensate che sia semplice evacuare otto miliardi di terrestri?

L'aliena è stanca di questo rimestare in discorsi già fatti: — Possiamo farlo e lo faremo. I problemi verranno da quelle persone che non capiranno che facciamo sul serio, quelle moriranno, ma per una loro scelta.

— E come le convincerete ad andarsene da casa loro?

— Questa è la parte facile, faremo scoppiare potenti ordigni scatenare terremoti, poi ci presenteremo come dei salvatori e porteremo in salvo le persone su altri pianeti.

Fidati: salveremo oltre 5 miliardi di persone e ridaremo vita alla Terra.

Marc è sconvolto e senza parole: — 3 miliardi di morti, è questo che mi stai dicendo?

Jenna prova ad assaggiare la spremuta con lo zucchero senza proferire parola.

— E dove porterete i sopravvissuti?

— Ovunque vorranno nello spazio.

Senza guardare l'amico negli occhi: — Sicuramente all'inizio si isoleranno tutti insieme, ma poi cominceranno a scoprire la vita su altri pianeti, e ti garantisco che è uno spettacolo da conoscere.

Marc vorrebbe togliersi la maglietta per gettarla nel lago e sputare in faccia a Jenna in segno di disapprovazione, ma lui è un umano e queste cose sulla terra non si fanno.

In tono alterato: — E ora l'ultima domanda a cui tu non hai mai risposto: cosa c'entro io in tutto questo? Perché voi alieni mi avete contattato? Perché tu mi stai raccontando tutto il piano?

Jenna estrae dalla borsetta rossa un kit per l'analisi del sangue e fa il test su sé stessa; appaiono tre righe blu e girandolo verso l'amico: — Sono i mark per riconoscere gli Altersiani.

Sotto gli occhi di Marc, mette altro liquido nello slot della siringa e, con un gesto improvviso, buca il braccio di Marc. Anche i questo caso i 3 mark blu.

— Marc, tu sei uno di noi, sono venuta per portarti a casa.

L'uomo, l'alieno in preda al panico: — Che cosa stai dicendo? Non è vero!

— Marc, guarda tu stesso!

— No, non è vero!

— Sì, è vero.

Jenna cessa la discussione e guarda le nuvole nel cielo: — Sembra una pecora, non credi?

Marc incredulo: — Perché me lo dici solo ora? Perché nessuno me lo ha mai detto? E perché sono sulla terra?

— Troppe domande e poco tempo, Marc. Ci sono centinaia di altarsiani dormienti su questa terra; siete stati mandati per prendere informazioni e per preparare il terreno a questa operazione. Anche se inconsapevolmente, siete stati di fondamentale importanza per l'operazione. Marc è bloccato tra lo stupore e una pazza sensazione di riversarle addosso tutti i più violenti epiteti che conosce.

Chiude gli occhi e fa tre profondi respiri. La sua mente non accetta la nuova realtà: — Se io prendessi la tua siringa e la usassi su quella cameriera, siamo sicuri che il risultato siano i 3 mark blu. Per quanto ne so, potrebbe essere tutto falso. Magari mi stai prendendo in giro, non so per quale motivo, ma ne sono quasi certo.

La donna è pronta a questa arringa accusatoria: — Tu non sei terrestre, puoi credere quello che vuoi, ma non sei terrestre.

Sorridendogli: — Lo hai capito appena ci siamo incontrati giorni fa. Ti sarai chiesto perché gli extraterresti volevano parlare proprio con te? Non sei il Presidente o il Papa, tutto sommato non sei nulla su questo pianeta.

Ora è Jenna che sta prendendo in giro l'amico: — Quale poteva essere l'unico motivo di venire a bussare alla tua porta?

Marc nel suo profondo sa che è vero, ma è dannatamente difficile da accettare: — Per convincermi dovrai darmi una prova più convincente di tre linee blu.

La donna gli prende tutte e due le mani e gli dice: — Ora concentrati e desiderami con tutto il tuo essere. Marc, in uno stato emotivo alquanto scombussolato per le notizie della giornata, sta al gioco e comincia a desiderarla fisicamente. Una violenta emozione sessuale pervade ogni suo essere, come se le sensazione di un rapporto sessuale arrivassero tutte insieme.

Si stacca dall'amica anche lei visibilmente eccitata. Marc, sconvolto, si guarda intorno per vedere se qualcuno li avesse notati. Non capisce più nulla. Piacere, panico, eccitazione e terrore, tutto insieme: il suo cuore sta per esplodere.

Jenna si riprende molto più velocemente di lui: — Allora che mi dici? Sei umano o altersiano?

Marc non ha la risposta! Non sa a cosa credere.

Jenna, facendo l'occhiolino all'amico sconvolto: — Vuoi un'altra prova o ti basta? Nel caso è meglio andare in posto al chiuso, la situazione potrebbe divenire imbarazzante, per te!

Marc: — Aspetta! Devo capire, devo pensare!

Jenna sorridendo: — Noi lo consideriamo una sorta di primo bacio.

L'uomo irritato: — Smettila, fammi pensare!

I due si zittiscono e non si guardano per una decina di minuti.

— Marc?

— Sì? Va tutto bene.

Ormai sconfitto cerca di ristabilire un dialogo con la donna: — E ora cosa dovrei fare? Venire via con te?

— No, dovrai contattare tutti gli altri infiltrati e spingere i terrestri ad abbandonare la terra.

Questa è un'altra notizia sconvolgente che gli finisce dritta nello stomaco come un pugno: — Ce ne sono degli altri?

— Su tutto il pianeta ce ne sono circa un centinaio, tu sei stato l'ultimo a essere stato contattato.

La confusione per Marc non ha ancora fine: — un centinaio…

— Sì!

L'uomo cerca di combattere il suo disagio con del sarcasmo: — E noi della quinta colonna sulla terra cosa dovremmo fare per il nostro pianeta Alters? Uccidere presidenti? Sovvertire i sistemi economici? — e ridendo istericamente: — Ti ricordo che io faccio il cassiere in un supermercato, non posso andare dal Presiedente del Governo e dirgli: "scusi dovete evacuare la Terra, dobbiamo rizollarla"! Non arriverei neppure al suo ufficio.

Jenna, non sopporta questi piagnistei: — Tu non fai parte di nessuna quinta colonna o forsa di invasione, ci sei servito per prendere informazioni su questo pianeta. In tutti questi anni ci hai trasmesso inconsapevolmente delle informazioni vitali.

Marc: — Oh fantastico ora mi avete spiato fin dalla nascita! Mi avete infilato telecamere e microfoni nel corpo? Lavorava per Alters news e non lo sapevo.

Jenna: — e smettila di fare l'idiota!

La donna aliena beve lentamente il suo cappuccino, lo gusta, un ultimo sguardo verso l'orizzonte del lago e poi si alza: — Marc, la scelta è tua puoi venire via con me ora, o fra qualche giorno con le astronavi di soccorso.

La donna non attende una risposta, la conosce già. Si alza in attesa di un suo gesto.

Marc: — Va a quel paese, io sono un terrestre! Io sono un terrestre! Rimango con la mia gente.

L'aliena, abbandona l'amico e si avvia verso la navicella occultata che galleggia sull'acqua. Sale a bordo senza preoccuparsi di eventuali testimoni. Accende i motori e prende la rotta per l'astronave madre.

Ripensa al suo cappuccino che ha appena bevuto, si passa la lingua sulle labbra per cercare qualche goccia rimasta: trovata! È una dolce sensazione.

Attracca.

Marc paga e si alza. Non sa dove andare, non crede alle parole appena sentite, ma crede che arriveranno gli alieni, che uccideranno gli abitanti per rivitalizzare la terra.

Si toglie la maglietta e la getta nel lago tra la disapprovazione dei passanti: — È tutta colpa vostra, maledetti imbecilli! — urla a squarciagola con la bava alla bocca.

L'aliena sul ponte di comando:—Date inizio all'operazione.


(fine)


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Nunzio Campanelli


Nahtaivel


Il vento di ponente aveva soffiato per tutta la settimana, rinforzando quella notte. Incuneandosi tra le colline trovava sbocco sui crinali divergenti che confluivano a valle, piegando le cime degli alti cipressi e spazzando i tetti delle case, penetrando nei comignoli fino a giungere sotto forma di flebile soffio dentro le abitazioni. Una leggenda ricordata malvolentieri dalla gente del posto collegava il Garbino, vento sud-occidentale che più volte in passato aveva disseccato il raccolto, con le piaghe bibliche.

Mary si svegliò all'alba come suo solito, e rimase sotto le coperte indugiando un poco prima di alzarsi dal letto. La gamba che stava pian piano spostando alla sua destra avanzava senza trovare ostacoli, segnalandole che l'altra metà del letto era vuota. "Strano" pensò, conoscendo la refrattarietà del marito alle levatacce. Una variazione dell'intensità della luce attirò il suo sguardo verso la finestra. Vide Sandro muoversi dietro la tenda.

— Buongiorno, amore! Che fai?

Sandro continuava a scrutare il panorama in silenzio.

— C'è qualcuno?

— S'è alzato il vento.

Mary scostò la tenda con una mano e gli mise una coperta sulle spalle, abbracciandolo. Guardò anche lei fuori. L'inverno si era impossessato dei colori, lasciando solo il grigio che univa il cielo alla terra. Raffiche di vento percorrevano veloci l'orizzonte, trasportando con sé foglie, fili d'erba e rami spezzati che andavano a impigliarsi sulla rete del recinto. Sentì che rabbrividiva.

— Senti ancora freddo?

Sandro continuava a guardare fuori, senza rispondere. Lei lo guardò fisso negli occhi, cercando quel blu profondo in cui amava perdersi. Trovò solo il grigio della cenere di un fuoco ormai spento.

— Vieni, andiamo di sotto. Accendiamo il caminetto.

— Guarda.

— Lascia perdere ti dico. Fuori non c'è niente da vedere. Su, andiamo.

— Guarda, ti dico!

Capì che era inutile insistere e rivolse lo sguardo nella direzione indicata dal marito.

— Non vedo niente. Sandro, per favore...

Le si avvicinò con il viso fino ad appoggiarlo di fianco al suo, poi tendendo la mano puntò il dito verso il cielo.

— Là.

Mary avvertì il ruvido contatto con la sua guancia non rasata e la forte stretta del braccio con cui le aveva cinto la vita. Inalò il suo profumo mentre ne ascoltava la voce tornata forte e sicura.

Fu allora che vide quella cosa. Un punto nero si muoveva nel cielo sopra le colline, dirigendosi dapprima verso l'alto procedendo poi con lunghe picchiate verso terra. Pensò fosse un rapace.

— Un'aquila?

— No.

— E allora cosa?

Sandro restò in silenzio. Lei provò a scostarlo dalla finestra senza riuscirci. Lo conosceva bene e non lo aveva mai visto comportarsi così.

— Dimmi qualcosa, per favore.

Lo vide appoggiarsi al davanzale, chinare la testa e restare fermo in quella posizione, senza emettere una parola. Dopo una porzione di tempo che le parve interminabile, notò dei sussulti scuotere le sue spalle. Si avvicinò impaurita per capire che cosa stesse succedendo al suo uomo. Stava piangendo. Poggiò la sua mano sulla testa, e cominciò ad accarezzarlo.

— Sandro, io...

— Mary, devo parlarti.

— Eccomi.

— Io so che cos'è quella... cosa là fuori.

— È per questo che stai piangendo?

— Sì.

Mary sentì improvvisamente freddo. Lui le prese la mano.

— Avevo quindici anni quando la vidi per la prima volta. Anche allora soffiava il vento di ponente, che aveva fatto dei danni sulla copertura del magazzino. Papà volle andare a controllare e io lo seguii. Lui era salito sul tetto, anche se il vento tirava ancora forte; io restai a terra. La luce d'improvviso s'abbassò e vidi mio padre che fissava impietrito il cielo dietro di me. Il suo volto era contratto, gli occhi spalancati, le mani protese in avanti come per proteggersi da qualcuno o da qualcosa. D'un tratto gli fu sopra e lo portò via con sé. Ero paralizzato dal terrore. Quella fu l'ultima volta che vidi mio padre.

Mary aveva ascoltato in silenzio e quando ebbe termine il racconto restò immobile a guardare in faccia il suo uomo. Poi si scosse, e con un filo di voce gli chiese.

— È quella cosa che vola là fuori che si portò via tuo padre?

— Sì.

— Che cosa è, per l'amor di Dio?

Sandro si avvicinò alla finestra indicando fuori con un dito.

— Nahtaivel! L'inferno errante.

La scena che si mostrò ai suoi occhi ebbe il potere di farla vacillare, obbligandola a cercare un appiglio per restare in piedi.

Immobile in mezzo al cielo, a poca distanza dalla casa, vi era un essere infernale. Mary si rese conto che non esistevano aggettivi per rendere appieno il terrore e il disgusto che stava provando mentre lo guardava.

Due ali gigantesche sostenevano nell'aria la bestia chiamata Nahtaivel, il cui corpo era composto da quelli putrefatti di innumerevoli esseri umani. Un infernale, abominevole puzzle formato da centinaia di braccia, gambe e teste che si agitavano senza sosta. Quel brulicare interminabile, unito al coro di lamenti strazianti che proveniva dalle gole di quei poveri disgraziati, era più di quanto una persona potesse sopportare senza sfociare nell'irrazionalità. La visione si completò quando l'essere volante abbassò la testa per guardare verso di lei con occhi di una ferocia inaudita.

La misura si colmò, le forze vennero meno e riuscendo a fatica a raggiungere il letto si adagiò perdendo i sensi.

Mary aprì gli occhi cercando di capire dove si trovasse, poi improvviso il ricordo la costrinse a emettere un grido. Sandro si svegliò di soprassalto, e vedendo la moglie spaventata a morte le afferrò le mani tirandola a sé stringendola in un lungo abbraccio. Non volle parlare dell'incubo per non dover ripensare a quella bestia. Poco dopo si alzò dal letto per andare di sotto. Voleva accendere il caminetto. Non era ancora giunta di sotto che Sandro la chiamò. Poco dopo apparve in cima alle scale.

— Meglio di no. S'è alzato il vento di ponente.


(fine)


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