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E
Andr60
Lodovico
Namio Intile
Athosg
Marino Maiorino
Yakamoz
Alessandro Mazzi
Alberto Marcolli
Marirosa
Laura Traverso
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presenta


LA CANTAUTRICE CALVA

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale di primavera 2024


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Ebook della Gara letteraria stagionale di primavera 2024


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: "Lesbian Sex Corset", di dreamstime.com.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.

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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Andr60

(vincitore della Gara di primavera, 2024)


La cantautrice calva


1.

Non riusciva a stare ferma, era troppo nervosa. Avanti e indietro, una, due, tre volte. E poi ancora, e ancora.

— Ti dispiacerebbe rimanere là, dove c'è quel segno per terra? — fece Milton, l'aiuto regista, visibilmente infastidito.

— Okay, scusa, ci provo. — Il tipo non lo sapeva (o forse sì) ma quello era stato il sogno di Rosy fin da bambina, da quando aveva visto i talent in TV per la prima volta.

Ricordava ancora le espressioni spaurite di Omar Zanni, di Katarro, di Black Devil quando si erano presentati davanti al pubblico per la prima volta, ed erano diventati in un battibaleno delle star, acclamate e ammirate da tutti, lei compresa.

Ora sarebbe stato il suo turno? Rosy ci sperava, aveva preparato il suo pezzo con cura e meticolosità, due caratteristiche che secondo sua madre non le appartenevano. Bene, Rosy l'avrebbe fatta ricredere e finalmente la madre non l'avrebbe trattata come una buona a nulla, sempre a paragonarla con la sorella maggiore, l'avvocata.

— È il tuo turno, vai! — disse Milton, con quella vocina che la faceva tanto ridere.

Entrò sul palco con ancora il sorriso stampato, e fu subito gelata da una voce molto diversa: fredda, quasi metallica, senza il minimo accenno di empatia: — Cuor felice, il ciel t'aiuta. Qui però facciamo le cose sul serio: come ti chiami e cosa ci presenti? — Due ipsilon, al secolo Yttrio Ytterbi, badava al sodo. Del resto, non era da dieci anni il Giudice Supremo de "La Voce" per caso.

Riacquistando una maschera d'impassibilità, adeguata all'importanza dell'occasione, la ragazza rispose: — Rosy Poustolah, ho preparato una cover da una nota canzone di Mumbai.

— Bene, sentiamo. — Yttrio guardò anche gli altri giurati, per controllare che fossero pronti e non intenti a futili chiacchiere, come al solito.

Rosy chiamò a raccolta tutte le sue qualità canore e iniziò, facendo ondeggiare la sua lunga chioma corvina: — Mazzo/mazzo/mazzo, tu sei lazzo/lazzo/lazzo, con questo andazzo/andazzo/andazzo io ti spiazzo/spiazzo/spiazzo…

Al termine dell'interpretazione, in un silenzio tombale, Due ipsilon sentenziò: — La canzone Masso Lasso è una delle più famose di Mumbai, però la tua performance non mi sembra granché come originalità, inoltre il tuo timbro non è adatto, è fuori registro. Ti sei sforzata nell'elaborazione del testo, e questo noi lo apprezziamo — disse, facendo un cenno d'intesa anche agli altri giurati, che annuirono — però non è sufficiente, per me è no. Voi, come vi pronunciate?

Il giudice alla destra di Yttrio, con un'espressione triste, disse: — Mi duole, ma sono d'accordo. Ritenta la prossima volta, Rosy.

La giudice a sinistra invece, con un'espressione alquanto contrariata, sbottò in un deciso diniego: — Mi spiace, ma questa è la più brutta esibizione della serata, nonostante l'impegno. Secondo me, cara Rosy, non sei tagliata per questo mestiere.

La ragazza incassò e, a capo chino, se ne tornò mestamente dietro le quinte, mentre un'altra concorrente, abbigliata come un uovo di Pasqua, le dava il cambio, dandole un'occhiata di compatimento.

Milton l'accolse, appena prima che Rosy scoppiasse a piangere: — No, non fare così, — cercando di consolarla, — vedrai che la produzione ti darà una seconda occasione…


2.

Di nuovo in quella cameretta, che odiava. Detestava Battipaglia, la sua casa, sua madre. Ma, più di tutto, quella cameretta. Forse perché era stato lì dentro che aveva iniziato ad ascoltare musica, più tardi a comporre canzoni che suonava con la chitarra, per la contentezza dei vicini di casa, quel branco di buzzurri che amavano i neomelodici e detestavano rap e trap.

Dio, quanto avrebbe voluto andarsene di là o, in alternativa, disintegrare tutti con un raggio della morte di quelli che usavano i supereroi Marvel, come vedeva spesso nei fumetti che adorava.

— Rosaria, la cena è pronta! — la voce della madre la ricondusse alla realtà quotidiana; mangiare, dormire, cacare e lavare i piatti. Ecco il suo destino, per gli anni a venire. E, se era fortunata, un lavoro di merda e un matrimonio altrettanto di merda…

— Rosà, mangia qualcosa, non puoi continuare così. — Mamma Carmela era sinceramente preoccupata per quella figlia, secondogenita che non si era mai sentita amata come la sorella, e per questo era sempre stata una ribelle, sia alle regole che alla buona creanza, con quella musicaccia che ascoltava tutto il giorno.

— Potresti fare un corso professionale, ce ne sono tanti in giro. — la buttò lì, con noncuranza, sperando in qualcosa.

— Mà, lo sai che sono tutti a pagamento. E se sono della Regione e gratis, ci sarà una fila di raccomandati lunga un chilometro.

La madre sospirò, rassegnata; stavolta la figlia aveva ragione, e non replicò.


Il mattino seguente era una bellissima giornata, un autunno inoltrato ma con ancora sprazzi di sole estivo. La campagna era ricca di tutti i colori delle foglie caduche, e si udivano cinguettii tra i rami.

Rosy si fermò, incantata; depose la borsa della spesa e si sedette su una panchina. Ascoltò i versi degli uccelli, lo stormire delle foglie all'alito del vento, poi tutto cessò e ci fu la quiete.

Anche il rumore del traffico giungeva attutito, le auto erano lontane.

Ebbe così l'Illuminazione.


3.

Stavolta sarebbe stata la volta buona. Sapeva che ce l'avrebbe fatta, una vocina interiore continuava a ripeterlo. No, non era impazzita, era solo conscia, per la prima volta nella sua vita, che stava facendo la cosa giusta.

Aveva fatto domanda per il ripescaggio e l'avevano accettata; erano rimasti colpiti dalla sua risolutezza, inconsueta in una giovane, soprattutto dopo un fiasco così colossale come quello che tutt'Italia aveva visto in TV.

Rimaneva un'ultima cosa da fare: andò in bagno e ne riemerse mezz'ora dopo.

— Madonna dell'Incoronata! Rosaria, che cos'hai fatto? — esclamò la madre, sgomenta.

— Niente, solo un cambio di look. — ribatté Rosy, con noncuranza.


Era il suo turno. Come l'altra volta, ma con maggior consapevolezza. Milton aveva sempre quella vocina ridicola, ma Rosy rimase seria, concentrata.

Entrò sul palco, e fu accolta da un "Ooohh" di sorpresa.

Yttrio era quello di sempre, un orso polare in una notte fredda: — Vedo che hai cambiato look. Vediamo se hai cambiato anche il resto. Cosa ci proponi?

Rosy si accarezzò la testa rasata a zero, e annunciò: — Una mia creazione personale, visto che il mio nuovo nome d'arte è Cantautrice Calva.

— Ah, è una citazione dalla famosa commedia. — fece Giusy Dandolo, il giudice che la prima volta sembrava più bendisposto verso di lei.

Rosy abbozzò, non sapendo di cosa diavolo quello stesse parlando, e continuò: — La canzone s'intitola Vento Fermo.

Si mise in posa e iniziò… a stare zitta; rimase nella stessa posizione per tre minuti, e concluse con un "Oh, yeah!".

Silenzio assoluto in sala, tutti aspettavano la reazione di Due ipsilon; Yttrio sembrava in catalessi, con gli occhi leggermente lucidi. Poi, con uno scatto, si alzò in piedi e iniziò ad applaudire calorosamente: — È… È… un miracolo, ecco. Non trovo altre parole. Brava, brava, brava!

Il pubblico proruppe in un boato, con gente che urlava, altri che si spellavano le mani, uno spettatore della prima fila cercò di salire sul palco per abbracciare Rosy ma fu subito bloccato dagli agenti della Sicurezza. Insomma, fu un trionfo.


4.

Il giorno dopo, sui giornali e nei notiziari televisivi, la pagina degli spettacoli debordò a notizia principale: "Giovane sconosciuta rivoluziona la musica", "Ionesco incontra John Cage", "La coscienza ecologica si fa arte" erano i titoli più a effetto.

È quasi superfluo dire che Rosy non solo vinse quell'edizione de "La Voce" ma si propose come una delle cantanti più in voga, più trendy dell'intero mondo musicale.

Memorabile la sua partecipazione al successivo Festival di Sanremo; con la sua "Pi greco" (brano della durata di tre minuti e quattordici secondi di silenzio perfetto) ebbe, per la prima volta nella storia della manifestazione, tutta la giuria a favore e una valanga di voti da whatsapp.

Ma la sua definitiva consacrazione arrivò l'anno dopo, con la vittoria del Grammy Award per il brano "Eulero", di due minuti e settantuno secondi, che spopolò in tutte le università di oltre oceano e, da lì, nel resto del mondo.


Dalla terrazza di una palazzina dei Parioli, Rosy guardava la città eterna prostrarsi ai suoi piedi, come avevano fatto mamma Carmela per prima, poi la sorella avvocata ma con matrimonio fallito per seconda, infine una pletora di fidanzati (e fidanzate).

Cosa poteva mai volere di più?

Certo, il successo planetario non sarebbe stato duraturo; già l'ultimo album — Il Suono del Silenzio — non era andato benissimo, con quel critico stronzo che l'aveva accusata di plagio per la presunta copiatura del titolo di una canzone mai sentita. Si sa, l'invidia e la malafede sono delle brutte bestie, e quando sei in cima al mondo c'è sempre qualcuno che non vede l'ora di buttarti giù, rimuginava Rosy tra sé.

Una telefonata, tanto inaspettata quanto desiderata, esaudì i suoi desideri più segreti: — Signora Poustolah, la Segretario Le vorrebbe parlare di una proposta importante. — In linea c'era il portaborse di Duilia Arquati, nientemeno che la capessa del principale partito dell'arco costituzionale, temporaneamente all'opposizione per le solite manovre di palazzo.

— Ma certo, sono a disposizione. — rispose Rosy, grata di tanta stima, probabilmente dovuta al fatto che anche Duilia fosse una sua fan.


5.

— Carissima Rosy, possiamo darci del tu? — chiese Duilia, quasi timorosa.

— La… anzi, ti prego; di cosa si tratta? — domandò la cantautrice più famosa d'Italia.

Si trovavano nella sede del Partito della Nazione, nato dalle ceneri di tutti i gruppi superstiti della sinistra istituzionale. Duilia indossava un tailleur pantalone di Tolentino, fatto su misura: Rosy non mancò di notarlo, e si ripromise di farsene fare uno uguale.

— Ecco, come penso tu sappia la situazione politica è piuttosto complessa, e le prossime elezioni saranno un banco di prova assai arduo per noi. La destra è molto forte, e con le sue tipiche parole d'ordine come sicurezza e libertà d'impresa riesce ad attirare molti più elettori di noi.

— Sì, è un problema, ma che posso fare io?

— Ecco… Abbiamo fatto un sondaggio e abbiamo scoperto che, per mobilitare il pubblico… cioè, volevo dire, gli elettori più giovani, occorre una figura che sia super-partes e non tradizionale. Che sia percepita come includente, fantasiosa ma con i piedi ben piantati per terra, decisa ma non autoritaria. In una parola, tu.

Rosy rimase in silenzio — stavolta non su un palco; non poteva mentire a sé stessa, una carriera al di fuori del mondo dello spettacolo, dopo il successo ottenuto, la tentava assai. Sulle prime nicchiò, facendo la preziosa: — Sono davvero lusingata, però non ho alcuna esperienza, e…

Duilia, con un gesto come per scacciare insetti molesti, ribatté: — Questa è l'ultima cosa di cui tu debba preoccuparti. Abbiamo decine di collaboratori in grado di istruirti su quanto è necessario.

Ciò che conta davvero è la presenza scenica, e tu ne hai da vendere. Dovrai solo fare dichiarazioni generiche di appoggio a noi, ma senza escludere un'eventuale, futura alleanza con altri.


Duilia era stata un'ottima profetessa, le elezioni erano andate benissimo, per il partito. I sondaggi due mesi prima delle elezioni erano stati catastrofici, invece i risultati videro i due maggiori partiti di destra e di sinistra pressoché appaiati. Urgeva pertanto un'alleanza, per il bene comune.

Siccome un Primo Ministro espressione o dell'uno o dell'altro avrebbe sbilanciato troppo la coalizione, un solo nome venne alla bocca di tutti: Rosy.


Come sembravano lontani i tempi de "La Voce", il batticuore prima di salire sul palco, lo sguardo di ghiaccio di Ytterbi…

Quella ragazza non esisteva più, ora c'era una donna decisa e consapevole dei propri mezzi. I consiglieri erano stati utili, per carità, ma adesso qualche iniziativa avrebbe ben potuto prenderla in autonomia, a partire dalla conferenza stampa: nessuna domanda.

E nella calma assoluta venne accolto anche il suo discorso d'insediamento; Rosy esordì con: — Care elettrici e cari elettori, la situazione è grave ma possiamo farcela. La congiuntura economica è complessa, la guerra è alle porte e per la nostra sicurezza è necessario vaccinarsi ogni sei mesi, però per far fronte a tutte queste difficoltà il rimedio c'è, ed è affidarsi agli esperti.

— E per tutto il resto, Signora Primo Ministro? — domandò un giornalista temerario di una testata poco diffusa, sfidando le occhiate di disapprovazione.

— E il resto è silenzio. — sentenziò Rosy, accarezzandosi la nuca.


(fine)


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Lodovico


Brigate Rosa


Le porte del tram si aprono, avvolgendosi su sé stesse, come le tende di un sipario. La vettura è ingombra di cappotti, giacche a vento, giubbotti, ognuno ordinatamente indossato dal suo proprietario umano, a costruire una sorta di muro appena al di sopra della scaletta. Mi chiedo come potrò mai penetrare tra quella folla multicolore stipata come polli in batteria. Un esile varco si crea tra due persone, simile a una fessura in uno scoglio. Ne approfitto e mi ci infilo come farebbe una murena, nonostante l'ingombro delle scarpe col tacco. Già, le scarpe col tacco. Mentre nevica. Milano imbiancata dalla neve è spettacolare tanto quanto invivibile: taxi assenti, mezzi colmi, marciapiedi scivolosi. E la mia auto che, proprio oggi, ha deciso di non accendersi. Mi intrufolo per raggiungere una parte un po' più interna della vettura. Ricordi di gioventù quando prendevo il tram quasi tutti i giorni. Ora mi appare come un crogiuolo di specie umane alquanto eterogenee: alti, bassi, grassi, magri, belli, brutti, profumati, puzzolenti… ecco, questi ultimi sembrano essere in netta prevalenza, comunque. Appesa come un cotechino alla maniglia penzolante dalla sbarra, sbuffo, mentre un uomo cerca di spostarmi per raggiungere l'uscita. Abbasso gli occhi e la vedo. I capelli grigi spettinati ricoprono parte del viso, ma quello è il suo viso. Non guarda verso di me, ma ne riconosco gli occhi. Quegli occhi che non vedevo da quarant'anni.


Autunno 1975. Varcai il portone della Statale. Tre studenti come me ne controllavano l'ingresso. All'interno lo striscione di tela con la scritta "Università occupata", vergata con una vernice spray rossa, ci accoglieva come un potente saluto. L'aula magna era colma di ragazzi in eskimo. Noi ragazze eravamo una minoranza, netta minoranza, ma agguerrita. L'assemblea iniziò tra l'odore di fumo di sigarette e non solo. La vidi subito. Spiccava in mezzo a noi come una macchia di sugo su di una maglia. Avvolta in una tuta azzurra, graziosamente sporca di grasso, i capelli scuri, brillanti sotto i neon della sala e degli occhi grigiastri, ma scintillanti di vitalità. Me lo avevano detto. Una vera metalmeccanica sarebbe intervenuta alla nostra assemblea, una delle poche che si trovavano nelle fabbriche italiane. E lei era una rappresentante del proletariato, della lotta contro il potere dei padroni, come noi studenti lo eravamo contro i professori-baroni. Ricordo l'emozione quando cominciò a parlarci, seduta sulla cattedra, a gambe larghe. Sprezzante e sicura.


E poi nacque la nostra grande amicizia. Passare sere e nottate a parlare di politica e di ideali. Di libertà e di oppressori. Un grande gruppo di persone libere per le quali l'emancipazione veniva prima di tutto e per le quali la lotta al capitale era il nuovo vangelo.


Poi, pian piano, il collettivo perdeva membri, rimanevano solo i più duri, i più convinti, i più forti, tra cui noi due.


Arrivò il momento dell'azione. La chiave inglese faceva male. Se ne accorsero gli studenti fascisti. E la assaggiarono anche i professori, quelli che si ostinavano a bocciare agli esami.


Dieci, eravamo rimasti, solo dieci, del gruppo originario, ma facevamo parte di una famiglia più grande. Le Brigate erano potenti. C'erano studenti e operai, ovunque, pronti alla lotta armata, la stella a cinque punte cominciò a fare paura. BR. Brigate Rosse. Un nome che sarebbe rimasto nella memoria storica dell'Italia. E lei aveva deciso che noi due saremmo state le "Brigate Rosa". Due donne combattenti. Due donne libere. Senza paura, contro il regime. Non mi piaceva quell'appellativo, sembrava troppo inserito nel sistema, il rosa per rappresentare il sesso femminile mi sembrava un concetto borghese, ma lo accettavo di buon grado quando la sentivo parlare di lotta di classe e di contrasto al potere politico rappresentato dal ceto medio.


Poi ci fu anche il bacio. Che rimase unico. Nessuna di noi due era interessata a una relazione sessuale insieme, ma quel bacio significava la liberazione dagli stereotipi, dal perbenismo borghese. Libertà politica, di pensiero, sessuale. E per questa libertà ci saremmo battute entrambe fino alla morte. Due corpi ma un solo pensiero, una sola volontà, una sola mano. Quella che sarebbe servita per agire.


Lo avremmo solo spaventato, quel professore "fascista". Solo spaventato. La pistola, fredda, nella mia mano, pesava parecchio. La alzai con poca convinzione, ma il colpò partì. Il sangue usciva dalla ferita dalla gamba come spruzzato da una siringa. Ero terrorizzata. Non avevo mai visto una cosa del genere. Il professore, steso a terra, era troppo spaventato anche per gridare, le sirene della celere, però, le sentivo. E si avvicinavano. La sua voce ne superò il rumore: — Dalla a me quella pistola, se ti mettono in galera finisci male. Io me la caverò.


Feci scivolare quell'oggetto in ferro nella sua mano tesa e scappai come non avevo mai fatto prima. La presero, quegli sbirri fascisti. Le "brigate rosa" si separavano, ma l'avrei ritrovata, me lo promisi. Sarebbe stata solo una separazione temporanea. Poi avremmo ricominciato la nostra lotta contro lo Stato oppressore e la borghesia.


Ora è lì, di fronte a me. Il vecchio cappotto che la avvolge appare logoro. Siede a gambe larghe, come in quel remoto giorno, nell'aula magna, ma il suo atteggiamento sicuro e arrogante ha lasciato il posto a uno sguardo umiliato e triste. Il tram comincia a rallentare come a indicare che la prossima fermata è ormai a poca distanza. La luce fioca del mattino invernale imbianca l'interno della vettura, come la neve ne imbianca l'esterno. I suoi capelli si tingono di bagliori chiari, luminosi, ma opachi e si spostano indietro. Li vedo. I suoi occhi colore dell'acciaio, quello della fabbrica metalmeccanica dove aveva lavorato, si posano sui miei. Mi fissa, tanto da imbarazzarmi. Innumerevoli impietose rughe ne segnano il viso raccolto in un'espressione perplessa.


— Scusi, ma noi ci conosciamo?


La voce è la sua, ma più incerta. Un sibilo accompagna la parola "conosciamo", probabilmente a causa di un incisivo mancante.


Mi sposto leggermente indietro. Alcuni corpi mi impediscono di muovermi di più. Accorcio il collo all'interno della mia pelliccia di volpe bianca. Fingo di osservare il display del mio iPhone X mentre, da sotto il rossetto, passando attraverso i miei denti bianchissimi, la risposta alla sua domanda si fa sentire, altèra, nella vettura.


— No.


(fine)


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Namio Intile


Attraverso i vuoti della memoria


Quella sera, Carlo mi sussurrò a un orecchio che la vita è un cammino di coincidenze, ma senza dilungarsi oltre iniziò a divagare, sopra questo e sopra quello, come era solito fare.

Tra gli amici era il più amico, professore di matematiche nel nostro sgangherato liceo di paese, i cinquanta superati da un pezzo, capelli grigi e occhiaie perenni, da sempre appassionato di scrittura, che praticava come fosse un disturbo della personalità da assecondare. A pensarci bene forse qualcosa di più di un amico, una sorta di alter ego capace di assecondare le mie depressioni, gli umori fumantini; lui uomo razionale e prosaico, ciarliero e compagnone, io sentimentale e mutanghero, ligio al vizio del sognare e trasognare, tuttavia uniti: dalla comune bibliofilia, e dal vizio carbonaro della lettura, impegnati nella ricerca certosina delle velate ironie e dei nonsensi.

Quando mi capitava d'incrociare la linea dei suoi occhi, retta come una mensola, lo sguardo mi s'allungava, dal basso verso l'alto, a sostenere quelle imponderabili vastità o, come in quel momento, mentre s'accostava a una delle ante, a indugiare sulle luci del tramonto novembrino, lente a sfumare lungo i crinali a occidente dal vermiglio al viola al vermiglione, pronte ad avvolgere Montefosco in un tegumento purpureo, io non riuscivo a inseguirne lo sguardo, incline a inseguire le mie notturne rimuginazioni. E mi scappò di dire millecentosessantasei, e lui mi rispose un che distratto. Precisai che erano i metri cubi del Salone delle Feste in cui ci trovavamo.

Per gli Aranyo-Ruiz un tempo quella era stata una sorta di casa estiva, per fuggire al caldo di Catania d'estate. Nel portale d'ingresso, nella cuspide ornamentale, proprio sotto lo stemma coronato, campeggiava la data di fondazione: A.D. 1615. Che non voleva dire nulla. In fondo una data non è se non una convenzione, perché l'intera struttura poggiava sul reticolo d'una costruzione anteriore, del X secolo era probabile, della quale rimanevano sparse e non indifferenti tracce alla base dei muri portanti e in alcune architravi negli scantinati dove, venute meno chissà quante mani di successivo intonaco, s'era rivelata una epifania di caratteri cufici riconosciuti, da un esperto linguista maltese, come versetti del Corano. E chissà cosa si trovava, ancora sotto, nessuno avrebbe potuto dirlo, a meno di sventrare il palazzo.

E mi venne in mente quel passo di Howard Zinn, sulla rivolta collettiva come attività impraticabile nelle società ben strutturate. Motivo per cui ognuno reagisce individualmente al disagio, alle ingiustizie, alla sopraffazione, all'emarginazione, con soluzioni personali, con atti di rivolta individuali; mi sorrise, e poi dischiuse le imposte, ancorò le mani alla ringhiera, da un sottile velo di ruggine ocra colorata, e s'allungò sul balcone respirando a fondo: una volta, due, tre volte.

— Tu qui vivi come un signore feudale — mi rimproverò.

Ma io non ho mai sfruttato nessuno, non mi sono mai avvantaggiato del lavoro o delle ristrettezze di nessuno.

Lo vidi allungare lo sguardo in basso e fermare l'attenzione su un gruppo di persone che camminavano senza fretta.

Mi disse che ero lontano da ogni preoccupazione, che ero in pensione da una vita, che non avevo figli, con una moglie pronta a evitarmi ogni problema. — Sei libero di riflettere sepolto dai tuoi libri, ti puoi permettere di scrutare gli altri a distanza, come fossi uno spettatore del palcoscenico della vita, e loro il soggetto e l'oggetto di un tuo personalissimo esperimento teatrale.

Alla fine mi chiedeva quanti ne avessi.

Era la domanda di rito, arrivati a un certo punto, sempre preceduta da indulgenti introduzioni, rivoltami per indurmi a quantificare una cifra e al tempo stesso ad allontanare quell'ombra: che non fosse proprio lui a custodirne il maggior numero.

Si concentrò allora su quel gruppo di adolescenti, ragazzi e ragazze, che avanzavano dalla Chiesa Madre lungo il corso. Mi fece notare i pantaloni neri, lacerati in più punti, le felpe logore sui gomiti, i lineamenti stravolti dai piercing su labbra nasi occhi gote, i tatuaggi che si indovinavano ovunque. E si domandò perché lo facessero.

— Quale molla li spinge non solo a non voler apparire belli, ma a far di tutto per sembrare brutti, logori, sporchi, laidi persino.

La sua non era una domanda banale. La bruttezza ha dei confini? Esiste un limite al di là del quale sarebbe impossibile a chiunque sopportare oltre quel terribile assalto?

— Non hai risposto — mi risvegliò dalla trance.

— Se lo sapessi non potrei reputarmi un vero bibliofilo — mi limitai a rispondere.

Sapevo che era quella la vera domanda.

Lui aveva l'abitudine di riporre i propri volumi negli scaffali secondo un ordine prestabilito: dopo averli registrati, per autore editore data di stampa e di acquisto, annotava il complesso dei dati in un registro, dalla copertina di uno spesso cartoncino, dove erano precisate le coordinate, in modo non dissimile dai pezzi in una scacchiera, seguendo le quali era possibile rinvenire ogni volume. Ad esempio, accanto all'originale prima edizione di Sein und Zeit aveva inserito il codice g6d. Sarebbe stato possibile rintracciare il volume nel settimo riquadro del sesto livello in quarta posizione da sinistra. Trattava quei dati come se dovesse comporre un diagramma cartesiano, con numeri e quantità, descrizioni di cose, con tanto di date e indirizzi e prezzi; perché credeva, in questo modo, di discostarsi da un volgare accumulatore seriale di oggetti, quale invece sotto sotto pensava di essere. Non si era mai reso conto, con quella minuta attività, di procurare proprio l'effetto contrario: non di rendere unici e vivi quegli oggetti, ma di reificare quanto avrebbe voluto salvare dalla mercificazione. Così osservava la mia libreria con una smorfia di disapprovazione, o di disgusto, perché considerava quegli scaffali privi di ordine, di conseguenza privi di senso.

Ma il loro senso è quello della memoria.

Per me i libri sono memoria, e vivono nella mia memoria, così che non ha senso incasellarli, catalogarli, registrarli, ridurli a numeri, a quantità, a cose.

In fondo perché considero la memoria ciò che siamo, la nostra vera essenza.

— La mia famiglia li preserva e accresce da generazioni: a volte mi pare di esser venuto al mondo solo per continuare l'opera di chi mi ha preceduto.

Tornato dentro si avvicinò all'humidor nel quale erano custoditi una dozzina di puros Cohiba Siglo VI.

Avrei voluto dirgli che la coltivazione del tabacco è stata la base delle economie del Nuovo Mondo, l'origine dello sfruttamento servile delle popolazioni prima native, poi bianche e di colore. Fumare un sigaro equivaleva, nel XVII secolo, a ridurre in schiavitù una persona.

Ma non dissi nulla, tagliate le estremità gliene offrii uno.

— Eh, proprio quello stavo aspettando — ammise contento, e posò il calice per dar fuoco, col lungo zolfanello, alla punta cilindrica, da cui si sprigionarono varie essenze di frutta esotica, vaniglia e cacao accompagnate da robuste sferzate di pepe. — Che meraviglia — mugolò soddisfatto.

La storia è la memoria degli stati, scrisse Henry Kissinger nel suo primo libro: Diplomazia della Restaurazione. La storia dell'Europa dal punto di vista delle élite. Cosa valgono milioni di morti di fronte alle scelte di pochi eletti?

— Per continuare l'opera, allora, ti manca un erede. Seppure neanche immagini quali rogne causino quegli adorabili pargoletti non appena sia cresciuto loro qualche pelo in viso.

— Oh, ma l'erede non per forza deve possedere il medesimo sangue… lo spirito piuttosto — e subito me ne pentii, quasi avessi concesso una speranza a lui e alla sua vasta e irrequieta prole fin dall'inizio corrosa dalla malsana abitudine del chiamarmi zio. — Ma per l'assenza di figli — provai a glissare, — lo sai… non sono venuti e a nessuno dei due è venuto in mente di indagarne le cause.

— Meglio! Siete liberi — omologò la sentenza.

— Solo in apparenza… La loro mancanza invece di aumentarla, questa libertà, l'ha ridotta: la relazione tra me ed Elena si è ossificata e ristretta all'essenziale.

E la libertà, avevo la sensazione, ci aveva anche resi incapaci d'invecchiare, aveva inchiodato il tempo costringendoci a un interminabile presente in cui non esisteva più l'io o il tu, ma un indefinito noi in un tempo senza ieri e senza domani.

Ma anche questo non lo dissi e invece aggiunsi. — Se ci penso il nostro rapporto mi pare l'esatto contrario dell'amore, quello giovanile e passionale almeno; quell'amore capace invece d'accorciarlo il tempo e dilatarlo, e d'introdurre egoistici ingombri, con una voce a strepitare: tu, tu, tu, e un'altra a ribattere: io, io. Io.

— Però ho sempre avuto la netta sensazione che voi due foste felici.

— La felicità non esiste, o se esiste è solo un momento, e noi invece viviamo tutta una vita. La felicità di oggi è l'illusione di domani. Perché ieri non tornerà mai più e il domani non esiste, seppure ne abbiamo già una indefinita nostalgia.

— La nostalgia serve solo a farsi del male.

— La nostalgia serve la consapevolezza.

E la mia attenzione volò ancora altrove, su quella scrivania di mogano in quell'angolo in fondo a destra, perché mia madre aveva preferito non affidarsi a medici e ospedali, ma a una semplice levatrice: la quale certo non aveva ammazzato il primogenito come invece era accaduto nell'abbazia dei frati benedettini in cui è sistemato il nostro minuscolo ed efficientissimo nosocomio; dove, peraltro, menti geometriche allevate nella certezza dei numeri, educate all'avidità dei risultati, hanno ben creduto di cingere il chiostro antico, già solcato da un perimetro di colonne punteggiate da tessere dorate e vetri multicolore a reggere capitelli sferocubici, con splendidi infissi d'alluminio dorato.

Perché la si deve nascondere la bellezza, o confonderla con l'esatto opposto. Affinché la bruttezza trionfi, e con essa il male. A che serve poi lamentarsi della bruttezza di quei poveri e ignari ragazzi?

— Alle volte la tua malinconia mi sorprende — mi confessò, mentre una voluta di fumo si allontanava dalla bocca spalancata. — Il Bukkuram Sole d'Agosto si unisce splendidamente al Cohiba, avevi proprio ragione — fu la sua unica concessione alla mia memoria. — Tutta roba morta e sepolta, caro mio. La tua memoria non serve se non ad alimentare la tua nostalgia, e la nostalgia è la sorgente della tua malinconia. Per sbarazzarti di ogni sentimento negativo devi dimenticare ogni cosa.

Pensava di aver ragione, con quella sua strafottente leggerezza, quella dorata volontà di oblio dietro cui si nascondeva il desiderio di uccidere gli altri nel modo più semplice e rapido: dimenticandoli. E gli rammentai invano che si muore ogni giorno nella morte di chi ci ricorda, perché la memoria non è solo singolare, ma anche plurale.

— La vita è un cammino di coincidenze, bisogna cogliere l'attimo — mi rispose la sua mente geometrica da professore di matematiche certezze.

— Se la vita è un cammino di coincidenze — lo incalzai — la storia allora è un percorso stratigrafico, e chi percepisce l'avvicendarsi dei vari livelli riesce a comprendere il Mondo. E il tuo attimo non servirà comprendere le coincidenze.

— Mentre io nel mondo dei tuoi pensieri mi ci perdo sempre. Altro che comprensione... La tua progressione è caotica, ti sfugge l'elegante disegno logico delle matematiche.

— La logica esiste. Solo non riesci a metterla a fuoco, ecco tutto, impegnato come sei a sezionare le mie parole. Di quando eravamo bambini rammento le estati, la luce accecante e l'aria incandescente di luglio, le giornate infinite trascorse nel baglio di Roccabruna, con la folla dei cugini: la mia memoria conserva quasi ogni momento di quelle estati… le passeggiate nei boschi della Miraglia, i bagni nudi all'Urio Quattrocchi, le gite sul litorale del Niceforo, e i giochi infiniti fin oltre il tramonto; mentre degli inverni è il nulla... della scuola, degli obblighi quotidiani, non ho che flash. È come se non li avessi mai vissuti, come se non esistessero: la memoria procede per pieni e per vuoti, per coaguli e assenze, per amnesie intercalate da sterminate pianure simili a fulgide e durature visioni. È uno strano congegno, capace di mascherare la nostra stessa vita, di stravolgerla e di mostrarcela non per quella che è, ma per come si è sedimentata, per come vogliamo appaia, attrezzata com'è a selezionare e archiviare i momenti gioiosi e obliterare la sofferenza o la noia; se ci rifletti, del dolore non abbiamo memoria diretta, un ricordo preciso, un'immagine nitida a cui attingere. Un'intelaiatura dai bordi confusi e la cognizione del dolore sopravvive in frammenti e visioni nebulose, quasi fantastiche. Io, ad esempio, ho un ricordo vivido degli innumerevoli momenti spensierati vissuti qui, al palazzo, o al baglio, con mio padre e mia madre, con gli zii, i nonni, i cugini, ma ho difficoltà a rammentare il contrario; però sono consapevole della sofferenza di quegli anni e di quanto il mio vivere lontano da Montefosco, la separazione tra i miei, l'abbandono dei luoghi familiari, il distacco dalla casa in cui sono nato, l'assenza di mio padre, dei tantissimi parenti da cui prima ero circondato, sia stata la diretta e imprescindibile conseguenza di quel dolore e...

— Ma certo, con te un discorso lineare è impossibile — tagliò corto. — Sei almeno riuscito a leggere il manoscritto che ti avevo inviato? — Provò a divagare.

Mi avvicinai di nuovo al balcone, per provare a evitare la domanda e le sue conseguenze già immaginavo trasformate in disappunto.

— Avere buone e varie letture non implica la consequenziale capacità di scrivere — proposi, non per scoraggiare lo scrivere di lui, ma per ridimensionare il mio. — Prendi me: io scrivo, è vero, ed è una passione che a volte divora — gli rivelai. — Ma scrivere è una prigione, un perenne circondare il proprio cuore di filo spinato, un insoluto tentativo di riannodare il passato, di indagare il presente nelle macchie di Rorschach, di cercare il futuro nei fondi di caffè: scrivere mi costringe a non uscire da queste mura, mi impedisce di vivere. O forse è il pretesto per non farlo. Impiego il mio tempo nell'inventare racconti strampalati, incipit di romanzi mai terminati, novelle dai personaggi troppo cerebrali: rumino di continuo fantasie ossedenti composte da svolazzanti ghirigori; quindi pubblico i miei frigidi tormenti come se mi rivolgessi a un dio, solo per rammentargli le sue colpe. Zampetto sulla tastiera simile a una gallina claudicante, come dovessi trangugiare un farmaco amaro o sopportare una dolorosa penitenza. Vorrei indagare i miei ricordi, scrivere delle mie esperienze, ma mi ritrovo a narrare fantasie, sogni, invenzioni, come se unicamente dentro un'immagine onirica mi fosse possibile incontrare la verità, svelare l'autentico me stesso. La mia vita è il riflesso di un fantasma.

Era una confessione, ma le rivelazioni non servono a chi è illuminato dalla fede.

— Insomma — disse spazientito. — Ti ho solo domandato un parere, non certo una sentenza inappellabile — Non fece nulla per nascondere il fastidio, e prese ad andare su e giù per il salone con fare nervoso. — Come amico, e non come i mille autori della domenica ai quali regali il tuo tempo con tanta leggerezza. In fondo me lo devi — mi rimbrottò.

Mi sforzai di fingere di non aver compreso. — Hai evitato di creare personaggi singolari che alla lunga avrebbero rischiato di apparire inverosimili: scrivi invece solo di gente ordinaria: all'interno della loro costante, apparente, immutabile ordinarietà, della loro routine priva di scosse, essi provano a uscire dalla consuetudine unicamente quando possono agire celati da una maschera.

La maschera agisce a livello inconscio con Dario: egli vuole prevalere a tutti i costi, vive come se avesse sempre qualcosa da dimostrare: di essere un uomo originale, di aver talento da vendere, di essere uno straordinario amatore, ma anche un padre attento e un marito fedele. Eppure egli sa di non possedere alcuna di queste doti. Egli sa di essere una persona ordinaria, comune, priva di originalità e di talento. Ma a questa mancanza non si rassegna, così da finire divorato da una crescente frustrazione e da un senso di inadeguatezza. Da questa frizione, da un tale dislivello emotivo si sviluppa la sua angoscia, poi l'ansia, infine la depressione. La maschera è una sorta di punto di rugiada.

— Punto di rugiada?

— Me lo chiede proprio l'uomo di scienza?

— Illuminami — concesse. — Sei tuttologo — aggiunse con sufficienza.

— Il punto di rugiada è, a parità di pressione atmosferica, la temperatura in cui si deve trovare l'aria per far condensare il vapor d'acqua in essa presente. Allo stesso modo il tuo Dario, a parità di circostanze, giunge al suo punto di rugiada al mutare della consapevolezza di sé. La consapevolezza come valore che, a parità degli altri, provoca il cambiamento. È un uomo scontento lui, perché la sua intelligenza lo porta a dubitare, a esser scettico, in primo luogo sul suo conto. Pertanto sa di dover indossare una maschera per mantenere vive le sue ambizioni e la stima che ha di sé. Ma nel momento in cui l'eccessiva consapevolezza eclissa la maschera costruita con fatica, ecco la rapida caduta di ciò che prima riusciva a star sospeso: ecco il suo punto di rugiada, e il vapore diventa acqua e precipita in terra. A differenza, se vuoi, della gente comune priva di talento e originalità ma anche di intelligenza... Be', loro, suppongo, non abbiano necessità di maschere perché sono convinti di essere il sale della terra, di essere indispensabili e protagonisti unici delle loro vite come di quelle degli altri. Non li sfiora nemmeno il dubbio di esser solo dei cretini contenti.

— Non credi invece che solo loro possano essere felici?

— La felicità, ti ripeto, è il sentimento di un tempo immobile che in realtà non esiste, senza la risacca dei nostri ieri a sommergerci, i boschi oscuri dei nostri domani a minacciarci: solo il presente senza ieri e senza domani. No, non è una condizione umana. Però al sentire comune riesce comodo far credere e illudersi della felicità: la quale si ritiene possa essere, non solo duratura, ma anche a portata di mano e, di più, che dipenda unicamente dal nostro corretto operato nel mondo il poterla afferrare e mantenere.

E posai lo sguardo su di lui e il suo calice di nuovo colmo di passito, mentre fuori un'oscurità colorata, dell'arancio artificiale dei vapori di iodio, si era sostituita alle ardenti fiammate del tramonto.

— E cosa mi dici di sua sorella Dalia? — Provò a estorcermi ancora.

— Devo dire, al principio i due mi sono parsi dai caratteri identici, poco distinguibili l'uno dall'altra. Ma nel proseguo della lettura Dalia si è rivelata una sorta di alter ego di Dario: o meglio, l'altra faccia della medesima medaglia. Priva come il fratello di talenti e capacità peculiari, ma dotata al suo pari di una grande intelligenza, pare pervenire piuttosto in fretta, forse già da adolescente, alla consapevolezza che per sopravvivere non può far conto sulle sue doti, ma unicamente sulla capacità di comprendere il mondo. Perciò sceglie una carriera universitaria e poi lavorativa alla sua portata e tra i tanti pretendenti, nonostante non sia una gran bellezza, il partito migliore sia dal punto di vista caratteriale che economico. E queste scelte alla lunga fai capire quanto si siano rivelate provvidenziali, in quanto hanno messo al riparo dai marosi della vita non solo lei, ma anche la sua famiglia, fratello compreso. Il quale invece non solo aspira alla migliore occupazione possibile, ma insieme al miglior partito possibile, senza avere le doti per ottenere sia l'uno quanto l'altro. E rimane così vittima della sua finzione, schiavo della maschera indossata per alimentare la propria autostima e il proprio ego: non tanto l'idea che egli ha di sé, quanto l'immagine di sé obbligato a metter in mostra. E quando, dopo innumerevoli sforzi, riesce a entrare nelle grazie della ricca famiglia Caher D'Anvers e a trovare un impiego al loro diretto servizio entra in quel mondo e finisce per considerarlo suo di diritto fino al punto di invaghirsi della figlia minore: Irene. Da quel momento inizia a nutrirsi della loro agiatezza, a specchiarsi nelle loro presunzioni, sente il dovere di adeguarsi alle loro sembianze, di cucirsele sulla pelle come una seconda anagrafe, più veritiera di quella reale. Con il risultato di alimentare la propria angoscia e inadeguatezza e di finire col vivere in un luogo di finzioni capaci di mortificare ogni suo slancio o tentativo di mostrarsi all'altezza.

— Quando ho tirato fuori i due personaggi non ho pensato a una virgola di quanto hai detto: ma in modo incredibile mi pare che tu possa avere ragione.

Sorrideva, compiaciuto. — Perché ragioni in modo lineare. Per fortuna il tuo inconscio quando scrivi riesce a mostrare quanto può nascondersi dietro la geometria. E tuttavia il romanzo manca d'equilibrio, di ordine. Quando ti dico centonovantasei metri a cosa pensi?

— A un campo di calcio? Perché gli manca l'equilibrio?

— Centonovantasei metri quadri per sei metri di altezza e una volta a padiglione affrescata con un trionfo di Apollo: io sono sono nato proprio sotto la geometria dell'Olimpo — ricominciai a divagare.

Un tenue chiarore filtrava dalle quattro coppie di portefinestre disposte in fila lungo il balcone e si diffondeva dal basso verso l'alto sulle pareti fino alla volta affrescata: dove un Olimpo di dei malandati, immersi in un cielo plumbeo biancheggiato da cirri e nembi vorticosi, ancora dominava il mondo. Al centro della scena un fastoso lampadario di vetro di Murano, dai fiori rosa e malva, dondolava sul piancito di maioliche colorate realizzate a mano, come il prezioso broccato di seta tessuto a motivi floreali, impreziosito d'ori e argenti, drappeggiava le pareti quasi galleggiando sopra l'ampia zoccolatura, quasi una boiserie, di larice o noce laccata di verde e oro.

— Non vuoi proprio dirmelo?

— Presto non rimarranno che sale polverose e vuote e un muto ricordo, che prima o poi svanirà. Saremo solo ricordi, e poi neanche quelli.

— Ho capito. Dato che il tema non sono riuscito a inquadrarlo consapevolmente…

— Ecco, ci sei arrivato da solo. Comunque, i miei libri so già a chi lasciarli.

Di scatto, senza che potessi fare molto per impedirlo, mi avvolse in un abbraccio fraterno.

E capii che non era quello il momento giusto per deluderlo.

— Però...

— Però che cosa? — sbottò stizzito.

— In fondo ogni maschera non è altro che una narrazione diversa di sé stessi. Indossiamo maschere anche per proteggerci dall'Oblio, che del Nulla è il presentimento.

— Dal nulla al Nulla.

— Che vuoi dire?

— Che con te è inutile ogni tentativo di impostare una linea.

E aveva ragione.

Forse perché la linearità non esiste e tutti i modi possibili finiscono nel Nulla, in memoriae inanibus.


(fine)


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Athosg


I ragazzi del ponte


Franco Piltelli aveva appena finito di pranzare. Cominciò a rassettare velocemente la cucina e a chiudere il sacco della spazzatura. Poi, come accadeva tutti i santi giorni degli ultimi quattro mesi, andò in camera e si mise il pigiama. Ritornò in sala, accese il computer e si collegò a un sito porno. Tenne la solita media di venti minuti, osservando attento un paio di scene per sfracellarsi secondo il mood del momento.

Finito tutto, si abbandonò sul divano.

Prese il giornale in modo distaccato, sfogliando le pagine con malcelata noia. Sapeva che di lì a qualche istante avrebbe avuto gli occhi semisocchiusi e il respiro pesante; a questo punto avrebbe gettato il giornale sul tappeto, tirato il plaid fin sopra gli occhi e cominciato a dormire. Un lungo sonno senza sogni particolari, fino al risveglio causato dalle grida dei bambini del condominio che rientravano da scuola. Come un automa si sarebbe alzato controvoglia, avrebbe preparato un caffè e atteso la moglie al rientro dal lavoro. Tutto pianificato.

Da quando era andato in pensione, la sua vita aveva preso questi ritmi monotoni. Non si era ancora ripreso dalla fine del lavoro di assicuratore che lo aveva tenuto impegnato per quarantadue anni. Era stato un uomo tremendamente ligio al dovere, quasi mai un'assenza e con una correttezza più unica che rara. Negli ultimi anni la sua grande esperienza lo aveva portato a essere amico, confidente e anche confessore. I suoi clienti si fidavano ciecamente di lui, essendo ricambiati con una quantità di consigli che neanche un padre avrebbe potuto dare a un figlio.

Purtroppo, sin dal primo giorno da pensionato, non aveva rivisto più nessuno, la grande ruota della vita aveva continuato a girare e con lei i milioni di criceti che correvano all'impazzata. La sua porticina si era aperta e una volta escluso dalla giostra l'inedia aveva preso il sopravvento.

In città, nell'andirivieni del traffico, gli era capitato di scorgere qualche volto conosciuto, ma aveva sempre desistito dal rincorrerlo ritenendolo un gesto inutile. Che cosa avrebbe potuto dire? Ormai era acqua passata, diceva tra sé, e lui doveva guardare al futuro, anche se non aveva ancora capito in quale direzione.

Luciana, la moglie, come un coach psicologico lo assecondava in tutto, lo spronava a non abbattersi e a cercare qualche interesse. Lui le rispondeva a monosillabi, conscio della difficoltà dell'impresa, per chi come lui aveva sempre scambiato il lavoro come hobby, divertimento e passatempo. E ora si ritrovava nudo davanti allo specchio.

A volte diceva a Luciana che se almeno avesse avuto un nipotino, lo avrebbe potuto accudire, ma la coppia non aveva figli e anche su quel versante non c'era trippa per gatti. Lei gli diceva di aspettare ancora due anni e poi sarebbe andata in pensione. Allora sì che se la sarebbero spassata con viaggi e vacanze al mare.

Una sera Luciana al rientro in casa lo trovò ancora sul divano. Dormiva, coperto dal solito plaid. Neanche il vociare dei bambini lo aveva svegliato da quel coma psichico. Non gli disse nulla e andò in camera a vestirsi con abiti più comodi. Tornando in sala, vide il marito alzarsi stancamente, stirarsi con lentezza e ributtarsi sul divano. Il plaid era finito per terra, tutto arrotolato in un angolo vicino al muro.

— Franco, Franco bello, datti una mossa, non puoi passare le giornate a dormire — gli disse.

— Sì, sì. In primavera mi muoverò di più.

— Muoviti caro sei ancora giovane. Vai al cinema oppure in palestra, ma muoviti! — insistette.

— Promesso, ad aprile comincio a usare la bicicletta e a pedalare.

— Sì, amore mio, fino alla cima Coppi! — Franca lo abbracciò un po' preoccupata da quel marito depresso.


Quando giunse il tepore di aprile Franco mantenne la promessa e prese l'abitudine di usare la bicicletta e fare un giro fuori città. Gli faceva bene pedalare tranquillamente per i lunghi viali, respirare profondamente, osservare le case e le persone che incrociava per poi svoltare in una via laterale presa a caso e ritrovarsi in qualche spazio aperto.

Un mattino arrivò vicino alla statale e vide una schiera di operai che si stavano cambiando la tuta. Si avvicinò alla zona, appoggiò la bicicletta e s'inoltrò nel terreno prospiciente. C'erano altri uomini anziani che osservavano la strada.

Chiese a uno di loro cosa stesse succedendo, e quali lavori erano in corso.

— Devono costruire un ponte che scavalcherà l'autostrada. È un nuovo raccordo che collegherà le tangenziali che vanno

alla Malpensa — gli rispose.

— Una grande opera, dovranno bloccare il traffico per dei giorni. Chissà che casino — replicò Franco, affascinato da questa prospettiva.

— Ehi amico, sei rimasto indietro. Adesso costruiscono il ponte a mezz'aria, senza bloccare un bel niente. Lo vedrai nei prossimi tempi, con le gru e altre diavolerie all'opera — gli disse un altro.

— Addirittura! Incredibile! E voi siete sempre qui a vedere?

— Sì, io mi chiamo Andrea e tu?

— Io Franco.

Si diedero una stretta di mano. Sopraggiunsero anche gli altri e subito si presentarono.

— Piacere Antonio.

— Io mi chiamo Alberto.

Si ritrovarono in quattro, intabarrati e infreddoliti perché l'aria quel giorno soffiava fresca.

— Venite qua tutti i giorni? — chiese loro Franco.

— Tutti i santi giorni, dal lunedì al venerdì. Piove, nevica o tempesta, noi siamo qui — gli rispose allegro Andrea, un vecchietto che sfiorava gli ottanta.

— Allora ogni tanto verrò anch'io. Sono da qualche mese in pensione e la giornata è sempre lunga. Non so mai cosa fare.

— Bravo vieni con noi, ci troverai sempre.

Franco quella sera li salutò pensando già a quando li avrebbe rivisti. Gli sembravano brave persone, che avevano trovato il loro hobby nel guardare la costruzione di un ponte. Gli venne in mente un soprannome e sorrise a questo pensiero. Per lui sarebbero stati i ragazzi del ponte.


Il giorno dopo alle due ritornò. Andrea, Antonio e Alberto erano già lì. Franco lasciò la bicicletta per terra vicino alle altre, e si avvicinò al trio.

— Eccolo il Franco, hai dormito bene? Non c'eri questa mattina, noi invece eravamo qui. — precisò Alberto, mettendogli una mano sulla spalla.

— Ho dormito fino alle nove e poi sono uscito a prendere il giornale.

— Franco, ti dico che noi siamo qui dalle nove del mattino a mezzogiorno e dalle due alle sei. È la nostra giornata. Contratto moderno da trentacinque ore la settimana.

— Bene, ora che lo so cercherò di essere più presente. Vi posso chiamare i ragazzi del ponte?

— Bravo, ci mancava pure questo nome! — Antonio pronunciò enfatico questa frase. Era il più tosto del gruppo, con la sua improbabile giacca a vento viola e verde.

I quattro cominciarono a scherzare e a parlare di calcio.


Intanto l'opera proseguiva. Gli operai avevano iniziato a lavorare sulla base ed era un gran movimento di betoniere e camion.

Era venerdì pomeriggio e il gruppo si salutò, concordando l'appuntamento per il lunedì successivo. Lo avvisarono che avevano l'abitudine di portare una bottiglia di vino a rotazione. Il giro sarebbe proseguito normalmente e a Franco sarebbe toccato il turno del giovedì.


Ritornò a casa leggermente euforico per la giornata, e un po' triste perché nel week end non avrebbe potuto vedere i suoi nuovi amici. Scoprì che aveva tante cose da raccontare. Si fermò nell'enoteca vicino a casa per comprare le bottiglie di vino. Ne parlò con il commesso e scelse due bottiglie di Inferno, due di Sassella, due di Barbera d'Asti, due di Grignolino e due di Bardolino. Pensò anche che se qualcuno avesse avuto qualcosa da obiettare si sarebbe spostato su altre marche.


Luciana al rientro vide le dieci bottiglie e gli chiese se volesse per caso ubriacarsi. Franco sorrise, e le raccontò la storia dei ragazzi del ponte e di come pensasse di cominciare a frequentarli.

— Non ho molto da fare e con loro scambio quattro chiacchiere.

— Molto bene, lo vorrei fare anch'io. Bravo il mio Francuzzo. — Luciana abbracciò il marito con il sorriso della madre felice per un buon voto del figlio.

L'ufficio, il lavoro, le polizze e tutte le dinamiche mentali che aveva affrontato per oltre quarant'anni erano là, eteree e inconsistenti, quasi inutili, figlie del suo passato ormai andato.

Franco pensò che si aprisse una nuova stagione della sua vita e benedì il giorno che incontrò Luciana. La sua tenacia, lungimiranza, empatia lo aveva salvato. Era felice, perché la sera avrebbe avuto qualcosa da raccontare alla moglie mentre cenavano.


Il giovedì successivo fu il suo turno di portare la bottiglia di vino. Pensò e ripensò a cosa scegliere, perché aveva voglia di fare bella figura. Alla fine scelse il Grignolino d'Asti.

La giornata era bella, il sole scaldava anche le ossa scricchiolanti e lui aveva lasciato la bottiglia fuori tutta la notte per tenerla ben in fresco.

Appena arrivato sul posto, li vide già tutti e tre presenti. Stavano discutendo del troncone di ponte che era arrivato. Sembravano tre ingegneri provetti, mancava loro solo il caschetto giallo. Quando lo videro arrivare gli fecero subito festa. Scolarono il Grignolino fresco e leggero, e la compagnia assunse toni da baldoria.


Passò una settimana. L'impresa incaricata viaggiava a ritmi solleciti. Il ponte aveva coperto le corsie di destra dell'autostrada sottostante e si ergeva con i suoi spuntoni di ferro a mezz'aria. Le gru agganciavano le pesantissime putrelle e le trasportavano al moncone finale. Poi lentamente calavano il loro pesante carico, e gli operai imbragati in grandi corde metalliche, ponevano il pezzo a incastro. I quattro amici del ponte osservavano le operazioni con occhio attento, ogni tanto qualcuno toccava il vicino e gli sussurrava un commento e quando il pezzo era perfettamente incastrato, le urla di giubilo arrivavano sino agli operai che ricambiavano con ampi gesti delle braccia. Anche per quei ragazzi la presenza dei quattro era diventata un'abitudine, e molto spesso venivano nel gruppo a informarli sulle prossime mosse.

La sera Franco tornava a casa e raccontava tutto a Luciana. Era come un fiume in piena, le narrava dei lavori e delle vite dei suoi tre amici. Lei lo ascoltava attenta per poi chiedergli altre informazioni. Forse aveva già intuito tutto il senso del discorso, ma le curiosità che chiedeva al marito la facevano sentire bene, vedendolo attento e pimpante nelle risposte.

La bella stagione era arrivata e gli amici del ponte la omaggiarono con due bottiglie di vino, una il mattino e una il pomeriggio. Anche qualche stuzzichino spuntava dallo zaino di Andrea, che aveva una moglie cuoca.

Franco pedalava di gran lena per raggiungere il cantiere. Ora guardava le ragazze fiorire nella loro primavera con uno sguardo benevolo e ammirato, non più con la senile concupiscenza figlia della reclusione invernale.

Nei pressi del cantiere sostava una ragazza di colore. Si chiamava Milly e faceva il lavoro più antico del mondo. Era istruita e pulita, non si sa come ma aveva una piccola casetta di legno posta nel bosco a circa duecento metri dal loro ritrovo e lì riceveva i clienti. Ogni tanto i ragazzi le davano qualche tartina.

La loro continua presenza era di richiamo per una geografia umana varia e curiosa. Oltre a Milly aveva conosciuto Yussuf che portava in consegna il latte e a fine turno si fermava a fumare una sigaretta. Paolo e Francesca, due ragazzi fatti l'uno per l'altra che facevano lunghe passeggiate. E Amir, Angelo, Pasquale, un gruppo di carpentieri e tanti altri.

Avevano creato intorno a loro un piccolo mondo di cortesia e abitudini.

Il ponte intanto viaggiava veloce e ai primi di giugno aveva raggiunto la sponda opposta.

Franco abbracciò Antonio. — Cavoli, ti ricordi un paio di mesi fa? Era un piccolo moncherino sospeso a due metri da terra, e adesso guarda che opera!

— È un ponte della Madonna, caro Franco. Quei ragazzi sono proprio bravi, organizzati e veloci.

Stapparono la bottiglia di Bardolino e mangiarono le frittelle alle mele che la moglie di Andrea aveva preparato per loro.


Ormai aveva anche cambiato le sue trentennali abitudini. Ora Il pigiama lo metteva solo prima di andare a letto e il giornale non lo comprava più. Gli bastava sentire qualche notizia alla TV per essere informato su cosa succedeva nel mondo di fuori.


Quella sera Franco prima di rientrare a casa ritornò nell'enoteca, dove acquistò altre dieci bottiglie di vino. Sicuramente ne sarebbe avanzata qualcuna, perché alla fine del ponte mancava solo un paio di settimane. A questo pensiero Franco cominciò a sentirsi un po' nervoso, avvertì lo stesso senso d'insicurezza e straniamento che lo aveva accompagnato negli ultimi giorni di lavoro. Scosse il capo e s'impose di non pensarci. Ne avrebbe discusso con i ragazzi del ponte.


Due settimane dopo l'opera era terminata. Il suo lungo viaggio sospeso a mezz'aria era arrivato alla sponda opposta, un arco teso che si librava nel verde della campagna. Ora doveva essere asfaltato, avrebbero aggiunto tutti i parapetti, fatto tutti i controlli necessari per certificare la sua tenuta e, nel giro di un paio di mesi, le automobili avrebbero cominciato a circolare. Ma il bello, la parte pionieristica dell'opera, si poteva dire conclusa.


Gli amici del ponte si ritrovarono quel pomeriggio con una bottiglia di Ferrari fresca di frigo. Alberto aveva portato i calici giusti e si preparavano a stappare e festeggiare. Al momento erano lì con le mani in tasca, che gironzolavano in cerchio un po' nervosi sul da farsi. Erano tutti giovani anzianotti e di acqua sotto i ponti, come un karma benedetto, ne avevano vista passare. La percezione comune era che quel periodo si stesse chiudendo.

Stapparono la bottiglia e riempirono i bicchieri. Alberto disse.

— Al ponte — e tutti in coro gli risposero — Al ponte.

— Peccato, ora tutto è finito — disse Antonio.

— Già, e ora? Non ho voglia di rintanarmi in qualche bar a giocare a scopa — osservò Andrea.

Franco era silenzioso, poi svuotando il bicchiere disse tra sé e sé — Ed io non ho voglia di infilarmi il pigiama alle due del pomeriggio.

La malinconia si stava facendo largo nei loro animi e il vino non dava loro la gioia delle giornate precedenti. Un leggero luccichio brillava nei loro occhi.

Da lontano uno degli operai li salutò. Gli amici del ponte lo chiamarono, chiedendogli se volesse bere un po' di spumante. Lui corse subito. Era di Catanzaro e la settimana successiva sarebbe tornato in Calabria. Si sarebbe sposato e poi di nuovo il ritorno al nord.

— Non vedo l'ora, così porto con me la mia Rosetta.

— Fai bene, sei giovane. E il lavoro? Continui con questa ditta? — gli chiese Andrea.

— Sì, di lavoro ce n'è anche troppo. Da settembre dobbiamo costruire tre ponti nella zona di Pavia.

I ragazzi del ponte sgranarono gli occhi. Pavia era distante solo una ventina di chilometri, e in autostrada ci volevano circa quindici minuti di macchina per raggiungerla.

Il ragazzo una volta vuotato il bicchiere si dovette congedare. I ragazzi raggranellarono venti euro a testa e glieli diedero come regalo di nozze. Volevano altresì ringraziarlo per la straordinaria informazione che avevano avuto.

Era quasi sera e i quattro uomini si ritrovarono in cerchio, con le mani in tasca e lo sguardo fisso ben piantato a terra.

Ognuno di loro era perso in mille pensieri e un velo di tristezza scendeva a chiudere quella giornata dalla temperatura quasi estiva.

— Ragazzi, — sbottò Franco, — da settembre niente più bicicletta ma automobile. Pensate, tre ponti da veder costruire. Io ho la mia macchina, possiamo fare a turno e chi non ce l'ha, non fa niente.

— È vero grande Franco! Non possiamo farci scappare quest'occasione. E questo straordinario spettacolo d'ingegneria — continuò Andrea.

— Noi saremo sempre i ragazzi del ponte — urlò Antonio.

— I prossimi giorni ci ritroviamo in trattoria od organizziamo la spedizione. Settembre è vicino! — concluse Alberto.


La grande paura era passata e il sogno continuava. Quando si diventa vecchi si ritorna bambini, dice un celebre detto. Aumenta con gli anni la voglia di stare insieme e di rinverdire l'età magica dell'adolescenza. Il gruppo era unito e la voglia di vedersi, di vivere il quotidiano con l'innocenza dei giorni migliori, li univa indissolubilmente.

Come dei ragazzini che hanno risolto il loro primo grande problema, i quattro amici si strinsero in cerchio a suggellare il loro patto d'acciaio. Il patto dei ragazzi del ponte.


Si fecero l'ultimo saluto, come se nessuno volesse andarsene veramente via.

Franco si ritrovò solo vicino alla bicicletta.

Si voltò e guardò tutta la zona intorno. Il ponte, lo spiazzo, l'erba che aveva calpestato per tanto giorni, gli alberi rigogliosi. Aveva gli occhi lucidi perché anche quello era un capitolo della sua vita che si chiudeva. Tutta quell'avventura era stata una sorpresa che mai si sarebbe aspettato di vivere, mentre il futuro andava organizzato con tutte le incertezze del caso, che a quell'età erano sempre in agguato.

Prese la bicicletta e cominciò a pedalare lentamente. Poco lontano vide Milly passeggiare. Si avvicinò.

— Milly, ti auguro buona fortuna, abbiamo finito il nostro compito di sentinelle.

— Oh che peccato, mi facevate compagnia.

— Niente più tartine!

— Povera me e chi mi porterà qualcosa da mangiare? Come farò?

Rise con la sua bellissima espressione. Franco la guardò estasiato, quel giorno Milly sembrava ancora più bella e lui si sentiva come un ragazzino emozionato e trepidante per un futuro ignoto.

Pensò a Luciana, alla sua pazienza da vecchia quercia e al suo grande amore. Dopotutto ai ragazzi si perdona sempre qualsiasi marachella, pensò.

Guardò Milly con occhi diversi, scese dalla bicicletta e la sistemò contro un albero. Non la chiuse nemmeno a chiave, sicuro che nessuno potesse rubarla o fare un dispetto.

Poi prese la mano di Milly, la baciò e s'inoltrarono nel bosco.


(fine)


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Marino Maiorino


Arma di difesa


Aithia era una bimba come tante: occhioni azzurri, lunghi capelli neri, prepotente come il padre e dolce come la madre. L'unica persona capace di tener testa a quel carattere capriccioso era la nonna, la rispettata regina madre che, in una società patriarcale e guerriera come quella dell'antica Micene, riempiva i propri giorni dirigendo i servi ed educando i nipoti.

Al collo, la piccola portava sempre un amuleto di ceramica smaltata dai colori vivaci, ma alla nonna non era sfuggita l'espressione di terrore, sia pure momentaneo, che coglieva la bambina ogni volta che l'occhio le cadeva su quell'oggetto. L'anziana le si avvicinò.

— Che c'è, piccina, perché tremi ogni volta che vedi l'amuleto? È così bello! Papà te l'ha regalato con tanto amore, ma sembra che tu ne abbia paura!

Non aveva esagerato: davvero ad Aithia quell'oggetto dava i brividi. Si voltò verso la nonna con gli occhioni rossi e gonfi, come se stesse per piangere.

— Aithia! — esclamò la nonna, sorpresa da quella reazione. — Che ti prende? Vuoi parlarmene?

— Giagia. — rispose la piccola, saltando al collo dell'anziana e abbandonandosi a un pianto liberatore. Da quanto tempo nascondeva quel sentimento? — Mi fa paura! Perché la Dea ha punito così Medusa? Era la sua sacerdotessa! Che male ha fatto? Farà lo stesso anche a me? Non voglio! Non voglio, giagia!

— No, no piccina! Chi ti ha detto una cosa simile? — l'anziana prese ad accarezzarle la bella chioma riccia per consolarla. — La Dea non farebbe mai del male alla mia piccola!

— La tata me l'ha detto! — singhiozzò la bambina. — Ha detto parole terribili! Che è stata una svergognata, che la Dea l'ha punita per quello! Com'è possibile che la Dea abbia punito così la sua sacerdotessa? Posawaidon l'aveva oltraggiata, non è stata colpa sua! Come può la Dea aver punito lei in quel modo? Giagia, ho paura! Ho paura di quest'amuleto e di quello che significa!

La nonna comprese cos'era accaduto e continuò ad abbracciare la sua cucciola. — No, non fare così. Stai tranquilla, adesso! — la confortò. — La tata è un'anziana, ma non era qui quando quei fatti accaddero. Se vuoi, io ti racconterò la vera storia, che è più triste e più bella, ma dopo non avrai più paura della Dea! È una storia che pochi conoscono e la cui memoria si sta perdendo, perché il nostro popolo scompare, e tuo padre mi ha chiesto di non raccontartela. Ma se vuoi, questo sarà un nostro segreto, e tu non avrai più paura. Che dici, vuoi ascoltarla?

Il tono grave, serio della nonna, era qualcosa di nuovo, per Aithia, che si allontanò dal suo abbraccio, la guardò negli occhi, e assentì col capo, con una nuova speranza nel cuore. L'anziana prese a raccontare.


— Sebbene io sappia cosa dice della Dea il popolo della tata, non so cosa ti abbia raccontato lei, per averti spaventato tanto, perciò dovrò iniziare dal principio, e spero di poter correggere alcune cose che certamente ti sono state dette.

— È vero che Medusa era una sacerdotessa della Dea. La più bella, dicono, ma in quel tempo il culto era diverso da come si officia oggi, e le sacerdotesse svolgevano riti che oggi non si usano più.

— La Dea, inoltre, non era solo la signora della guerra: quello era solo uno dei suoi ministeri, non l'unico! E d'altronde, conosci i tratti che condivide con Hestia nella custodia della casa e della giustizia, o con Britomartis nel carattere, nella mantica, nella medicina… Quelli che erano solo aspetti della Dea, gli invasori li hanno fatti diventare divinità essi stessi.

— E hanno vinto! Solo noi anziani ricordiamo cosa significa dire la "Dea Britomartis", o la "Dea Hestia". Solo noi sappiamo che non invochiamo una Dea minore, ma un aspetto della Dea, della Grande Dea! Ci appelliamo alla sua forza, o al suo giudizio, già mentre la invochiamo.

— Medusa era forse la maggiore tra le sue sacerdotesse: la donna nella quale la Dea sembrava aver infuso tutte le proprie benedizioni!

— La tata ti avrà raccontato quanto fosse bella… Non era solo bella, era anche una levatrice richiesta, un'infallibile donna di medicina, una guerriera tanto imbattibile da scegliere come nome del sacerdozio quello di Medusa, "protettrice"… Non credi che sia strano che si ricordi sempre quanto fosse bella? Quasi che anche la Ciprina le avesse elargito i propri doni. Perché di fatto la Dea alla quale ella officiava il culto era la Grande Dea.

— Ma divago. Tanta bellezza non le fu di nessun giovamento, quando il comandante dell'esercito invasore ne restò abbagliato.

— No, piccola Aithia, non fu Posawaidon a perdere il contegno virile, ma chi Posawaidon adorava! Gli invasori erano alle porte, cavalieri formidabili e temibili, barbari, e il loro mondo non era come il nostro.

— Per generazioni si erano spostati di landa in landa, senz'altro desiderio che il bottino, la rapina, il saccheggio e, se fosse stato possibile, una notte di piacere.

— Quella gente, senz'altra legge che quella della forza, giunse sulle nostre terre, le nostre città pacifiche, ordinate, dove uomo e donna avevano pari dignità. E come avrebbe potuto essere altrimenti, con la Dea a illuminare i nostri giorni?

— Ogni discordia la risolvevamo col dialogo, prima che arrivassero loro, e quando li vedemmo per la prima volta, armati di bronzo, feroci, non capimmo cosa potessero volere da noi: il mondo era tanto grande, c'era spazio e terra per tutti! Anzi, se avessero voluto unirsi a noi e dare una mano, sarebbero stati i benvenuti! Aprimmo loro le porte, il loro comandante andò a parlare con Medusa nel luogo sacro alla Dea, e lì la vide.

— Lui, un uomo abituato ad attraversare deserti a cavallo solo per inseguire il miraggio di un misero bottino, un guerriero i cui unici interlocutori erano stati altrettanti guerrieri, incontrò Medusa, abbagliante di bellezza, nella sua veste sacerdotale.

— Nessuno sa cos'abbia creduto, nella sua arrogante tracotanza guerriera, ma tutti sanno quel che fece. Nessuno sa perché la Dea permise l'affronto, ma alcuni pensano che Medusa abbia sacrificato sé stessa per la salvezza della nostra gente, sapendo ciò a cui andava incontro.

La nonna interruppe il proprio racconto. La sua voce era diventata dura e si ruppe in un singhiozzo, quasi un pianto senza più lacrime. Aithia si allontanò dell'abbraccio dell'anziana per leggerne l'espressione nel viso.

— Giagia — sussurò.

L'anziana sollevò lo sguardo. Occhi che raccontavano ciò che avevano visto, ciò che rivedevano, incrociarono quelli di Aithia.

— Piccola, l'uomo che guidava gli invasori non fu addolcito dal sacrificio di Medusa. Uscì da quel luogo sacro come se autorizzato al furto, al sopruso e alla rapina, tenendo per i capelli, come ostaggio, colei che le aveva offerto la propria intimità, costringendola ad assistere all'orrendo spettacolo del suo mondo messo a ferro e fuoco. Sei ancora troppo piccola perché ti dica le aberrazioni delle quali si macchiarono quei mostri.

Era passato tanto di quel tempo, ma l'indignazione era ancora bruciante sul volto della nonna: linee di rabbia ne percorsero rapide i tratti, spinte dallo stretto digrignar dei denti.

— Poi lui, il capo di quel branco di belve, decise che il proprio bottino avrebbe dovuto essere a buon diritto il più ricco, tornò nel tempio e percosse Medusa affinché gli indicasse il luogo del tesoro. Era certo che dovesse essercene uno, di una ricchezza inaudita! Perché, altrimenti, tutti noi eravamo così felici? Per la nostra ricchezza nascosta! Dov'era la nostra ricchezza nascosta? Dov'era il tesoro?

— E Medusa, che non aveva nulla del genere, non capiva! Non c'era nulla, nulla da rubare! Nulla di valore! Di che tesoro parlava, quel folle? Ma negandosi a rivelare il segreto, suscitò l'ira del barbaro, che la colpì con violenza, ancora, e ancora, e ancora…

Piangeva, la nonna, come se in quel momento una mano brutale stesse percuotendo lei stessa.

— Allora la Dea le parlò. No, Aithia, la Dea non punì Medusa, voleva salvarla, quando le disse "Dagli il tesoro!"

— E Medusa dapprima credette di essere impazzita per i colpi ricevuti. Tra sé e sé rispose sbarrando gli occhi, sentendosi ormai persa: "Che tesoro? Noi non abbiamo nessun tesoro!"

— Ma la Dea sciolse l'enigma e subito le rispose: "Ciò che abbiamo di più gran valore!"

— "Basta! Basta!" gridò Medusa. "Ti darò quello che chiedi!" si arrese, e incespicando indicò il grande otre posto sotto l'immagine della Dea.

— Era ciò che quella bestia voleva. Scagliò il corpo di Medusa da un lato e si diresse a grandi passi verso l'otre, lancia in pugno, per raccogliere il suo desiderato tesoro. Alzò l'asta sacrilega e percosse il ventre della ceramica aprendovi un foro. Vi infilò il suo braccio sacrilego per afferrare con bramosia il prezioso contenuto.

Nella voce della nonna si produsse un cambiamento repentino, inatteso, sgradevole.

— Povero sciocco! Quale poteva essere il tesoro della Dea che cura? Veloci serpenti, che Medusa aveva appreso a tenere in cattività per estrarne il portentoso "pharmakon", lo azzannarono e lo spacciarono all'istante. Allora Medusa si rialzò barcollando sulle proprie gambe, raccolse l'elmo crestato della Dea, la lunga lancia dell'abominevole uomo che l'aveva violata, e apparve così, mostruosamente sozza del proprio sangue, senza dire parola, sulla porta del luogo sacro, in mezzo alle rovine e alle fiamme, accompagnata dai serpenti che riacquistavano una meritata libertà.

— Quella vista orribile fece dubitare gli invasori. Dov'era il loro capo? Perché Medusa si mostrava e non lui? Che terrificante sortilegio aveva operato, quella donna, per invocare a sé e guidare tanti rettili velenosi? Sarebbero dunque stati sopraffatti da quell'esercito strisciante? Il timore colse i più vigliacchi tra loro, poi il panico prese gli altri, e presto tutti furono in fuga incontrollata.

Era finita. Finalmente il terrore, il dolore, la disperazione, erano finiti. Aithia sentì il sollievo che accompagna l'allontanarsi di una tempesta.

— Non c'era tempo per curare le ferite ricevute — , disse la nonna. — I barbari erano stati scacciati, non vinti, e sarebbero tornati presto. Memore di quell'episodio, Medusa si fece realizzare una maschera di battaglia con teste di serpenti intrecciati nella cresta dell'elmo, con la quale affrontò personalmente gli invasori, vincendoli molte volte col terrore del suo solo apparire. Divenne leggendaria.

— Perciò, bambina mia, la Dea non punì Medusa per l'affronto subito, no! Al contrario, le diede un'arma per difendersi dall'invasione: un'arma di difesa.

Aithia guardò la nonna con sorpresa. Ma sì, adesso tutto aveva senso! Ecco perché la Dea proteggeva la città! E il suo legame coi serpenti! E il suo uso della lancia! La piccola non aveva più paura del suo talismano, anzi, lo strinse forte tra le mani come se quello potesse proteggerla da qualunque male, come se in esso avesse trovato un riparo da quel mondo violento e brutale che restava in agguato a soli pochi giorni dalla loro casa. Solo una cosa incrinava questa narrazione, finalmente degna della saggezza della Dea. Aithia espresse il suo ultimo dubbio.

— Nonna, nessuno mi ha raccontato la storia così, e ora tutto mi sembra più chiaro, ma… È questa della quale mi hai narrato la stessa Medusa della quale pure si racconta nel mito di Perseo e della principessa Andromeda?

In quel momento, un rumore giunse dal fondo del corridoio, e la nonna ne fu colta di sorpresa.

— Shhh! Shhh, piccola mia! — sussurrò. — Che non ci senta tuo padre che, lo sai, non vuole che parli di queste cose! Sì, è la stessa Medusa, però ora devo tacere. Quella storia te la racconterò un'altra volta.


(fine)


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Yakamoz


Ben tornato a casa, Mr. Jones


"Avrai sorrisi sul tuo viso come ad agosto grilli e stelle. Storie fotografate dentro un album rilegato in pelle. Tuoni di aerei supersonici che fanno alzar la testa…"

(C. Baglioni, da "Avrai")


Miao! — Un gatto. Sì, era un gatto! Mi guardai attorno, ma non riuscivo a localizzare dove esattamente fosse. Miao! Miao! Miao! — Eppure miagolava con insistenza e doveva essere abbastanza vicino. — Ah, sei quassù? Furbone! — Stava appollaiato sopra i rami di un albero a circa due metri d'altezza. Probabilmente si era arrampicato prima, incuriosito dal rumore o dal luccichio di qualcosa, e poi, come di solito capita ai gatti, ora si trovava in difficoltà e non sapeva più come fare per scendere. Per questo miagolava? Voleva solo un mezzo di trasporto per raggiungere i piani bassi? Rischiando i suoi graffi, stesi le braccia, lui restò immobile, docilmente lo afferrai da sotto le zampe anteriori e come una morbida calda palla di pelo lo posai sul marciapiedi.


Credevo scappasse una volta a terra. Ma il gatto sollevò il musetto, tutto interessato a me, iniziò a guardarmi, annusarmi, e girando e rigirando a strusciarsi sulle falde dei miei pantaloni. Immaginai che questo fosse il suo modo di esprimermi la sua riconoscenza. Quando ritenne di avermi ispezionato e sniffato per benino, si sdraiò sul marciapiedi, con la pancia all'insù, le zampe tese in avanti e gli occhi socchiusi.

— Vuoi essere strapazzato un pochino, micio?


Mi abbassai sopra di lui e cominciai a carezzarlo e a fargli coi polpastrelli dei grattini sotto il collo; e lui, sereno e beato, prese a fare ronfi e piccoli miagolii. — Ti piace, eh? Giocherellone! — E gli sfregai anche la testolina. Serrò così ancora di più gli occhi e si stiracchiò come una molla. Scoprii a quel punto un collare e una piastrina con scritto il suo nome: Mr. Jones.


Insolito come gatto. In vita mia non mi era mai capitato, se non in qualche manifesto o pubblicità della TV, di averne mai visto uno tanto bello dal vivo prima d'allora. Mezzo persiano, con occhi grandi e di un celeste chiaro, il pelo lungo color crema, tranne le estremità, cioè zampe, coda, orecchie, muso e genitali di tono più intenso, tipo color cioccolato. In apparenza grassoccio, la testa tonda e il naso appena schiacciato. La mia buona azione per quel giorno l'avevo fatta. Perciò mi rimisi in piedi e ripresi ad andare per la mia strada, ma subito lui scattò sulle quattro zampe e iniziò a seguirmi.


Dondolandosi leggero sulle dita delle zampe e con l'ampia e vaporosa coda tesa come un pennacchio, era costantemente al mio lato con la testolina e gli occhi vispi rivolti nei miei, accorto a ogni mio movimento. Percorremmo un bel pezzo di strada assieme, ma non ricordo esattamente quanta. Attraversando anche diversi incroci, in cui il piccolo felino, completamente rapito dalla mia presenza, non prestava attenzione neppure alle auto, alle persone o ai rumori circostanti. Stressato dal suo comportamento, finsi di ignorarlo e lui riprese a miagolare più forte per richiamare la mia attenzione. Poi, d'improvviso, fece una rapida corsa, andò un poco più avanti, si voltò e fermò per mettersi seduto sulle zampe posteriori e rimase, sempre coi suoi occhi puntati nei miei, ad aspettarmi.

— Che vuoi, Mr. Jones? — chiesi appena lo raggiunsi.

E lui rispose coi suoi soliti: — Miao! Miao! Miao!

— Hai forse fame?

Due potevano essere le cose: o aveva fame o mi aveva confuso con un altro.

Miao! Miao! Miao! — fece ancora, e diede inizio al suo consueto balletto di morbidi sfregamenti della coda e sinuose giravolte attorno alle falde dei miei pantaloni.

A un certo punto mi stava talmente appiccicato alle scarpe che rischiavo quasi d'inciampargli addosso mentre cercavo di avanzare. Così, mi fermai. Fui costretto a farlo.

— Si può sapere cosa vuoi da me? E smamma, gattaccio! — e cercai di scacciarlo con la punta di una scarpa, e lui solita risposta: — Miao! Miao! Miao!

Ma proprio in quel tratto di strada, dove il piccolo animale mi impediva di proseguire, sentii il cigolio d'un battente aprirsi sul mio lato destro e vidi uscire dal cancello di una modesta casa a schiera una ragazza con due sacchi della spazzatura. Era una ragazza acqua e sapone, con sneakers, jeans e una maglietta bianca, e i suoi capelli quasi biondi, legati in una treccia, scivolavano morbidi lungo le spalle.

— È suo il micio? — sussurrai tra me. E senza neppure sapere chi fosse e se il mio intuito ci avesse indovinato o meno, le dissi: — Maria, è tuo il gatto? — Ovviamente l'avevo chiamata con un nome a caso, essendo lei per me una perfetta sconosciuta.

— Sì, è il mio! — trasalì, e i due sacchi di spazzatura le scivolarono dalle mani con un tonfo a terra — È sparito da dieci giorni. Mamma e io abbiamo anche appeso in giro dei volantini con la sua foto e una ricompensa di cinquanta euro per chi lo avesse ritrovato. Ce n'è proprio uno attaccato sul muretto a lato del cancello di casa nostra. Signore, non l'ha visto? — Pronunciò quelle parole tutto d'un fiato rimanendo alla fine con la voce strozzata, poi deglutì la saliva e tirò bene su col naso l'aria nei polmoni.

— No! — risposi e specificai: — Perché di solito non leggo cose scritte per strada. Sono poco affidabili oggigiorno. Come tutto del resto!

— È un colourpoint. Ha quattordici anni ed è cieco — continuò lei.

— Cieco? — feci, titubante. Perché solo poco fa sembrava vedermi fin troppo bene.

— Il glaucoma, purtroppo, lo ha reso cieco, come ha detto il veterinario, e questa malattia colpisce spesso i gatti anziani. Di solito non si allontana mai oltre il cancello del giardino. In questo periodo però era irrequieto. Non so perché sia scappato, ma ho paura sia successo qualcosa di brutto. — Era rossa sulle guance e parlava sempre quasi in modo un po' concitato ed evitando, al contrario del suo cucciolo, di guardarmi negli occhi: timidezza, ovvio! — Grazie, allora, per averlo trovato e avercelo riportato — concluse.

— In realtà, io non ho trovato niente. Diciamo che è stato più il gatto a trovare me e portarmi qui, e non viceversa. Ehi! Ben tornato a casa, Mr. Jones! Visto? Siamo ritornati dalla tua padroncina!

Miao! Miao! Miao! — fece sempre il gatto.

— Vieni, Mr. Jones, su! Vieni, bello! Vieni, micio! — fece la ragazza.

E il gatto, a quei richiami, distolse — e finalmente! — la sua attenzione da me, girò il muso verso lei, e solo in quel momento notai, mentre con aria assorta, muovendosi a tentoni, con orecchie e coda dritte come un radar, che sembrava per davvero disorientato e non riuscisse bene a capire in quale posto esattamente fosse e in che direzione stesse andando. Quando, un po' a fatica, giunse davanti alla sua giovane padrona, si fermò, aspettando. E nel momento in cui lei lo raccolse tra le sue braccia, cominciò a miagolare forte.

— Con chi stai parlando? Lo sai bene che non devi dare confidenza agli estranei! — strepitò una voce di donna dal piano superiore della casa, come a voler squarciare quel poco di conversazione creatasi tra me e quella ragazzina dai modi garbati e fin eccessivamente schivi, e un attimo dopo la intravidi scostare l'anta della finestra e fare capolino.

— Mamma, c'è davanti casa un signore, ci ha riportato il nostro cucciolo! — urlò lei come risposta.

— Ah! Allora non era finito sotto una macchina? Dunque c'è del vero nel detto: i gatti hanno sette vite. Sette o undici? Non ricordo bene, devo chiederlo a tuo padre. Certamente lui lo saprà. Lui di solito sa sempre tutto. Ma visto che il signore è stato tanto gentile, digli di entrare a prendere qualcosa — disse a voce alta la madre, rientrata in casa e intenta a sbrigare faccende domestiche con l'aspirapolvere.

— Vuole entrare, signore, magari per… un caffè? — replicò allora sua figlia per formalizzare l'invito.

— No, sarà per un'altra volta, se mi ricapiterà un giorno di passare da queste parti. Grazie lo stesso. E ringrazia da parte mia anche la tua mamma.

— Un bicchiere di Fanta o di Coca-Cola? — insistette.

— Mi spiace, devo andare.

— Proprio non vuole? — fece un po' delusa, lei.

— Ci si rivede, Maria.

Stavo ormai per andarmene, e la biondina fece ancora: — I cinquanta euro non li vuole?

Finsi di non capire quello che diceva e confermai soltanto: — Non posso fermarmi, vado di fretta.

— Allora buona giornata, signore — mormorò con voce incerta, mentre mi guardava, preoccupata, e lentamente, stando accanto a dei fiori bianchi arrampicati su un graticcio in stuoia di vimini, carezzava il dorso del suo gatto.

Mi ero ormai già allontanato di una ventina di passi, che la sentii gridare:

— Ehi, signore! — mi voltai — Io mi chiamo Isabella! Non Maria! Ma tutti mi chiamano Betty!

— È la stessa cosa, piccola! È la stessa cosa! — E scappai via, senza neppure ricordare più dove prima stessi andando.


Caso volle, circa due settimane avanti, mentre di pomeriggio passeggiavo in un parco di un quartiere parecchio distante da dove si era svolta la "faccenda del gatto", che rividi Isabella. Indossava una T-shirt aderente, impavidi shorts jeans e sandali infradito: e tutta roba griffata Michael Kors, con abbinata relativa borsetta pink a forma di cuore, e tra le mani aveva un cellulare, di quelli buoni, nuovo di pacca e con la mela morsicata dietro. Stava lì con una sua amica, coetanea e altrettanto sciccosa, intente a fare selfie e foto a vicenda, e a giocare con Mr. Jones.

Il gatto correva e saltava agilmente, tendendo, con piccoli balzi felini, azzardati agguati ai piccioni che gironzolavano attorno alla vasca di una fontana, senza mostrare alcun minimo segno di qualche presunta cecità. Non era di certo una questione di vita o di morte, ma la mia indole curiosa mi spinse in quel frangente a cercare di capirne di più su quella storia del "gatto cieco".

Aspettando il momento opportuno, mi mantenni una certa distanza da loro e non fui notato. E quando la sua amica si allontanò per mettersi in fila a un chiosco di gelati, presi la palla al balzo e di soppiatto mi avvicinai alle spalle della ragazza, e le dissi: — Piccola, ma non era cieco il tuo gatto? — Lei ebbe un fremito e di soprassalto voltò la testa a guardarmi, meravigliata dalla mia inattesa presenza, poi, con un sorriso malizioso, vivacemente disse: — Oh! Ma lui è un mattacchione! E a volte gli piace giocare a fare il cieco. È un modo per attirare l'attenzione e ottenere qualche coccola in più.

Ai suoi occhi azzurrissimi e allo humor di quella risposta, persi le parole e rimasi basito. Ma ero contento che Mr. Jones godesse di ottima salute, nonostante le bugie della sua padroncina.

— E i cinquanta euro della ricompensa, dove sono finiti?

— Be', ho finto con mamma che lei li… Trattenuti da me e spesi insieme ad altri messi da parte in un laboratorio per un piercing all'ombelico. Fatto di nascosto, perché mamma è ottusa, bigotta e tirchia, e non mi avrebbe mai dato i soldi e il consenso per farlo. Poi quasi tutte le mie amiche hanno un piercing o tattoo da qualche parte.

— Io sono stato la tua prima vittima? — le domandai, curioso.

— Oh, no… credo il settimo o l'ottavo in circa un anno e mezzo a non volere la ricompensa per un povero micio malato. Ora non lo dirà alla mamma e resterà un segreto tra noi, vero?

— Tranquilla! Sarò muto più di un pesce! — e lei ribatté con un accorto sorriso. — Racconti sempre tante bugie, piccola?

— Non tante! Soltanto quando servono — rispose mentre mi abbassavo sulle ginocchia per accarezzare il suo fido complice felino, dicendogli: — Ehi! Mr. Jones, visto? Stai di nuovo con la tua scaltra padroncina!

Miao! Miao! Miao! — confermò molto felice il gatto.

— Lo vuole vedere il mio piercing, signore? — azzardò la ragazza.

Deviai la sua audace domanda, chiedendole:

— Sul serio ha quattordici anni, Mr. Jones?

— Lui ne ha quattro, io, invece, quindici, anzi, sedici il prossimo ottobre.

— Infatti, mi sembrava fin troppo arzillo per essere tanto vecchio.

— Lo vuole vedere il mio piercing, signore? — incalzò poi schietta, domanda che questa volta elusi non rispondendole, ma, senza che potessi accorgermene, lei arrotolò con entrambe le dita delle mani il bordo della sua maglietta, continuando liberamente a dire: — Da grande voglio diventare come Taylor Swift, Margot Robbie, però anche una influencer di moda come la Ferragni mi andrebbe bene… — detto questo, perse il suo timore reverenziale verso di me, e con voce spavalda fece: — Ma non chiamarmi più piccola, mi dà fastidio quando lo fai. Puoi chiamarmi Betty o Bella, se tu vuoi… — E quando distolsi la mia attenzione da Mr. Jones per riguardarla, mi ritrovai di fronte a lei, tutta scosciata e profumosa di J'adore, e io accucciato ad altezza dei suoi shorts che lasciavano scorgere l'elastico delle mutandine, a fissare, turbato, il suo ombelico. Tanto vicino da poterlo toccare. In cui, simile a un anello, si incastonava una piccola pietruzza sbrilluccicante, al sole di quel pomeriggio, come d'un riflesso adamantino.


"Capelli color grano e occhi blu stoviglia, e un'aria da signora finta come le sue ciglia... Ciao, mi chiamo Isabella…"

(Ivan Graziani, da "Isabella sul treno")


(fine)


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Alessandro Mazzi


L'uomo all'orizzonte


Cammino sulla strada. Il rumore delle scarpe che toccano il suolo è l'unica compagnia che mi è concessa.

A ogni passo, un oceano di ricordi, pensieri ed emozioni travolge la mia mente stanca: immagini d'infanzia, una casa vuota, una madre che piange senza far rumore.

Alzo lo sguardo e la schiena incurvata scricchiola come un ingranaggio mal oleato.

Davanti a me una distesa d'asfalto, percorsi che si diramano in mille direzioni; erbacce rinsecchite si sono fatte largo attraverso il manto stradale, lasciando profonde spaccature, come un virus dilagante che prende possesso dell'organismo e lo porta alla distruzione.

Fisso l'orizzonte e finalmente lo vedo: l'obiettivo di tutto il mio peregrinare mi fissa attraverso gli occhi spenti, il corpo nascosto dietro abiti consunti.

Papà, sussurra sottovoce la mia mente.

Continuo a camminare su quella strada, la stessa di sempre: quante volte ancora mi troverò a percorrerla, mi domando scoraggiato.

L'uomo sulla linea dell'orizzonte se ne sta sempre laggiù, immobile. Una leggera brezza di fine primavera agita le sue vesti.

C'è qualcosa di romantico in quello che sto vedendo, ma i miei pensieri sono tutti concentrati su di lui, sulla meta imminente.

Mi trovo sul cavalcavia che dà sull'autostrada: il vuoto sotto i piedi mi chiama come una tentazione irresistibile.

No, gettarsi è fuori discussione. Sarebbe una decisione troppo drastica, specie per uno che di decisioni non ne ha mai sapute prendere.

E allora mi fermo un momento ad assaporare la velocità, il fiume d'energia che scorre come un torrente impetuoso sotto di me: decine e decine di automobili che sfrecciano in due direzioni, automobilisti indomiti lanciati a vele spiegate verso chissà quale destino.

Rifletto su cose tanto sciocche quanto inutili; penso a quant'è bello che nonostante tutte le difficoltà, gli esseri viventi continuino a spostarsi in un costante movimento che li condurrà non si sa dove: cellule impazzite che cercano il proprio ruolo in un corpo di cui conoscono poco o nulla.

L'uomo all'orizzonte è sempre più vicino, eppure più lontano ogni passo avanti che faccio.

Mi avvicino e nel frattempo mi allontano.

Allungo le mani e sogno di toccarlo, di stringere lo sconosciuto tra le braccia. Un senso di confortante leggerezza si diffonde attraverso ogni vena e arteria del mio corpo; sento il sangue trasformarsi in acqua e per poco non mi sembra di prendere il volo.

Ogni tessera del grande mosaico se ne va al suo posto: tutta la sofferenza, le sfide, le lacrime e i rimpianti trovano la loro collocazione sulla tela del pittore.

Mi riscuoto da quel sogno a occhi aperti; guardo a terra: un cumulo di vestiti laceri. Me li passo tra le mani e piango: è questo tutto quello che rimane? Non posso credere di essermi sbagliato anche stavolta.

Ho come l'impressione di esserci già passato, di aver già stretto quegli stracci tra i miei pugni.

Li getto a terra e mi ritrovo a fissare ancora dritto davanti a me, il capo sollevato.

Papà, sussurra sottovoce la mia mente.

Continuo a camminare su quella strada, la stessa di sempre: quante volte ancora mi troverò a percorrerla, mi domando scoraggiato.

L'uomo sulla linea dell'orizzonte se ne sta sempre laggiù, immobile. Una leggera brezza di fine primavera agita le sue vesti.

Mentre il sole scende piano piano e si fa rosso come il fuoco, l'ultima luce del giorno asciuga le lacrime dal mio viso.

Un viandante nell'ora del crepuscolo alla ricerca di un immagine che vive solo nella sua mente: è questo che sono?

Le gambe ripartono; le spalle sempre incurvate reggono il peso dell'aspettativa.

Ci credo ancora.

Non posso smettere di farlo.


(fine)


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Alberto Marcolli


Tortine e frittelle


Il mio nome è Aisha. Sono nata a Fann Hock, un villaggio di pescatori, in riva al mare di Dakar, dove ho vissuto i miei primi quarant'anni.

Senza le insistenze di mia cugina Binah, abitante da tempo qui in Lombardia, non avrei mai lasciato il mio paese, perché se è pur vero che in Africa la fame è una tragedia quotidiana, anche il dolore di abbandonare la propria famiglia, e partire verso l'ignoto, è un ostacolo altrettanto duro da superare.

Renato, compagno di mia cugina Binah e maestro alle elementari del nostro quartiere, mi ha insegnato a parlare l'italiano, ma scrivere è tutt'altra cosa e senza il suo indispensabile aiuto non sarei mai riuscita a raccontarvi la mia storia.

So bene che sono milioni gli africani costretti a lasciare le loro amate terre, in un doloroso esodo di massa che ha privato interi villaggi e città delle loro energie migliori, e non solo qui in Senegal.

Ho sconfitto, non so come, tutte le mie paure; ho affidato i miei figli, Daren e Rudo, ai miei anziani genitori, e ho venduto tutto ciò che possedevo per un biglietto di sola andata verso l'Italia.

Per fortuna qui a Varese la gente è gentile e tutti mi aiutano. Riesco a parlare in italiano e ne sono fiera, perché comunicare con le persone è un'esigenza per me fondamentale, ma religione, abitudini e tradizioni sono tutta un'altra cosa e, come ripete ogni volta Binah, confidiamo nel buon cuore dei Varesini, sicure che nessuno vorrà mai pretendere il sacrificio delle nostre radici.

Quando osservo le donne italiane, mi rendo conto di quanto esse amino le cose minuscole, con i loro giubbini attillati e le mini borsette, dove a malapena trova posto l'immancabile telefonino. Un proverbio senegalese afferma: "il sangue di una donna, in mancanza di curve adeguate, rischia di arrivarle troppo velocemente al cervello!" Con un pizzico di malizia, credo sia questa la causa che spinge molte italiane a discutere e gesticolare così perennemente irrequiete! Un rischio che di sicuro io non corro con le mie forme generose e il metro e ottanta di statura.

Chissà cosa penseranno di me, mi chiedo spesso, mentre cammino per la strada avvolta in vivaci tuniche colorate, ma ben difficilmente mi capiterà di udire un commento: i Varesini sono molto educati e mai si permetterebbero una critica indiscreta. Per esempio, ho notato che se una persona è un po' tonta, preferiscono chiamarla "diversamente abile". Il significato è uguale, ma l'effetto è veramente diverso. L'incoerenza, semmai, sta nel fatto che se capita loro di incrociare un diversamente abile, il più delle volte preferiscono ignorarlo, voltandosi dall'altra parte.

Noi africani, invece, siamo più spontanei e magari ci scappa anche una parola di troppo, salvo poi sdrammatizzare con un luminoso sorriso.

Un altro problema da me notato qui in Italia sono i vecchi, ma guai a chiamarli così, altrimenti si arrabbiano.

In Africa, un nonno in famiglia è rispettato e custodito come un capitale prezioso d'informazioni a costo zero. È un'enciclopedia di storia, di tradizioni e di esperienze vissute. Un tesoro da tutelare gelosamente e giammai da confinare in un ospizio.

A proposito, io sono la badante del Dottor Ferrero, persona intelligente e colta, che ha molto viaggiato e, a dispetto dei suoi settant'anni, visita ancora numerosi pazienti nel suo studio di specialista ortopedico.

Con i mille euro che guadagno, più vitto e alloggio, mantengo tutta la famiglia a Dakar e riesco pure a mettere da parte qualche soldino, per far venire qua i miei figli, quando Dio lo vorrà.

Il Dottore mi permette di tenere le foto dei miei familiari sul mobile in cucina e quando siamo a tavola esse sono l'occasione per raccontargli degli episodi divertenti della mia vita africana. Lui ascolta affascinato e puntualmente ammette che vedermi ridere di gusto, a dispetto delle mie tante difficoltà, gli allarga il cuore più di cento vincite al superenalotto. Altre volte è lui a tirarmi su il morale con aneddoti spiritosi di qualche suo viaggio in giro per il mondo, quando la sua Adelina era ancora viva. Di suo figlio Giorgio, invece, ne parla poco e sempre con la voce velata da una sottile malinconia.


— Il mio ragazzo è eternamente indaffarato più di un alveare a primavera, — afferma puntualmente, pronto a scusarlo per le sue rarissime visite. Ma secondo me il motivo è un altro. Temo non gli sia rimasto molto da condividere, se non elemosinare regali per i nipotini o farsi pagare le rate del mutuo.

Tutto ciò è davvero triste, perché io so bene quanto il Dottore avrebbe bisogno di stare con lui…


La domenica mattina il mio padrone ascolta a tutto volume le canzoni della sua gioventù. Gli ricordano avventure, mi ripete, che farebbero arrossire perfino una dalla pelle nera come me.

Del baccano non mi preoccupo e tanto meno dei vicini. Sono così frettolosi e depressi che a malapena salutano.

Anche il Dottore ride poco, ma in casa sua si sta al caldo, si mangia da re, si dorme tra due guanciali e per il divertimento bastano i programmi della TV.


Oggi, però, è il suo compleanno e mi sento in obbligo di fargli un regalo, specie dopo che il figlio Giorgio mi ha comunicato la sua assenza per la cena, "causa impegni di lavoro indilazionabili", così sta scritto sull'SMS da me ricevuto questa mattina! Io non conosco il significato di questo aggettivo, ma quando ho letto il messaggio al Dottore, lui ha abbassato lo sguardo e la sua faccia si è raggrinzita peggio di un foglio di giornale gettato nella spazzatura.

Mi ha fatto tenerezza, pover'uomo, e vorrei rincuorarlo con un bel dono. Peccato che con appena dieci euro le commesse dei negozi di via Matteotti mi hanno praticamente riso in faccia. Il destino, però, ha voluto che l'idea giusta mi balenasse proprio sulla via del ritorno. Ho dovuto correre tutto il pomeriggio per organizzare, ma ci sono riuscita alla grande.

Adesso sono le otto di sera. Il Dottore è tornato da poco. Si è seduto incerto a tavola, e io gli saltello intorno come un cucciolone irrequieto.

— Dottore… le spiace seguirmi un attimo? — chiedo impacciata.

— Dove mi vuoi portare, Aisha? A quest'ora poi!

— Beh… vorrei mostrarle una cosa…

— Su, venga con me! — Incalzo. Decisa a non farmi smontare dal suo tono sfiduciato.

Senza attendere il suo consenso, lo prendo sottobraccio e lo trascino verso le scale. Lui protesta, quasi arrabbiato. In pochi attimi siamo sul terrazzo. Da quassù Varese è un incanto, in lontananza si distingue il campanile del Santuario del Sacro Monte.

Su di un tavolino ho sistemato due brocche colme del suo aperitivo preferito e accanto c'è una lunga tavolata, con ogni sorta di bontà internazionali, cucinate con l'aiuto delle altre badanti del palazzo.

Il Dottore è ammutolito, ma parlano per lui due occhi sbarrati come fanali, mentre il giradischi suona le sue canzoni.

Un istante e una folla sbuca da dietro l'angolo. Ci sono gli inquilini al completo con il panettiere, il barista, il giornalaio, la postina e mia cugina Binah gli porge un bel mazzo di fiori.

Ho temuto che non venisse nessuno e invece eccoli tutti qui, eccitati e con le facce compiaciute di chi compie una buona azione.

Il Dottore si lascia trascinare nel vortice di una gioia inattesa, e non lesina sorrisi e strette di mano vigorose. Tutti gli fanno gli auguri, e c'è chi addirittura elogia la sua badante.

Si ride a crepapelle, si brinda con l'ottimo aperitivo e s'inizia a mangiare.

Io sorseggio il mio drink e mi abbuffo di tortine di pollo e frittelle senegalesi al cocco. Che magico momento! Finalmente ritrovo il calore di una vera famiglia, come a casa mia. In fondo ho anch'io qualcosa da festeggiare: domani compirò il mio primo anno in Italia.


(fine)


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Marirosa


Un fulmine a ciel sereno


Monica se ne stava seduta alla scrivania, il mondo era cambiato, c'era una paura nuova e sottile nell'aria, ma il suo lavoro era quello di sempre, noioso e monotono, solo svolto da casa. Un colpo alla porta spezzò i suoi pensieri. Tutto sembrava silenzioso. Forse l'aveva immaginato. E poi perché bussare, se c'era il campanello? Si rimise al lavoro. I colpi si ripeterono. Stizzita andò a controllare, ci mancavano gli scherzi idioti!

Aprì la porta, sulla soglia, ansiosissima, stava una sua vecchia amica di scuola. Non la vedeva da anni.

— Aiutami.

— Certo. Ma cosa…

— Non qui… per favore, entriamo. Presto — La sua amica, sembrava agitata. E pareva supplicarla con lo sguardo. Una parte di sé voleva mandarla al diavolo, l'altra era curiosa di scoprire cosa l'aveva portata sul suo pianerottolo, in preda all'angoscia, dopo tanti anni.

— Va bene. Entriamo, così mi racconti.

— Sì… — Sibilò a fior di labbra. — Sì ti racconto… — Aggiunse un poco più decisa.

Monica si fece indietro e Ilaria si precipitò dentro casa, non disse più una parola sin quando non furono lontane dall'ingresso.

— Vuoi un caffè?

— Non c'è nessuno qui, vero?

— Chi vuoi che ci sia?

— Non so… siamo sole? Proprio sole?

— Ho un criceto in camera, è un problema?

— Non scherzare, ti prego. È una cosa seria. Davvero seria.

— Ti decidi a spiegarmi? Queste scene mi stanno stancando…

— Scusa… Io ho cominciato a lavorare subito dopo il liceo… no? Perché ero brava coi computer ti dissi…

— Sono passati anni… e comunque non mi hai mai detto molto. Puoi tagliare corto?

— Non potevo dirti niente! — Esclamò — E neanche adesso posso, ma sono davvero nei guai, se non mi aiuti tu, mi resta solo morire.

— Come sei tragica!

— Sono bruciata.

— Ilaria smettila! Non sei mai stata un tipo diretto ma tutto questo è troppo! Se vuoi prendermi in giro, torna tra altri vent'anni!

— Per favore, è una questione seria! Sei la mia ultima speranza, almeno ascoltami! — Monica alzò gli occhi al cielo. La sua amica sembrava sincera, anche se in preda al più totale delirio. Che in quegli anni fosse impazzita? Ascoltarla non le avrebbe cambiato la vita, e almeno era un diversivo dal suo lavoro.

— E va bene. Sentiamo.

— Lavoravo qui in Italia per un uomo, Belonghi, come agente della sezione ET627 di un'agenzia governativa I.C.G.A, il mio nome in codice era G12, poi sono stata trasferita a Londra, per la mia buona conoscenza della lingua. Il mio capo a Londra era Sharley. Il mio nuovo nome in codice J24. Lavoravo nel campo delle ricerche e dei supporti tecnici, con i computer. Andava tutto a meraviglia. Ma poi mi sono fatta notare troppo, e sono stata promossa.

— Cosa stai blaterando? — Monica, era quasi spaventata.

— Il mio capo è diventato Shadow, e io sono diventata S20K, ossia un agente ombra. Sono alla mia seconda missione, e ho fatto un casino

— Spiegami, ma non sono sicura di voler sentire — L'umore di Monica era cambiato.

— Un'ombra è un agente che svolge ricerche sul campo, sotto copertura. Avevo un appuntamento con un contatto, e avrei dovuto presentarmi come Luisa Rossi. Ma ho sbagliato. E mi sono presentata col nome che ho usato nella prima missione

— E quindi?

— Avrei dovuto fare rapporto per essere sostituita. Ma un'ombra bruciata deve sparire. Ossia prendere un veleno. Io rivoglio il mio vecchio lavoro.

— Cosa vuoi da me?

— L'uomo che dovevo incontrare, non conosce davvero il volto o la voce di Luisa Rossi. Gli ho mandato un messaggio, dicendo che avevo avuto un incidente, nulla che non si risolvesse in due, tre giorni, e gli ho dato un nuovo appuntamento.

— Non vorrai che mi sostituisca a te, spero!

— Per questo sono qui. Sei sempre stata molto più in gamba di me. Tu puoi riuscire, e salvare la situazione.

— No. Se quello che mi hai detto è vero, è il tuo lavoro. Non voglio entrarci.

— Per favore… non voglio morire… voglio tornare a essere un topo d'archivio.

— Un cosa?

— È così che gli operativi chiamano noi tecnici. — Monica alzò gli occhi al cielo.

— Gli operativi?

— Sono gli agenti che vanno in missione, loro hanno vari gadget e anche armi. — Quella storia era troppo assurda anche per una storia inventata, e conoscendo Ilaria, era vera.

— Se ti aiuto, potresti anche rimanere un… ombra

— No. Chiederò di tornare al mio reparto.

— E se non accettassero?

— Lo faranno, li supplicherò. Non possono non avere un cuore — Monica era scettica, ma non disse nulla. Aiutare la sua amica le sembrava una follia. Ma da quando non faceva una follia? Aveva sempre amato i film di spionaggio, e da piccola più di una volta aveva sognato di essere un agente segreto. E ora ne aveva l'opportunità.

— Ti aiuterò — . Ilaria l'abbracciò.

Grazie. Grazie. Grazie!

— Me ne pentirò. Non capisco perché hai accettato la promozione.

— Anche il mio capo, ha abbaiato qualcosa di simile… ma ho avuto paura a rifiutare sul momento…

— Il tuo capo ha cosa?

— Oh… Sahrley abbaia sempre… ma penso che in fondo sia una brava persona. — Fece una piccola impercettibile pausa — Ed è quello meno spaventoso. — Aggiunse a bassa voce.


Luisa Rossi, se ne stava annoiata, in una piccola stanzetta, a guardare il suo orologio, e a svolgere un inutile lavoro di routine. Era lì, perché doveva raccogliere dati sull'attività di un'azienda, per alcuni comportamenti sospetti. Il contatto, che aveva incontrato al posto d'Ilaria, era servito per farla assumere come segretaria. Ma che noia! Già non sopportava il suo di lavoro… Secondo le istruzioni, avrebbe dovuto, discretamente, tenere le orecchie aperte, controllare, osservare, produrre qualche prova e fare rapporto a Shadow, tramite l'orologio come le aveva insegnato Ilaria. Ma dov'era l'azione? Non che si aspettava di saltare sui tetti o lottare con qualcuno… ma solo quello? Eppure, sentiva di poter fare di più e meglio di così. Perché avrebbe dovuto trovare le prove, e poi chiedere a un operativo d'intervenire, quando poteva procurarsele da sola? Era lì da tre giorni, ma già aveva capito il sistema. Tendere una trappola e incastrare la mente, dietro gli illeciti le sarebbe stato facile. Lo aveva comunicato. Ma quel dannato orologio, restava muto.

Svolse un altro po' di lavoro, e poi le venne un'idea: se quel orologio non avesse emesso un suono entro i prossimi cinque minuti avrebbe agito di testa sua.


Shadow era più nero del solito. Il suo umore tetro peggiorava di minuto in minuto. E meno male che S20K, doveva essere un tipo calmo, discreto e ordinato… o almeno lo era stato fino a quando era stata J24. Ora invece, aveva saltato un appuntamento, recuperato all'ultimo minuto, gli aveva inviato una proposta assurda, che avrebbe portato solo rischi inutili, ma quale ragione spingeva un tecnico, promosso ombra, a voler giocare a fare l'operativo? Ma perché capitavano tutte a lui? Già poteva sentire il fiato di Barkey sul collo. Prima S1X, e le sue bravate… che era riuscito a risolvere con l'aiuto di Mallhoy, e il loro progetto degli agenti fantasma, poi i suoi problemi personali. E sapeva di aver sbagliato nell'ultima missione, ma lo avrebbe fatto ancora mille volte. Per fortuna ora la sua amata Jane era a casa, al sicuro. Ma lui avrebbe voluto un po' di pace! Un discreto, lieve bussare alla porta. Si paralizzò. Troppo lieve per essere Malloly e Sharley non avrebbe bussato affatto.

— Avanti. — Disse. E non si sorprese di veder entrare Barkey, con la sua faccia da avvoltoio e i suoi occhiali da gufo.

— Cosa mi devo aspettare questa volta?

— Nulla. Sarà allontanata dall'agenzia se non si brucerà.

— E se si brucerà, andrà a riprenderla? — Shadow rimase impassibile.

— Dovrà seguire la procedura. Come ha visto, il mio intervento era necessario l'ultima volta.

— Ho letto i rapporti della sezione ET627. Ma lo sa, non mi hanno convinto del tutto.

— Non ci saranno sorprese, questa volta.

— Me lo auguro. — Barkey andò via come era venuto. Lui prese un oggetto a caso e lo scagliò contro la porta. Dannazione. Odiava tutto quello. Era vero, avrebbe lasciato S24K al suo destino, più che volentieri. Pregava solo che Sharley, non avesse preteso indietro l'aiuto che gli aveva dato per salvare Jane. Non era da Sharley, mischiare sentimenti e lavoro, sempre che avesse sentimenti, ma era da Sharley chiedere indietro i favori dati.


A tempo scaduto, l'orologio aveva gracchiato: "rispetti la procedura". Va bene. Signor pallone gonfiato grande capo Shadow. Cercò di calmarsi. Il suo piano era geniale, e facile, poteva portarlo a termine in poco tempo. Eppure era stato rifiutato.

E va bene. In fondo non era il suo lavoro, avrebbe rinunciato.


Andò nell'ufficio del direttore, rientrava nei compiti di Luisa Rossi, portava i caffè riordinava i file, e poi tornava nel suo ufficio, in fondo al corridoio. Non c'erano molti impiegati, e lei si recava nell'ufficio del direttore sempre alla solita ora, quando lui era in pausa pranzo. Lavorava al computer sui file che lui le lasciava, metteva il caffè sulla scrivania e usciva, tutto nel giro di mezz'ora. Avrebbe fatto così anche quel giorno, ma fatalità un piccolo particolare, attrasse la sua attenzione. Sarebbe passato inosservato a una semplice segretaria, ma lei non era una semplice segretaria, era una programmatrice, e di un certo livello, e poi ci sapeva fare con il computer, più di chiunque altro. Non poté resistere, era l'occasione perfetta per ottenere ciò che stava cercando. In un paio di minuti creò una traccia, invisibile, per poter accedere a quei file, dal suo computer. Lasciò tutto come lo aveva trovato, sistemò il suo lavoro, come ogni giorno, sistemò il caffè sulla scrivania e uscì a razzo, dopo mezz'ora, come sempre.

Tornata nel suo ufficio, prese la sua chiavetta personale, copiò tutti i file che era riuscita a richiamare, e cancellò ogni singola traccia. Anche la più piccola. Ora doveva passare all'azione. Era sicura di star facendo un buon lavoro. Peccato solo che il merito lo avrebbe preso Ilaria.


Era andato tutto secondo i piani o quasi. E ora come si tirava fuori dai guai? Una vocina le suggerì che un operativo si sarebbe tratto d'impaccio meglio. Ma la ignorò. Quella era la sua idea. Era riuscita a metterla in piedi e poteva anche fronteggiare quel contrattempo. Anzi doveva, o sarebbe toccato a lei il veleno destinato a Ilaria.

Pensa, Monica, pensa. Era in un vicolo cieco.

Era riuscita a incastrare il suo capo, facendogli ammettere le frodi, ma lui non era solo. Il secondo uomo, era sceso dalla macchina e le aveva puntato una pistola contro. Spaventata gli aveva consegnato la chiavetta... vuota. Poi era scappata. La sua fuga precipitosa li aveva disorientati, ma più di un paio di minuti di vantaggio non li aveva. Come usciva di lì? Sentì dei passi. Lì c'era solo lei, un paio di mattoni e un bidone della spazzatura, vicino a un muretto, E i passi sempre più vicini. Muretto? Mattoni? La sua mente scattò, perché diavolo non ci aveva pensato prima? Si mosse più veloce che poté accostò i mattoni al bidone, si arrampicò fino al muretto e saltò giù, senza guardare, tanto se restava sarebbe morta lo stesso. Non morì. Ma di sicuro le sue ossa non stavano bene. La caviglia le faceva un male atroce, e non sapeva dire se fosse contusa, slogata o addirittura rotta, l'adrenalina compensava il dolore. Doveva muoversi. Si rialzò, era seguita. Cosa poteva fare nelle condizioni disastrose in cui era? Fermò un passante, e gli raccontò che era inseguita da un ex violento, il suo inglese non era fluente, ma se la cavò. Doveva trovare uno dei parcheggi sicuri dell' agenzia. Gliene aveva parlato Ilaria, e le aveva dato una chiave che avrebbe aperto qualsiasi auto. Qualcosa non andava: con la coda dell'occhio aveva scorto una macchina che si muoveva in modo molto strano. Dannazione! Il capo di Luisa, doveva era risalito in macchina, e la stava cercando. Raggiunse il parcheggio. Aprì la prima macchina, che trovò e partì sgommando. Non era mai stata molto brava a guidare, ma in quel momento era l'ultimo dei suoi pensieri. Era ancora viva dopo un tuffo di un metro e mezzo, sull'asfalto, scappando a un uomo armato, cosa poteva mai essere guidare, a velocità sostenuta, nel traffico serale?

Aveva dato appuntamento a Ilaria in un albergo, ma come arrivarci, senza essere seguita? Era il momento di fare un'altra pazzia. Doveva raggiungere un altro parcheggio, e l'avrebbe fatto a piedi. Trasse un respiro, non c'erano molte macchine in quel momento. Aumentò ancora la velocità, e con una forza e un'incoscienza che non sapeva di avere, fece inversione a u, puntando a scontrarsi con il suo inseguitore. Rallentò un poco. Un attimo prima di sentire lo stridere di lamiere, si catapultò fuori dall'auto in corsa. Si trascinò fino al marciapiede, e zoppicando, con la spalla ormai distrutta, un rivolo di sangue che le scorreva dalla fronte e il vestito strappato, sparì tra la folla, con il solo pensiero di mettersi in salvo. Raggiunse il secondo parcheggio, prese un'auto, e guidando come una pazza, raggiunse l'albergo.


Ilaria era davanti l'albergo. Suonò il clacson, per attirarne l'attenzione. Ilaria si avvicinò guardinga all'auto, anche se l'aveva riconosciuta come una delle auto dell'agenzia. Quando vide l'amica, non poté trattenere un grido d'orrore. Monica le intimò di salire, e lei ubbidì.

— Oh cielo Monica, cosa hai fatto?

— Ho giocato a fare l'operativo. Devi portare delle cose al tuo capo.

— Oh no, Monica. Dovremmo andare in un ospedale…

— Dopo. Altrimenti sarebbe tutto inutile.


Sharley, piombò nell'ufficio di Shadow, come una furia, muovendosi a una velocità impressionante per la sua mole. Buttò un rapporto sul tavolo.

— È l'ultima volta che si serve di uno dei miei agenti, per farne un'ombra. Comincio a chiedermi a cosa gli addestri.

— Crede che mi faccia piacere un disastro di simili proporzioni? E è stata addestrata prima da lei no?

— Sicuro. E uno dei miei agenti non avrebbe mai uno sprezzo così totale delle procedure e delle attrezzature dell'agenzia. Cosa conta di fare?

— Ha appena comunicato che sta venendo qui. Sarà allontanata.

— La rivoglio nella mia sezione.

— Sa meglio di me, cosa ne direbbe Barkey.

— Al diavolo! Io l'ho aiutata, ora le chiedo indietro il mio agente, traviato dal suo addestramento.

— Se pensa di poterlo reinserire con profitto... farò ciò che posso. È molto poco, l'avverto. — Sharley annuì. Shadow, chiamò Mallhoy all'interfono. Quella faccenda era sempre più rognosa. E qualcosa dovevano fare. Perché c'erano così tanti agenti desiderosi di mandare a rotoli tutti gli sforzi fatti per ripristinare la zona d'ombra, e perché capitavano tutti a lui?


Ilaria e Monica, arrivarono all'agenzia, e vi entrarono entrambe. Arrivate nei corridoi della sezione S, Ilaria lasciò Monica ed entrò sola. Nella stanza c'erano tutti e tre i capi delle varie sezioni: uno spettacolo agghiacciante. Avrebbe voluto scappare, ma il pensiero di Monica, di quello che aveva fatto per lei, la costrinse ad avanzare.

— Qui, c'è tutto quello che volevate. E anche di più… — Biascicò a bassa voce, posando la chiavetta, il cellulare con le foto e le registrazioni sulla scrivania. I tre uomini la guardavano intenti.


Qualcosa non quadrava. La donna davanti a loro non aveva neanche un graffio. Cosa diamine stava succedendo? Era impossibile uscire indenni da tutto quello che aveva fatto S24K.

— Mi spieghi cosa diavolo sta succedendo. — Shadow, era furioso e la sua voce, era alta e tagliente come una lama.

— Ho agito di testa mia. — Lo sguardo di Shadow, era una maschera di rabbia, quello degli altri due uomini non era meno spaventoso.

— Da sola, J24? — La incalzò Sharley, la voce stridula e colma di rabbia.

— Certo… — Mentì. Shadow, sbatté un pugno sul tavolo, Sharley bofonchiò qualcosa di rabbioso e orribile che non volle comprendere. Solo Mallhoy parlò, e ogni parola era una pugnalata, fredda, precisa, letale.

— Suvvia, dica la verità, signorina.

— L'ho… d… detta… — Balbettò.

— È forse un robot? — Urlò Shadow.

— Un robot? Non capisco, signore — Gli fece eco spaventata e confusa.

— Vuole farci credere che è saltata giù, da un muro, ha provocato un incidente, buttandosi da un'auto in corsa, e ne uscita illesa? — Urlò ancora Shadow.

Guardò i tre uomini confusa. E restò in silenzio cosa doveva fare?

— Suvvia, non offenda la nostra intelligenza, se davvero avesse fatto tutto ciò a quest'ora dovrebbe essere a pezzi. — Interloquì Mallhoy. Davvero non sapeva chi temere di più, se Shadow, Mallhoy o Sharley, che ora se ne stava muto, il volto totalmente contratto dalla rabbia.

— Non le ho fatte — Disse. Forse era meglio dire la verità.

— E chi è stato? — Chiese Sharley, con voce stridula e metallica.

— Ho commesso un errore. Ho usato la vecchia copertura con il contatto che mi avevate indicato.

— Cosa? — Urlarono tutti e tre gli uomini.

— Non sapevo come fare. E ho mandato un'altra persona al posto mio.

— Un'altra persona? — Urlò Shadow.

— Una mia amica del liceo.

— Una civile? — Esclamò inorridito Mallhoy, anche Sharley era stupito. Shadow, era più che furioso.

— E ora, dove sarebbe questa fantomatica donna, tanto pazza da credersi superman?

— Proprio qui. — Non si erano accorti che qualcuno aveva aperto la porta. La voce di Monica, era bassa ma ferma. Si muoveva a fatica.

Aveva sentito ogni cosa, e aveva pensato, d'intervenire. C'erano tre uomini nella stanza, uno non era alto, e la sua corporatura ricordava un armadio, La faccia era severa e i lineamenti marcati, sembrava un mastino. Doveva essere Sharley. Gli altri due, erano due uomini bellissimi. Sempre che la vista non le stesse giocando qualche brutto scherzo. Uno sulla cinquantina, elegante, carismatico, modi affabili, volto gentile, capelli brizzolati. Ma si capiva che l'aspetto ingannava molto, soprattutto sulla gentilezza. L'altro più giovane, coi capelli neri, era di una bellezza selvaggia e pericolosa. Visti vicini tutti e tre mettevano i brividi. Lei stava in piedi a fatica.

— Perché diavolo ha fatto questo macello? E come diavolo ci è riuscita?

— La mia amica voleva riavere il suo lavoro con Sharley, e ho deciso di aiutarla. Come ci sono riuscita non chiedetemelo. Ma la mia idea era buona. Se mi aveste ascoltato, sarebbero andate storte meno cose.

Gli uomini in sala si ammutolirono. Ma non si faceva illusioni. Era nei guai. La testa le girava, e sarebbe caduta, se qualcuno non l'avesse fatta sedere. Era stato Sharley. Ma quanto poteva muoversi veloce?

— Ha del fegato. — Le disse con la sua voce sgradevole. Ma almeno era stato gentile.

— Complimenti per essere ancora viva. — Disse Mallhoy, con la sua bella voce.

— Grazie per i regali. — Ironizzò Shadow. Ma Sapeva che non erano complimenti.

— Vi faccio pena? — Parlare le costava uno sforzo enorme.

— Rabbia. — La corressero all'unisono tutti e tre.

— Per aiutare la sua amica, ha messo nei pasticci tutti noi. Di solito lavoriamo separatamente. È di vitale importanza. Ma per quello che è successo e per quello che ha fatto ci ha coinvolti tutti. — Spiegò Mallhoy.

— J24 doveva sapere di doversi attenere alle procedure.

— Io volevo solo il mio vecchio lavoro. Ho pensato che se chiudevo con successo questa missione, avrei potuto chiedere di essere riassegnata.

— Con successo? E anche se tutto fosse filato liscio, cosa pensa ne sarebbe stato della sua amica?

— Io, in ogni caso ritornerò alla mia vita. — Disse Monica debolmente.

— Non può. Si è troppo esposta e conosce troppe cose — A parlare era stato ancora Mallhoy. I tre uomini continuavano a scambiarsi occhiate.

— Ora dobbiamo limitare i danni. — Disse Sharley.

— Cosa accadrà? — Chiese Ilaria spaventata.

— Lei tornerà alla mia sezione. J24.

— In quanto a lei, non è certo il modo, ma benvenuta. — Disse Mallhoy. Ma quella frase gentile non le prometteva niente di buono.

— Io e Mallhoy, stiamo sperimentando un progetto, non una nuova sezione, ma una piccola squadra di agenti fantasma. Gente come lei, a quanto pare da oggi ha un nuovo lavoro. — Le parole di Shadow. Erano una minaccia.

— L'accompagnerò al nostro ospedale. Ora deve riposare. Quando starà meglio capirà di cosa parlano i miei colleghi. — Le disse Sharley.

Poi il buio.


In ospedale aveva avuto modo di riflettere, e a lungo. La sua bravata, le era costata cara. Durante la sua permanenza lì, aveva ricevuto visite regolari da Ilaria, la quale si era mostrata molto pentita e dispiaciuta di quello che era accaduto. E anche due visite del tutto inaspettate. La prima, era stata quella di Shadow. La mattina dopo, quando era ancora intontita dagli antidolorifici. Ma era riuscita a tenergli testa. Era davvero bello, e pericoloso. Ma non la spaventava, era un lusso che non poteva permettersi farsi spaventare dai capi sezione dell'agenzia.

Ripensò a quella breve visita.

— Ha smesso di sembrare uno zombie. Sta meglio? — La voce era controllata ed estremamente fredda.

— Sono viva, signore. Perché è venuto? — Faceva ancora fatica a parlare, ma sarebbe morta pur di non farglielo notare.

— L'agenzia ha regole ferree anche per noi. Mi creda, non è un piacere accettarle.

— Ma vanno accettate sempre, vero?

— Il più delle volte. Ma lei è allergica alle regole, no?

— Quando sono stupide.

— Certo. Ma hanno un ruolo ben preciso. A ogni modo, come le dicevamo c'è una zona fumosa nell'agenzia, lì non ci sono regole, o quasi.

— E io finirò lì. — Dedusse Monica.

— Sarebbe più sicura in una delle sezioni, ma non farebbe per lei.

— Devo averle fatto una pessima impressione — Shadow, la guardò e un lampo gli passò negli occhi.

— Gente come lei è una spina nel fianco. Ma sicuramente merita stima. — Dopo queste parole, pronunciate con un tono freddo e distaccato, velato di una profonda rabbia, lui lasciò la stanza. E lei ancora adesso faticava a capire quelle parole.

La seconda visita era stata quella di Mallhoy. Era andato da lei, quando aveva cominciato la riabilitazione. L'aveva stupita il fatto che lui sembrava davvero interessato alla sua salute.

— Tengo ai miei uomini. E lei in parte rientrerà tra loro. — Aveva fascino ed eleganza, ma a guardarlo negli occhi, non era meno pericoloso di Shadow.

— Capisco. Perché è venuto? Poteva informarsi telefonicamente.

— Preferisco sempre agire in prima persona, se posso farlo.

— Devo essere davvero un problema, allora. — Lo sfidò. Ma non lo vide perdere il suo solito autocontrollo. Era forse fatto di ghiaccio?

— O forse una risorsa. Anche i problemi, hanno risvolti positivi. — Sorrise affabile prima di sparire. E a Monica Vennero i brividi.

Il periodo in ospedale era filato liscio. Ma ora era finito. Stavano per dimetterla. Si era già vestita. E non si faceva illusioni, i guai stavano per cominciare ora. Cosa l'aspettava davvero? E cosa era quella strana zona grigia di cui tutti parlavano? Non lo avrebbe mai ammesso, ma era spaventata. Scosse la testa. Non era una stupida. Se la sarebbe cavata. Ci era riuscita una volta, avrebbe potuto farlo di nuovo. La porta si aprì. Pensava che si trattasse di un'infermiera.

— Sono pronta.

— Lo vedo. — Grugnì la voce di Sharley. Lei impallidì vedendolo. Cosa ci faceva lì?

— Anche lei? Rientro in un particolare tipo di attrazione, tipo animale dello zoo?

— È la prima donna che tiene testa a quei due sul loro stesso piano.

— Cosa vuole?

— Offrirle una possibilità.

— E sarebbe?

— Tirarsi indietro, adesso.

— Chi la manda, Shadow o Mallhoy?

— Nessuno.

— Non le credo. Altrimenti perché è qui?

— Chissà? Mi sono rammollito con l'età. Anche io come quei due ero un operativo. — Monica rimase allibita. Uno come Sharley ?

— Lei?

— Una vita fa. — Taglio bruscamente lui.

— Pensa che io non sia in grado?

— Lei è in grado. Ma un fantasma fa tutto da sé.

— Cosa vuol dire?

— Prenderà le missioni e le direttive da Mallhoy e Shadow, le informazioni e gli equipaggiamenti da me. Poi dovrà improvvisare. Domani comincerà l'addestramento.

— Dice che sono in grado. Ma vuole che rinunci.

— Vuole rinunciare?

— No.

— Allora non è importante quel che penso.

— Io voglio sapere il perché.

— Ha il cervello di un tecnico, le capacità di un'ombra e l'istinto di un operativo. È perfetta per il ruolo più pericoloso dell'agenzia. Ma resta il più pericoloso.

— Per una donna?

— Cielo se è irritante! Per chi chiunque. Ma va bene, si diverta! — Abbaiò Sharley. Era un uomo singolare.

— Mi divertirò. — Lui ignorò deliberatamente la provocazione, ma il suo sguardo le disse chiaramente che l'aveva colta.

— Andiamo.

— La porto all'agenzia, e poi le mostro dove abiterà.

— Va bene.

All'agenzia, Sharley l'accompagnò nella sezione S, e poi la lasciò entrare nel covo dei leoni da sola. Non si lasciò scoraggiare. Era in ballo e avrebbe ballato fino alla fine e oltre se necessario. C'erano tre uomini, Shadow, Mallhoy, un ragazzo giovane, sui 25 anni, biondo, strafottente. Chi era?

— E così finalmente la vediamo nel pieno delle sue forze — L'accolse Mallhoy.

— Già. Ha un aspetto migliore rispetto alla sua versione zombie — Fece eco freddamente Shadow.

— Grazie dei complimenti, purtroppo non posso ricambiarli. — Sfidò entrambi. Gli uomini si scambiarono un'occhiata e uno strano sorriso. William, nell'ombra era stupito della temerarietà di quella donna, ma quando era stupida?

— Lui è l'altra mia spina nel fianco. Da oggi farete parte dello stesso progetto, ma non lavorerete insieme. — Disse Shadow.

— Condividerete però gli addestramenti. — Chiarì Mallhoy. Ecco perché gli avevano fatti incontrare. William. Si avvicinò alla nuova arrivata.

— Ben venuta all'inferno. — Le disse. Probabilmente non era consapevole dei pericoli. Pensò.

— Ne sono consapevole.

Vennero congedati entrambi.

Fuori dalla porta, l'aspettava Ilaria. La prese sotto braccio, e le disse che le avrebbe mostrato la nuova casa. Provò una sensazione strana nel sapere che non sarebbe stato Sharley, ma durò un istante e fu presto dimenticata. Incrociarono un uomo con gli occhialetti da gufo.


Barkey entrò nella stanza.

— Signori, perché S20K è ancora qui? L'ho appena vista.

— Si sbaglia. Ha visto J24.

— Sono la stessa persona, Shadow.

— Lo sono state, non era tagliata per essere un'ombra, ed è tornata al suo reparto, subito. — Replicò gelido Shadow.

— Ed S20K che fine ha fatto?

— Allontanata e riassegnata. Certi agenti sono fantasmi, non li si manda mai davvero via. — Barkey annuì alla fredda replica di Shadow.

— Nessuna eccezione stavolta?

— Nessuna. Mai.

Barkey, lasciò alcuni faldoni sulla scrivania di Shadow, e ne porse altri a Mallhoy, prima di congedarsi.

— Come va con la tua Jane? — Chiese Mallhoy.

— Bene. Cosa ne pensi del nuovo elemento?

— Non ci deluderà.


(fine)


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Laura Traverso


Il portoncino rosso


Si comprò con pochi soldi una casetta particolare che viveva, un po' malandata, in un luogo semplice e dai tratti antichi.

La restaurò, con grande rispetto, mantenendone le caratteristiche originali, così come l'ultracentenario portoncino che, dopo averlo sistemato al meglio (per copiare l'Irlanda, nota per avere portoni dai colori molto accesi e variopinti, da cui era da poco tornata da un viaggio) fece diventare rosso, di un bel rosso squillante, l'unico di quel colore in tutto il paese. Anche la facciata la mantenne come era: con le pietre a vista sulla quale due finestrelle curiose si affacciavano su di una larga via al centro del paese.

Sto parlando di un luogo diventato del cuore di quella ancora giovane donna, dove capitò per caso quasi trenta anni fa, innamorandosi di esso all'istante.

È un paese della Sardegna, circondato da magnifici sughereti, dove l'aria è pura e il cielo è quasi sempre blu; situato in collina, ma col mare vicino. A soli quindici minuti d'auto si può raggiungere una spiaggia favolosa di sabbia dorata e finissima con frammenti di corallo: perché in quel tratto di mare c'è una barriera corallina. Per lei fu un vero colpo di fulmine, divenne il suo paradiso. E lo fu davvero.

Col suo amore di allora andò ogni estate nella sua piccola casa di circa quarantacinque metri quadrati: l'aveva arredata semplicemente ma con colori vivaci che facevano bene al cuore e alla vista.

Era tipica del luogo, con l'ingresso indipendente, definita a schiera; situata su due piani con in più il soppalco dove aveva creato una deliziosa zona notte.

Trascorsero lì moltissime estati, furono giorni davvero felici; era un piacere partire al mattino dal paese per andare a visitare i luoghi rinomati che il nord della Regione offriva, ma il conforto di tornare alla sera e godere dell'aria meno afosa, ma più fresca data dalla dolce collina, era impagabile.

Lei si chiamava Lisa, era una persona romantica, innamorata di Michele e da lui ricambiata. Erano affini di anime e di idee e la casetta era per entrambi un amore condiviso. Vivevano con fatica i lunghi mesi di forzata lontananza da essa. Ma d'altra parte non potevano far altro che ritornarci solo ad agosto, quando il reciproco lavoro entrava in pausa grazie alle ferie estive.

Avevano anche preso in considerazione di trasferirsi lì, ma capirono quanto fosse improponibile il progetto: non sarebbe stato affatto semplice abbandonare la propria città, al nord d'Italia, e soprattutto, le loro attività lavorative.

Passarono così molti anni, forse più di venti e tante cose accaddero, come sempre e per tutti nella vita.

Lui si ammalò gravemente e se ne andò dopo non molto tempo dall'inizio di quel male.

Per lei fu un dolore sconvolgente.

Ritornò ancora qualche volta, da sola in Sardegna nella sua amata casa, ma non fu più la stessa cosa. I suoi colori vivaci e tutto il bello che la circondava non bastavano a sanare la ferita per aver perso l'uomo della sua vita.

Ancora non anziana anche lei dovette dare l'addio al mondo, a questa nostra vita terrena.

L'abitazione rimase da sola per alcuni anni, la figlia di Lisa ci andò un paio di volte volentieri, ma non abbastanza da volerla tenere.

Pensava pure alla spesa non indifferente da sostenere per raggiungerla con la nave, perciò decise di venderla.

Non fu difficile trovare l'acquirente che se ne innamorò, come a suo tempo la giovane donna, e disse che ad aver dato il via alla decisione di acquistarla fu proprio il portoncino rosso.


(fine)


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Letylety


La libertà all'improvviso


Tutto era cominciato in occasione della Fiera del Tessile in programma a Milano. Mio marito Giuliano aspettava trepidante l'inizio dell'evento che gli avrebbe permesso d'incontrare numerosi clienti che seguiva personalmente. C'era la possibilità che la sua posizione in azienda si rafforzasse magari con un aumento di stipendio, e in qualunque caso avrebbe visto aumentare il suo livello di autostima, lui che era un uomo semplice e per certi versi schivo.

Purtroppo, a una settimana esatta dalla partenza per Milano, arrivò la doccia fredda: Giuliano era stato escluso dal gruppo. In Fiera ci sarebbero andate solo tre persone del commerciale e due segretarie. Punto, lui sarebbe rimasto in azienda.

Quando chiesi lumi per quella svolta inspiegabile, mi disse che Albertini, suo collega pari grado, aveva organizzato tutto con il direttore generale e quella era la soluzione decisa da entrambi.

Bel collega, dissi, bel prototipo di scalatore aziendale. Mi guardò di soppiatto bofonchiando qualche giustificazione a favore di Albertini. Sei troppo buono, insistetti, ma lo scambio era già finito.

Rimuginai il fatto per un bel po' di settimane, tanto più che la Fiera non mantenne le attese della partenza e i risultati furono piuttosto deludenti.

Quel fatto mi riempiva la testa e mi svuotava di energie. Ma com'era stato possibile lasciare a casa Giuliano? Albertini non mi era mai piaciuto, un tipo allampanato dalla pelle unta, con la fronte e il mento perennemente lucidi. Era il classico arrivista, con una bella moglie che fosse nata negli anni sessanta, avrebbe indossato quei cappelli a lampadario e accavallato le cosce con calze color carne mettendole bene in mostra. Avevano due figli fotocopia, eccellentissimi a scuola e glaciali come il padre. Distaccato, scostante, nelle numerose cene aziendali cui avevo partecipato, non avevo mai avuto modo di approfondire nessun discorso, limitandoci a qualche saluto di circostanza.

Giuliano, quella pasta d'uomo di mio marito, non aveva detto nulla, aveva accettato quella decisione con spirito olimpico. Mi sembrava di sentire mia madre quando tre anni fa poco prima di sposarci, lo chiamava Giuliano Tremarella, per il suo entusiasmo tiepido e poco virile.

Un lunedì di gennaio mi svegliai alle dieci. Non avevo un lavoro fisso, i miei studi di scienze politiche non mi avevano aiutato un granché e io mi ero immersa completamente nei panni della mogliettina. Ero nervosa quel giorno, qualcosa covava da tempo e, improvvisamente, esplose.

Feci colazione al bar sotto casa e poi mi diressi in un internet center, per noleggiare un computer e una stampante. La lettera anonima l'avevo già scritta e girata nella mia mail. Bastava solo stamparla. Avevo cercato di mantenere un linguaggio semplice e deciso, dove mi travestivo da fantomatica direttrice di un'azienda cliente che si lamentava del Dott. Albertini, attribuendogli comportamenti maleducati e assoluta mancanza di feedback. Si leggeva bene, diceva tutto e niente ma pensavo che potesse bastare. Non era cattiveria e non era mia prerogativa quella di essere un corvaccio lugubre che aleggiava sulle dinamiche aziendali, però quell'esclusione mi aveva fatto male, mi bruciava l'apatia di mio marito e la prevaricazione di un arrivista freddo e spregiudicato come il collega. Una piccola vendetta, condita con una dose di frustrazione, servita fredda a distanza di qualche mese.

Il bengalese che gestiva il locale fu molto gentile, mi fece sedere in fondo al locale vicino alla stampante e io cominciai. Aprii la mail feci copia e incolla, cancellai il mio indirizzo di posta che stranamente troneggiava prima del ridondante Egregio Direttore d'inizio lettera e stampai.

Tornata a casa, imbustai la lettera sempre all'attenzione del Direttore Generale e scesi per andare all'ufficio postale dove la imbucai. Appena il plico scivolò nella buca mi sentii subito strana, come se una parte di me fosse finita in quella scatola rossa.

La sera al ritorno di Giuliano avevo il battito a mille, irrazionalmente pensavo che quella busta fosse già arrivata a destinazione, poi con il passare delle ore un piccolo terrore m'invase il cervello. E se il mio indirizzo di posta non si fosse cancellato? Se per qualche strano refuso il nome con la chiocciolina fosse stato ben visibile? Eppure avevo controllato la stampa ma… se… ma… se la fretta o qualsiasi intoppo cerebrale mi avesse bloccato la visione della mail? E se fosse stata scritta in colore chiarissimo, nascosta all'autrice e, al contrario, ben visibile a uno sguardo attento?

Cominciai a sudare, dissi a mio marito che forse avevo preso qualche malanno e mi rifugiai sotto le coperte.



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Martedì


Risveglio traumatico. Ho dormito profondamente ma una volta aperto gli occhi ho cominciato a sudare. Puzzo. Giuliano è già andato a lavoro e io comincio a disperarmi di essere scoperta, di causargli una figura terribile davanti a tutti. Lui ama il suo lavoro e io mi sento una disgraziata nell'essermi intromessa in maniera subdola, stupida, senza cervello. Comincio a consultare i tempi di consegna della posta ordinaria. Sono quattro giorni nel 90% dei casi. In teoria una lettera spedita il lunedì arriva a destinazione il venerdì. Devo solo aspettare, devo resistere.

Ogni cinque minuti rivedo l'ipotetico filmato di quanto avvenuto nell'internet center. La mia mail era rimasta impressa su un sottofondo grigio, io l'avevo cancellata puntando il cursore alla fine dell'indirizzo di posta e arretrando con l'apposito tasto. Non era rimasto nulla se non il grigio di sottofondo. Era un'anomalia, certo, ma chissenefrega… se avevo cancellato tutto! Purtroppo ogni pensiero, ogni tentativo di trovare una ragione che fosse dalla mia parte era inutile. Io avevo paura di aver sbagliato qualcosa.


Mercoledì


Notte tranquilla e sveglia agitatissima. Sono così tesa che non ho già più nulla da chiedere a questo giorno. Respiro corto, sento gli occhi aprirsi all'infinito e mi gira la testa. Penso che Giuliano si stia accorgendo della mia distanza. Di notte non lo abbraccio, rimango distaccata e la mattina non prendo il caffè, forse pensa che sia influenzata. Anche lui mi sembra assente, che viva per conto suo. Cambio tre magliette al giorno. Le tolgo che sono bagnate, acide come il malessere che ho in corpo. Questa mattina ho pulito tutti gli scomparti della cucina come una casalinga disperata. Non capisco cosa mi sta accadendo.


Amore Fervore

Errore Terrore

Sudore Afrore


La settimana successiva


Inizio settimana durissimo, in attesa della sentenza. Saltuariamente la mia testa ragiona e mi dice di non temere, che su quella lettera non posso aver lasciato il mio nome, è impossibile, me ne sarei accorta. Ma ogni volta che la logica cerca di prevalere sulla mia paura cieca, qualcosa in me perde pezzi, e cresce il terrore. Continuo a sudare. Quando Giuliano rientra a casa, mi comporto come un agnellino con le orecchie ben ritte. Se mi racconta qualche fatto accaduto al lavoro, faccio finta di dare poca attenzione mentre cerco di interpretarlo, di capire se qualcuno ha letto la lettera, se ne ha parlato con Albertini. Capisco una cosa: l'assassino i primi giorni dopo il delitto sente il bisogno di essere interrogato, perché in quel caso si sente vivo, paradossalmente avere su di sé gli occhi dell'investigatore gli dona sicurezza mentre il silenzio e l'attesa corrodono l'anima.

Stanno arrivando i giorni decisivi. Se tutto tacerà, sarò salva.


Tre giorni dopo


Alla terza doccia mattutina mi vedo bianca come un cencio. Ho perso tre chili e il mio ventre è piatto come quello che avevo da ragazzina. Una volta asciugata, mi siedo al computer e controllo le mail. Tra gli spam e le solite pubblicità ne trovo una mail del Dott. Claudio Martini, l'Egregio Direttore.

Una vampata di calore m'inonda tutto il corpo come fossi alle Maldive e non a Roma. Mi asciugo le mani bagnate nell'accappatoio e la apro. La leggo priva di quel fiato che trattengo agitata. Dice con tono paterno che ha ricevuto una lettera strana dove c'era riportata la mia mail e mi lascia un numero di telefono perché mi vuole parlare.

Dio! Non è possibile! Che errore pazzesco! E me lo sentivo, comincio a dirmi, avevo troppo timore per non essere giustificato. Se il mondo mi cadesse addosso, starei meglio rispetto a questo momento. Perché non arriva un terremoto e tira giù tutta la città. Perché?

Prendo il coraggio con le pinze e lo chiamo. Dall'altra parte mi risponde una voce quasi metallica. Dice che vorrebbe parlarmi, capire perché ho inviato quella lettera e mi da appuntamento in un bar. Balbetto a mia difesa senza riuscire a reagire. Tutte le prove mentali che avevo fatto saltano via come birilli e accetto l'incontro. Mi rendo conto di essermi data la zappa sui piedi, una persona innocente non avrebbe mai assentito all'incontro, avrebbe mostrato stupore e chiesto altri chiarimenti.

Trasalisco come una ragazzina mentre già mi sto vestendo. Metto un po' di rossetto ed esco.

Arrivo al bar che mi ha indicato e quasi mi ritrovo a sorridere. È un bar malfamato, pieno di stranieri che urlano e italiani che tracannano birra alle quattro del pomeriggio. Se voleva l'incognito, l'egregio direttore ha centrato il suo obiettivo, difficilmente troveremo qualcuno di nostra conoscenza.

Entro imbarazzata e impaurita.

Lo vedo, un uomo sulla cinquantina vestito elegantemente, batte ritmicamente una mano sul tavolino per attirare la mia attenzione. È lui, lo chiamerò Al Cafone. Oppure Al Cazzone, un nome perfetto per questi tempi.

Ci presentiamo, la sua mano è calda e avvolgente. L'ho già visto un paio di volte alle cene aziendali, cerco di inquadrarlo, di ricordare qualche episodio.

Cominciamo a parlare aggirando il problema. È un discorso concentrico che poco alla volta stringe verso il punto. Lui mi studia, io mi sento un soldatino. Mi dice che è rimasto molto sorpreso da quella lettera e, soprattutto, dal mio grossolano errore. Vuole sapere, indaga, comincia a diventare incalzante. Io balbetto, non mi sono neanche preparata una benché minima difesa. Come in una partita a tennis la palla va da un campo all'altro, io cerco di uscire dall'angolo dove mi sono cacciata.

Poi improvvisamente prendo sicurezza, mi torna in mente una frase di Seneca che declama Udrai la verità, e io la mia verità l'ho già udita e gliela spiattello. La Fiera del tessile, l'esclusione di Giuliano, i risultati non positivi, la codardia in generale.

Come una moderna Giovanna d'Arco ho piantato la mia lancia, il mio vessillo, pronta a urlare la mia ragione.

Lui rimane impassibile, vedo la sua mano che si avvicina alla mia. Resisto, faccio finta di nulla ma quando il contatto è quasi inevitabile, la arretro di un paio di centimetri.

Lui mi guarda fisso negli occhi, serra le mascelle e mi dice che la rappresentazione che presento è ingannevole e la verità non è completa, c'è qualcosa che ho omesso o che non conosco.

Io lo guardo dubbiosa, cerco velocemente di capire se sta bleffando o se dice il vero. In qualunque caso devo trovare il modo di chiudere la tenzone, cercare di farmi "perdonare", interpretando la parte della moglie contrita.

Riprende a parlare, mi dice che Albertini non è un arrampicatore spietato che pugnala i colleghi alle spalle. Al contrario è mio marito che mi doveva dire qualcosa e se non l'ha fatto, sarà lui svelarmi la verità.

Diciamo così, mi spiega con sguardo penetrante, mio marito è amico, molto amico della moglie di Albertini.

Resto in silenzio. Abbasso lo sguardo. Ordino un secondo caffè perché ho bisogno di fare qualcosa.

Quindi è Albertini la vittima, gli domando. Lui annuisce.

Continuo il mio silenzio per qualche minuto mentre lui mi osserva, ogni tanto sorride. Cerco di capire mentre sostengo tutto l'Universo con la forza del pensiero. Ho una visione del bar a 360°.

Analizzo le cene che abbiamo fatto negli ultimi tempi, scruto nel passato, nei volti, nei sorrisi, negli ammiccamenti. Cosa mi è sfuggito?

Ora vedo tutto chiaro, fuori e dentro di me. Due italiani al nostro fianco parlano di calcio, il resto del bar è un andirivieni di gente. Ragazze truccate in minigonna scherzano con uomini di una certa età, alcuni si fermano per comprare sigarette.

In questo locale ho tutto sotto controllo, e anche la mia vita sta per riprendersi. Penso al fatto che non ho voglia di discuterne con Giuliano. Farei la figura della stupida. Lo capirò in due minuti quando lo vedrò questa sera. Giuliano Tremarella! Le madri hanno sempre ragione! Mi rimane forte la voglia di fuggire, di correre subito e svoltare l'angolo e trovarmi su una spiaggia immensa. Mi vedo nuda e abbronzata che corro verso il mare sotto un sole benevolo.

Al Cazzone si fa mansueto, capisce l'amore di una moglie e bla bla bla ma condanna decisamente la mia azione. Dice che non può tacere su quella lettera, le direttive aziendali non lo permettono. Io replico, non è un segreto aziendale, ho sbagliato bersaglio e me ne pento, a questo punto ho già un grosso problema da affrontare. Che si metta una mano sulla coscienza, insisto.

La sua mano invece si avvicina alla mia, ora la vedo bene, ogni secondo diventa affusolata e pelosa e ha dei lunghi artigli. Vedo il lupo, sento la sua energia e la sua voglia.

Lui ha gli occhi affamati, dice che gli piaccio, che sono carina, che ho un fisico da sballo. Che impazzirebbe per me.

Credo di arrossire, mi guardo intorno in quel bar pieno di gente poi capisco che devo vendere cara la pelle.

Hai fatto bene a osare, mi dico, per una causa che ritenevi giusta. Ora sei inguaiata, credi di essere in una strada senza uscita, al cospetto di un satiro. Eppure anche lui ha un punto debole, se Achille aveva il tallone questo essere ha il ventre molle dell'italiano medio. Lo colpirò in ciò che sfoggia senza ritegno, il suo nucleo, la sua apparente ragione di vita, a beneficio e visione di chi lo applaude con retorica adamantina che acceca lo sguardo: la famiglia, la "famigghia" dicono con enfasi al sud Italia. Ho il colpo a sorpresa che mai mi sarei aspettata di dover estrarre.

Prendo il cellulare, come una furia vado sulla rubrica telefonica, clicco un nome e glielo metto sotto il naso.

La chiamo ora o dopo? Gli dico suadente. Non ho più paura.

Al Cazzone rimane di sasso nel leggere il numero di sua moglie. Non sa che durante una cena aziendale avevamo fatto amicizia, e ogni tanto ci sentiamo. Non siamo amiche strette ma ci conosciamo e, all'occorrenza, potremmo sostenerci.

Ora il lupo è nell'angolo, colpito nella sacralità della sua menzogna. Non ho vinto, perché la mia è una guerra triste che lascerà segni. Sono una cornuta e mazziata con la dignità alle stelle. Gli dico di darmi la lettera, di scriverci sopra FALSO a caratteri maiuscoli e di firmarla. Lui esegue come l'agnellino che credeva di incontrare, ci guardiamo negli occhi, lui abbassa lo sguardo e se ne va.

Non tocco la sua zampa.

Guardo l'interno del bar per l'ultima volta poi esco di fretta.

Fuori, un pallido sole illumina la città, mentre le persone vanno e vengono inseguendo le loro vite. Che strana luce, penso. Sembra una cartolina di tanti anni fa.

Comincio a ridere.

Mi ritrovo in un mondo quasi perfetto e vedo davanti a me l'ombra lunga della libertà. È arrivata all'improvviso e l'ho subito riconosciuta.

Allungo il passo e comincio a correre. Corro, corro, corro.

Corro.


(fine)


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Giovanni p


Etnogenesi


Gerad guardò fuori dalla finestra.

Faceva un caldo insopportabile, l'umidità s'aggrumava a formare una spessa coltre che inghiottiva l'orizzonte e incollava la pelle ai vestiti.

Sapeva che non sarebbe uscito di casa nemmeno quel giorno, aggrottò la fronte, lo sguardo si fermò sulla carta da parati che copriva la stanza. Ritraeva il planisfero, duecento metri quadri di mondo e non si distingueva nemmeno la giunzione tra un foglio e l'altro neanche si fosse provato con una lente d'ingrandimento. Quando era arrivato in quell'angolo di foresta aveva fatto costruire il suo castello.

E nella sala del planisfero Gerad volle quella parete, un monito, per non lasciar sopire la sua ambizione: mille realtà diverse dalla sua, e incalcolabili possibilità di trovare luoghi da depredare, come aveva fatto con il suo angolo di mondo.

Ma anche l'ambizione aveva dovuto far i conti col tempo, e adesso viveva incollato sopra la sua poltrona, gonfio di cortisone e segnato dal diabete, e quel planisfero serviva solo a ricordargli quanto casa sua fosse lontana.

Era chiuso in casa ormai da una settimana, il castello era enorme, ma anche ben sorvegliato dall'esterno. Non aveva nulla da temere là dentro. Incollato alla sua poltrona guardava la brocca di tè verde che sudava gocce simili a rugiada: aveva sete, ma il solo tenere la tazza in mano lo affaticava. Per fortuna in suo soccorso era venuta Ninive.

Gerard sorrise tenendo le labbra serrate come un bambino imbarazzato, lei lo illuminò col suo candore e lo aiutò a sorseggiare il tè. Prima di andarsene gli comunicò che il signor Finnik chiedeva di parlare con lui. Acconsentì, solo perché sapeva quel che Finnik voleva, e lui aveva bisogno di svagare la mente. Ninive se ne andò facendo sfoggio della sua bellissima schiena nuda, e Gerard non perse nessuno dei suoi movimenti, sorridendo di sé stesso e di come alcune cose non finivano mai di riempirgli gli occhi.

Quando sentì arrivare Finnik, dal suo passo agitato che si avvicinava sala dopo sala provò una sensazione di onnipotenza.

Gerad! Gerad! — Lo vide con la fronte sudata, gli occhi sbarrati, la camicia madida nascosta appena dalla giacca.

Sono nella sala del planisfero, provò a dire, ma la voce gli si seccò nella gola.

La porta si spalancò come se fosse stata colpita da un ariete, nella stanza entrò un omino alto a malapena un metro e sessanta, pallido, emaciato, colle mani tremanti.

— Finnik, non si agiti, fa già un caldo infernale… Che ha da dirmi di tanto indifferibile?

— Un caldo infernale? Lei pensa al caldo?

— A cosa dovrei pensare, Finnik?

— Al fatto che qui rischiamo tutti l'osso del collo, Gerad, lei compreso!

Incollato sopra la sua poltrona Gerad sospirò, mentre Finnik si asciugava il sudore della fronte e del viso con un fazzoletto candido.

E approfittando del silenzio l'uomo gli portò la notizia che lo aveva reso così inquieto.

— Ne hanno appena ammazzati cinque. Il soprastante Levorg, lo conosce, con la sua famiglia! Queste bestie non hanno avuto riguardi neppure per i bambini!

Gli rispose che lo sapeva.

— Come fa a saperlo? È appena successo.

Gli avrebbe voluto dire che tutti loro lo sapevano benissimo, che anche lui, Finnick, lo sapeva, sin da quando era arrivato, che prima o poi questo sarebbe successo.

— Cosa vogliono da noi, questi selvaggi. Siamo qui per estrarre manganese e per trasformare la foresta in terreno agricolo. Cosa che loro non sono in grado di fare. Noi portiamo il benessere e la civiltà. Il progresso. Ma questi ingrati non se ne rendono conto. O, almeno, tutto procedeva a gonfie vele fintantoché non hanno avuto il bell'esempio di quei pecorai a nord. E adesso pensano di imitarli, e di ammazzarci tutti come bestie!

— Ascolta, Finnik, noi…

— Noi niente! Noi niente, Gerad!

Era esausto, la tensione lo aveva consumato, e si vedeva.

— Noi rischiamo di morirci qui, ammazzati come topi! Questi sono tanti, sono troppi, e ci detestano, ci odiano! Ci ammazzerebbero tutti. Rivogliono la loro inutile foresta? Che se la ripiglino. Non ci rimane che scappare.

Gerad provò a calmarlo e gli disse che lui lo sapeva benissimo, prima di arrivare, che sarebbero stati una minoranza contro una maggioranza di gente ostile.

— Abbiamo dalla nostra la legge e i soldi, le armi e la proprietà. E soprattutto abbiamo l'astuzia che loro non hanno.

Pensi che non fossi consapevole che lo sfruttamento indiscriminato prima o poi avrebbe causato delle rivolte?

— Lo sapevi tu, Gerad, io mi sono occupato soltanto di farti diventare ancora più ricco, ho pensato alla gestione delle miniere, alla deforestazione, a far lavorare i fittavoli e a riscuotere i fitti. Ma non ci voglio rimettere la testa, ho fatto venire la mia famiglia in questo posto dimenticato da Dio.

Gerad lo guardò divertito.

Finnick provò a calmarsi e gli chiese allora quale fosse la soluzione.

— La soluzione è la creatività — rispose Gerad con aria bonaria.

— Sono troppo ansioso per capire simili fantasie.

— Ma non sono fantasie, Finnik, questa è realtà: da anni è in gestazione e io me ne assumo la paternità.

— Parla come un oracolo, Gerad!

— Etnogenesi, ovvero la creazione di una etnia. Noi abbiamo rubato la terra a questi numerosissimi indigeni, abbiamo fatto loro promesse che non sono state mantenute. E adesso sono arrabbiati, sono diventati sanguinari, ma sono uniti tra di loro solo dall'odio nei nostri confronti. In questo paese che abbiamo occupato esisteva, prima del nostro arrivo, un gruppo dominante con cui abbiamo fatto accordi e che ora si è rivoltato. Ma non sono i soli. Quando siamo arrivati esisteva una popolazione da loro ritenuta una sorta di paria e tenuta ai margini. Certo, tra di loro parlano la stessa lingua, hanno lo stesso colore della pelle, credono nelle identiche divinità ancestrali, ma una élite si era affermata a scapito della maggioranza. E questo loro non lo dimenticano, non dimenticano la loro arroganza, le angherie, la sottomissione. Ti assicuro, odiano più loro che noi. Così ho inviato dei missionari allo scopo di convertirli e istruirli ai nostri valori. Noi creeremo un'etnia, li faremo sentire superiori, investiti dell'autorità divina, e in forza di questa superiorità combatteranno i loro fratelli per noi. Li abbiamo resi nobili, Finnick, e presto colpiranno i nostri nemici.

— Nobilitare queste bestie?

— Gli uomini hanno nobilitato bestie per tutto il corso della storia: cavalli, cani o gatti, o altri uomini come loro. Riusciremo a innalzare pure loro, diremo che discendono dall'eroe ancestrale, dalla divinità fattasi uomo. Anzi, non glielo diremo e basta, ma gli faremo credere che sia vero. Perché loro sono un popolo evoluto, un popolo che merita di governare al nostro fianco su chiunque, soprattutto sui loro fratelli.

— Quindi — disse Finnik tradendo con una smorfia la propria soddisfazione — faremo credere a questi deficienti trogloditi che noi siamo qua per loro.

— Non proprio, Finnik, noi saremo i loro padri, gli faremo credere di dover tutto a noi. Nessuno figlio disubbidisce al padre, neanche se lo sfrutta. Nessun figlio si ribella al padre, neanche se lo picchia. Loro in qualità di nostri figli uccideranno i loro fratelli, e lo faranno credendo di fare la cosa giusta.


(fine)

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