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Indice:
IL BANDO
PREFAZIONE
SUPERUMANI
VEDERE È POTERE
UNA STANZA SUL DAUGAVA
IO ODIO IL NATALE
una produzione
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Gara 61
Ai confini della Realtà
Novembre/Dicembre 2016
antologia per BraviAutori.it
da un’idea di Massimo Tivoli
illustrazione di copertina: photo montage by Erik Johansson
illustrazioni allegate ad ogni racconto di: autori vari
Si ringrazia Massimo Baglione per il supporto e gli Autori di questa raccolta per la partecipazione.
Trasformazione digitale: MiCla Multimedia
Nota: l’antologia impiega l’editing degli autori.

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IL BANDO

Non vi preoccupate, il riferimento all'omonima serie televisiva degli anni '60, sebbene azzeccato, non è necessariamente caratterizzante. Per essere ai confini del reale, talvolta, non bisogna scomodare il fantastico o il soprannaturale, la realtà da sola ci propina situazioni che vengono percepite come surreali.
Il carattere illusorio della realtà, o il sapore reale delle nostre illusioni, vuole essere la fiamma ispiratrice dei partecipanti a Gara 61.
Aprendo il tema a qualsiasi genere letterario, i partecipanti alla gara potranno cimentarsi con racconti che più classicamente rispondono ai canoni della famosa serie americana oppure racconti in cui i mostri e le paure peggiori, i fantasmi e le illusioni più angoscianti, le strampalate certezze che ci costruiamo per sopravvivere, vengono proprio dal quotidiano, dalla realtà, dalle conseguenze della nostra percezione di eventi e stimoli esterni, o di accadimenti che non avremmo mai pensato potessero accadere.
Buona lettura!
Massimo Tivoli

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PREFAZIONE

"Il carattere illusorio della realtà o il sapore reale delle nostre illusioni" rappresenta il tema centrale dei racconti raccolti nella presente antologia.
Gli autori dei racconti hanno interpretato il confine sottile tra realtà e illusione.
Hanno messo in scena storie e personaggi dove realtà e surreale si toccano all'interno di ambientazioni familiari ma, allo stesso tempo, misteriose, oppure hanno raccontato di realtà manipolate dove l'illusione rappresenta un mezzo per uscirne fuori e riscattarsi. Altri ancora hanno raccontato di come una perdita di equilibrio possa far vivere un conflitto interiore tra realtà razionale e realtà illusoria, oppure di come la perdita di una determinata realtà possa essere colmata tramite l'illusione creata dai bisogni più inconsci.
Quattro racconti che dondolano il lettore tra la realtà e l'illusione, e che fanno riflettere sulla possibilità che realtà e illusione siano, dopotutto, due facce della stessa medaglia.
Massimo Tivoli

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Massimo Tivoli

SUPERUMANI

(racconto primo classificato)
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Inspiro l’aria del piazzale, assaporandone l’essenza, l’unico sapore di libertà in questo inferno. Ammaliante, gli chiedo di offrirmi una sigaretta. Il cerbero mi porge una “Macedonia Extra”, me la faccio accendere. Con la coda dell’occhio seguo il movimento del braccio intento a riporre l’accendino. Memorizzo la tasca e gusto ogni boccata.
Degrado e abbandono mi circondano, mi stanno divorando a piccoli morsi. Il corpo continua a vivere, ma l’anima imputridisce. Mi sembra un incubo e, invece, è tutto reale. È un anno che sono rinchiusa. Ha pensato bene di farmi fuori, il porco.
Ce ne vollero quattro per farmi entrare. Li rivedo in preda allo sgomento. Una donna non avrebbe mai potuto scatenare tutta quella forza e rabbia.
Gli occhi di mio zio colmi di soddisfazione. Il suo piano funzionò alla perfezione grazie ai pregiudizi di mio padre che preferì credere alla realtà costruita da lui, piuttosto che alla mia. Ma, tanto, se avesse accettato la verità mi avrebbe comunque marchiata e condannata. Quel demonio di suo fratello si divertì a violarmi l’anima quando ero una ragazzina e, appena sono diventata donna, ha sferrato il colpo di grazia.
I ragazzi mi corteggiavano. La più bella del paese, dicevano. Contrariamente a quanto avevo pensato, tormentandomi per anni, scoprii che potevo essere amata. Decisi di assolvermi e di farmi travolgere dalla mia rinascita. Frequentai un ragazzo e, nel giro di un mese, un altro, un passo troppo lungo per una donna. Ma io li ho amati con passione e sincerità, spinta solo dalla libertà riconquistata.
La mia condotta venne fatta passare per ipersessualità, vomitata dal muso del porco durante una cena in famiglia. Quando poi inventò la balla su come, ancora ragazzina, tentai di sedurlo e sulla notorietà della mia ossessione, il suo alibi raggiunse la perfezione. Un gioco di prestigio infernale per eliminarmi prima che mi fosse venuto il coraggio di svelare la violazione. Ninfomane da ricovero coatto, questa fu l’illusione che divenne realtà agli occhi di mio padre e, ahimè, sulla mia pelle.
Il fischietto dell’infermiere di guardia trilla: ora di cena. Rientro e mi siedo al tavolo con Schizzo, Fuoco e Sfera. Non avrei mai pensato di riporre le mie speranze in uno schizofrenico, un piromane e un obeso che si crede veggente, e che non ha ancora capito che le sue premonizioni riflettono solo la sua ossessione per il cibo. Da quando li ho convinti che siamo superumani, mi seguirebbero ovunque. L’illusione mi ha condannata, e l’illusione compirà la mia vendetta.
— Allora, è tutto chiaro? — chiedo, guardandoli negli occhi uno dopo l’altro. — Solo noi superumani possiamo rispedire il diavolo all’inferno.
— Senti, Angelo, ho avuto una premonizione. Non ce la faremo. — risponde Sfera.
— Di’ piuttosto che te la fai sotto. — replico.
— E dai, non trattarlo così. — dice Schizzo. — Sfera è nervoso, non vedi i fulmini che emana? È elettricità allo stato puro. Possibile che non vedi?
— La visione oltre la realtà è un tuo superpotere. — rispondo, e mi rivolgo a Fuoco: — Tu sei con me?
— Schiocca le dita e divento una palla di fuoco, adesso!
— Frena l’entusiasmo. — rispondo, sorridendogli.
— Ma sì, il presagio di Sfera è frutto dell’ansia. Anch’io sono con te. — afferma Schizzo, confermando i suoi continui sbalzi di umore.
Osservo Sfera, intento a divorare il suo dolce. Gli offro il mio e indico agli altri di fare lo stesso. Pochi minuti e Sfera mi rivolge finalmente lo sguardo, mostrandomi un sorrisetto appagato e la punta del naso guarnita da un po’ di panna: — Scusami, ero affamato. Ora sento che ce la faremo. Lo vedo, lo vedo.
Stringo la mano di Schizzo e lo fisso negli occhi. Gli parlo del diavolo, del suo potere di possedere chi dubita, dapprima con tono suadente e poi con voce malvagia. Dopo mezz’ora, il suo cervello si rivela un perfetto illusionista. Schizzo si butta a terra in preda a una crisi: — Demoni, demoni ovunque, vogliono possedermi. — urla. — Il diavolo sa che ci batteremo con lui.
L’infermiere di guardia e altri gli si buttano addosso.
— Adesso, Sfera! — sussurro.
Centocinquanta chili di massa grassa schiacciano quel mucchio di ossa. Io e Fuoco ci fingiamo impegnati a rimuovere Sfera. Vado a colpo sicuro: sfilo l’accendino dalla tasca dell’infermiere guardiano e lo passo a Fuoco che se lo infila nelle mutande. Adesso il padrone del mondo è lui. Finalmente Sfera si scansa, simulando di cedere alla nostra spinta. Schizzo si becca un sedativo, trascorrerà la notte in isolamento, passando prima per l’elettroshock. Ha portato a termine la sua parte di missione. Noialtri rimediamo un bel po’ di botte, ma chi le sente. Tornato l’ordine, veniamo condotti nelle nostre camere. Il personale pernotta nel blocco A, gli uomini nel blocco B e le donne nel blocco C.
Odo i due giri di serratura della mia porta, gli infermieri stanno chiudendo. Un’ora e saranno tutti a dormire. Siamo nelle mani di Sfera.
Scatta l’allarme antincendio, significa che Sfera ha prima sfondato la porta della sua stanza e poi ha fatto uscire Fuoco. Già immagino il blocco A cinto da mura di fiamme larghe un paio di metri e alte, troppo alte. Il personale sarà in gabbia per un po’. Fuoco non è un normale piromane, controlla il fuoco come se fosse parte di sé.
Lo schianto di Sfera contro la porta mi fa sobbalzare. Mentre osservo i due, eccitati sulla soglia, provo un magone per Sfera: può sfondare le porte ma non il muro di cinta, per lui è impossibile scavalcarlo. Anche lui ha quasi portato a termine la sua parte di missione.
Con l’aiuto di Sfera che ci fa da scala umana, io e Fuoco scavalchiamo il muro di cinta. Siamo fuori, liberi.
Abbiamo camminato per più di un’ora tra i campi, ci staranno già cercando. Finalmente siamo giunti a casa del demonio. Il maiale non si è mai sposato e ha sempre vissuto da solo. La condizione perfetta: nessun rimorso di coscienza. Afferro Fuoco per il braccio: — Rispediscilo all’inferno!
Una palla di fuoco esce dalla casa in fiamme. Sebbene le urla strazianti mi riportino alla mente immagini orribili che credevo di aver rimosso, esse si rivelano presto musica per le mie orecchie. Il porco è diventato una torcia umana impazzita, corre frenetico avanti e indietro.
Un tonfo sordo a terra e quella meteora umana è, ormai, solo un bel falò, al cospetto del quale io e Fuoco ci scaldiamo le membra e l’anima.
— E adesso che facciamo? — domanda Fuoco.
— Recupera le forze. Andiamo a riprenderci Sfera e Schizzo.
(fine)

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Ida Dainese

VEDERE È POTERE

(racconto secondo classificato)
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Nell’estate del 1996 Andrea arrivò nel borgo sulla collina, a casa dell’anziana prozia Clodovelia, perché i suoi erano impegnati in litigate, musi lunghi e sedute dall’avvocato. Lei aveva dodici anni, non aveva amici e voleva stare lontano dalle urla e dalle porte che sbattevano.
Al borgo sorridevano, le chiedevano perché avesse un nome da maschio, se si trovava bene a casa della zia. A parte lo strano nome, la zia era una a posto, con capelli bianco-azzurri, che lavorava a maglia e che viveva in una casa con scale di legno, piena di stanze e di spifferi. Un luogo inquieto, di giorno e di notte, dove le porte cigolavano, le scale scricchiolavano, le tende si muovevano. Sul retro, la veranda che dava sul giardino era piena di scaffali con vasetti, bottiglie, cesti di vimini, scatole di cartone con erbe e fiori secchi, quaderni con ricette inverosimili per curare malattie impronunciabili.
Nel giardino, i fiori selvatici spuntavano tra l’erba, grovigli di edere s’arrampicavano sul muro di pietra, sugli arbusti e sui tronchi degli alberi. Sembrava che il bosco cercasse di riversarsi dalle colline, incuneandosi in quel giardino, fino a lambire la veranda di zia Clodovelia.
Era una farmacista, una botanica, un’eccentrica. Lasciava in ogni stanza una candela e dei fiori secchi, sui davanzali metteva piattini con del sale. Diceva che in soffitta stava il suo fidanzato, conosciuto durante la guerra. Andrea aveva già curiosato in soffitta, e non c’era nessuno tra quelle cianfrusaglie, solo un baule con una vecchia divisa e qualche foto color seppia. Però ogni tanto la zia saliva fin lassù con una bottiglia e due bicchieri. Dietro la porta chiusa Andrea la sentiva ridere e parlare da sola. Il lavoro a maglia restava nel cesto in salotto, infilato su uno dei due ferri dorati. L’altro ferro se lo portava sempre dietro, per difesa, diceva. Eppure, nel borgo le volevano bene e la rispettavano, anche se suscitava curiosità, Andrea l’aveva capito dagli sguardi di quelli che riuscivano a entrare in casa, per un vasetto d’erbe, per un unguento o un profumo. Portavano in cambio torte, frutta, noci e nocciole o altre cose utili, e si guardavano intorno cercando di cogliere ogni dettaglio.
Il temporale arrivò una sera, con lampi e tuoni, scaraventando fiumi d’acqua giù dal cielo. Il vento vorticava, fischiando e ululando, con voce di donna. A ogni folata la casa cigolava ma resisteva. L’acqua, all’esterno, schiaffeggiava le finestre e la veranda, ma sui davanzali i piattini di sale restavano al loro posto. Al primo tuono Andrea cercò di nascondersi sotto al letto ma la zia la portò in salotto, la fece sedere sul divano insieme a lei, le diede uno dei suoi libri e cominciò a sferruzzare. Il ticchettio dei ferri aveva un effetto calmante, il libro aveva bei disegni accurati di piante e di fiori con consigli per l’uso e la preparazione di essenze, e a ogni pagina sfogliata si faceva più accattivante. A un certo punto Andrea segnò col dito un’illustrazione:
— Guarda! È uguale al tuo giardino!
Non era strano, forse la zia si era ispirata a quell’immagine per il giardino, e per coincidenza era uguale anche il muro ricoperto d’edera e il sentiero che proseguiva tra gli alberi.
A mezzanotte, la furia si era ridotta a normale pioggia e la zia accompagnò Andrea nella sua camera; sul comodino lasciò la candela e un vasetto che conteneva boccioli secchi.
All’alba il cielo era rosato e sereno. Qualche vicino venne a vedere se tutto era a posto. La zia offrì del tè e s’informò se c’erano stati danni, ma il temporale aveva colpito di più solo in quell’angolo di borgo che confinava col bosco. Di sopra, Andrea sentiva appena il loro parlare ma si svegliò del tutto quando udì chiaramente dei colpi che venivano dalla soffitta. Qualcuno stava lavorando con martello e chiodi, eppure non aveva visto salire nessuno. La sveglia segnava le 6.00. Di sotto era tornato il silenzio e la zia lavava le tazze in cucina. Andrea salì fino alla soffitta, entrando cautamente. Un uomo stava riparando un punto del tetto dove un’asse si era spezzata durante il temporale. Aveva tolto il vecchio pezzo di legno e l’aveva sostituito con una doppia tavola. Si guardarono l’un l’altra, senza sorpresa.
— Ciao. Passami quei chiodi, per favore, ho quasi finito.
I chiodi erano concreti nella mano, poteva essere un sogno? Forse un’illusione, una realtà un po’ distorta. Il giovanotto era identico al ritratto color seppia del baule.
— Ecco fatto, siamo di nuovo al sicuro. Controllo io quassù.
Andrea annuì e scese per raggiungere la zia. La trovò seduta a sferruzzare e solo allora rifletté sul fatto che dopo due settimane in cui l’aveva vista lavorare a maglia per ore, quella maglia non era cresciuta di un centimetro, come se ogni giro appena lavorato svanisse nel nulla. Sul tavolino c’erano una tazza di latte caldo e dei biscotti.
— Zia, è tutto vero quello che succede?
— Dipende dall’occhio di chi guarda.
— Allora perché metti il sale, le candele, e hai quel guardiano in soffitta?
— Perché al male non piace essere visto.
La zia posò il lavoro, infilò alla cintura il ferro vuoto e andò nella veranda a controllare un pentolino che bolliva. Andrea portò dalla cucina dei vasetti puliti, poi uscì in giardino. Il cielo era terso, le foglie d’edera erano lucide per la pioggia della notte, i fiori avevano aperto le corolle macchiando di colori l’erba e, per contrasto, il fondo del giardino era ancora più cupo, come se il bosco avesse fatto qualche passo in avanti. Andrea non voleva andare verso quel punto ma qualcosa era strisciato verso di lei e cercava di trascinarla con sé. Davanti ai suoi occhi non c’era niente eppure quel qualcosa continuava a tirare, facendole paura.
Dietro le sue spalle ci fu un comando secco, potente:
— Non toccarla! Lei ti vede.
Dalla veranda, zia Clodovelia puntava il ferro da calza. Il sole illuminava i suoi capelli turchini e scintillava sull’estremità della bacchetta dorata.
Andrea si girò di nuovo e lo vide davvero. Era nero, con le orecchie appiattite per la furia e l’impotenza, gli artigli che non riuscivano più a ghermire. Quando incrociò gli occhi di Andrea, fuggì impaurito nel profondo del bosco.
(fine)

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Gabriele Ludovici

UNA STANZA SUL DAUGAVA

(racconto terzo classificato)
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Sono convinto che certe persone sia meglio guardarle quando sono di spalle: è per questo che continuo a girarmi per osservare la schiena di quell'imbecille di Klavins. Fa troppo freddo per congedarmi da lui con una brutta impressione. Anche se, a conti fatti, ha già voltato i tacchi da un minuto.
Ho raggiunto il ponte sopra il Daugava e devo incamminarmi verso la pensione, ignorando le nenie vomitate dai grammofoni dei negozi ancora aperti. Non ho denaro con me. A Klavins ho mentito: lo studio del signor Dimants non intende riassumermi. Almeno non dopo avermi descritto, su quel foglio untuoso, come un “irrecuperabile dissociato, bevitore e affetto da vizio mentale”. Redatto a macchina, tac-tac-tac. Ma sono illazioni, l'inverno è più lungo della stagione calda e un distillato non se lo nega nessuno. Quindi io avrei turbe mentali? O semplicemente non ho ancora la tessera del partito? Non mi interessa. Klavins è stato il primo a iscriversi, e non mi sembra che sia guarito dalla sua incipiente idiozia. Non c'è rivoluzione che tenga.
Raggiungo la pensione della signora Laksa poco prima delle nove di sera. Ho un malessere di stomaco, sono a digiuno e gli acidi devono aver iniziato a intaccare le mie viscere. Poco importa, di fame non morirò. Avevo paura di essere in ritardo, perché una volta spente le luci diventa difficile orientarsi in questo luogo. Dal quale mi sbatteranno fuori per aver mancato l'ultimo pagamento, il che mi porterà dritto in qualche lista nera.
La signora Laksa è in piedi. Eludo il suo sguardo annacquato dal sonno a causa delle ore trascorse a cucire e annotare appunti sul registro della sua pulciosa pensione. Ci sarà tempo per farsi maltrattare. Ma quando? Quattro giorni, una settimana? Il tempo di scoprire che non sono affatto un uomo d'affari, bensì un futuro senzatetto? Meglio non pensarci, c'è chi sta peggio. Il vecchio della stanza di fianco alla mia si è addormentato nell'area comune e russa come un orso. Indossa gli stessi vestiti da circa un mese e non si è ancora smacchiato la camicia insozzata di borshch. Così d'impatto pare che gli abbiano sparato un colpo al petto e che abbia perso i sensi sulla poltrona. Per la prima volta, oggi trovo un motivo per sorridere. Non sono abituato all'ilarità, mi tocca correggere con le dita un nervo accavallatosi sotto il tessuto molle tra il collo e mento.
Salgo di sopra senza togliermi la neve dal cappello. Attraverso il polveroso corridoio a piedi nudi, con un mozzicone di candela in mano prelevato dal tavolino di servizio. Smorzo il chiarore della fiamma con la mano destra, in modo da non rischiare di spegnerla. Non voglio essere visto. Apro la porta e lei è sempre lì sul letto, non può e non vuole allontanarsi. La sua presenza è clandestina, capite?
Vorrei manifestarle il mio astio. D'altronde è colpa sua se mi hanno licenziato e bollato come un soggetto alienato. In fondo è colpa sua se ho iniziato a farmi così tanti problemi esistenziali, io che ho sempre vissuto sotto i fanali dell'attenzione altrui. D'altronde, in fondo... sono uno stupido. Interrompo il mio flusso di Motivi per Arrabbiarmi. Non è costruttivo, davvero.
— Ho fame. — sussurra con un filo di voce.
— Chiederò se è avanzato del caviale. — replico con sarcasmo.
Kristine ridacchia di gola e mi guarda con ciò che rimane del suo sguardo, infossato nelle occhiaie così nere che paiono segnate col carbone. Vorrei implorarla di ricambiare quel che sto facendo per lei. I poteri li avrebbe. L'ho vista spostare oggetti con la forza del pensiero, maledizione. Eravamo nel bel mezzo della Kartupelu Svetki, immagino conosciate la fiera che annuncia l'inizio dell'inverno. Ebbene, con la rivoluzione non avremo più le vecchie festività. Hanno rastrellato gli individui strani, come questa ragazza accusata di circonvenzione, truffa e vagabondaggio.
Non potrà sopravvivere a lungo: sta sparendo, le sue braccia sono ricoperte di piaghe, credo siano dovute alla malnutrizione. È trascorso un mese e io ho esaurito ogni risorsa: quando ci cacceranno da qui, lei verrà impiccata e forse anche io. Ripenso all'ufficio del signor Dimants, a quella volta che mi prelevarono e io giurai alla Commissione di aver visto con i miei occhi dei buoni motivi per evitare la condanna a morte di un'innocente. Ma le tessere avevano già preso il sopravvento su ogni cosa. Non potei far altro che rassegnare le dimissioni e allungare numerosi rubli al funzionario del manicomio criminale per liberare Kristine. Per poi trovarmi, assieme a lei, sul lastrico. Almeno in termini di corruttibilità, in questo paese non è cambiato niente.
Adesso Kristine si è addormentata, o è svenuta per l'eccessiva debolezza. Dalla finestra fisso con cupezza il fiume, il Daugava, una ferita di ghiaccio che attraversa la città. Né io né Kristine potremo mai avere un futuro. Estraggo il pugnale, lascio scivolare la lama sulla mia fiaschetta di metallo. Avrò il coraggio necessario? Tiro l'ultima sorsata di distillato al ribes e mi avvicino a lei. La colpirò al cuore, spero non soffra troppo. Non ho una cultura in merito ai suicidi, ma dopo mi farò venire in mente qualcosa.
Kristine intercetta il mio sguardo, ridestandosi. Inarca le sopracciglia e si irrigidisce, proprio come le ho visto fare a quella dannata fiera delle patate. La sua pelle, confrontata con i capelli, è di pari chiarore. Sento che il mio polso si torce; adesso la lama punta il mio, di collo. Percepisco che lei è combattuta tra l'istinto di sopravvivenza e lo scrupolo di ammazzare me, l'unica ragione per la quale non è stata ancora spedita al patibolo.
Potrei enumerare almeno cinque motivi per i quali, a prescindere dall'esito di questo duello psicocinetico, non mi — non ci! — resta molto da vivere. Ma rido, rido senza frenarmi. Vorrei che il signor Dimants e i corvi della Commissione fossero qui. Non sono affatto pazzo. La loro retorica delle tessere, della fede nell'uomo e della lotta all'occulto è solo roba da imbecilli. Come Klavins.
(fine)

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Angela Catalini

IO ODIO IL NATALE

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Chi lo avrebbe mai detto che mi sarei trasformato nel Grinch!
Da piccolo adoravo il Natale e il clima festoso che lo precedeva, adesso invece, mi disturba vedere tutta questa euforia, le strade ingombre di festoni e le vetrine dei negozi cariche di addobbi e lustrini che stanno lì a ricordarti di comprare cose assolutamente inutili che odieranno tutti, te compreso.
A pensarci bene, le cose che mi irritano maggiormente, sono i sorrisi e gli auguri di circostanza.
— Buon Natale!
— Buon Natale a lei, signora Stromboli.
Quella è una vecchia matta che sta appresso ai gatti del quartiere. Festeggeranno a croccantini e bocconcini di carne dietro qualche siepe, tra piatti sporchi e cartacce. Se non è amore questo!
Ecco, ci mancava un Babbo Natale in carne e ossa, più in carne che ossa devo ammettere. Mi ha puntato. Ovvio, con la giacca di Armani attiro i mendicanti come mosche.
— Buon Natale, Santa Klaus!
Quello però non risponde, mi fissa e non apre bocca. Rovisto tra le tasche, dovrei avere qualche spicciolo. Trovo due euro e una manciata di centesimi.
— Per la colazione dovrebbero bastare dico.
Lui prende i soldi e li tiene in mano, con il palmo rivolto verso l’alto. Saranno pochi?
— Senti Santa Klaus, te lo devo proprio dire, con quell’aria funebre non alzerai un centesimo; insieme alla maschera, avrebbero dovuto farti un corso accelerato. I bambini si aspettano di sentirti dire “Oh, oh, oh” e quel sacco striminzito che hai sulle spalle non promette niente di buono. Capisci la mia lingua almeno?
Lui mette via i soldi e si gratta la barba con gli occhi bassi. Mai vista una barba striminzita come quella, magari non è neppure finta. Finalmente si decide a parlare.
— Mi hanno licenziato anni fa — dice. — Perché non ho accontentato un bambino.
Adesso si spiegano il vestito stinto e quell’aria da cane bastonato. Secondo me ha sbagliato maschera, sarebbe stato più adatto per fare il Gabibbo o il Clown di IT. Annuisco e mi avvio per la mia strada; in ufficio mi aspetta una bella grana da risolvere che mi è costata qualche ora di sonno.
Santa Klaus mi segue come un’ombra. Sento gli scarponi che pestano il selciato e gli attacchi di tosse che lo lasciano quasi senza fiato. Mi fa pena e maledico il Natale perché con alcune persone è avaro, come lo fu con me trent’anni fa.
Rivedo l’istantanea del salone con un grande albero e il presepe con l’acqua che faceva muovere le pale del mulino. Nella stanza da letto invece, c’era mio padre morto. Quella mattina ero sceso prima del solito, perché volevo vedere se Babbo Natale aveva portato i regali e solo in un secondo tempo mi sono accorto del pianto sommesso di mia madre e allora a piedi nudi ho percorso la scala che portava al piano superiore, dove c’era la stanza dei miei genitori.
M’asciugo una lacrima furtiva, non voglio che nessuno mi veda piangere. Il Grinch non piange mai.
Santa Klaus si è fermato, perché non sento più i passi. Mi volto e lo vedo vicino a una slitta che sembra sbucata dal nulla e quelle davanti sembrano proprio renne. Mette giù il sacco e cerca qualcosa. Dovrei andarmene, ho il mio appuntamento e un contratto da siglare, invece sto lì come un fottuto bambino che aspetta il suo regalo. Lui mi sorride e nel farlo arriccia il naso e il viso acquista l’espressione bonaria tipica di Babbo Natale. Ritrova pure la favella.
— Tanti anni fa, un ricco signore mi aveva commissionato un dono speciale per suo figlio e io avrei dovuto consegnarglielo la notte di Natale. Purtroppo, quella stessa notte, quell’uomo morì e io non ebbi la forza di fare il mio dovere. Per tutti questi anni ho sperato di trovare il coraggio di tornare davanti a quel bambino, che adesso è un uomo e dirgli che mi dispiace per non aver rispettato il volere del papà che avrebbe tanto voluto dargli una cosa. L’ho avuta con me per trent’anni, è arrivato il momento di dartela, Stefano. C’è anche il biglietto che scrisse tuo padre. Ecco, prendi e perdonami per essere stato così vigliacco quella notte. Da allora non ho più portato un solo giocattolo e ho lasciato che fossero altri a farlo al posto mio. Perché ti ho deluso.
Resto lì con il pacchetto tra le mani e la lettera vergata da mio padre.
Lo scampanellio si perde tra la nebbia o forse sono nuvole.
(fine)

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