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Indice:
E
Regolamento delle Gare
Marino Maiorino
Merceds Cortani
Mariovaldo
Athosg
Andr60
Alberto Marcolli
Marcello Rizza
Giovanni p
Odhem89
sezione 12
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presenta


La passe

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale d'estate 2023


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'estate 2023


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: Polinesia.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.


Namio Intile

(vincitore della Gara d'estate, 2023)


La passe


Bora Bora oggi è un paradiso per turisti con le tasche gonfie, ma quand'ero ragazzo ci si arrivava solo perché si era innamorati della vastità degli spazi marini.

Avevo scelto la Polinesia attratto dai colori delle fanciulle di Gauguin, spinto dalle poetiche traversate in solitaria di gente come Moitessier e Tabarly, da quell'amore mai sazio per gli spazi vuoti dove l'Uomo, finalmente, è assente.

La barca del pescatore era sparita insieme alle sue birre calde, ma ciò per me, in quel momento, non aveva alcuna importanza. Mi aveva lasciato con la promessa di ripassare e io l'avevo preso in parola, non avevo fretta, nessuna urgenza.

Mi incamminai lungo la spiaggia sottovento, cullato dalla poesia del mare più spettacolare e del cielo più azzurro mai visto fino ad allora, finché sulla sabbia, leggera come talco, non incrociai un manufatto d'altri climi, e di diverse latitudini dell'altro emisfero, languire placido sul bagnasciuga, tra le piccole onde, lente a infrangersi sulla riva. Quel legno era quasi surreale, il Flying Duchtman si palesò alla mia immaginazione come un relitto di altri mondi, di epoche remote.

Cosa ci faceva lì quella barca di compensato marino e teak? Non ebbi tempo di pensare ad altro, e alle mie spalle udii una voce cavernosa frammezzata da un respiro agitato.

Con un tono denso di acida ironia, in un inglese approssimato, tradito da un curioso accento francese di cui non sapevo decifrare la provenienza, mi domandò se per caso non nutrissi interesse per il suo piccolo giocattolo. Mi voltai, e fui di fronte a un uomo magro come un Cristo in croce, con una maglietta lurida e stracciata, una lunga lanugine bianca sul viso, gli occhi chiari come quel mare, i capelli radi e arruffati dalla salsedine. D'età non inferiore ai settanta, o forse ai cinquanta se dovevo dar retta all'intuito, il quale mi sussurrava come i suoi anni quell'uomo se li portasse davvero male.

Mi traguardava severo, con occhi cisposi e fissi, nella mano una bottiglia mezza vuota d'un rum ambrato e nell'altra un sigaro quasi del tutto consumato.

Seduto sulla sabbia, la schiena contro una palma, il suo sorriso aveva un che di ineffabile.

— Cosa ci fa una barca europea in Polinesia? — Era la mia domanda, in francese.

E mi avvicinai a lui. L'uomo scosse la testa e, dopo aver bevuto un sorso dalla bottiglia e tirato una boccata dal sigaro, disse: — Hai voglia di fare un giro?

Risposi con un cenno del capo.

L'uomo si levò in piedi. — Cinquecento franchi e affare fatto.

Mi aveva preso per un turista e mi trattava come tale, con un accenno di superiorità e una splendida noncuranza.

— Mi piacerebbe vedere un atollo disabitato — gli lanciai il mio guanto.

Ma subito rammentai quanto fosse pericoloso sfidare gli dei.

— Ok, mille franchi e ti porto a vedere l'isola più disabitata del mondo — provò a rilanciare. — Sei mai salito sopra una barca a vela?

— Qualche volta — mi limitai ad ammettere.

— E allora si paga in anticipo. Non è per sfiducia, sai, ma magari inizi a vomitare non appena usciamo in mare aperto e mi supplichi di ritornare a terra. Il mio giocattolo va veloce e dopo… chissà se hai più voglia di darmeli i miei soldi.

Annuii, l'affare era concluso. — A proposito, io mi chiamo Gaetano — mi presentai.

— Italiano, lo immaginavo: solo voi amate il francese più dell'inglese. E poi andate sempre in giro come se vi trovaste a una maledetta sfilata. Bah… vallo a capire. Io mi chiamo Eloic — disse, e mi fece cenno di aiutarlo a spingere la deriva in acqua.

Il vento soffiava più forte nel primo pomeriggio e la barca scivolava spedita al traverso, con lo scafo di sottovento appena inclinato sulla superficie del mare, mentre Eloic faceva da contrappeso sopravvento e regolava l'ampiezza della randa con la sinistra e il timone con la destra.

Si accorse subito che sapevo dove mettere le mani e così, senza dirmi niente, mi lasciò il timone. Navigammo lungo il reef sottovento, dove l'acqua è sempre quasi piatta, quindi imboccammo la grande passe per trovarci in mare aperto, accompagnati da un branco di piccoli delfini i quali presero a nuotare vicino lo scafo e a immergersi sotto, per passare da una parte all'altra. Potevi guardarli negli occhi e quasi sembravano sorridere e concederti la loro attenzione, i messaggeri degli dei; il tempo volava nella luce accecante sul turchese e lo smeraldo del mare, mentre gli sbuffi dei delfini ci bagnavano più degli schizzi della chiglia sul mare, coi loro sfiati ritmici a imitare una benedizione, a renderci consapevoli dell'immortalità del momento.

Perché sarebbe stato soltanto quella volta, solo quell'istante, null'altro e mai più.

— Mi hai preso in giro — disse Eloic, dopo un po'. — Tu sei un marinaio. E io dovevo chiederti diecimila franchi, perché ti stai divertendo come un matto, e mi costringerai ad arrivarci sul serio alla tua dannata isola deserta.

Sfoggiai il sorriso del vincitore e virai a dritta. — Certo che ci arriviamo. È quella?

Eloic annuì. — Quella è Tupai — disse, e lo sentii brontolare contro quegli imbroglioni degli italiani, sempre pronti a farsi beffe del prossimo. Furbi, lo sentii dire in italiano.

La passe di Tupai non era più larga di un torrente di montagna e svelava una laguna ancora incontaminata. Era un giorno ventoso e caldo, ma laggiù tutti i giorni sono ventosi e caldi. L'atollo era un anello di palme e sabbia lungo un paio di chilometri: luce e mare trasparente, fitta vegetazione e nessuna presenza umana; non significava altro, forse, se non che quella era l'impronta della fantasia di Dio nella Creazione. Eloic riprese il timone, perché solo lui sapeva come affrontare la passe.

— Ecco la tua isola — disse, quando fummo dentro.

— Non c'è niente, ed è bellissima per questo — commentai, senza trovare altre parole.

— Esatto, l'Uomo non l'ha ancora invasa con la sua merda.

Quando fummo sazi di solitudine tornammo a Bora Bora, mentre il cielo si era già colorato di un rosso fiammeggiante.

Eravamo stati per tutto il tempo della navigazione in silenzio.

Le prime parole di Eloic furono: — Ti sei divertito, non è vero?

— E hai bisogno di domandarmelo?

— Allora per punizione mi offri anche una birra: ti ho chiesto troppo poco per un'esperienza del genere.


Il bar sulla riva dei pescatori dove approdammo era semplicemente un chiosco con cinque tavolini di legno e delle sedie impagliate diversamente solide.

Eloic ordinò due boccali di birra alla spina, che un indigeno con addosso soltanto dei pantaloncini luridi ci servì subito.

— Il paradiso è una birra gelata dopo una giornata di mare — mi disse, e la tracannò d'un sorso, la sua birra, per poi ordinare un altro giro al tipo in pantaloncini. — Questa volta è il mio turno.

— Avevamo detto che le birre sono a mio carico, ci penso io — risposi, e provai a indagare. — Sei francese, ovviamente — Lui alzò gli occhi dal secondo boccale: — Ovvio un cazzo, io sono bretone — esclamò soddisfatto.

Mi misi a ridere ed Eloic mi fissò incuriosito.

— Hai risposto come avrei risposto io: non sono italiano, ma siciliano.

— Ah, un pied noir — disse, e stavolta fui io a ridere.

— Ma sì, gli altri italiani ci considerano tali solo per un accidente storico. Di cognome faccio...

Ma mi interruppe subito, infastidito.

— Qui i cognomi non esistono… un attrezzo inutile, e ciò che non serve alla fine col tempo diventa pericoloso come un cancro, e ti porta lentamente alla morte se non te ne liberi. Ma non è facile — aggiunse, e d'improvviso cambiò umore, si fece scuro in viso.

E mi propose di seguirlo. — Sei stato gentile, vieni a cena da me, tanto sei solo, l'ho capito, i cani randagi si annusano tra loro e tu non hai neppure la rabbia, come me.

Decisi di non approfondire la faccenda del cane, meglio il silenzio a parole inutili, ma gli andai dietro: l'alternativa sarebbe stata la tristezza di una cena solitaria nell'unico albergo dell'isola, alla caccia dell'ultimo sfortunato ed eccessivo bicchiere di cognac o di una turista americana annoiata con cui condividere la notte stellata.

La casa di Eloic era poco più in là, una capanna polinesiana sulla spiaggia, senza imposte, col tetto di palme, leggermente sollevata dalla sabbia. Tre donne giovani erano intente a cucinare del pesce su una griglia improvvisata sopra un mezzo barile d'olio vuoto, ma per l'occasione riempito di legna. Eloic entrò in casa, senza dire una parola, e ne uscì con un secchio di latta pieno di ghiaccio e bottiglie di birra. Il lato della casa che confinava con la spiaggia sembrava sorretto da una palma storta almeno quanto i miei pensieri, ma ancora in grado di sostenere un tavolo di legno arpionato al suo fusto da tempi troppo lontani per poterli ricordare.

Non vidi sedie diverse da altri recipienti d'olio arrugginiti; Eloic urlò qualcosa nella loro lingua alle ragazze indigene; loro si mossero scomposte mentre io, per la prima volta, le potei osservare con attenzione: erano davvero molto giovani, scalze e per niente vestite, di una bellezza ambrata difficile da immaginare se non si ha la fortuna di poterla ammirare da vicino proprio dove si manifesta. Eloic sembrava il loro cupo sovrano dalla pelle bianca, senza reggia né corona, e come un re le trattava: ruvido impartiva loro ordini ai quali, in modo maldestro, provavano a ubbidire. Così a me all'improvviso mancarono le parole. Lui aprì un paio di bottiglie e me ne porse una. Non dissi nulla, per non cadere nella finzione di una conversazione avviata per evitare l'imbarazzo del silenzio.

Finimmo un paio di birre, le ragazze ci servirono del pesce e cenammo insieme a loro, sorridenti e sempre di buon umore nonostante i rimbrotti continui del loro arcigno sovrano. Tutti sotto la palma, seduti sui vecchi fusti, con le tre ragazze a divorare il pesce, come noi, con le mani, a ridere e parlare fra loro, nella loro lingua, senza badare a noi, come se la nostra esistenza non le riguardasse. Alla fine andava bene così, il tutto non aveva un gran senso agli occhi di un europeo, ma il tramonto era tanto struggente da far apparire la mancanza di conversazione come una benedizione.

Finito il pesce Eloic si alzò, entrò in casa e ritornò con due sigari, una bottiglia di rum dall'etichetta illeggibile e due bicchieri luridi di incrostazioni che riempì all'istante.


— Tu sei un marinaio — non era una domanda, ma un'affermazione. E aggiunse: — Hai una moglie?

Io risposi d'istinto. — Se anche l'avessi, quaggiù chi se ne ricorderebbe…

Eloic si mise a ridere, già bevuto come me. — Le donne sono le peggiori trappole nella vita di un uomo — disse. — Tu sei un marinaio — ripeté con più insistenza.

— Da sempre — risposi.

Eloic si riempì di nuovo il bicchiere di rum e se lo bevve d'un fiato. Mi porse un sigaro e dei fiammiferi per accenderlo.

— Rum e sigaro, cosa c'è di meglio, fratello?

Io volsi lo sguardo verso le ragazze, e sollevai le sopracciglia per sottolineare l'invidia della scimmia.

Eloic sorrise, poi il suo sguardo si perse oltre il tramonto, sulle nuvole poderose e il rosso infuocato. Ebbi l'impressione che rincorresse un demone invisibile e trasparente, perturbava l'aria e fermava il vento, poi all'improvviso chinò la testa, come piegato dalla scure di un rimorso, e sussurrò. — In Bretagna il mare non è così bello, eppure era casa mia.

Era una domanda piuttosto banale, ma non riuscii a trattenermi dal chiedergli se gli mancasse.

Eloic scosse la testa, la Bretagna apparteneva a un'altra vita, una vita che non esisteva più.

Restammo per un po' in silenzio, dando modo al rum di fare il suo lavoro antico: distendere e ammansire i sentimenti degli uomini, prima di perderli.

E mi domandò cosa ci facessi lì.

— Voglio vedere la Creazione, prima che scompaia, — gli dissi, — prima che l'uomo la invada per sempre con la sua merda.

Eloic mi regalò un sorriso amaro. — E non ti manca la tua Sicilia? Il mare lì è più caldo di quello della mia Bretagna.

Scossi la testa: — E a te non manca la Francia, non manca Parigi?

Eloic tirò una profonda boccata dal suo sigaro e si riempì ancora una volta il bicchiere di rum.

— A Parigi c'è tutto, ma manca tutto il resto…

Gli uccelli marini da preda volavano alti nel cielo, e per un lungo minuto Eloic li inseguì con lo sguardo, cercava forse di guidare i loro volteggi, ma era contrariato perché sembrava non riuscirci.

— In Bretagna sono tutti marinai… Io sono un medico, ero un medico, come tutti nella mia famiglia, ma dopo la laurea ho assecondato il demone del mare. Regate, traversate a vela, due giri del mondo con gente che ci sapeva andare. Uno in particolare: Eric, il capitano, il migliore tra tutti; la gente parla, parla e poi parla ancora perché non sa cosa dire. E, se non lo fa, non sa come giustificare a sé stessa la propria esistenza. Lui, invece, stava sempre in silenzio. Per lui parlava quanto faceva. E la folla, la gente, quando poteva, la evitava…

All'improvviso mi parve a disagio, non so se con me o con sé stesso, ma storse la bocca in un ghigno feroce.

— Hai navigato col capitano Tabarly — dissi ammirato.

Per quelli come me il suo nome profumava di leggenda.

— Ti piace il rum?

— Certo che sì — risposi.

— E allora bevi e non rompermi le palle.

Rimanemmo ancora una volta senza parole, finché il dolce succo ambrato non gli sciolse quella piega del cuore, quella che prima gli aveva storto il viso, e riprese a parlare come per assalire i propri demoni.

— Poi, trascinato dal rimorso per la mia famiglia, tornai in Francia e trovai lavoro a Parigi. Gli anni trascorrevano lenti e inesorabili, i figli crescevano in fretta e tutto era magnificamente perfetto, quanto sterile. Io, dal mio studio, guardavo la pioggia scendere sui vetri e le strade affollate, e mi domandavo dove andasse tutta quella gente così di fretta a ogni ora del giorno, ogni giorno della settimana, anno dopo anno. Creano la frenesia apposta, lo sai? Per non permetterci di pensare. Le persone con cui mi capitava di conversare: se avessero avuto l'ardire di ingoiare la propria saliva, sarebbero morte avvelenate, ecco cosa pensavo. Ma facevo finta di niente, mi rincuoravo al pensiero che non era quello il mio veleno.

A un certo punto, il tarlo della convivenza aveva lacerato ogni emozione fra me e mia moglie, i miei figli percorrevano le loro vite altrove, mentre il mare ritornava prepotente a tormentare la mia anima.

Ritornò muto, con gli occhi vacui a cercare una luna che non voleva sorgere dalle croste del suo bicchiere fissato di continuo, nella vana ricerca della strada maestra della sua dannazione.

— Non ci badare, sto diventando vecchio. Con Bernard facevamo spesso discorsi come questo quando andavamo a Rangiroa colla sua Tamata. Lui è rimasto in Indocina, a quella guerra persa, ai fratelli morti, e alla piantagione dei genitori: adesso vuole stare solo, lontano da tutti, lontano anche da me, forse a causa di quegli stupidi fan che hanno letto ogni suo libro e lo cercano come un Messia. Aspettano che dica qualcosa, che dia un senso alle loro inutili vite. Tu hai l'aria di essere proprio uno di quelli, non è vero?

Ero uno di quelli, ma mi guardai bene dall'ammetterlo.

Mi trovavo faccia a faccia con Dio e quel Dio, mi accorgevo, non solo non si curava di me, ma mi detestava, non solo era ostile, ma odiava sin nel profondo ciò che io ero, non stimava me né il genere umano.

Sentivo la nausea farsi strada, e mi venne voglia di scappare, andare via, senza mai fermarmi.

Ciò che il mio Dio ebbro aggiunse non vale la pena riferirlo, qualcosa sul senso della vita, sull'inutile ricerca di un Salvatore qualunque, sulla necessità di prendersi cura di volta in volta di chi si ama in quel preciso momento, senza scrupoli né rimorsi, senza puntare l'occhio sullo ieri o sul domani.

— Vieni con me — disse, in modo inatteso, sollevandosi dal fusto con un ruggito da bestia ferita, il bicchiere di rum in una mano e il sigaro nell'altra. Il tono era stato così perentorio e solenne che il tramonto rimase sconvolto. In un impulso di paura o, forse, di pudore, simulò di fermarsi; e magari lo fece davvero. Le tenebre smisero di fare capolino, e noi ci alzammo fra le palme per camminare sulla spiaggia. Il vento era girato intorno circospetto, nell'ansia di capire chi fosse stato in grado di sconvolgere l'ordine universale, e, nel dubbio, sospirò inquieto, infastidito da quell'ardire. Si sa, sembrava dire, gli uomini non hanno nessun pudore.

Cercai di non far caso ai segni, ma i segni erano là a testimoniare; l'inquietudine mi avvolgeva, e mi sosteneva solo l'attesa del prossimo sorso di rum, la bocca arsa dal verme di un nuovo abisso.

Il resto non aveva più alcuna importanza, cercavo solo di ricordarmi dov'ero, e se quel respiro fetido da cane randagio a invadermi le narici fosse proprio il mio. L'improvviso fragore dell'assenza del vento suscitò dal mare un tanfo di granchi morti che mi fece lacrimare gli occhi e suonare la rumba allo stomaco già sconvolto.

Là dove mi condusse, nel chiarore del crepuscolo, vidi una croce azzurra, fatta con le coste di una cassetta di legno, dipinta alla meno peggio e di fretta; troneggiava sull'oro della sabbia come sull'orlo di un abisso, quasi al confine con la terra battuta della strada, come un'insegna festosa al limite estremo della notte.

Eloic si avvicinò e ci si inginocchiò davanti. I suoi occhi erano rossi e gonfi, lo vidi solo e sperduto, terrorizzato davanti a quella croce.

Non ci accorgemmo neanche della gente che camminava avvilita nella polvere eterna della via, mentre un carretto colmo di pesci lasciava una scia di sangue e di umori maligni, seguito da un nugolo di mosche impazzite, trascinato da un uomo rassegnato all'infamia della propria esistenza. Le nuvole inquiete si scontravano, e combattevano, per riprendersi il dominio del cielo. Una luna impaurita sorgeva dal mare in un tremolio d'improvvisa e inaspettata solitudine. Non vedemmo neppure gli uccelli marini scannarsi sulle acque, nella lava dei nostri desideri frustrati e inespressi, o i cetacei giganti allontanarsi dal reef, con il guizzo dei loro cuori pesanti, mentre scuotevano le acque e agitavano le danze del plancton, confuso nella luce fosforescente della marea recalcitrante. Soffocati dalla certezza che un leviatano antico e nuovo, ma più potente di chiunque prima, era sorto dal nulla, da qualche parte, per dar loro la caccia.

Adesso la vedevo: la scimmia era nuda, maligna la sua esistenza; i suoi passi di samba erano il terremoto estremo che sconvolgeva la terra, divorava le foreste, inacidiva il mare.

Non vedemmo i coralli infrangersi nel tumulto delle onde create dalla fuga repentina e scomposta delle balene. Non vedemmo esplodere sui fondali di sabbia le eterne conchiglie dei vulcani consumati. Non vedemmo, né sentimmo, il tremito della sabbia, sotto i nostri piedi, aggrovigliarsi nella contorta preghiera antica, nell'estremo gesto di pietà del chiedere perdono per i nostri peccati, meravigliosi artifici costruiti nel sudore di rum delle nostre caldane incontenibili. Non vedemmo proprio niente; ma Eloic si fermò e si inginocchiò, si segnò il petto e si rovesciò il rum addosso, come in battesimo blasfemo.

Nulla aveva ragione di esistere, e io adesso ne avevo la certezza: da quel Dio riuscivo solo a distinguere un sibilo, da ubriaco bestemmiatore a consumare i denti nell'acido, di una tristezza irrefrenabile. Riapparve sul suo volto la piega distorta di quel labbro infelice, ora autentico e vulnerabile, che invano aveva provato a mantener tutto nascosto senza riuscirci.

Volse allora lo sguardo in alto, verso di me. — Io sono sepolto qui, di tanto in tanto vengo a trovarmi e a recitare una preghiera per la mia anima.

Era arrivata la notte, all'improvviso, senza alcuna certezza, e ci precipitò addosso tutta la solitudine del mondo, come fosse un presagio, il latente sudario di quella morte che alberga in noi sin dal primo vagito inconsapevole.


(fine)


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Marino Maiorino


Aspetterò


Siamo davvero fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore:

siamo polvere di stelle che ama, non ricambiata.


Prima che i prodi elleni dai grandi scudi di bronzo giungessero nel Mediterraneo, un'orsa guidò il nipote del capo-clan del lupo verso nuove terre fino al fiume-che-scorre-sotto-la-terra, come predetto da un oracolo, e un nuovo clan era nato, un nuovo villaggio era stato fondato col nome del monte che dominava imponente le terre dei padri.

Una sola generazione e il racconto di quell'impresa era diventato mito, allora che l'uomo rispettava e temeva la divinità nella Natura e nelle sue molteplici forme, allora che una fanciulla poteva vagare senza alcuna paura per boschi che non avevano conosciuto l'ascia.

Nel pieno rigoglio della sua bellezza, Isora percorreva colline frondose con un passo veloce, non ostacolato dal confortevole chitone adatto a correre e saltare tra alberi e cespugli. Sulle spalle aveva sempre un sottile arco da caccia in legno di cipresso, una faretra e una rete. Conosceva i boschi, Isora, né avrebbe potuto essere altrimenti: la vita del villaggio e la propria dipendevano da quella conoscenza. Lei, sacerdotessa della Dea, aiutava le donne a partorire, gli uomini ad attendere alle fatiche del suolo, i malati a guarire con erbe medicamentose. Udire l'approssimarsi di un agile cerbiatto, incoccare un dardo, vedere e centrare la preda in un solo gesto era alla sua portata: quale offerta avrebbe potuto essere maggiormente gradita alla Dea?

Che bella bestia! Le mani esperte di Isora la scuoiarono sul posto e la fecero a pezzi: sarebbe stato più facile trasportarne i resti nella capace rete, piuttosto che caricarsi della carcassa intera.

E poi c'erano i comandamenti della Dea, da onorare: ogni vita nutre molte vite, e Isora dispose i resti della caccia tra le radici degli alberi, su rocce nude e piatte, nel mezzo di sentieri aperti nel fitto sottobosco dal passaggio degli animali.

Terminate le offerte rituali, la ragazza si accorse di essere tutta macchiata di sangue e no, così non andava proprio: bestie feroci e affamate sarebbero state attratte dall'odore, ma lì vicino c'era un corso d'acqua fresca, Isora vi si diresse per lavarvisi.

Depose sulla riva tutto quanto aveva con sé: la rete con i resti della caccia, l'arco, il coltello, gli indumenti. S'immerse nell'acqua limpida e rinfrancante e dimenticò quanto tempo era necessario per tornare alla sua capanna, laggiù al limitare del villaggio.

Godendo di quel bagno non s'accorse dell'allungarsi delle ombre nel meriggio assolato, di come presto avrebbe dovuto cercare un riparo di fortuna per la notte, ma che importava? Il mondo era bello e senza pericoli, in quei giorni. Anzi, da una cascatella, dalle lunghe foglie e dai rami aggettanti sull'ansa riparata, grosse gocce cadevano ritmicamente a comporre una musica alla quale la giovane non si sottrasse, al contrario vi si abbandonò come fosse stata una richiesta della Dea e, muovendo prima la testa, poi le braccia in superficie, prese a provare dei passi di danza sentendo il proprio corpo più leggero nell'acqua, perché dov'è che Isora non ha danzato?

Quando s'avvide delle prime luci del crepuscolo era già tardi: si rivestì rapidamente, raccolse le armi, la preda, e si diresse verso il bordo della foresta, verso le cime dei colli, dov'era più probabile trovare qualche grotta per ripararsi durante la notte.


La luce del dì era già scomparsa da un pezzo quando, sulle pendici del Latmos, intravide da lontano, nei pressi di una parete rocciosa, un gregge di pecore immerso nel sonno. Temette che nei dintorni vi fossero pastori, perché la giovane aveva fatto voto di servire solo la Dea e non poteva perciò rischiare di diventare preda del desiderio di un uomo.

I due cani che accompagnavano il gregge annusarono l'avvicinarsi della ragazza: il forte, tipico odore della carne di cervo non poteva essere nascosto e li aveva messi in agitazione, ma l'istinto di cacciatori aveva suggerito loro di non abbaiare per non far scappare la preda che si avvicinava.

Isora ebbe così gioco facile ad ammansirli offrendo loro due succulenti bocconi che le bestie presero a masticare appartate, tenendo la golosa preda tra le zampe e senza più badare ad altro; poi la fanciulla si diresse verso la roccia, dove intravide l'imboccatura di una grotta.

Dalla rete estrasse una maschera fatta di pelle d'orso e l'indossò: un segno dell'appartenenza al Culto. Avrebbe potuto incutere rispetto in chi l'avesse vista o forse no, l'uomo è così imprevedibile, ma lei si sentì più protetta con quella vecchia pelliccia sul capo.

Entrò nella grotta di soppiatto e vi vide steso Endimione, pastore di un altro villaggio. Stanco dopo una lunga giornata trascorsa a badare al gregge, aveva trovato anch'egli rifugio lì e dormiva un sonno ristoratore. Russava, naturalmente, come chiunque si sia dedicato infaticabile al proprio lavoro, e ciò tranquillizzò la giovane che vide il piccolo fuoco da campo sul punto di spegnersi, volle godere un po' di quel tepore e pensò che ne avrebbe approfittato fintantoché il pastore dormiva.

Raccolse qualche ramo secco dalla radura antistante la grotta e lo depose sul fuoco, che si riattizzò. Ah, il benedetto tepore di un fuoco durante la notte nei boschi! La luce si fece più vivida e Isora provò la curiosità di sapere chi fosse quel pastore, donde venisse, quanti anni avesse… Così i suoi occhi si posarono su Endimione che mai lei aveva visto prima, e quel corpo, quel viso, l'innamorarono al primo sguardo.

Giovane Endimione dalle membra aggraziate come quelle d'una fanciulla eppure virili, senza dubbio! Che dissidio lacerante: era contravvenire ai voti il solo godere della vista di quel corpo dormiente, di quel viso che invitava a baci ardenti? La ragazza si avvicinò al giovane e, nel voltare il capo, la maschera cadde rivelando il viso.

Un "Oh!" di sorpresa sfuggì dalle sue labbra e il riposo di Endimione ne fu interrotto. Tra il sonno e la veglia, il giovane aprì gli occhi per un istante e ciò che vide l'attribuì a un sogno: che altro poteva essere l'accecante bellezza che si stava chinando su di lui, avvolta dalla luce della Luna che entrava dall'imboccatura della grotta? Richiuse gli occhi, si rigirò nel suo giaciglio e desiderò di tornare subito in quel sogno, inseguire quella folgorante bellezza.

Isora si rimproverò l'essere rimasta impietrita: aveva corso il pericolo di essere aggredita da un uomo, per fortuna non era successo niente ma… ma…

Osservò il massimo silenzio, attese che il pastore tornasse nel sonno profondo e andò via prima che si destasse, tornò al proprio villaggio.


Né lei né il pastore trovarono requie nel ritorno alle loro occupazioni quotidiane, entrambi erano presi da un altro pensiero che spesso interrompeva qualunque cosa stessero facendo: chi era quel volto su cui non era possibile indugiare col solo ricordo senza essere presi da un'ardente passione? Isora sapeva che Endimione era un pastore che forse alle volte riposava col suo gregge in una tal grotta lontana, ma Endimione…

Lui si struggeva d'amore senza alcuna speranza di poter rivedere quel viso tanto desiderato, che solo poteva comparare in bellezza e splendore alla stessa Selene, se non fosse stato sacrilegio dire così: i sogni sono materia che l'uomo non può comandare.

I sogni, il sonno. Egli prese a dormire in qualunque momento: tale era la bellezza contemplata in un unico istante del proprio dormiveglia, che al confronto tutto il resto della propria esistenza non aveva più valore. Dormire era l'unica cosa che desiderasse, dormire per poterla rivedere in sogno.

Fu così che la gente del suo villaggio prese a estraniarlo, perché un pastore per il quale ogni istante è buono per dormire anziché badare alle greggi non è di alcuna utilità, ed egli decise allora di ritirarsi a vivere in solitudine, lontano da tutti, lì dove il suo sogno si era palesato la prima volta, dimentico di ogni altro assillo, di ogni altra cura. A quella grotta tornò, appena preparandosi un giaciglio, affinché ogni cosa fosse esattamente come quella notte, affinché nulla ostacolasse il ripetersi del sogno.

Lì tornò Isora, preda di un amore impossibile perché i suoi voti non erano sciolti. Scesa la notte, s'accorse che qualcuno era nella grotta perché un piccolo fuoco vi crepitava. La fanciulla entrò e rivide l'amato viso, le amate forme, distese, consumate da un deliquio che lei riconobbe perché lo stesso fuoco consumava anche lei, ma mai, mai fece alcunché per destare Endimione, la cui sola contemplazione era sufficiente a soddisfare ogni suo desiderio, ed era il tossico che la vincolava a ripetere ogni notte come un insano rituale la visita al bel dormiente. Prima dell'alba gli si accostava, appoggiava un bacio nell'aria sulle labbra di lui, desiderava ch'egli si destasse finalmente, ma il desiderio di Endimione di trovarla nel sonno era troppo forte, ed egli non si svegliava mai.

Dicono che la cosa si ripeté per molte e molte notti, finché pochi seppero cosa ne era stato di Endimione, e i più non lo rividero. In accampamenti notturni, intorno a un fuoco, nacque la storia del pastore che aveva osato contemplare la nudità della Dea presso una fonte d'acqua, e che per quell'insolenza era stato trasformato in cervo e sbranato dai cani, o altre punizioni più terribili gli erano state inflitte, ma sempre egli era stato sottratto ai suoi simili, forse portato tra le stelle.

E ancora in tempi molto più tardi si raccontò che un pastore era stato irretito dalla bellezza di una ninfa, o di una fata chiamata la Dama del Lago, e per seguire quella bellezza si era alienato dalla propria gente che non riusciva più a comprendere il suo agire.

Nella realtà, molto apprese Endimione dalla vita nella solitudine, quando era desto, e venne così considerato al pari di uno stregone o di uno sciamano da quelli che ancora lo ricordavano. Di tanto in tanto qualcuno passava a trovarlo presso la grotta, e a chi gli chiedeva della sua vita lì, del suo sogno, di cos'avrebbe fatto, visto che nel sonno continuava a non trovare traccia della sua amata, rispondeva con la disperata sicurezza di chi ama: — Aspetterò!


Passarono così le stagioni e gli anni, e finalmente Isora, nella pienezza della sua maturità, fu sciolta dai voti e passò ad altra fanciulla le incombenze del culto della Dea. Libera da ogni vincolo, una notte si recò presso la grotta dell'amato intenzionata a destarlo, a rivelargli la propria identità, a dirgli che la donna da lui per tanti anni considerata solo frutto di un sogno era fatta di carne, e che ricambiava il suo sentimento. Ahimè, troppo tardi: nella mano dell'uomo, immerso in un sonno senza ritorno, Isora riconobbe bacche di atropos, oggi nota come belladonna. Consumato da tanti anni di infruttuosa attesa, pur di raggiungere nel sonno l'oggetto del proprio desiderio, Endimione aveva cercato l'amata nelle allucinazioni prodotte da quella pianta, il cui abuso è letale.

A vederlo sembrava fosse riuscito nel suo proponimento: il suo volto, rivolto all'imboccatura della grotta, era perso nell'estasi di chi vede la persona amata, e gli occhi ancora aperti sembravano guardare proprio lei. Non un solo giorno sembrava aver velato la pura bellezza dell'uomo del quale si era innamorata una notte tanto lontana.

Pianse, Isora, lei che aveva consolato tanti del suo villaggio per la perdita di una persona amata, e allora le tornarono alla mente gli insegnamenti della Dea, si stese accanto al corpo di Endimione, l'abbracciò e recitò:


Una volta urania mi mostrai,

terrena mi sapesti giammai,

ctonia per sempre mi avrai.


Masticando le bacche che Endimione stringeva tra le mani, lo baciò e lo raggiunse nella terra dove i sogni sono l'unica realtà.


(fine)


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Merceds Cortani


Branchie di sassi roventi


È seduta sulla spiaggia tenendosi le ginocchia, guarda il bagnasciuga accarezzato ritmicamente dall'ultimo anelito delle onde che vanno e vengono come un respiro, il suo stesso respiro che si fonde con la brezza salmastra e il cigolio de gabbiani e la sirena di un aliscafo. Sente i sassi bollenti sotto le natiche lasciate scoperte dal costume troppo piccolo pensato per mettere in mostra il suo corpo giovane, un corpo odiato, desiderato, un corpo troppo guardato. Prende una pietra rovente e la lancia nel mare, ripensa a quell'uomo che l'aveva fermata lungo il corso, sei bellissima le aveva detto, vuoi fare la modella? E lei felice, illusa, lei che non si è mai sentita bella, abbastanza bella, ma anzi brutta, bruttina, normale, magra, grassa, carina, orripilante attraente ma mai bella e basta e allora sogna, cos'altro potrebbe fare? Sogna di essere, finalmente, amate.

E lo studio fotografico in un capannone e la telecamera accesa, e sei bellissima, stupenda, sei troppo bella, fammi, vedere di più, e che vuoi che sia un video, e che vuoi che sia la nudità, e non essere bigotta, e non fare la stronza, e vieni qui, e questi sono in miei amici, bravi ragazzi, su e non fare storie.

Getta un altro sasso nell'acqua azzurra, lo immagina affondare placido verso il fondo. Guarda il mare, si chiede se a quelle profondità, schiacciato dalla pressione dell'acqua, abbia delle branchie per riuscire a respirare.


(fine)


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Mariovaldo


Un racconto del vecchio nostromo


Troppe volte la vita di un uomo è stata stravolta, decisa nel suo bivio cruciale, da una piccola parola: sé.

Se avesse fatto, se avesse visto, se avesse ascoltato… quel "se", nella sua brevità, spesso racchiude un grido di rimpianto, una sentenza senza appello.


Konstantin Afanasevič Samaraev, sebbene primogenito di un nobile dalle grandi ricchezze, insignito dallo Zar Nicola I dell'ordine di Cavaliere di San Vladimiro, amava mescolarsi al popolo di pescatori e marinai che affollava la taverna di Jakov, al porto.

Spesso, nella buona stagione, lasciava a cavallo la tenuta di Lebjaž'e, affacciata sule gelide acque del golfo di Finlandia, e passava la notte nel tanfo di pessima vodka, giocando a carte e cantando strofe che a San Pietroburgo gli sarebbero costate l'esclusione dai salotti della buona società, e forse anche di peggio.

Nella taverna, Konstantin trovava l'opposto di ciò che non sopportava nei salotti della capitale: persone che valeva la pena di conoscere, schiette nella loro dignitosa povertà, interessanti perché riscattavano la loro ignoranza incolpevole con i tesori dell'esperienza. Questi tesori erano sempre disposti a condividerli senza chiedere altra ricompensa che un bicchiere di vodka.

Una di queste persone era certamente staryj Botsman.

In realtà nessuno sapeva il suo vero nome, si faceva chiamare soltanro staryj Botsma, vecchio Nostromo.

Senza nome e senza età, certamente con la gioventù lontana molti lustri, il volto arso dal sale e il corpo ricoperto dai segni delle risse nei porti di ogni mare, sedeva sempre da solo e dava fondo a bottiglie e ricordi.

La sua voce, che aveva sovrastato quella dei marosi ruggenti e l'urlo dei venti tra il sartiame, nel tempo si era arrochita e affievolita, ma era ancora in grado di dominare lo schiamazzo disordinato degli avventori.

— San Nicola mi è testimone, ci salvò lui quella volta che… — , iniziava invariabilmente, e intorno a lui si faceva silenzio.

Allora, in quella stanza maleodorante, incrostata di fumo e salsedine, mostri marini con cento tentacoli si avvinghiavano alle gambe dei tavoli, oppure il brigantino dalle vele lacere e la ciurma di scheletri attraversava a dritta la rotta di un vassoio di vodka, mentre gabbiani dagli occhi di fuoco si calavano sul bancone, guardando malignamente gli avventori.

Se, Il fatale "se" di Konstantin: se avesse prestato attenzione a una delle storie del Nostromo…

Avrebbe dovuto, non fosse altro perché quella sera, per più volte, lo sguardo del vecchio aveva attraversato il vetro del bicchiere e si era puntato negli occhi di Konstantin, che ne era rimasto turbato; "dagli occhi di un uomo si giunge alla sua anima", dice un proverbio russo, e gli era parso che quell'uomo pieno di misteri stesse appunto leggendo il libro nero della sua anima.

Perché il disegno del delitto che lo avrebbe dannato per l'eternità era ormai germogliato in lui, come un cancro senza remissione.

Invece, distratto da quello sguardo e immerso nei suoi sinistri pensieri, Konstantin aveva lasciato che le parole pronunciate dal vecchio scivolassero nella sua mente senza destare la sua attenzione. In fondo, erano solo cupe leggende, da prendere per quello che valevano: una bottiglia di pessima Vodka.


Erano passati due giorni e una breve notte mai del tutto oscura, l'alba segnava l'inizio di un nuovo, interminabile giorno e già, in alto, volavano i gabbiani emettendo le loro grida inconfondibili.

Se solo si fosse ricordato del racconto del Nostromo, sicuramente avrebbe fatto qualcosa di diverso, invece Konstantin aveva appena abbandonato il corpo inanimato di Nina Michailovna tra gli scogli dove l'aveva trascinato.

Alla luce radente del sole, Nina aveva perso tutto il suo potere di seduzione. Quello che aveva abbandonato lì, nella schiuma della risacca, era qualcosa di simile alla pelle della serpe che si trova a volte lungo il sentiero: una forma vuota, priva d'ogni fascino perverso e non più in grado di avvelenare chi l'avesse avvicinata.

Presto il mare se la sarebbe presa e di Nina non si sarebbe mai più sentito parlare, lei non avrebbe gettato ancora i suoi maligni incantesimi, nessun uomo sarebbe ancora stato schiavo della sua bellezza.

Nina, la più bella e la più pericolosa tra le donne che Kostantin avesse mai conosciuto.

L'aveva amata con tutto se stesso, e San Pietroburgo era rimasta per mesi senza Konstantin Afanasevič Samaraev, come se non ci fosse mai vissuto. Si era dileguato, scomparso.

Era pronto a sfidare le convenzioni per sposarla e imporla alla famiglia, contro le ipocrite leggi non scritte che lo avrebbero reso un reietto di quella società chiusa e bigotta.

A Ivan Nikiforovič, cugino e soprattutto grande amico, che da San Pietroburgo era venuto a cercarlo alla tenuta, aveva confidato ogni cosa.

"Una popolana di uno sperduto villaggio di pescatori? Forse addirittura una mezza prostituta? Ma andiamo, Konstantin! Divertiti, passaci tutte le notti che vuoi, ma sposarla, portarla a San Pietroburgo… non sarai impazzito? Tuo padre ti toglierebbe l'eredità e ogni altro aiuto, e tu come vivresti? Non sei tagliato per lavorare, questo lo sai bene." Le parole di Ivan non sortirono altro effetto che la dolorosa consapevolezza di avere contro anche il suo amico più caro.

Konstantin lo invitò bruscamente a tornare a San Pietroburgo, che riferisse pure a suo padre ciò che gli pareva giusto, gli disse in un freddo addio.

Pochi giorni dopo quel commiato, accadde ciò che mai Konstantin si sarebbe atteso.

C'è sempre qualche anima buona che sente il dovere di sussurrare un certo tipo di notizie per poi godere segretamente delle sofferenze causate. Così a Konstantin pervenne un biglietto anonimo.

"Credevi di essere il solo? La tua Nina s'incontra col suo amante questa notte, nella vecchia capanna di Arkadj".

Incredulo ma deciso a scoprire la verità, Konstantin si appostò sul sentiero, in vista della capanna. Dovette attendere ben poco: appena calato il buio, arrivò Nina, pochi minuti dopo il suo amante la raggiunse.

Lo riconobbe, era Andrej, un giovane pescatore dal grande fascino, che si diceva avesse sedotto quasi ogni ragazza del paese.

Konstantin iniziò in quel momento a concepire la sua vendetta, con una freddezza e una lucidità che non sapeva di possedere.

Nulla doveva trapelare dal suo comportamento e infatti, in attesa dell'incontro con Nina, fissato da lì a pochi giorni, si era recato come al solito alla taverna di Jakov. Fu quella la sera in cui il vecchio turbò Konstantin leggendogli l'anima mentre narrava una storia.

Parlava di gabbiani maligni.


Due giorni dopo, come convenuto, Nina lo raggiunse nel loro posto segreto, una baracca al riparo dai marosi, dove per mesi si erano incontrati e si erano amati quasi ferocemente.

Ancora ferocemente l'aveva amata per l'ultima volta, prendendo da lei tutto il piacere che gli veniva offerto e poi, mentre Nina ansimava con gli occhi chiusi e i sensi rivolti a un unico scopo, Konstantin le aveva appoggiato la punta del pugnale sul seno e aveva spinto con crudele lentezza.

La lama gli fece percepire il battito del cuore della sua amante, sempre più convulso. Nina fece in tempo a capire che stava morendo e a soffrire per pochi, atroci momenti; poi la sua anima di peccatrice andò ad alimentare le fiamme dell'inferno per l'eternità; almeno questo era il pensiero di Konstantin al compiersi della sua vendetta.

Restava Andrej, l'altro amante, colui che aveva spezzato i suoi sogni e reso vana la sua ribellione alle convenzioni. Era in mare, ma al ritorno sarebbe toccato anche a lui: la strada buia, l'agguato, una coltellata alla gola. No, certo non per sua mano, Konstantin Afanasevič Samaraev non si sarebbe sporcato le mani col sangue di un misero pescatore: la promessa di poche monete d'oro era bastata a comprare i servigi di un tagliagole. Era pronto, e attendeva solo l'occasione per guadagnarsi il compenso pattuito.


Questi erano i pensieri di Konstantin mentre si lavava tra gli scogli, in una pozza d'acqua gelida, per strappare via il sangue, l'odore di Nina e il male che lei gli aveva fatto.

Quando gli parve di essersi liberato di tutto, si rivestì e si diresse verso la capanna dove, le briglie legate ai rami di un cespuglio, lo aspettava il suo bel roano.

Il villaggio era vicino e Nina di solito vi faceva ritorno a piedi, lungo il sentiero che a tratti costeggiava il mare. In paese avrebbero pensato a una disgrazia: un piede in fallo, la caduta fatale tra gli scogli. Ma non l'avrebbero ritrovata, questo era certo, pensò Konstantin mentre saliva in sella e si dirigeva verso la tenuta, oltre il promontorio. Perché Nina a quell'ora se la sarebbe già presa il mare. Ne sentiva il rumore, si stava ingrossando sotto la spinta di un freddo vento da nord-ovest, e il fragore dei marosi l'avrebbe accompagnato lungo il percorso, che per un lungo tratto passava sopra la grigia scogliera di granito.


I gabbiani sapevano dove le onde avrebbero spinto le prede e strinsero i cerchi eleganti dei loro volteggi sempre di più, verso la scogliera. Uno di essi, planando sopra le creste spumose, fu attratto da una forma bianca che pareva sul punto di essere trascinata al largo, ma ancora si aggrappava alla terra, un braccio imprigionato tra le rocce.

Cibo, il corpo di un animale pronto per essere divorato.

Con un grido di trionfo il gabbiano si tuffò verso quella forma, si posò su di lei, i suoi occhi si fissarono su altri occhi che, spalancati, parevano guardarlo come se fossero vivi. Era pronto a cibarsene.

Ma l'animale fu percorso da un tremito, poi qualcosa di nuovo e diverso si accese nel suo sguardo. Rimase ancora qualche secondo su quel corpo sballottato e martoriato, ma non lo violò: la fame si era estinta, un nuovo prepotente impulso lo spingeva ad agire.

Con un grido, allargò le ali e si lasciò trasportare in alto, dal vento che risaliva il promontorio.

Al di sotto, un'ondata più violenta delle altre ebbe finalmente la meglio sulla presa degli scogli e il corpo di Nina iniziò a seguire i capricci delle forti correnti e delle raffiche di vento.

Konstantin era arrivato sul punto più alto del sentiero. Quasi cinquanta metri sotto di lui, il mare ingaggiava la sua millenaria lotta contro il granito della scogliera; il tempo era dalla sua parte e la vittoria sarebbe arrivata, non importava quanto ci sarebbe voluto.

Il gabbiano arrivò all'improvviso, un lampo bianco scaraventato dal vento; si abbatté sul muso del cavallo e rimbalzò a sfiorare il viso del cavaliere. Un'impennata, un balzo istintivo dell'animale e Konstantin non ebbe nemmeno il tempo di reagire.

L'uomo e la sua cavalcatura si trovarono oltre il ciglio del sentiero, con le pietre che franavano sotto gli zoccoli del cavallo atterrito.

Konstantin, ancora assurdamente stretto con le ginocchia alla sella, vide il mare avvicinarsi sempre più rapidamente e il bianco di un corpo nudo che, le braccia aperte e gli occhi fissi su di lui, sembrava volesse accoglierlo.

In alto, il gabbiano roteava, stridendo trionfante.

In un attimo, la mente sconvolta di Konstantin fece riaffiorare le parole dette dal vecchio Nostromo quella sera, mentre lo guardava attraverso il bicchiere, quelle parole che, se ascoltate, avrebbero potuto salvargli la vita: "Il gabbiano che fisserà gli occhi di una persona morta nel peccato, sarà posseduto dal suo spirito e tormenterà gli uomini sino a portarli giù, nell'inferno, con lui".


La taverna di Jakov non dormiva mai. Al suo interno alcuni ubriachi russavano sulle panche, nel puzzo di vodka e vomito: Jakov sarebbe presto passato con un secchio d'acqua di mare a svegliare gli ebbri e ripulire alla meglio la stanza.

Il vecchio Nostromo era seduto da solo, apparentemente non aveva dormito, aspettando il mattino immerso nei suoi pensieri e traendo energie dalla bottiglia di vodka che giaceva vuota, rovesciata sul tavolo.

Come se avesse udito qualcosa, si fece attento, poi si alzò e, con passo assolutamente fermo si diresse alla porta. Uscì e s'incamminò verso il mare.

Un gabbiano era posato sul molo, come in attesa. Il vecchio lo raggiunse e il gabbiano si alzò in volo, puntando verso il largo.

L'uomo lo seguì con lo sguardo sino a quando l'uccello emise un grido e cambiò direzione, sparendo verso il sole.

Nel punto indicato dall'animale, il vecchio Nostromo scorse due corpi che affioravano addossati l'uno all'altro. Si diresse verso un barcone dove alcuni uomini stavano lavorando, avrebbe dato l'allarme.

Sul suo viso antico, un mezzo sorriso, come un taglio nella pelle incartapecorita, gli conferiva un'espressione sinistra.

Parlava solo a sé stesso.

— Se mi avesse ascoltato, ora non avrei un'altra storia da raccontare.


(fine)


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Athosg


L'assoluzione


La pioggia insistente caduta nella notte aveva zittito l'ultimo tepore autunnale.

Giobbe si svegliò infreddolito, osservando il perimetro della stanza da letto come fosse la prima volta. Rimase coricato sotto le coperte tirate fino al collo quando il campanello emise alcuni stanchi latrati. Si alzò stupito vista l'ora mattutina, e a piedi nudi si avvicinò all'occhiello con passo felpato per non farsi sentire dallo scocciatore di turno. Dall'altra parte un tipo pelato in camicia bianca attendeva impaziente. Giobbe rimase zitto e fermo, fino a quando lo vide imbucare la tromba delle scale e sparire dalla sua visuale. Immaginò fosse il ragazzo dell'associazione comunista che ogni mese gli faceva visita per vendergli una copia del giornaletto. Un'edizione a dir poco fantascientifica, tanto era a ritroso nel passato. A leggerlo pensava di essere precipitato agli inizi del novecento quando Lenin, i bolscevichi e Dio sa chi, stavano assumendo il potere. Quei sognatori gli erano simpatici non fosse altro perché negli ultimi tempi il sentimento generale italiano era precipitato a ritroso nel tempo.


Ritornò nella stanza e solo allora vide il biglietto.

— Palestra, lavoro, palestra. UFFI. Ciao Romina

Il solito post-it frettoloso di sua moglie, un appunto scritto sotto l'effetto adrenalinico della frenesia quotidiana.

Giobbe soffiò con forza, centrandolo in pieno. Il foglio si alzò con uno scatto dolente, sbatté contro la specchiera, s'inarcò ancora per un attimo, fino a perdersi chissà dove sul pavimento. Si rasserenò per la forza dei suoi polmoni, non ancora intaccati dal fumo delle troppe sigarette.


Tornò in cucina e accese la radio.

In programmazione c'erano i Nirvana e la voce di Kurt Cobain si diffuse per il locale. Gli fu utile per ripensare agli ultimi mesi, al rapporto con Romina naufrago in un mare di silenzi. Mangiò due biscotti e si dissetò bevendo dal rubinetto. L'acqua era gelida, e per un po' ne sentì il peso sullo stomaco. Si accese una sigaretta, appoggiando la schiena al muro.

La casa ora gli sembrava più calda e accogliente, e tra una boccata e l'altra cominciò a pensare a cosa fare. Entro mezz'ora avrebbe dovuto essere in ufficio, ma in base ai suoi ritmi mattutini era già in ritardo. Doveva rispettare i tempi tecnici personali, cui non poteva rinunciare. Trenta minuti nel suo sancta santorum per barba e doccia, poi avrebbe dovuto vestirsi, scendere, aprire il garage, portare fuori la macchina, chiudere il garage, prendere il dispositivo per l'apertura del cancello, attivarlo, riporlo nel vano portaoggetti. Si ritrovò annoiato e si riappoggiò alla parete. Oltre ai tempi tecnici, doveva calcolare il tragitto di una ventina di minuti da casa sino al cancello aziendale. Spense la radio e accese la TV. Dopo aver ascoltato tre parole, abbassò il volume. Indaffarato, nella semplicità di questi movimenti al rallentatore, prese il telefono. Lo guardò una decina di volte, rigirandoselo tra le mani.

Poi chiamò.

Ciao Marcella.

Pronto?

Ciao Marcella, sono Giobbe.

Ciao Giobbe.

Marcella era la segretaria del gran patron. Iniziava sempre mezz'ora prima degli altri impiegati.

Senti Marcella, oggi arrivo in ritardo. Giobbe era partito in quarta, poi si fermò, perché non aveva ancora preparato una scusa plausibile.

Va bene, registrato.

Sì, ieri mi si è rotta la lavatrice e sto aspettando il tecnico. Spero di arrivare in tarda mattinata o, al peggio, nel pomeriggio.

Ok.

Ciao e grazie.

Era brava Marcella. Non sempre simpatica, ma tenere la sua posizione non era semplice. Dovevi per forza diventare un mastino di centrocampo, dove non potevi rilassarti neanche un minuto. La scusa inventata non era molto credibile, pensò. Sapeva già che quel giorno non sarebbe andato a lavorare e, l'indomani, non avrebbe neanche tentato di ampliare il corso della storia. Aveva dinanzi a sé tutto un giorno da spendere come voleva. Il traguardo era la sera, dopo le otto, quando Romina sarebbe rientrata a casa e si sarebbero guardati con il silenzio negli occhi. Lei tutta impetuosa dallo sfogo della palestra, ancora con i capelli luccicanti e lui a leggere un libro o a guardare la TV.

Andò in bagno e in un battibaleno si lavò. Tornò in camera, dove aprì l'armadio, prese un bel paio di pantaloni grigi, una camicia bianca a pois blu e un maglione in tinta a rombi.

Salì in macchina e partì. Non aveva ancora deciso la direzione da prendere. Voleva camminare un po' per rinfrescarsi le idee e andare in una libreria a sfogliare dei libri o a scegliere un DVD da vedere quando Romina andava a letto, stanca della palestra.

Prese infine la direzione per Como, distante circa venti chilometri. Ci sarebbe voluto mezz'ora per arrivare, ma con il traffico del mattino probabilmente avrebbe impiegato più tempo. Poco male, pensò Giobbe, con la sigaretta accesa e Virgin Radio a palla sarebbe potuto arrivare anche in capo al mondo.


Quanno 'o mare è calmo ogni strunz'è marenaro

Il Dj raccontò quest'antico proverbio napoletano. Quando il mare è calmo ogni stupido è marinaio.

Quanno o'mmareeee

è

è

è

calmooooo

ogni strunz'èèè

marenarooo


La ragazza nella macchina appaiata alla sua sorrise nel vederlo cantare e Giobbe la ricambiò con l'occhio sinistro aperto e chiuso a intermittenza. Si sentiva libero e ispirato. Fermi al semaforo lei lo guardò e i due cominciarono a muovere la testa all'unisono. Dondolandosi al ritmo della musica ebbe l'impressione di volare. Quando scattò il verde salutò la giovane con un bacio gentile.


Arrivò in città e parcheggiò. Scese e inserì due monete nel parchimetro.

Cominciò a gironzolare; persone di tutte le età e ceti sociali camminavano indaffarate, molti erano al cellulare con atteggiamento risoluto a sbrigare chissà quale incombenza e molti si lamentavano della pochezza, a loro dire, del mondo. La gara sociale era in fase di riscaldamento avanzato, e si preparava a entrare nel vivo di una giornata senza esclusione di colpi.

Giobbe osservava camminando questo esercito d'impiegati, casalinghe, pseudo manager, ragazzi bigianti la scuola, pensionati e fancazzisti come lui. Risoluto era il suo passo lungo le alte strade del centro storico. Poco dopo la piazza principale svoltò a destra, in una stradina che portava a una bellissima chiesa del trecento. C'era stato varie volte, perlopiù in compagnia di Romina o di qualche amico. Era la prima volta che ci andava da solo.

Arrivò sul sagrato e lanciò lo sguardo verso l'altissimo campanile. Era una delle opere più importanti in Italia di quel periodo storico.

La chiesa era bellissima, spoglia di quadri e imponente nella sua sacralità. Un paio di statue raffiguravano dei santi e un altare, in marmo grezzo, dominava dal fondo della chiesa. Il silenzio era impressionante al confronto con le attività esterne e un leggero strano odore di muffa cancellava lo scorrere del tempo.

Si sedette su una sedia a metà navata e si guardò intorno. Nonostante amasse entrare in tutte le chiese, non pregava mai. Il nocciolo delle cose, il centro di tutto, dove risiedeva il pensiero dell'uomo, a questo si fermava Giobbe. Ma oltre l'essenza del tutto vi era la fede e lui non riusciva ad andare oltre.

Non vi erano molte persone a quell'ora, e quelle poche erano le più disparate possibili. Le solite vecchine attratte da un futuro celeste prossimo, tre uomini di varia età ed etnia, due belle turiste straniere.

Si sedette tranquillo. Il sole filtrava dai vetri colorati, e nei fasci di luce sbuffi di polvere fluttuavano nell'aria.

Giobbe vedeva in quel monumento un inno all'Uomo che nei secoli lo aveva abitato e preservato per un futuro ignoto.

Si alzò per sedersi all'interno di uno spazio confessionale. Lo fece quasi senza accorgersene, seguendo un impulso irrazionale. S'immaginava la tranquillità e la pace dei frati quando ascoltavano le confessioni della gente comune, di come volassero sopra le loro teste, sopra i problemi quotidiani, sopra i piccoli e grandi peccati.

Tirò la tendina, lasciando un poco aperta la porticina che permetteva l'entrata al confessionale. Quella posizione offriva una visione diversa dell'interno della chiesa, gli ricordava l'Hotel National de Cuba, dalla posizione rialzata sul Malecon. Da lì i rumori e gli odori del mondo arrivavano magicamente rarefatti e armoniosi.

Immerso nei suoi pensieri come un fantasma arrivò un uomo e s'inginocchiò. Una grata li separava.

Padre, posso confessarmi? Chiese con voce mesta.

Giobbe, colto di sorpresa, non seppe lì per lì cosa rispondere. Se fosse uscito scusandosi dell'equivoco avrebbe fatto una figura ridicola. Se avesse acconsentito, si sarebbe appropriato di un ruolo non suo. Si affidò al fatto che non conosceva l'uomo, e qualsiasi segreto avesse carpito, non avrebbe varcato la soglia del confessionale.

Dimmi figliolo, rispose con voce calma.

L'uomo si sentì rinfrancato e incominciò.

Padre, non frequento molto la Chiesa, ho solo bisogno di parlare con qualcuno. Oggi più di ieri, mi sembra di vivere in un mondo difficile, dove la gente parla, corre, lavora, si arrabbia e sorride poco. Io sono un gran lavoratore, e a volte ho la triste sensazione che tutto non basti. Soldi, posizione, moglie, lavoro, figli. Sembrerebbe di avere tutto, ma non è così.

È vero quello che dici, cosa importante sarebbe avere un minimo di speranza e guardare intorno a noi. E continuare a credere in noi stessi, rispose Giobbe.

È difficile Padre. Viviamo in un mondo troppo veloce, quasi ne siamo divorati. Ieri ho dato una multa a un mio dipendente perché aveva sbagliato un lavoro. Forse se lo meritava, però oggi son pieno di dubbi. Non so se mi sono comportato bene.

Vai avanti.

Ho guadagnato tanti soldi nella mia vita, lavorando a ritmi forsennati e non guardando in faccia a nessuno. Ora sono quasi vecchio e mi ritrovo a gestire situazioni complicate. Eppure continuo, ancora con maggior grinta e cattiveria. A volte però questo non mi basta più. Mi sento vuoto dentro, debole e indifeso. Stento a controllare la mia famiglia, non riesco più a tenerla unita.

Giobbe rimase in silenzio, poi parlò.

Siamo sempre in tempo per cambiare le nostre idee. Dici di esser ricco, e allora perché non sistemi le tue cose in modo tale da permettere ai tuoi dipendenti più serenità nell'affrontarti. Tanto, tutti i tuoi averi, lo sai, li lascerai qui. Vuoi forse diventare il più ricco del cimitero?

L'uomo tossì.

Padre, è vero, ma ormai questo è il mio modo di vivere, di comportarmi e non riesco a cambiare. Per quanto ne sia rattristato, è una molla dentro di me pronta a scattare davanti alla possibilità di far soldi.

Dimmi quale danno ti ha arrecato quel tuo dipendente, chiese Giobbe sottovoce.

Circa duemila euro, per i miei fatturati sono un'inezia, però lui ha sbagliato e io gli detrarrò cento euro al mese fino all'estinzione del debito.

Io mi sento di dirti di lasciar correre. Se è una brava persona, abbonagli questa cifra e digli di stare più attento la prossima volta. Se è giovane, il denaro che non ti restituirà potrà spenderlo con la sua fidanzata e venire al lavoro più felice. Se ha famiglia, potrà dare benessere ai suoi figli. Comunque, per lui, sarà un esempio. Se poi questo fatto lo sapranno i tuoi dipendenti, vedrai un netto miglioramento nei rapporti quotidiani. Sarai più rispettato e benvoluto.

L'uomo rimase in silenzio. Le mani si muovevano nervosamente sulla balaustra, testimoni del senso d'inquietudine del poveretto.

Grazie Padre, ha colpito nel centro, disse con voce più ferma. Forse avevo bisogno di ascoltare una voce autorevole. Mi ha fatto molto bene parlare con lei.

Vai figliolo, sistema la questione e questa notte dormirai sereno.

Padre, avrò l'assoluzione?

Figliolo va e non preoccuparti. L'assoluzione arriverà da sé, saranno i tuoi comportamenti e la tua coscienza a permettere ciò.

Con queste parole Giobbe chiuse la confessione. Non avrebbe mai saputo se quell'uomo avesse avuto dei dubbi sulla regolarità di quell'incontro, ma in cuor suo sapeva di avergli fatto bene e, per sommi capi, aveva compiuto una buona azione.

Si sentì felice.

L'uomo lo ringraziò e se ne andò. Giobbe sentì il suo passo leggero e circospetto allontanarsi veloce verso l'uscita.


Passò qualche minuto e arrivò una donna. Giobbe stava per alzarsi ma, come avvenuto mezz'ora prima, ormai era troppo tardi.

La donna s'inginocchiò.

Padre, posso confessarmi?

Dopo un piccolo momento di esitazione le rispose.

Dimmi figliola, ti ascolto.

Ormai aveva quasi preso l'abitudine a questo tipo di dialogo, e solo il pronunziare la parola "figliola" lo elevava sopra gli uomini, come se ammantasse il mondo in una coltre tiepida e protettiva.

Padre, mi trovo in una situazione terribile. Sono sposata da dieci anni e fino a poco tempo fa il mio matrimonio filava liscio. Avevamo i soliti banali litigi di coppia, ma tutto si risolveva con un abbraccio. Poi…

Poi.

Ho incontrato un uomo e me ne sono innamorata. L'ho conosciuto nel posto di lavoro. Un bellissimo giovane, serio e gentile. E dalle parole, dagli ammiccamenti scherzosi, siamo passati a cose ben più serie e gravi. Abbiamo fatto l'amore. Una volta, due volte, tre volte, cento volte. Se non lo vedo e non faccio l'amore con lui, mi sembra di impazzire. Sto peccando in continuazione e non capisco più nulla. Padre, sono disperata.

E tuo marito? È informato della situazione? Sospetta qualcosa? Ti ha detto qualcosa? Chiese Giobbe meditabondo.

No, credo non sospetti nulla. Lui è un brav'uomo e mi spiace farlo soffrire con le mie assenze e i miei nervosismi. Sono diventata incostante.

La donna cominciò a singhiozzare, si sentiva il fruscio del fazzoletto con cui si asciugava il viso.

Giobbe rimase silenzioso.

Poi parlò.

Figliola, il matrimonio è un vincolo importante. Oggi per me è una giornata particolare, e come Qoelet dalla Bibbia ti parlerò. Cercherò di farti capire dove sbagli, poi toccherà a te scegliere la via d'uscita. Ti lascio una possibilità d'appello: decidi ciò che ti sembra più giusto. Se ami quest'uomo, seguilo. Ma devi esserne sicura. All'opposto, se pensi sia solo una relazione carnale, un vizio di un momento debole, una porta già chiusa sul futuro, allora fermati e ritorna da tuo marito. Mi auguro lui non sappia nulla e possiate riconciliarvi senza dolore. Il tempo ti farà capire la bontà della scelta. Però, bada bene, che scelta sia! È troppo facile vivere così approfittando e dell'uno e dell'altro.

Padre, Padre, Padre!, gli rispose la ragazza in preda al pianto.

Padre, grazie, di queste parole. Sono confusa, non so dove sbattere la testa. La ringrazio perché mi ha ascoltato.

Sì figliola, il peso della decisione sarà tutto sulle tue spalle. Forse questo fardello non ti lascerà mai, ma dovrai essere forte nel cammino, e un giorno raggiungerai la luce, dove potrai capire se la tua decisione sarà stata giusta o sbagliata. E forse ti ritroverai migliore di come sei ora.

Padre, ancora grazie. Ho tanta paura. Mi da l'assoluzione?

Figliola, perché è così importante l'assoluzione? Saranno i tuoi comportamenti e la tua coscienza a permettere di sentirti assolta. Ora vai e torna alla tua vita.

La donna rimase in silenzio per un paio di minuti, il tempo per riprendersi poi si alzò e uscì alla spicciolata. Giobbe sentì il ticchettio dei suoi passi allontanarsi e uscire nel pomeriggio cittadino.


Era giunto il momento di alzarsi in fretta per non essere scoperto. La chiesa in quel momento era vuota, solo Giobbe si muoveva tra i banchi e gli inginocchiatoi. Uscendo dal confessionale provò un leggero giramento di testa.

Si sedette un momento nella piccola cappella vicino all'uscita, dove una statua di San Michele teneva sotto il piede il drago ormai sconfitto. Era buio, solo la luce tremolante di alcune candele rischiarava l'antro.

Giobbe cominciò a parlare sottovoce.

Dio, io non seguo alla lettera la tua legge ma riconosco l'infinitezza delle cose. I due penitenti chiedevano l'assoluzione. Pazzi! Avessero chiesto una mano amichevole, un piatto di pasta nel mezzogiorno di una vita difficile, lo potevo capire. Qual è il senso di chiedere perdono per dei gesti che, forse, già domani continueranno a compiere? Sesso e soldi. Soldi e sesso. Com'è miserabile la vita di noi umani. Io spero di averli aiutati a capire una cosa sola: non mentire a sé stessi. E io, invece, ti chiedo scusa se ho occupato un posto che non mi compete. La leggerezza degli uomini è troppo pesante per le mie fragili spalle.

Si passò le dita sugli occhi umidi.


Prese con lentezza la via d'uscita, fermandosi un'ultima volta per fare il segno della croce.

Giobbe non vedeva l'ora di respirare aria fresca.


Uscì stralunato nella piazza. La città era attraversata dal solito fermento di centinaia di persone galleggianti nel loro vociare continuo. Si sentì smarrito in mezzo a tutto quel bailamme. Cominciò a camminare a velocità sostenuta per tenersi in equilibrio, spinto dai mille pensieri che quel giorno gli aveva portato in dote. Ogni tanto, nel suo veloce progredire, urtava un passante. Si scusava, faceva una giravolta su sé stesso, e riprendeva il cammino.

Girò a zonzo per la città, visitando una libreria e un negozio di scarpe. Mangiò un panino in un bistrot vista lago.


Erano già le sette di sera quando rientrò in casa. Il silenzio era opprimente. Accese subito la radio. Romina non era ancora tornata. Aveva fame ma si astenne.

Verso le nove rientrò sua moglie. Indossava la tuta da ginnastica, si avvicinò e lo abbracciò. Giobbe rispose con un bacio sulla fronte.

Wow, giornata terribile, sono stanchissima. Questa palestra mi uccide.

Puzzava un po', un mix nauseabondo di sudore e profumo.

Ahi, tutto ciò che non mi uccide, mi rende sempre più forte, disse Giobbe soffiandosi il naso.

Magari. Sai Giobbe, ho quasi intenzione di mollare per un po' gli allenamenti in palestra. Ancora quattro sedute, poi mi scade l'abbonamento. Non so se lo rinnovo.

Giobbe si sciolse da quell'abbraccio.

Brava Romina, ora vai, lavati e riposati. Ti raggiungo dopo.

Le diede una perentoria pacca sul sedere. La ragazza rimase stupita da quello sguardo ieratico e febbricitante che la trapassava. Così non lo aveva mai visto e in sovrappiù gli sembrava più alto e magro.

Annuì e si ritirò in bagno.

Giobbe si spostò in sala; si sentiva stanco e prosciugato dal succedersi degli avvenimenti. Un retrogusto dolciastro di noia gli impastava la bocca. Si sdraiò e chiuse gli occhi lasciando il mondo alla sua danza.

Dopo una decina di minuti si ritrovò tonico e si rialzò.

Domani chiamerò Marcella e le racconterò dei problemi allo scarico della lavatrice, una complicazione che mi richiederà un altro giorno di ferie, pensò. Poi continuerò il digiuno perché ho scorie da eliminare. E per ultimo chiamerò la palestra e regalerò l'abbonamento a Romina. La ginnastica le farà bene.

Sorrise guardando il soffitto bianco, dove zampettava una mosca. Sembrava lo stesse ascoltando.

Cominciò a bighellonare per la casa fino a quando decise di vedere un film.

Rovistò nel mobiletto, dove aveva tanti DVD. Scelse Il magnifico cornuto, con Lando Buzzanca.

Lo aveva preso in prestito a inizio settimana dalla biblioteca e aveva una gran voglia di vederlo.


(fine)


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Andr60


Il fiorellino


1.

La decisione era presa, doveva fare presto. Ancora gli rimbombava nelle orecchie la sentenza: "Mi dispiace, caro Jean Luc, ma non c'è più niente da fare; ormai il tumore è metastatizzato".

Marcel Lemond, suo collega e vecchio compagno di università, era stato esplicito.

— Quanto mi resta? — gli aveva chiesto, sgomento.

— Due, tre mesi al massimo. — aveva risposto il neurochirurgo.

Jean Luc Raffiche, neurofisiologo specializzato in computer science applicata, già candidato al premio Nobel numerose volte, si era sentito crollare il mondo addosso.

"Perché proprio ora?" Si era chiesto, alla vigilia di una svolta storica, epocale, che avrebbe dato un altro significato alla vita umana, e anche alla morte?

Sembrava uno scherzo beffardo del destino; ma lui, in fondo, al destino non aveva mai creduto anzi, aveva fatto di tutto per aggirarlo.

E lo avrebbe fatto anche stavolta.


2.

La mancanza di tempo lo obbligava a una scelta dolorosa; il candidato ideale sarebbe stato Pierre, quella capra che aveva scelto come assistente appunto in vista di quella prospettiva. Disgraziatamente quell'idiota si era rotto una gamba sciando, e sarebbe rimasto ricoverato in ospedale per un mese intero, per cui Jean Luc avrebbe dovuto improvvisare.

Ma ecco l'imprevedibile: Nicholas, il nipotino di cinque anni, aveva visto un documentario in TV e, sapendo che il nonno lavorava in quel campo, aveva manifestato grande interesse per visitare il suo laboratorio, a differenza del figlio, Patrick, che si era sempre rifiutato.

Nicholas era un bambino vispo e curiosissimo, una vera gioia per Jean Luc, che era tempestato di domande appena s'incontravano; lui si offrì di accompagnarlo a una visita guidata e no, non c'era bisogno che mamma Silvie lo accompagnasse. Nicholas era un ometto, e col nonno si trovava benissimo.

Il trasferimento quantistico della mente era stato effettuato con successo con topi, cani e scimmie, mai con esseri umani.

Jean Luc preparò il macchinario e decise il giorno; quando entrarono nella sala, Nicholas spalancò gli occhi di meraviglia: — Oooh, che bello, nonno! Da grande, voglio fare il tuo lavoro. Posso?

— Ma certo, caro; — rispose Jean Luc, con una stretta al cuore — adesso ti faccio vedere una bella cosa.

Così disse, mettendogli una cuffia — il cranio del nipote aveva lo stesso diametro di quello del suo ultimo scimpanzè; poi prese un batuffolo di etere dietilico e lo addormentò, posando il suo corpo su una lettiga.

Completò i collegamenti di Nicholas e i suoi, e avviò il macchinario.

Dopo cinque minuti si svegliò; l'etere aveva cessato l'effetto.

Si guardò la mani, piccole e senza una ruga. Il trasferimento cerebrale era completo, apparentemente senza conseguenze. A parte quella di avere sovrapposto la propria coscienza a quella del nipotino, col risultato di annullare quella più debole e in formazione. Ma che colpa ne aveva, lui, se era un malato terminale? C'era troppo lavoro da fare...

Prese per la manica il vecchio se stesso, in stato catatonico, e insieme uscirono dal laboratorio.


3.

— Mamma, il nonno sta male! — disse Nicholas a Silvie, che era venuta a riprenderlo all'Istituto di Scienze Neurologiche.

Jean Luc stava barcollando, mormorando frasi sconnesse, e fu subito ricoverato al vicino ospedale.

Il professor Lemond disse al figlio Patrick e alla nuora: — Purtroppo era una conseguenza prevedibile, alcune cellule metastatiche si sono infiltrate e hanno causato dei piccoli ictus, dando episodi di demenza.

Dopo una settimana, Jean Luc venne trasferito in una struttura protetta fuori città, in attesa della fine.

Intanto la mente di Jean Luc si era adattata velocemente al nuovo corpo: che sollievo poter mangiare di tutto, riuscire a muoversi senza avere fitte dolorose, si sentiva rinato! E in un certo senso, era proprio così. Grazie al suo genio, aveva una seconda possibilità.

L'inconveniente era che avrebbe dovuto aspettare anni, prima di riprendere i suoi esperimenti: non poteva certo entrare nel suo laboratorio e presentarsi: "Salve, sono Nicholas Raffiche e sono un enfant prodige delle neuroscienze".

Avrebbe dovuto sorbirsi anni di scuola dell'obbligo, compagni idioti e discorsi scemi almeno fino all'università. Una volta là, avrebbe avuto buon gioco nel trovare un posto all'Istituto e finalmente riprendere ciò che gli spettava.

Armiamoci di santa pazienza e andiamo avanti, si disse.

— Vieni, Nicholas, è l'ora del bagnetto. — gli disse la nuora cioè, la mamma.

— Mamma, posso farlo da solo. — rispose lui, sorpreso.

— Nient'affatto, non hai ancora imparato a lavarti bene. — fece lei, categorica.

Così fu costretto a denudarsi e a infilarsi nella vasca e, quel che è peggio, a far entrare nella vasca anche la "ex" nuora.

Jean Luc l'aveva sempre detestata: la trovava insulsa e piuttosto frivola, però non l'aveva mai vista in desabillieé e, in quella situazione, accadde l'inevitabile: — Nicholas! Ma cosa fai?!


4.

Patrick e Silvie stavano parlando in salotto, e Nicholas era rimasto nella sua stanza. Ma andò a origliare alla porta.

— Lo trovi normale che un bambino di cinque anni abbia un'erezione e mi tocchi in quel modo? — il tono di Silvie tradiva una certa preoccupazione.

— Ma dai, può voler dire soltanto che non è più il caso che facciate il bagno insieme. — Patrick sembrava molto più accondiscendente.

— No, no, secondo me è meglio se lo portiamo da uno specialista. — Silvie insisteva, non sembrava molto convinta.

Alla fine, decisero ciò che voleva Silvie: due sedute alla settimana dallo psicologo infantile, una signora molto compita che fece parlare Nicholas di come si sentiva.

Nicholas diede tutte le risposte che la psicologa si aspettava, e non ci fu nulla di strano, visto che aveva collaborato, anni prima, alla stesura delle linee guida di quei casi — Jean Luc aveva una laurea anche in psicologia.

Trascorsa una settimana senza altri "incidenti" — visto che Nicholas aveva fatto di tutto per evitare situazioni di eccessiva intimità con la madre — Silvie andò a trovare Jean Luc; Patrick, come al solito, era troppo indaffarato. Non aveva mai perdonato il padre di averlo sbattuto in collegio, dopo la morte della madre.

— Possiamo fare una passeggiata nel parco? — chiese lei al medico curante.

— Ma certo, signora; non potrà che fargli bene, è tutto il giorno chiuso nella sua stanza. — rispose lui.

Silvie si era sempre trovata a disagio col vecchio; forse percepiva che non la considerava all'altezza del figlio, o della sua. Fatto sta che ora, curiosamente, questa antipatia epidermica sembrava svanita. "Forse ci voleva un cancro allo stadio terminale", si disse lei malignamente.

Si sedettero su una panchina, a godersi il poco sole della giornata autunnale. Silvie era persa nei suoi pensieri e non si accorse che Jean Luc si era chinato a prendere qualcosa, che poi le porse: — Un fiorellino per la mamma più bella del mondo. — mormorò, con una margherita in mano.

— Grazie, Nicholas. — rispose lei, meccanicamente.

Poi si bloccò. Il figlio era solito fare quel gesto, quando erano al parco giochi, o almeno lo aveva sempre fatto fino a poche settimane prima.

La donna guardò Jean Luc negli occhi: sembravano diversi da quelli di un anziano professore dedito alla ricerca ossessiva e alla carriera, erano così innocenti, come quelli di un bambino…

L'idea improvvisa la colpì con la violenza di un pugno allo stomaco: no, non era possibile, era allucinante anche solo ipotizzare una cosa del genere.

Riaccompagnò Jean Luc nella sua stanza, salutò il personale e si diresse in tutta fretta dal professor Lemond.


5.

— No, lo escludo, signora; — esclamò Lemond, deciso — penso che una cosa del genere non sia mai stata neppure tentata. E poi, a quale scopo?

— Non sono nel campo e sono molto ignorante, — disse Silvie — ma so che sono stati fatti molti esperimenti con animali, e tutti con pieno successo. Pare che il trasferimento mentale sia fattibile.

— Certo, — Lemond sembrava meno sicuro di sé — ma un conto è trasferire la mente di esseri semplici, un altro la mente umana; solo per settare i parametri giusti, ci vorranno giorni, settimane…

— O forse non è poi così complicato, professore: lo può escludere a priori?

— Ehm, no, ma forse è meglio che si rivolga ai collaboratori di Jean Luc, sicuramente ne sanno più di me.

— Già, farò così. Grazie. — Silvie si congedò, con la ferma convinzione di non essere vittima di un'allucinazione. Jean Luc aveva rapito suo figlio, e ora doveva restituirglielo.

All'istituto furono evasivi esattamente come il professor Lemond, soprattutto quell'assistente appena rientrato in servizio — come si chiamava? Pierre Qualcosa, se l'era già scordato — che l'aveva trattata come una pazza visionaria.

Ma Silvie non aveva la minima intenzione di darsi per vinta.

Accolse Nicholas con naturalezza all'uscita della scuola materna: — Com'è andata la giornata, caro?

— Bene, mamma: oggi abbiamo imparato a contare fino a mille. — rispose lui, entusiasta.

Sai fingere molto bene, pensò lei, adesso vediamo chi sei veramente.

Seduti sul divano, Silvie accese la TV sul canale dei cartoni di Peppa Pig, che Nicholas adorava. Il bambino, invece, sembrava più interessato a leggere il libro di scuola.

— Peppa Pig non ti piace più?

— Ma certo, però ora devo fare i compiti.

— Sei proprio bravo, Jean Luc.

— Grazie, Silv… cioè, mamma.

Silvie scattò in piedi e si mise davanti al bambino: — Tu sei Jean Luc! Maledetto, ridammi mio figlio!

— Cosa dici, mamma? Mi sono sbagliato, mi sono confuso, io… non lo so. — il bambino era impallidito, la reazione della donna lo aveva colto alla sprovvista. Un attimo di smarrimento, di confusione mentale, dannazione! Non ci voleva, sembrava che Silvie, chissà come, avesse capito tutto — mammina, io sono sempre il tuo angioletto, vero?

A quella frase, che nelle intenzioni di Nicholas-Jean Luc avrebbe dovuto concludersi con un abbraccio pacificatore, invece Silvie lo prese per il collo e cominciò a stringere: — Lo so chi sei, rivoglio mio figlio!

Nicholas cercò di reagire, ma era troppo debole: le sue piccole mani strinsero per un po' quelle di Silvie, poi caddero.


6.

Pierre non si sconvolse più di tanto alla notizia: si vedeva che quella donna non ci stava con la testa. Eppure, l'esperimento di scambio mentale sarebbe stato più che fattibile; loro erano pronti da un pezzo, ed era solo per i soliti cavilli burocratici che non l'avevano ancora tentato.

Un'altra difficoltà era ovviamente trovare i volontari.

Entrò in quel momento il tizio che faceva le pulizie, un ragazzotto biondiccio insignificante; Rosemarie, la tirocinante che Pierre aveva "puntato" da mesi e che non lo degnava di uno sguardo, si fissò sul tizio. Il ragazzo si girò: i loro occhi si incontrarono e lei arrossì. Pierre osservò la scena senza dire nulla, ma capendo tutto.

Aveva trovato il "volontario".


(fine)


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Alberto Marcolli


Incantesimo d'agosto


Seduto in terrazza, fiuto l'aria della sera, odorosa e densa, come il respiro eccitato di un animale in calore, e mi abbandono a ricordi di antiche passioni.


Poco fa, un colpo di vento ha trascinato a terra un vaso di gerani e il pavimento è ricoperto da un grumo di terra nera, invisibile nel crepuscolo, calato all'improvviso in un'assonnata Milano di fine agosto.


La strada, trenta metri giù in basso, è deserta. Dal piano di sotto sale un buon odore di cucina lombarda. Lo respiro. Quasi mi sembra di mangiarlo questo piatto di ossobuco alla milanese, anche se assaggerei ogni cosa, pur di evadere dalla monotonia.


Come ci sei arrivata quassù?

Io non l'ho capito.

Forse dovrei dire "apparsa", e non mi meraviglierebbe se con gli anni tu avessi raggiunto anche una simile abilità.


Le ninfe non portano scarpe, ma il fruscio di un passo sospeso, col piede leggero librato a mezz'aria, mi ha distolto dai pensieri molesti, in queste noiose giornate di forzato confinamento.


La prima volta che ti vidi, parlavi dietro di me, a tuo agio sulla scomoda panchina di un tram, quasi fosse stato un salotto.

Incuriosito dal tono malandrino della tua voce, inventavo scuse per girarmi, e scrutavo l'insegna di un'anonima bottega per animali, mai stata così importante, mentre fingevo di aver mancato la fermata.


Come avrò fatto ad attaccare bottone?


A dispetto della mia timidezza, in quel momento ho creduto che tutto fosse possibile, e da lì in poi nessun ostacolo mi avrebbe impedito di cambiare la mia vita, anche mille volte, se solo l'avessi voluto.

Qualche minuto dopo già mi sorridevi e cercavi quella stessa allegria sul volto della tua amica, sicura che la nostra intesa fosse una bellezza assoluta, una gioia da condividere con tutti.


Rivivo le serate in tua compagnia. Nulla era chiaro: l'ambiguità era la tua forza. Io, invece, amavo la semplicità, e soffrivo per quel tuo vorticoso cercarmi e abbandonarmi.

Mi accoglievi come un figlio che dovesse espiare tutte le colpe del mondo. Ero la preda perfetta da sacrificare sull'altare della tua vanità.

Decidevi tu ogni giorno, ogni santo giorno, per i nostri incontri e per i tuoi incantesimi.

Amavi bere e fumare. Nulla t'intimoriva, tanto meno gli sguardi maschili, sedotti dalle tue indecenti scollature.


Quando ho intravisto una figura evanescente vicino alla ringhiera, incurante del vaso rotto, non ho pensato a te.

Nel vago eri diversa dalla ragazza prosperosa conosciuta sul tram, ma adesso la tua presenza è reale, lo devo ammettere. Così hai fatto un passo avanti: di sfida.

E di sfide me ne hai sempre lanciate tante, tu.


Quando ti baciai per la prima volta, fu sorprendente riconoscere quanto poco coraggio ci volesse per poggiare le mie labbra sulle tue, morbide e senza una linea di trucco.

All'inizio baciavi male: mordicchiavi, veloce e isterica, come vinta da un involontario turbamento.

— Questo bacio non è reale, non è accaduto! — Ricordo che mi dicesti. — Non sono nata per dare baci agli uomini.


Ora sei cambiata tanto. La tua faccia è più dura, puntuta, con due zigomi sporgenti. Due file di riccioli scendono ai lati del tuo volto delicato, illuminato da un sorriso languido e sfuggente.


Vesti da donna vera. Calze trasparenti, camicetta ricamata, e una vaporosa gonna scura. Sono le impronte di una nuova vita, o il nero del tuo abito è solo un annuncio di lutto?


All'epoca parlavo tanto con le tue amiche, sempre pronte a malignare e inondarmi di dubbi e incertezze. Eravamo giovani, e loro mi sembravano delle vecchie decrepite, logorate anzitempo dall'invidia, e spossate dall'ambizione. M'informavano che tu non avevi mai avuto un uomo e mai saresti stata capace di una sola carezza. Secondo loro certe cose non t'interessavano. Forse avevano ragione, ma tutto quel parlare m'incendiava come non mai.


Hai sempre avuto un bel fisico, ma ora sei più attenta al tuo aspetto, e padroneggi quelle tecniche di seduzione allora goffamente utilizzate.

Vieni verso di me, e tutto quel costruire la tua immagine mi rivela quanto tu abbia abdicato alle tue vecchie teorie, noi compresi.


Il male fra noi era cominciato prima che ci fosse un vero "fra noi".

O meglio, proprio quando fra i nostri corpi non c'era più niente, tu trovavi il modo di farmi avvilire.

Ogni volta pensavo di riuscire a superare i tuoi limiti, come quando da ragazzino avevo tardato di notte, e scavalcavo il cancello di casa. Ero convinto che tu, al pari di mia madre, avresti prima urlato "al ladro" e poi mi avresti abbracciato e accolto. Ma a te nemmeno sfiorava la paura di essere derubata. La ladra eri tu.


Non è stato il tuo nuovo aspetto a sconvolgermi. È stato il tuo desiderio diverso e misterioso ad appassionarmi più della scoperta di un tesoro, sepolto su una spiaggia deserta da un pirata in fuga.


Abbandonata alle mie carezze, sei un'emozione buona e inaspettata. Guardarti, toccarti, è incantevole, ma non saprei assegnarti un nome.


Immagino come la gente ti faccia mille complimenti al solo vederti camminare per strada. Tutto ciò alimenta i miei piaceri, ma allontana crudelmente il mio capire cosa sei.

Se non dico quella parola, non me lo perdonerò mai, ma se la pronuncio, mi logoro, divento un nulla.


"Bellissima!"


Ecco l'ho detta. Ora il tempo potrà riprendere a scivolare normalmente.


Negli anni dell'università, mai avrei pensato di riuscire a stancarmi di te, delle tue storie. Invece mi stancai, pur avendo sopportato quella situazione surreale per molto tempo.

Un giorno smisi di cercarti e tu facesti lo stesso.

Per la prima volta ci intendemmo senza esitazione, quasi fossimo stati due musicisti che improvvisavano una sinfonia.


Non svanisti subito. Prima dovetti partecipare allo spettacolo della tua metamorfosi, ma senza soffrirne. Io trovai una nuova ragazza, tu ritornasti dai tuoi amici sgangherati e fu quello il momento in cui scegliesti di iniziare a decadere, come un impero ricco d'arte ma incapace di lottare.

So che lasciasti la città e fu la scelta più giusta.

Erano arrivati i barbari, e la Milano da bere ora puzzava di burro e cipolla.


Scrivo la nostra storia al mio solito tavolino di lavoro.

Ho ripreso a fumare.


Tu dormi.

Prima o poi verrà sonno anche a me.


All'improvviso mi torna in mente una strana avventura capitatami da bambino: sognavo sempre due tizi, con un paio di grugni immondi, vestiti da gitani. Ero terrorizzato e non c'era notte priva della loro orribile compagnia. Così un pomeriggio, invece di fare i compiti, presi una matita e li disegnai. Li guardavo prendere forma, veri, concreti. Sembrava potessero uscire dal foglio, conquistare profondità. Da quel giorno sparirono per sempre.


Domani mattina tornerò alla mia dichiarata normalità.

Mi sveglierò come sempre un po' in diagonale, occupando con soddisfazione tutto il letto a due piazze.

Questo però non è un mio pensiero, adesso non penso. Ho solo voglia di fumare.


Dopo si fuma sempre.


(fine)


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Marcello Rizza


Bussando alle porte del cuore


Ti ho protetta con tutto l'amore che ho potuto e con la forza datami dai creatori, dagli ingegneri, dagli assemblatori. Mi è sorto quel coraggio che nasce dalla comprensione e che contiene la distruzione. Sono cresciuto col vigore che diventa fermezza capace di pietà e così tanto tenera di compassione. Proprio all'ultimo ho mancato ai miei principi, per questo in qualche modo sto piangendo e avvilisco il plutonio senza risultati. Quanti dubbi e rimorsi mi tormentano quaggiù. Perché mi hai reso cosciente? A te non serviva e mi hai trasmesso solo tormenti.

La musica, quella che ci era caduta addosso, che avevamo riconosciuto, riusciva a placarci, ma tutto ciò che posso fare, ormai, è tremare affranto nel ricordarla. Era dannatamente bella, maledizione! Ma non sembra più la stessa qui, in questo soffocato limbo sotterraneo dove non trovo né umani e nemmeno miei pari. Dove sono solo.

Amavamo quel disco, quella melodia tanto imponente, catastrofica, profetica. Ci avevano raccontato di una band che si era ispirata alla nostra storia per intitolare il nuovo album.

Trovasti la circostanza curiosa ma sembrò che in fondo non fosse così importante; ma tu, come poche volte ti accadeva, brillasti e il giorno dopo tornasti a casa con un trentatré dalla copertina che non si era mai vista prima: una mucca frisona in primo piano, sul prato verde, senza l'indicazione del nome degli autori.

Non c'era settimana che non l'ascoltassi, Constance, e io con te: attraverso te. E, non puoi saperlo, l'ho trascritto a modo mio, con i battiti del tuo cuore e con le mie parole commosse.

Era un mix di nostre pulsazioni, di uno strano canto viscoso che sentivo scorrere nelle tue vene. Mi era venuto bene: nuovo, differente, bello e compiuto, anche senza le trombe che s'interrogavano su un'alba funesta, imitando l'inquietudine delle ambulanze, le grida disperate verso un cielo grigio, l'urgenza di una fine inesorabile. Non dico che quelle trombe non mi piacessero. Le ricordo ma ho dei limiti e ancora mi dispero per la mia incapacità. Mio malgrado non potevo replicarle. Mi riuscivano il canto rosso e le percussioni del cuore.

In quel garage, quella sera, ho provato con la voce che posso a farti ascoltare la partitura. Ho provato a bussare forte al tuo cuore, quel luogo che consideravo l'unico paradiso che mi era concesso.

La nostra musica aveva bisogno di un unico strumento e di un luogo esclusivo… tu. Eri la cassa di risonanza e l'eco, la voce e il solco dove dimorava il groove, la sala dove tenere un concerto aperto e dedicato, esclusivo. Con le mie note, la mia costante cadenza, ti parlavo, amavo e cantavo. Ma tu, tu non ascoltavi. Il tuo debole cuore, dove avevo provato a infondere una nuova energia, era tormentato da mille insicurezze. Le stesse incertezze che mi hai trasmesso, che proprio ora provo. Te lo chiedo ancora, Constance: perché mi hai reso cosciente?

Un amore disperato il mio, nato dal compito e dal destino, a cui non avrei mai potuto sottrarmi.

Potevo farti vivere serena, una lunga vita che toccava a te progettare ma non hai mai creduto in me, mi hai sempre mancato di rispetto. Ho provato a cantare il sentimento nobile, fino all'ultimo, anche quando ho capito che desideravo un amore che non era e non poteva essere corrisposto. Ma perché non poteva? Perché?

Coloro che mi hanno creato non crederebbero mai che io, proprio io, so pensare e sono stato capace di comporre musica per donare la speranza di una vita migliore, per vivere meglio la mia condizione.

Forse fu tutto inevitabile dal principio. Posto così vicino al tuo cuore non potevo che subirne l'incanto. Sì è trattato di un contagio dell'anima.

"Caro mio, anche un lupo è intelligente per natura, cosa c'entra l'anima? E la natura, con te…?"

Ecco, vedi? Vedi? Ora, oltre a discutere con chi non può rispondere mi ritrovo a parlare e avvelenarmi da solo. Come facevi tu nei pomeriggi piovosi quando, davanti allo specchio, lo sporcavi con il rossetto perché ti vedevi brutta.

Per salvarti mi trasformai fino a sentirmi nuovo, diverso, non solo cosciente ma anche degno di autodeterminazione.

Purtroppo, col senno di poi.

Fu per questo che volli cambiare il nome datomi dai creatori, quel troppo studiato e banale 'Coratomic' inciso sulla ceramica che doveva essere isolante; non era veramente un nome, era un titolo freddo, posto sulla materia inerte. Avevo pensato di chiamarmi HAL, come il potente cervello elettronico che temeva di restare solo, che una sera avevo visto con te in un film. In lui riconobbi una disperazione meccanica e consapevole, affine alla mia, cosi prossima alla umana solitudine. Eppure non lo sentivo ancora mio perché sono diverso, capace senza scampo di amare. Di amare te e nessun altro. Ne ho avuto di tempo, sono trascorsi poco più di otto anni, per pensare a una valida alternativa.

Dallo psicologo, e sai che ascoltavo, hai raccontato di come è nato il tutto: imbottita di farmaci e droghe ti sei data a uno sconosciuto sull'Isola di Wight. Era il momento dello sballo, del Peace&love. In quegli attimi concitati un menestrello cantava sul palco "Mr. Tambourine Man", parole senza tempo soffiate nel vento da una melodia incantevole. Parole e melodia che nel mentre non ascoltasti. Lo sconosciuto confuso chiamò i soccorsi, poi il codardo sparì, ti portarono in ospedale. Fu lì che, preda delle tue intemperanze, avesti il primo attacco cardiaco, ripetutosi poi, con conseguenze quasi fatali, a distanza di poche settimane.

Mr. Tambourine... decisi di chiamarmi così, a tua insaputa.

Furono due le ragioni che ti tennero in vita.

Syd, il bastardo che portavi in grembo.

E io.

— Dottore, è sicuro che il bimbo non avrà conseguenze, che non nascerà malformato?

— La tecnica è ancora sperimentale, qui in Inghilterra non abbiamo ancora una casistica.

Le maternità portate a termine negli altri continenti si possono contare sulle dita di una mano, ma mi risulta che i bambini nati in America siano tutti in perfetta salute.

— Sì, ma temo il peggio. Quel "coso" è radioattivo.

— Signora Adell, ne avevamo già parlato prima dell'intervento. Il dispositivo è schermato. Stia tranquilla, sarà un bambino sano. Ciò che deve fare ora è mettere la testa a posto.

— Lo sa, non sono serena. Sto provando a curarmi, sono seguita da uno psicologo.

— Forse dovrebbe guardare a una soluzione più incisiva. Se vuole, le indico un valido psichiatra.

Lo psichiatra non bastò, come non bastò il mio amore, come non bastò il bastardo, non avevo dubbi. Anzi, dovetti infine spingermi a odiarti. Quella notte, dentro il garage della tua casa, hai escogitata un'altra umiliazione ai miei confronti, hai ascoltato altro, una canzone dal testo inadatto. Il disco di sempre no, il nostro LP non andava bene: sembrava troppo premonitore.

C'erano quei suoni veri e minacciosi a infastidire violoncelli, tastiere e chitarre: il motore di una motocicletta che scappa, gli spari, l'ambulanza, l'aereo pronto a sganciare una bomba. E quel coro pieno d'angoscia: "Rapateeka, rapashaaa — rapateeka, rapashaaa…"

Presi coscienza di esistere quando ti risvegliasti dall'anestesia. Fu curioso e fastidioso percepire il tuo primo dubbio, così diverso da quello di chiunque altro si fosse trovato nella stessa condizione: "Sono un mostro che partorirà un mostro?".

In quel mentre è nato il nostro rapporto, tu a temermi, io imprigionato a spendere ogni energia per tenerti in vita, lanciando impulsi potenti e silenziosi.

E tutto questo nonostante il tuo disprezzo, la paura, perfino le imprecazioni contro di me. Non dovevo poi essere così schermato se riuscivo a sentire tutto di te.

Poco dopo si parlò di noi sull'Evening Standard. Ricordo, l'articolo s'intitolava Atom Heart Mother Named: ma in fondo Constance sapevi che, prima o poi, sulle pagine di un giornale ci saresti finita.

— Ma quel "coso" come funziona? Ha una batteria che si consuma? Dovrò essere operata ogni volta per sostituirla?

— Signora Adell, il dispositivo è stato progettato per durare almeno dieci anni. Non rappresenta un problema oggi: piuttosto, si concentri sul bambino. E per far questo, dovrà prendersi cura di sé. Lei sa di cosa parlo.

La meditazione, lo yoga, l'espansione della coscienza, gli psicofarmaci. Gli incontri settimanali con lo psicologo. Le parole rivolte a Syd, quando ancora si muoveva nel grembo.

Ho odiato quel bastardo: lui a ricevere amore ed energie vitali, io assegnato solo a donare.

Perché l'hai fatto? Perché non ci hai protetti? Presto tornasti ai tuoi vizi, alla vita sregolata, le fissazioni di una mente bacata, dopata dalle sostanze che avrebbero invece dovuto espanderla.

Potevo agire sul cuore, sulla vita, ma non mi hai permesso di intervenire sul pensiero. Non mi hai mai veramente ascoltato.

Non sei morta in quell'autorimessa per gli abusi con cui infierivi sul tuo corpo. Quantomeno non direttamente. Fin lì ti ho sostenuta e protetta con ogni mia particella, ti ho curata malgrado te. Non lo sai, non volevi saperlo, ma ti ho amato più di quanto tu abbia amata te stessa.

Continuo a funzionare quaggiù anche ora che non sei più. Nessuno ha pensato a spegnermi: condannato ad agire oltre me stesso. Una maledizione il cui castigo è il rimorso e il ricordo.

Ancora mi chiedo il perché. Non avresti dovuto farlo in quella stanza piena di chiavi inglesi, locale spoglio e odorante di benzina, pieno di ragnatele che non hai mai spazzato, nella Dyane di latta mezza scassata, con il tubo incerottato allo scappamento che terminava dentro l'abitacolo. Ascoltavi il nastro, tenevi malferma la bottiglia di bourbon ormai vuota, tossivi, scuotendo forte il cuore, e cantavi a squarciagola per trovare il coraggio di arrivare fino in fondo:

Come on, baby, light my fire. Come on, baby, light my fire. Try to set night on fire.

Sapevo che non avrei potuto salvarti. Lo compresi dopo che provai con ogni mia risorsa a bussare al tuo cuore, a farti ascoltare, inutilmente, la mia versione del nostro disco, quel mio suono dedicato e che speravo salvifico. Ho provato a cantarti la vita, quella che, quando è il momento, sa morire e muore, ma non era il giusto tempo. Mi hai costretto a ucciderti, a rinunciare al conforto del tuo cuore debole col quale ero in simbiosi. Non fu solo un gesto di pietà ma molto più di stranamore, avvelenato dalla rabbia per non aver accettato il mio dono, quello di una vita nuova. "Come on, baby, light my fire". Quel fuoco alla fine non me l'hai acceso, hai scelto di accendere il motore di un'auto scassata e ho dato il peggio di me: ho scaldato il plutonio al massimo. In un sol colpo mi sono liberato di un amore malato, sofferente come un cuore malconcio, e del bastardo.

Ora sono sepolto con ciò che resta di te. Suicidio, così hanno stabilito… non potrebbero mai immaginare la verità.

E ora a chi posso chiedere conforto, se ho fatto bene, se sia stata pietosa eutanasia, se veramente è stato un gesto d'amore o piuttosto una vendetta per un amore non corrisposto?

Ecco, sopravvengono le insicurezze con cui mi hai inquinato da subito e che ora trovano forma.

Solo, dimenticato, il mio cuore radioattivo ora sente il dubbio, il pentimento, s'interroga. Mi macero. In qualche modo piango. Tu non sei più, sono come un Sole che ha smarrito i suoi pianeti, che irradia sterilmente luce ed energia.

— The time is gone, the song is over, thought l'd something more to say.

Finiva così quella canzone dal ritmo di un cuore accelerato. Ma a chi racconto ora tutto quanto?

So di umani che in questi frangenti si tolgono la vita. A me la scelta non è concessa. So che non potrò mai più bussare alla porta del paradiso.

Vorrei terminare ma non mi consumo, non mi consumo, non mi consumo…


(fine)


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Giovanni p


Il buio che si muove


Sotto i rami degli abeti il buio diventa vivo, una compagnia costante. L'oscurità si muove, scricchiola come il bosco che ci circonda, ci bagna come fosse rugiada e fa marcire le nostre divise e arrugginisce le nostre armi. I nostri polmoni pieni di acqua hanno fame di aria. Un'ombra innaturale avanza con i nostri passi, non ci abbandona mai. Gli aghi sui quali ci trasciniamo si rompono, arresi al nostro passaggio, ormai ci conoscono bene dato che è tanto che i nostri passi li spezzano. Siamo in dodici, curvi come salici e silenziosi tanto che le nostre lingue si sono quasi atrofizzate, seccate dall'inattività. Le nostre divise sono così scolorite e malconce da non farci sembrare più soldati, ma un manipolo di uomini che vagano, maledetti da Dio e dalla sorte. Ma io ho capito, le apparenze non ingannano, non sembriamo uomini maledetti, lo siamo.

Cerchiamo assiduamente qualcosa che sia un nemico o la fine del bosco, anche la morte ci allieterebbe, purché qualcosa succeda.

Io non riesco neanche più a ricordare l'ultima volta che ho sparato contro un nemico. La memoria è diventata un esercizio sterile e fastidioso come la concentrazione, non riesco a fare altro che camminare e tremare, tutti i miei sforzi sono concentrati su queste azioni. I miei compagni non alzano mai lo sguardo dagli aghi che schiacciano, gli occhi gialli e facce grigie sono lo specchio vivente entro il quale ognuno di noi, guardando l'altro, vede se stesso. Solo un suono emerge dalla nebbia che sbiadisce la realtà, dei nitriti lontani accompagnati dal rumore di pesanti cavalcature che attraversava il bosco, le sentiamo adesso come la prima volta, quando eravamo ancora uomini che provavano rabbia o gioia, esseri uomini che sentono la fame e che si accampano davanti a un fuoco, che distinguono la notte dal giorno.

È successo molto tempo fa, non so quanto, so solo che è lontano da questo presente che sembra una cancrena del tempo, una bolla dalla quale non sappiamo uscire.

Eravamo in guerra, come lo siamo adesso, avevamo occupato un villaggio ai margini di questo bosco. Gli abitanti, che avevamo salvato dai rastrellamenti nemici, si fecero da festosi ad allarmati quando sentirono nitrire dei cavalli all'interno delle selva. Pensavamo che fossero altri nemici e quindi corremmo verso il bosco armi in pugno, ma gli abitanti ce lo impedirono.

Non sono i soldati nemici, ci dissero, sono i fantasmi dell'esercito maledetto che si è perso nei boschi centinaia di anni prima. E quella volta, come ogni quaresima, l'esercito maledetto cavalcava nel bosco cercando di uscirne.

Rimanemmo basiti, forse lo stress e la paura avevano fatto impazzire quella povera gente. Un nostro compagno, che adesso marcia con me nel bosco senza che ne ricordi più il nome, disse che conosceva quella leggenda, ritenuta già strampalata in antichità. Dopo la battaglia di Campaldino un esercito ghibellino in rotta si era nascosto in una boscaglia sperando di sfuggire alle violenze dei vincitori. Una famiglia di boscaioli accolse i malconci cavalieri, li sfamò e curò le loro ferite. Ma quando i guelfi, assetaad allarmatti di sangue e vendetta, li scoprirono questi scapparono nel bosco abbandonando la famiglia che li aveva aiutati alla loro furia. Gli abitanti, che intanto tremavano nel sentire quegli zoccoli nel bosco, sostenevano che quei cavalieri fossero stati maledetti per la loro codardia e che la loro condanna fosse quella di vagare in eterno nel bosco.

Naturalmente ridemmo in faccia a quei poveri diavoli affermando che se dei nemici in carne e ossa, armati di mitra e lanciafiamme, non ci spaventavano non avremmo avuto paura di qualche cretino che si diverte a fare il fantasma nei boschi. Ci lasciammo nel bosco sparando colpi in aria e urlando. Avevamo vinto una battaglia sanguinosa, l'adrenalina era al massimo. Ma i cavalieri non si videro e più tardi neppure l'uscita del bosco. Inizialmente bestemmiammo per il fastidio di essersi persi in un bosco come dei pivelli, ma poi i nostri corpi e le nostre menti si deteriorarono al punto da non sentirci più vivi.

Il tempo è sparito, non esiste più né passato né futuro, solo un presente fatto di ombra e nebbia. Un tonfo rompe una monotonia eterna, uno dei miei compagni si è lasciato cadere per terra. Gli altri lo guardano come lo guardo io, con apatia e senza l'impulso di reagire. Riesce ad alzarsi da solo ma la sua faccia è grigia e i suoi occhi spenti.


— Non sono più vivo, vorrei morire e non provare più nulla, sparatemi vi prego.


Nessuno gli risponde, nessuno fa nulla, ci limitiamo tutti a guardarlo. Avanzando verso di noi le sue scarpe si scompongono come se fossero fatte di cartone bagnato e lui cade di nuovo. Nemmeno ora ci sono reazioni, solo silenzio mentre lo sguardo di tutti è fisso sul nostro compagno caduto che lotta per alzarsi, ma stavolta non ci riesce. I nostri occhi sono come lanterne fioche, non offrono conforto, solo un vacuo senso di impotenza. Lo guardiamo strisciare fino a quando non riesce a mettersi in posizione supina.


— Vi prego…


Le sue mani andando a tastoni trovano la sua pistola ormai coperta di ruggine. Con uno sforzo sconvolgente incolla la canna della pistola alla sua tempia destra, ma la pistola ormai è un ferro vecchio e non può più sparare in quelle condizioni.


— Vi prego…


Poi il buio lo copre come un manto e lui non c'è più, viene inghiottito senza un grido né un lamento. Nelle nostre menti non c'è spazio per l'orrore, la nebbia e il buio che ci circondano bloccano i nostri pensieri e le nostre coscienze, siamo automi di carne che marcisce.

L'ombra si stringe intorno a noi. Alcuni continuano a camminare, io rimango fermo.

Ma mentre i miei compagni avanzano li vedo sparire, prima la nebbia e poi il buio li divora. Guardo le miei mani, puntinate di macchie scure che non sanguinano più. La pelle gialla delle dita è solcata da segni spaventosi, sembra che la mia pelle sia morta da tempo. Adesso sono solo, provo a chiamare i miei compagni ma la voce non esce anche se la gola mi brucia. Tutto intorno c'è solo il rumore del mio respiro affannato, se alzo gli occhi verso l'altro vedo solo qualche ramo sbucare dalla nebbia, la luce del sole non ha la forza per farsi strada. Nella solitudine finalmente la paura mi assale, dopo tanto qualcosa mi scuote. Inizio a correre sentendo i polmoni bruciare, cerco di scappare dal buio, ma questo mi segue come la luce su un palcoscenico. La mia corsa non dura molto, il fisico non mi consente di fuggire oltre. Finisco a terra e un nitrito forte come un tuono scuote l'aria. Non mi muovo, sdraiato per terra sento una vibrazione sorda, irregolare. Poi di nuovo il nitrito, seguito da altri più deboli. Mi alzo aggrappandomi al fucile come se fosse una stampella e zoppicando punto verso il buio un nemico che sento avanzare al trotto, ma non vedo arrivare.

Sento qualcosa che non riesco a capire cosa sia, ma avanzando verso il buio prende sempre di più le connotazioni di un pesante respiro, ma non umano.

Per la prima volta il buio si allontana, li vedo, sono di fronte a me allungati su una linea in vetta a una collina circondata da nebbia e alberi bruni. I cavalieri che avevamo cercato, uomini non più uomini in sella a delle carogne una volta cavalli. Le loro armature nere non brillano più, mentre le loro cavalcature sono avvolte da tessuti, una volta sicuramente sgargianti, ora logori. Rimangono immobili, forse non riescono a vedermi, io imbraccio il mio fucile, ma è arrugginito al punto di non poter funzionare più.

Li vedo scendere dalla collina, seguiti dal buio che sembra volerli divorare, sguainando le armi. Mi vedono, lo so perché il loro obbiettivo sono io. Il mio fucile può essere usato solo come spranga, come avrebbe fatto un alpino in Russia. Loro mi caricano e io gli corro incontro, sperando che possano uccidermi e mettere fine a questo incubo infinito. Un attimo prima dello scontro vedo lo scheletro senza orbite di uno di loro, il ribrezzo però non mi destabilizza, lo colpisco con tutta la mia forza prima che possa caricarmi.

Il cavaliere cade e gli altri scappano verso il buio. Vedo l'oscurità ritirarsi.

La luce ritorna a farsi strada fra i rami degli abeti. Sento di nuovo il dolore, la rabbia e la tristezza. Poi la pace.


(fine)


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Odhem89


Nausea


Mia moglie non mi sopportava più. Quando eravamo fidanzati andavamo molto d'accordo. Lei diceva che ero simpatico, la facevo ridere e quando le chiesi di sposarmi mi disse subito di sì.

Per la prima volta pensai di aver trovato una persona che mi capiva e che sicuramente non mi avrebbe giudicato per quel "mio piccolo problema".

In fondo, io sono un uomo di sani princìpi. Quando a scuola tutti facevano a gara a chi ce l'aveva più grosso, io mi tiravo indietro dicendo che era una cosa stupida e degradante. Crescendo notai che anche nel mondo del lavoro funzionava più o meno allo stesso modo. "Pesce grande mangia pesce piccolo".

Conobbi Helena a una cena organizzata dal mio capo. Fu amore a prima vista e non è un modo di dire. Anche lei ha ammesso di aver provato la stessa cosa. Solo due single possono innamorarsi, no? C'è chi dice che anche quelli che sono sposati possono innamorarsi della moglie o del marito di un altro/a, ma io non ci ho mai creduto. Il mio migliore amico, Tony, diceva che per lui era possibile. Più volte gli ho chiesto a che servirebbe innamorarsi di una persona sposata. Quelle erano cose che si vedevano solo nei film del genere Nausea.

— Allora perché così tante persone li guardano? La perversione è presente naturalmente in noi. C'è in tutti, anche in te — diceva lui convinto.

— Io non sono affatto d'accordo. L'uomo non può vivere solo per il sesso e a ogni costo poi. Ci sono tante altre cose nella vita che sono molto più importanti, prima fra tutte l'amore, e non mi riferisco solo a quello tra uomo e donna ma l'affetto per un fratello, per un amico e per gli altri in generale.

— I tuoi princìpi sono nobili, mi ricordano quelli della Chiesa Unita. A proposito, sai cosa ho letto ultimamente? Sembra che dietro tutto questo ci sia proprio la Chiesa.

— Cosa vuoi dire? Non ti seguo, dietro cosa?

— Pensaci un attimo. Certo è sacrosanto che non si possa tradire la propria moglie, ma non ti sembra che questo limiti la nostra libertà?

— Ancora non mi è chiaro, perché dovrebbe limitare la nostra libertà? È una cosa naturale.

— Non è naturale affatto. Stanno controllando la nostra vita e lo fanno in modo subdolo.

— Devo dedurre che sai anche come facciano.

— Non hai nessuna abilità deduttiva. Cosa fanno due appena dopo sposati?

— Vanno alla sala a festeggiare.

— Certo che sei un testone! Intendo subito dopo che il sindaco li ha dichiarati marito e moglie, e non mi dire che si bacia la sposa, sennò ti gonfio.

— Ti riferisci alla firma digitale?

— Hai visto che, quando vuoi, riesci anche tu a ragionare?

— Ancora, però, non capisco dove vuoi arrivare.

— È semplice! Tramite il microchip il computer li lega in modo permanente.

— Dunque, fammi capire. Tu stai dicendo che, quando due si sposano, e mettono la firma digitale, uniscono il loro chip e non è più permesso loro di avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio a meno di non essere tanto perversi da farlo nel vomito, e che dietro tutto questo ci sia la Chiesa Unita?

— Elementare Watson!

Scoppiai in una fragorosa risata. Tony se la prese molto perché non lo prendevo sul serio. Per me era solo la natura o qualche forma di Intelligenza che guidava tutto, proprio come insegnava la Chiesa. Tony aveva visto troppi film Nausea e stava perdendo il senno.

Ora che mia moglie non mi vuole più vedere e non vuole sentire ragioni, sto pensando seriamente che forse sarebbe meglio che non ci fosse la Nausea e ognuno potesse fare sesso con chi vuole. Lo dico anche per lei, in fondo è come se le avessi mentito non menzionando il mio "piccolo problema".


Volevo distrarmi, cercai fra i contatti in impressione sulla retina. Strano il mondo. Non si poteva modificare l'aspetto esteriore del corpo, ma si poteva inserire un chip sottopelle per controllare lo spostamento, gli acquisti e gli interessi di ogni persona. Chiamai Tony. Rispose subito.

— Ciao sono io. Ho voglia di staccare un po' la spina. Andiamo a bere qualcosa.

— Ok dimmi dove e arrivo.

Gli dissi di vederci nel nostro locale preferito. Non ero molto lontano e lo avrei raggiunto a piedi.

Giunto al bar, lo trovai già seduto che mi aspettava e, nel frattempo, stava parlando con due belle ragazze. Nonostante fosse sposato, non aveva perduto per niente la sua attrattiva. Mi sedetti di fronte a lui.

— Ah, sei arrivato! Che sei venuto a piedi?

— Ero nelle vicinanze.

Mi guardò negli occhi. — Cos'hai? Hai litigato di nuovo con Helena?

— No, oggi no.

— Non ti ho mai visto così. Dai sputa il rospo.

— Non è facile da spiegare.

— Sai che a me puoi dire tutto. Hai bisogno di parlare.

Ordinò due birre brasiliane ad alta gradazione. Mandò via le ragazze.

— Vedrai che dopo parlerai con molta più facilità.

Bevemmo quasi in silenzio. A metà birra cominciai a sentirmi più rilassato.

— Tony, ricordi quando andavamo a scuola e facevate la gara a chi ce l'aveva più lungo?

— Certo, come dimenticarlo e quante risate. Vincevo sempre, modestamente.

— Ricordi anche che io non partecipavo?

— Sì, tu eri il tipo a posto, fin dalle elementari.

— Ora ti farò una domanda che ti sembrerà strana.

Attese in silenzio.

— Quali erano le dimensioni medie dei vostri… be' hai capito.

— Ah, certo. Ma che vorresti fare una gara adesso che hai più di trent'anni?

— No, è molto più importante di questo.

Mi guardò preoccupato, non riusciva a capire.

— Le dimensioni erano quelle medie, 25-30 centimetri. Comunque, non ho mai visto uno sotto i 20.

Venti centimetri? Il mio problema era più grave del previsto.

— Tony, devo confessarti una cosa. La causa dei litigi fra me ed Helena.

— Non sei costretto a dirmelo. Anche io litigo con Clara e non ti ho mai detto perché.

— No, te lo devo dire.

Gli spiegai tutto. Le dimensioni ridotte del mio membro che non arrivavano neanche a metà di quelli più piccoli che aveva visto lui. Sapevo di potermi fidare. Quando smisi di parlare lui continuò a fissarmi.

— Non avrei mai immaginato. La natura è stata crudele con te, ma c'è una cosa che puoi fare.

— E cosa?

— Divorziare.

— Non scherzare, non si può più fare da quasi un secolo.

— Legalmente no. Ma io conosco un hacker che è in grado di dividere i vostri chip. Solo che dovete essere presenti entrambi. Considera anche i sentimenti di Helena. Non ti incolpo di niente, però ciò che è giusto è giusto. Poi, se vorrai, potrai sempre collegarti con un'altra donna che ti ami davvero.

Aveva perfettamente ragione. Ci mettemmo d'accordo che il giorno dopo avrei parlato con mia moglie e l'avrei convinta.


Il giorno dopo chiamai Helena, non vivevamo già più insieme, lei era tornata dai suoi. Non rispondeva al telefono. Provai anche sui numeri dei suoi genitori, ma quando mi risposero dissero che Helena non voleva parlarmi. Chissà cosa aveva loro raccontato. Probabilmente mi aveva dipinto come un mostro che magari la picchiava o peggio.

Non mi diedi per vinto. Sapevo dove lavorava: faceva l'insegnante in una scuola privata. Conoscevo anche i suoi orari. Così la mattina dopo mi recai sul posto in macchina, che lasciai poco lontano per non destare sospetti. Fortunatamente c'era un bar lì vicino con grosse finestre che davano proprio sull'ingresso dell'istituto. Sedetti a un tavolo, ordinai una birra e rimasi in attesa. Lei arrivò poco dopo, ma non come mi aspettavo.

Sapevo che gli piaceva camminare, ma quel giorno giunse in macchina. Il veicolo aveva i finestrini oscurati e non lo vedevo bene da dietro le auto parcheggiate, comunque mi sembrava di aver già visto da qualche parte quel mezzo. Qualcuno l'aveva accompagnata. Aspettai che andasse via. Lei era ferma davanti al cancello, stava cercando qualcosa nella sua borsetta.

Mi avvicinai piano, poi, a una certa distanza, la chiamai. Lei si girò, mi fissò con quello sguardo che non smetteva di ferirmi.

— Cosa vuoi? Non ho tempo!

— Devo dirti una cosa importante. Qualcosa che può risolvere i nostri problemi, sempre se tu sei d'accordo.

— Ne abbiamo parlato a lungo, non si può fare niente per risolvere la nostra situazione, e tu lo sai bene.

— E invece una cosa c'è, me ne ha parlato un mio amico di cui mi fido.

— Senti, qualsiasi cosa sia non mi interessa. Tu non riuscirai mai a rendermi felice.

— Appunto, non io.

— Brutto maiale! Per chi mi hai presa — stava per andarsene, le presi un braccio.

— Aspetta! Non hai capito. Mi riferisco al divorzio! — si mise a ridere.

— Non sto scherzando, c'è un modo — le raccontai tutto ciò che sapevo e che mi aveva riferito Tony. Alla fine, sembrò che i suoi occhi si illuminassero.

— Lo faccio per te, perché voglio che almeno tu sia felice — sparai questa frase smielata da film d'altri tempi, ma sembrò funzionare.

— Tu lo faresti davvero?

— Certo, per te sì.

Mi abbracciò, pensai che fosse l'ultima volta che potevo starle vicino, la strinsi. Ebbi un'erezione addirittura, ma lei non se ne accorse. Ci mettemmo d'accordo che l'avremmo fatto la sera stessa. Lei andò al lavoro e io chiamai Tony per le ultime disposizioni.


Il posto era in periferia, una di quelle villette che si trovano fuori città. Quando arrivai e vidi lo sfarzo di quella casa, mi chiesi se fosse il posto giusto. Il navigatore non poteva aver sbagliato. Poco dopo, notai dei fari dietro la mia auto: era sicuramente Tony. Pensai che fare l'hacker dovesse rendere molto, oppure il tipo aveva un altro mestiere.

Tutti e tre andammo alla porta, suonò Tony. Venne ad aprire una donna: non me l'aspettavo. Mi sembrava di averla già vista da qualche parte. Era molto attraente sulla trentina. Tony si avvicinò e si baciarono sulle guance.

— Ciao Clara, come stai? — ora ricordavo! Era un'attrice famosa anche se da tempo non la vedevo recitare.

— Sto bene Tony, tu piuttosto? Ti vedo in forma. Prego entrate, siete i benvenuti — detto questo Clara si spostò e ci permise di entrare — Cosa bevete?

— Io un whisky — disse Tony convinto.

— Voi? Non fate i complimenti.

— Va bene anche per me — dissi cercando di imitare Tony.

— E per te, dolcezza? — Helena arrossì.

— Io non bevo.

— Va bene.

Quando Clara uscì dalla stanza mi rivolsi a Tony a bassa voce:

— Non mi avevi detto che era lei!

— Non lo faccio mai.

— Non lo fai mai? Ma quante persone hai portato qui finora? Ah, un'altra cosa, quanto ci costerà tutto questo?

— Non pensavo che fosse un problema di soldi.

— No, ma io mi aspettavo una specie di bunker nascosto sotto la metropolitana e non tutto questo sfarzo.

— Tu non sai quello che dici! Non sai quali attrezzature servono per la procedura. Per quanto riguarda i soldi, non ci vorranno più di cinquemila crediti.

— Cinquemila crediti! — guardai Tony che mi fissò duramente. In effetti stavo facendo la figura dello spilorcio. La cifra non era poi eccessiva. Visto che per il matrimonio ne avevo speso il doppio, era giusto che per il divorzio ne spendessi la metà.

Clara tornò in quell'istante con le nostre bevande. Presi il mio whisky. Ad Helena aveva portato un succo.

— Allora, ditemi, perché volete divorziare? — la domanda mi colse di sorpresa, stavo per sputare il whisky in faccia a Clara.

— Sapete, questa è una procedura illegale e rischiosa. Non posso praticarla mica con chiunque capita. Quindi ci vuole una buona ragione, altrimenti non si fa niente.

— Clara, garantisco io per loro, è una questione piuttosto personale — intervenne Tony.

— Non esiste! Devo conoscere la motivazione per giudicare se sia valida — Clara era irremovibile.

— Ma, Clara…

— Non importa Tony — dissi io — a questo punto non vedo cos'avrei da nascondere.

Confessai a Clara il mio "piccolo problema", le dissi che io comprendevo Helena e non la incolpavo di niente, lei aveva tutte le ragioni.

— Ho capito. Il vostro non è mai stato un vero amore — disse delusa Clara. Helena sembrò un po' infastidita da questa frase.

— Come osa insinuare una cosa del genere? Io lo amavo, almeno finché non ho compreso quanto mi avesse mentito — io comprendevo Helena, ma Clara sembrava di no.

— Va bene, come dici tu. Per me la motivazione è valida: mancanza d'amore.

— Insiste ancora! Io… — presi un braccio di Helena e la dissuasi dal continuare. Le feci di no con la testa, Clara mi guardò.

— Hai ragione, mi sono sbagliata. Tu non lo ami, ma lui sì, e tanto. La motivazione è comunque valida: amore non corrisposto. Procediamo — Helena alzò gli occhi al cielo, comunque sia avrebbe ottenuto ciò che desiderava.

Clara ci portò nel seminterrato, una stanza piena di apparecchiature elettroniche. C'erano vari computer e due sedie piuttosto comode dove ci fece accomodare.

— Vi avviso che in una piccola percentuale di casi potrebbero esserci delle ripercussioni fisiche.

— Che genere di ripercussioni? — dissi un po' in apprensione.

— Non ti preoccupare, dice sempre così, ma finora non ho visto nessuno lamentarsi del benché minimo dolore — Tony cercò di tranquillizzarmi.

— Gli effetti collaterali possono essere variabili: da un leggero dolore al polso fino alla perdita della mano — Clara, invece, sembrava quasi sadica — Allora? Siete d'accordo? Andiamo avanti?

— Sì! — dicemmo all'unisono io ed Helena.

Clara prese due lettori e li posizionò sui nostri polsi sinistri ordinandoci di mantenerli fermi. Si posizionò al computer, ci chiese nome e cognome, data di nascita e alcuni altri dati, li confrontò con quelli del chip, poi alzò la testa. Io la guardai.

— Quanto ci vorrà? — chiesi curioso.

— Abbiamo finito.

— Cosa?

"Una giornata intera per sposarci e pochi secondi per divorziare?" pensai inorridito.

— Ah, allora va bene, per il pagamento…

— Non c'è bisogno, ho già provveduto io, vi ho sottratti 2500 crediti ciascuno — mi guardò, — avevi intenzione di pagare solo tu? Vedi che questa donna non se lo merita, non ti ama affatto.

Mi tolsi il lettore dal polso, stavo per dire qualcosa, non so cosa. Volevo difendere Helena a ogni costo, la guardai, ora non era più mia moglie, sembrava contenta. Ci ripensai e ingoiai il rospo. In fondo, forse, aveva ragione Clara. Ora che eravamo divorziati me ne resi conto.

— Grazie Clara — disse Helena e le diede la mano — Tony, mi accompagni tu?

— Certo Helena, con piacere — Tony non sembrava neanche sorpreso della richiesta, mi sorse un forte dubbio che cercai di cacciare indietro.

Mi lasciarono lì come se non esistessi. Guardai Clara.

— Questa volta ho fatto uno strappo alla regola, ho tolto 2500 crediti a lei e li ho dati a te. Lo so che non c'è risarcimento adeguato per questo. Comprati qualcosa che ti piace.

Salutai Clara, presi la macchina e mi diressi verso la città. Ripensavo a come mi avevano lasciato quei due. Non riuscivo a togliermi il dubbio dalla mente. Andai verso casa di Helena.

Parcheggiai la macchina poco lontano e poi, a piedi, mi avvicinai sempre di più. Sapevo cosa cercare. In effetti la macchina di Tony era proprio sotto l'appartamento di Helena. Ma cosa potevano fare? Aveva appena divorziato da me e, pur ipotizzando che anche Tony avesse fatto lo stesso, non c'erano possibilità che potessero avere rapporti.

Eppure, ripensavo ai film che amava Tony: quelli del genere Nausea. No, non poteva essere! Non potevano fare una cosa tanto perversa. Helena non era più mia moglie, ma non riuscivo ad accettare una cosa del genere.

Ricordai di avere ancora una copia delle chiavi del suo portone. Quelle del suo appartamento me le aveva tolte. Andai all'entrata. Mi fermai con le chiavi in mano. Cosa stavo facendo? Non era giusto nei suoi confronti. La luce si accese. Mi nascosi in una rientranza lì vicino. Aspettai. Dopo un po' uscirono. Erano loro due, lo sapevo! Parlavano e cercai di comprendere.

— Andiamo a mangiare qualcosa, tutto questo lavoro mi ha fatto venire fame — diceva Tony.

No, non era possibile! Cresci gli amici e cresci i porci!

— Meno male che ti sai controllare bene, se no sarebbe stato un disastro, però vedi di fare presto con tua moglie, non ne posso più di questa storia, va avanti da troppo tempo.

— Non ti preoccupare, l'ho quasi convinta. E se proprio dice di no, sarò costretto a tagliarle la mano — entrambi scoppiarono a ridere, salirono in macchina e andarono via.

Non mi sembrava vero: il mio migliore amico, che conoscevo dalle elementari, mi aveva tradito. Fatto strano mi sentivo più male per lui che per Helena. Forse mi ero rassegnato, ormai, alla sua perdita. Ma lui non doveva farmela. Gliel'avrei fatta pagare, a ogni costo.


Lavoravo svogliatamente, riflettevo su come farla pagare a Tony. Helena ormai non mi interessava più. Una donna per la quale la cosa fondamentale era la dimensione, non faceva per me. Aveva ragione Clara: quella donna non mi aveva mai amato. Forse amava solo il mio conto in banca.

Una sera, "per caso", mi trovai a passare, con l'auto, di nuovo sotto casa di Helena. La macchina di Tony era là. Portavo sempre con me un cacciavite in macchina. Scesi, mi avvicinai alla sua auto, mi assicurai che nessuno mi vedesse e gli forai tutt'e quattro le gomme. Era uno scherzo infantile che non mi appagava affatto. Volevo, comunque, che tornasse a casa a piedi o in autobus al massimo. Per sicurezza forai pure le gomme della macchina di Helena che era lì vicino. Era una vendetta effimera, ma se lo meritavano. Per non destare sospetti bucai pure qualche ruota delle tante macchine lì vicino. Mentre andavo via, passando di nuovo davanti all'auto di Tony, tirai un calcio al suo specchietto staccandolo di netto. Mi sentivo una persona spregevole, ma non era niente paragonato alle porcate che facevano loro.

Ormai non mi interessava neanche più di tanto. Desideravo una vendetta più grande, volevo rovinare la vita di Tony come lui aveva rovinato la mia.

Qualche giorno dopo, mentre lavoravo al computer sorse un'occasione favorevole. Stavo controllando delle operazioni finanziarie. Mi affidavano sempre quelle con maggiori capitali investiti, forse perché si fidavano di me. Erano ore che lavoravo speditamente, avevo quasi finito, quando sullo schermo lessi un nome familiare. Non potevo crederci: era il nome di Tony!

A quanto sembrava aveva investito una grossa somma comprando le azioni di una società informatica. Era una somma considerevole anche se risultava agli ultimi posti della mia lista. Ora era nelle mie mani. Sapevo come fare per creare degli errori che sarebbero stati notati: era il mio lavoro. Cambiai qualche cifra e segnalai delle incongruenze nell'operazione. Ovviamente non mi feci scoprire. Nessuno avrebbe sospettato di me, ma avrebbero indagato e probabilmente lo avrebbero accusato di illeciti: gli stava bene.

Uscii dall'ufficio e mi arrivò una chiamata. Non ci credevo! Era Tony!

— Pronto?

— Ciao, sono io. Scusa se non mi sono fatto sentire in questi giorni.

— Dovresti scusarti per ben altro.

— Allora lo sai?

— Certo che lo so! Vi ho sentiti parlare l'altra sera. Non me l'aspettavo da te. Di Helena mi importa ben poco, ma tu non dovevi farmi questo.

— Ascolta. Ti risarcirò di tutto, non importa quanto ci impiegherò.

— Risarcirmi? E come potresti? Non c'è modo.

— Dai, puoi fidarti, siamo amici da tanto tempo. In fondo sono solo soldi — rimasi perplesso, cosa stava dicendo?

— Scusa, ma di cosa stai parlando?

— Hai detto che lo sapevi.

— Sì, lo so che sei andato a letto con Helena e per di più con la nausea.

— A letto con Helena?! Ma cosa stai dicendo? Hai bevuto?

— Non prendermi in giro! Vi ho sentiti conversare una sera sotto casa sua.

— No! È stato tutto un malinteso, ascoltami — non sapevo come se ne sarebbe uscito ma lo lasciai parlare.

— La sera in cui avete divorziato, siamo andati a casa di Helena, ma non c'è stato niente fra noi. Helena e io ti vogliamo bene. Volevamo farti una sorpresa. Helena conosceva i dati del tuo conto bancario. Siamo entrati e abbiamo investito tutti i soldi su un affare sicuro di cui sono venuto a conoscenza da un mio amico. Si trattava di moltiplicare per dieci la somma investita: ci saremmo sistemati tutti. Solo che stamattina mi hanno chiamato dicendomi che c'erano degli illeciti nell'operazione e hanno bloccato i soldi…

Continuò a parlare spiegandomi tutto, ma io smisi di ascoltare quando disse "hanno bloccato i soldi". Per poco non mi venne un infarto. Il cuore batteva forte, la mente era una tabula rasa. Il cellulare mi cadde di mano e andò a finire oltre la griglia del canale di scolo. Rimasi lì fermo a guardare il vuoto per chissà quanto tempo.


Strano che, quando sei ricco tutti ti cercano, hai tanti amici, tutti vogliono un po' di quello che hai.

La finanza indagò a fondo sulle strane manovre che riguardavano quella dannata transazione. Era tutta colpa di Tony o forse anch'io avevo fatto la mia parte. In fondo quando succede qualcosa di male non si può attribuire al cento per cento la responsabilità solo a un individuo. Avevamo sbagliato entrambi, Tony a fin di bene, io per fargli un danno che mi si era ritorto contro.

Fatto sta che rischiammo di andare in carcere. Solo grazie alle nostre conoscenze, e a due bravi avvocati, riuscimmo a scamparla ma il costo fu grande: non rivedemmo un solo centesimo. Inoltre, fummo entrambi licenziati in tronco.

Alla fine, mi ritrovai per strada.

Durante l'estate cercai in tutti i modi di trovare un piccolo lavoretto, mi bastava qualsiasi cosa, ma la mia foto e quella di Tony erano su tutti i notiziari, nessuno voleva compromettersi. Quando, poi, cominciò a crescermi la barba e iniziai a puzzare, non mi permettevano neanche di avvicinarmi a nessun posto. I primi tempi vissi nella metropolitana, trovando un po' di refrigerio durante le giornate afose e chiedendo l'elemosina: i soldi che riuscivo a racimolare mi bastavano appena per comprare qualcosa da mangiare. Mi guardavo intorno, non avevo mai fatto caso al mondo dei senzatetto. Pensavo che ce ne fossero parecchi e invece, durante l'intera stagione, non ne incontrai affatto. Certo c'erano persone che vivevano al limite, ma nessuno era senza casa. Tutti avevano un posto dove ripararsi e un modo per mantenersi, foss'anche illegale.

Sembrava che il mondo non avesse più bisogno di me e mi respingesse da tutte le parti. Non sapevo cosa fare e mi sentivo solo.

All'inizio dell'autunno, mi trovavo ancora seduto nello stesso angolo della metropolitana. Era mezzogiorno in punto e il treno era puntuale. Ero a terra proprio di fronte a una delle porte. Molta gente usciva e si dirigeva velocemente alle scale. Io cercavo di fermare qualcuno, ma pochi mi erano solidali. A un certo punto vidi due occhi familiari. Il viso era incorniciato dalla barba lunga e folta, gli abiti luridi, mi sembrava di guardarmi allo specchio, ma sapevo a chi apparteneva quel viso. Corsi verso di lui e lo abbracciai a lungo.

— Tony! Sei proprio tu? Cosa ti è successo? — era sbalordito per il modo in cui lo trattavo, forse pensava che non lo avrei mai perdonato, ma la strada mi aveva fatto capire che la cosa più importante nella vita non sono affatto i soldi.

— Sembra che anche tu abbia molto da raccontare — ci stringemmo più forte e cominciammo a piangere come bambini. Finalmente avevamo ritrovato entrambi un amico.

Tony mi raccontò la sua storia: era molto simile alla mia. Respinto da tutti, perfino da Helena che era riuscita a farla franca. Mi chiese più volte scusa, ma gli dissi di non badarci: i soldi vanno e vengono. Vidi che era vestito leggero e sembrava tremare, gli diedi una delle mie coperte.

— Come speri di sopravvivere all'inverno vestito in questo modo?

— Non pensavo di passare così tanto tempo per strada.

Ero felice. Non mi sentivo più solo. Decidemmo di dividerci di giorno e chiedere l'elemosina in due stazioni diverse per poi rincontrarci la sera. Mangiavamo una sola volta al giorno, ma piuttosto abbondantemente. Riuscivamo perfino a scherzare e ridere pur se nella miseria.

I giorni passarono veloci. L'inverno arrivò presto. Il giorno di Natale, le autorità ci fecero un bel regalo. Un poliziotto si avvicinò a noi e con fare rude ci cacciò fuori dalla metropolitana. Il nostro posto lo prese un Babbo Natale in carne e ossa che suonava e cantava le canzoni adatte al costume che indossava.

Fummo costretti a stare al freddo fuori. La situazione divenne sempre più critica. Quando nevicò la prima volta ci rifugiammo sotto una galleria ma il freddo era pungente. Fortunatamente il giorno dopo uscì il sole e la neve si sciolse quasi subito. Avemmo un mese di tregua, ma a gennaio ne fece molto di più e il freddo aumentò. Un giorno sentimmo alla radio che le temperature sarebbero calate molto al di sotto dello zero. Eravamo disperati. Provammo più volte a rientrare nella metropolitana, ma ora tutte le stazioni erano sorvegliate da almeno un agente che ci cacciava a suon di manganello non appena ci vedeva.

Il freddo arrivò. Camminavamo per le strade in cerca di un posto caldo, finché, stanchi, ci accasciammo di fronte a una vetrina. Ci coprimmo come meglio potevamo e ci abbracciammo per riscaldarci. Sentivo il respiro affannato di Tony, non sentivo più la faccia, i piedi e le mani. Ero alle sue spalle e lo stringevo forte. Di colpo smise di respirare. Non avevo la forza per tentare di salvarlo. Lo strinsi più forte, una lacrima mi scese e subito si congelò, ebbi un'ultima erezione e, insieme, la Nausea.


(fine)


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