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E
Regolamento delle Gare…
Roberto Bonfanti
Messedaglia
Marino Maiorino
Athosg
RobertoBecattini
Alberto Marcolli
Giovanni p
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Stefano M.
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presenta


La Strega

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale d'inverno 2021/2022


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'inverno 2021/2022


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: cammeo stilizzato di donna di profilo..


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un  ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


Per visitare la pagina del forum dove si svolgono le Gare stagionali, clicca qui.



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Roberto Bonfanti

(vincitore della Gara letteraria d'inverno, 2021/2022)


La Strega


In paese la chiamavano tutti la Strega. I pochi che conoscevano il suo vero nome si guardavano bene dal rivelarlo, temendo di incorrere nelle ire della vecchia.

Che fosse vecchia era un dato di fatto, anche i più anziani la ricordavano così da sempre: una figura minuta e ingobbita, infagottata in una veste nera e sdrucita, con la testa fasciata da uno scialle dello stesso colore, sia d'inverno che nella bella stagione. Ma non erano gli abiti che le avevano fatto guadagnare la sua fama da megera, per quello era bastata la credulità popolare: una bocca sdentata che biascicava in continuazione parole incomprensibili, sicuramente di maleficio, sormontata da un naso adunco e un unico occhio sano che sembrava roteare lampeggiando di malvagità ferina, mentre l'altro, velato da una cateratta cerulea, appariva altrettanto, se non di più, inquietante; tratti simili non potevano che appartenere a un essere demoniaco, quindi l'etichetta di strega le si era appiccicato addosso come un marchio a fuoco indelebile.

Che poi altri indizi alimentassero questa convinzione era innegabile. I cani le abbaiavano contro al suo passaggio, mentre i gatti, soprattutto se neri, ne erano attratti e la ossequiavano accompagnandola spesso nel suo peregrinare; chi poteva dubitare dell'istinto ancestrale tipico degli animali? In quanto ai bambini, gli unici che la avvicinavano per schernirla, spinti dall'incosciente crudeltà dell'infanzia, se non bastava il suo aspetto a spaventarli ci pensavano i genitori, con i loro racconti riguardo alla sua cattiveria, a far sì che ben presto la lasciassero in pace. Ovviamente quelle storie erano esagerate e arricchite di particolari macabri per terrorizzare i ragazzi, ma chi le raccontava era convinto che contenessero un fondo di verità.

Anche il prete, seppure non si fosse mai espresso pubblicamente sulla natura diabolica o meno della Strega, quando la incontrava si faceva sempre il segno della croce.

A memoria d'uomo non c'era sventura che non fosse stata in qualche modo attribuita alle sue fatture o incantesimi: se capitava una moria di animali era a causa sua, lo stesso per le malattie delle vigne o la scarsità del raccolto. Per una gravidanza che non veniva portata a termine si dava la colpa alla Strega, così come per un lutto improvviso o un affare che non andava a buon fine, perfino i brutti voti degli studenti erano una conseguenza dei suoi malefici.

L'ultimo e più eclatante episodio fu un periodo di siccità, della durata di alcuni mesi, che esaurì le riserve d'acqua e la pazienza dei paesani. Il foraggio diventava paglia nei campi, gli uccelli cadevano stecchiti dagli alberi a causa dell'arsura, anche i cani ciondolavano per le vie con la lingua di fuori, in cerca di un po' di refrigerio. Ovviamente la pioggia non cadeva perché la Strega aveva lanciato una maledizione sul villaggio, magari era arrabbiata per chissà quale sgarbo subito, che fosse reale o immaginario poco importava, il problema era che andando avanti di quel passo sarebbero stati guai seri per uomini e animali. Qualcuno cominciò a pensare che fosse il caso di ammansirla con qualche regalo, così iniziò una specie di pellegrinaggio sulla salita che s'inerpicava verso la sua baracca, poco fuori dal paese. C'era chi portava un cesto di frutta, chi un cartoccio di pane, chi addirittura una gallina già spennata, pronta da mettere in pentola. La vecchia, spaventata da quell'inconsueto andirivieni di gente, se ne stava rinchiusa in casa, domandandosi il perché di tutti quei doni che le venivano lasciati davanti alla porta. Sta di fatto che una settimana più tardi una perturbazione proveniente da est si addensò sul paese e la pioggia cominciò a cadere, all'inizio debolmente, poi sempre più copiosa. Tutti erano sollevati e soddisfatti per essere riusciti a evitare il peggio, ma dopo tre giorni ininterrotti di precipitazioni la gente cominciò a cambiare idea. Le strade erano diventate fiumi di fango e il raccolto, dopo aver sofferto per la carenza d'acqua, adesso rischiava di essere rovinato dalla sua abbondanza.

— Maledetta Strega! — Era il commento più ricorrente, — prima ci voleva far morire di sete, ora ci vuole affogare!

Quando la incontravano, i più esasperati sfidavano i suoi poteri insultandola ferocemente, pur tenendosi a debita distanza, qualche ragazzaccio le lanciò contro dei sassi, per fortuna senza colpirla.

E così, con la pioggia o con il sole, la Strega era odiata e temuta da tutti.

Dopo quegli eventi lei diradò le sue apparizioni in paese, fino a cessarle del tutto. Così come incrociarla era seguito dai rituali scongiuri, un giorno senza vederla destava il sospetto fra la gente, figuriamoci se i giorni diventavano due o tre, addirittura una settimana. Ma era quello che stava succedendo, la Strega sembrava sparita. Nei negozi e nelle vie ci si domandava, a bassa voce, se qualcuno l'aveva vista, e la risposta era sempre negativa.

Nel paese si stava spargendo la voce che lei stesse architettando chissà quale nuova malefatta e, dopo ben dieci giorni dalla sua ultima apparizione, qualcuno decise che era giunta l'ora di risolvere una volta per tutte la questione. Grazie al passaparola un gruppo sempre più numeroso si riunì davanti alla casa del sindaco che, allarmato da quell'assembramento, uscì per chiedere cosa stava succedendo.

— Dobbiamo andare a vedere che sta facendo la Strega! — Gli risposero i più decisi.

Il primo cittadino, Corrado De Giorgis, uomo pratico e razionale, non aveva mai dato troppo peso alle dicerie dei suoi compaesani, perciò disse: — Ma perché? Lasciatela stare, quella povera vecchia.

— Ma quale povera vecchia? Sono giorni che quella maledetta non si fa vedere, vogliamo sapere che piano diabolico sta preparando!

— E non siete contenti che sia sparita? Sarà ammalata, o forse è solo stanca di essere additata da tutti. E poi, io che c'entro? Se volete andare a casa sua fate pure, sempre che non vogliate commettere qualche sciocchezza.

— No, tu sei il sindaco, ti abbiamo eletto noi, devi venire anche tu!

A malavoglia, per evitare il peggio, Corrado si unì a quel drappello di uomini e donne armati di torce e forconi che, con fare bellicoso, risalì la strada che portava alla catapecchia della Strega. Giunti sul posto la chiamarono a gran voce, ma non ebbero risposta. Nessuna luce filtrava dalle finestre della casa che sembrava disabitata, ma con la vecchia c'era poco da scherzare. Alcuni cominciavano a sospettare che fosse un trucco, un tranello per attirarli in trappola, altri proponevano di attaccare in massa la dimora della megera, ma nessuno si decideva a muovere un passo. Fu un coraggioso che, incurante del pericolo, avanzò fino alla porta, provò la maniglia e, visto che non era chiusa, la spalancò, poi circospetto, entrò nella casa. Poco dopo ne usci e annunciò: — È vuota, la Strega non c'è!

Rincuorati, tutti si affrettarono a entrare. Effettivamente la baracca era disabitata, il pavimento e il poco mobilio presente erano coperti da un sottile strato di polvere, era evidente che nessuno era stato lì da giorni.

La Strega se n'era andata, sparita, come se si fosse dissolta nell'aria.

Il giorno dopo in paese ci fu una grande festa, con balli, canti, cibo e vino a volontà. Qualcuno suggerì di segnare quella data sul calendario come "Festa della Liberazione", ma la proposta, messa ai voti, fu bocciata, anche se con uno scarto minimo.

Passata l'euforia del momento, la vita riprese a scorrere come prima. Ed esattamente come prima ricominciarono le difficoltà per gli abitanti.

La gran massa d'acqua caduta con le recenti piogge aveva intasato di fango le fogne e, ben presto, gli scarichi delle abitazioni iniziarono a rigettare liquami maleodoranti. Per molti quei disagi erano una specie di eredità della megera, il suo nefasto regalo d'addio, ma i più scaltri, guidati dall'opposizione, cominciarono ad attribuirne la responsabilità all'inefficienza del comune. Non passava giorno senza che il sindaco dovesse subire le lamentele di persone inferocite.

— Allora, le vogliamo ripulire queste tubazioni, sì o no?

— Eh, stiamo lavorando, ma dovete capire che la situazione è eccezionale, non si tratta della solita manutenzione ordinaria. — Era la tipica replica di Corrado.

— Sì, sì, tanti bei discorsi in campagna elettorale, poi, una volta ottenuta la poltrona, chi s'è visto s'è visto!

Il malumore cresceva fra la gente e, ora che non c'era più la vecchia, le colpe ricadevano tutte sugli amministratori.

Ad aggravare la situazione ci fu l'interruzione dell'energia elettrica. Un traliccio, vecchio e corroso dalla ruggine, cadde a causa del vento, strappando i cavi dell'alta tensione e lasciando il paese senza corrente per un giorno e mezzo. Anche questo episodio fornì l'occasione di nuovi attacchi al primo cittadino. Lui si difese, dicendo che la manutenzione delle linee elettriche non era di competenza del comune, ma ormai la sua credibilità era compromessa.

La goccia che fece traboccare il vaso fu l'incidente capitato a una casalinga. La donna, percorrendo in bicicletta una strada periferica, finì con la ruota davanti in una buca dell'asfalto, cadde e si ruppe una gamba. Quello stesso pomeriggio il marito e i figli della poveretta fecero irruzione nel municipio, scortati da una decina di paesani infuriati.

— Ora basta, siamo stufi! Le nostre strade sono ridotte a un colabrodo, questo paese sta andando in malora! Sindaco, sei un incapace!

— Ma che dite? Lo sapete che io sono sempre pronto ad accogliere le vostre richieste e i vostri bisogni…

— E non ci fare il solito discorsetto! — Urlò uno dei facinorosi — Corrado, puoi stare sicuro che il mio voto non lo ripigli!

L'accenno alle prossime consultazioni elettorali colpì particolarmente il sindaco, fino ad allora era sicuro che la sua rielezione fosse solo una formalità, adesso vedeva vacillare paurosamente quella prospettiva.

Ormai la situazione si era fatta insostenibile, ogni problema, grande o piccolo che fosse, era diventato un disservizio dell'amministrazione comunale. Le persone sembravano aver bisogno di trovare un colpevole per tutto quello che capitava loro, prima c'era la Strega a calamitare l'odio della gente, ora se la rifacevano con il primo cittadino.

Corrado sentiva che il suo consenso diminuiva giorno dopo giorno, come ultima risorsa indisse una riunione straordinaria del consiglio comunale. L'ordine del giorno ufficiale era stabilire un calendario per i lavori pubblici necessari, sia di pertinenza del comune che di altre amministrazioni, il tentativo tacito era quello di placare gli animi più accesi. Fu un'assemblea turbolenta, con l'opposizione schierata su posizioni intransigenti che bloccarono ogni tentativo di discussioni costruttive. Terminata la riunione con un nulla di fatto, il sindaco, depresso e scoraggiato, cercò conforto nel suo amico Ermanno Sacchetti, assessore all'agricoltura e sviluppo economico, con deleghe allo sport, caccia e pesca, che per tutta la sera era rimasto stranamente muto e in disparte. Quest'ultimo, uomo di mondo e dotato di una mente acuta, tirò fuori un'idea delle sue.

— Quello che ci vuole è un'altra strega, per prendere il posto della vecchia. Così la gente avrà un nuovo capro espiatorio e tutto tornerà come prima.

— Ma ti pare il momento di scherzare?

— Sto dicendo sul serio. La gente qui è superstiziosa, trova qualcuno che gli faccia paura e ti lasceranno in pace.

— La fai facile tu! E dove la trovo una strega?

— Lascia fare a me. Ho la persona giusta.

— Davvero?

— Sì, conosco una in città, fa l'attrice, ma ultimamente non se la passa molto bene, se le garantisci un posto dove stare e una piccola cifra mensile accetterà di sicuro di trasferirsi qui e prestarsi a impersonare il ruolo della fattucchiera.

— Per il posto non sarebbe un problema, potrebbe stare nella casa della vecchia, tanto ormai è vuota.

— Va bene, ma bisognerà dargli una sistemata, quella catapecchia cade a pezzi.

— A questo ci penso io, domani mando un paio di operai del comune a fare qualche lavoretto. Ma per i soldi… non è che il comune navighi nell'oro. E poi, come lo giustifico un nuovo stipendio?

— Secondo me la mia amica si accontenta di poco, potresti gonfiare un po' le spese di rappresentanza.

— Mah, mi sembra una follia, ma non so più che pesci pigliare. E va bene, proviamo anche questa.

— Bene, allora io nei prossimi giorni definisco il tutto e ti porto la nuova strega.

— Ermanno, sono disperato, mi affido a te.

— Tranquillo, sei in una botte di ferro.

Così, qualche sera dopo, ci fu l'incontro concordato. Il sindaco era arrivato in municipio prima dell'ora stabilita e attendeva impaziente Ermanno e la donna che avrebbe risolto i suoi guai. Quando arrivarono, però, rimase piuttosto sorpreso.

— Corrado, ti presento Gessica.

— Piacere… ehm, signora, ci scusi un attimo, devo dire due parole all'assessore, in privato. — prese per un braccio Ermanno e lo trascinò nel suo ufficio — Sei impazzito? Quella avrà poco più di quarant'anni! E poi, la minigonna, i tacchi a spillo… Altro che strega, sembra una soubrette!

— Be', ora la vedi così, immaginatela truccata, con i vestiti adatti, te l'ho detto, è un'attrice, non le ci vorrà molto a calarsi nella parte.

— Sarà, ma comincio a pentirmi di averti dato retta.

— Fidati, so quel che faccio. Siamo sulla stessa barca, no?

— È proprio questo che mi preoccupa…

I due uomini, uno fiducioso, l'altro molto meno, tornarono di là per concordare i dettagli di quel singolare accordo.

Effettivamente la nuova arrivata cominciò fin dal giorno seguente a recitare il suo ruolo. Infagottata in abiti neri e con un pesante trucco in faccia si mostrò per le strade del paese, lanciando occhiate malefiche a destra e a manca. Ben presto, come succede sempre nei posti piccoli, tutta la comunità seppe che c'era un'altra strega che, per uno strano scherzo del destino, aveva deciso di stabilirsi proprio nella casa della vecchia.

All'inizio l'opinione pubblica si divise: c'era chi, sotto sotto, si mostrava contento di poter di nuovo attribuire a qualcuno la causa delle piccole difficoltà quotidiane, altri si disperavano per essere di nuovo caduti in quel clima di terrore. Ciononostante, malgrado che i paesani si chiedessero quali colpe dovevano aver commesso per meritare una simile maledizione, il piano di Ermanno sembrava funzionare: la stima nei confronti di Corrado crebbe di nuovo. Con l'andare del tempo anche i suoi più tenaci oppositori diradarono i loro attacchi, a quanto pareva la nuova arrivata aveva attirato su di sé le attenzioni di tutti, in paese non si parlava d'altro. Lui ne ebbe conferma una mattina, entrando nel solito bar per un caffè. Un gruppetto di sfaccendati era seduto a un tavolo a giocare a carte, al suo ingresso uno di loro lo salutò: — Caro sindaco, ha sentito la novità? La nuova strega, intendo.

Lui finse di cadere dalle nuvole: — Cosa? State parlando di quella signora che è andata ad abitare nella casa su in collina? Ma basta con tutte queste dicerie, oggi come oggi chi può credere realmente all'esistenza delle streghe? Ho ben altri problemi a cui pensare, lo sapete quanto ho a cuore il bene del paese, è per questo che mi avete votato e, sono sicuro, farete altrettanto alle prossime elezioni.

— Certo, certo. Comunque questa è veramente brava, eh! Fa di quegli incantesimi…

Corrado rimase con la tazzina in mano, stupito da quelle parole, poi chiese: — Cioè? Che vuoi dire?

— No, niente, niente. — Minimizzò l'uomo, mentre gli altri giocatori ridacchiavano.

Pagò il caffè e uscì, salutando imbarazzato gli avventori.

Per tutto il giorno ripensò a quell'episodio, c'era qualcosa che gli sfuggiva, ma un'idea su quello che stava succedendo cominciò a insinuarsi nella sua mente, doveva verificarla di persona. La sera, col favore del buio, si diresse verso la casa in cima alla salita. Decise di deviare dalla strada e prese un sentiero nel boschetto che la costeggiava, facendosi luce con una torcia elettrica. Arrivato vicino alla casupola rimase nascosto in mezzo alle frasche, in una posizione da cui poteva controllarla senza essere visto. Una macchina era parcheggiata nella piazzola sterrata dove finiva l'asfalto, per alcuni minuti non successe niente, poi ne arrivò un'altra che si fermò vicino alla prima, il guidatore spense i fari e rimase in attesa. Poco dopo dalla baracca uscì un uomo che, grazie alla luna piena di quella notte, il sindaco riconobbe come un suo compaesano, sposato e con figli. Non appena la prima vettura se ne andò il nuovo arrivato, anche quello ben conosciuto, scese dall'auto, raggiunse l'uscio e bussò tre volte, in rapida sequenza, come se fosse un segnale convenuto. Quando la porta si aprì, nella luce che proveniva dall'interno vide Gessica, in sottoveste, che lo salutò affettuosamente e lo fece entrare. Nell'ora e mezzo seguente la scena si ripeté tre volte, a quel punto il sindaco decise che aveva visto abbastanza. Mentre tornava sui suoi passi, chiamò l'assessore con il cellulare.

— Pronto, Corrado, che succede?

— Tu sei un delinquente! Un pazzo!

— Come? Cosa? Ma che stai dicendo?

— Ermanno, che lavoro fa la tua amica? Quella che mi hai portato per sostituire la Strega?

— Gessica? È un'attrice e…

— Ma quale attrice! È una mignotta! Si sta ripassando tutti i maschi del paese! Se viene fuori che siamo stati noi a farla venire qui sono rovinato, anzi, lo siamo tutti e due!

— Calmati adesso, te l'avevo detto che era un po' in difficoltà, magari cerca solo di arrotondare…

— Basta! E non dirmi che mi devo calmare, sono incazzato nero! Ti do tempo fino a domattina, poi non la voglio più vedere da queste parti!

— Ma come faccio? Che le racconto per mandarla via?

— Non me ne frega niente, tu mi hai messo in questo casino e ora me ne tiri fuori!

Interruppe la comunicazione e tornò a casa, dove la moglie ascoltò pazientemente una scusa su certi problemi che lo avevano trattenuto in comune fino a tardi.

L'assessore eseguì gli ordini, non si sa come convinse la donna ad andarsene, e così il paese rimase nuovamente senza una fattucchiera, fra la delusione degli uomini e la soddisfazione delle mogli, che avevano cominciato a sospettare quale fosse la meta delle loro uscite serali.

Corrado si trovò un'altra volta a subire il malcontento della gente, la sua popolarità toccò il minimo storico e già presagiva una sonora batosta alle elezioni ormai imminenti.

Ermanno intanto, anche lui preoccupato dal quasi certo mancato rinnovo del suo incarico, rimuginava sulla scomparsa della vecchia. Non era possibile che fosse morta, nessun cadavere era stato rinvenuto nei dintorni, probabilmente se n'era andata, ma dove? A quanto ne sapeva non aveva parenti né conoscenti ai quali chiedere informazioni. Anzi, forse qualcuno c'era: Guido, quel vecchio, mezzo matto e ubriacone, considerato da tutti lo scemo del villaggio. Si ricordò che era il solo con il quale la Strega scambiava qualche parola, ogni tanto. Così, senza perdere tempo, decise di andare a trovarlo.

Abitava in una palazzina fatiscente, poco distante dalla piazza centrale, l'assessore suonò il campanello e rimase in attesa. Una finestra si aprì al primo piano, il vecchio si affacciò e sbraitò: — Vai via! Non mi metterete in una casa di riposo, io sto bene qui!

— No, signor Guido, non sono venuto per questo, le voglio solo parlare.

— Non mi freghi, dite tutti così, vattene!

Ermanno si era aspettato che la sua missione non sarebbe stata facile, perciò si era procurato una bottiglia di vino, la tirò fuori dal sacchetto e la mostrò dicendo: — Su, mi faccia entrare, le ho portato un regalino.

La finestra si chiuse e poco dopo la porta si aprì. Guido lo invitò a seguirlo su per le scale, fino al suo appartamento. La puzza in quelle stanze era quasi insopportabile, la sporcizia regnava ovunque. L'assessore declinò l'invito a sedersi su una sedia malandata e anche il bicchiere che il vecchio, invece, trangugiò avidamente, e venne subito al dunque.

— Senta, le volevo chiedere se sa qualcosa a proposito della Strega.

— Chi? — Rispose il vecchio, tornando sospettoso.

— Quella vecchia… ehm, quella signora anziana, sempre vestita di nero, che abita in cima alla salita, fuori dal paese.

— Ah, Viviana. Gran bella donna, quando era giovane. Che le è successo? Non la vedo da un po'.

— Ecco, è proprio questo il punto, se n'è andata, non sappiamo dove, avrei necessità di contattarla.

— Per cosa?

— Per delle questioni riguardo alla casa, sgravi fiscali, insomma, cose burocratiche. Però importanti.

— E io che c'entro?

— Lei è uno dei pochi che la conosce bene, non sa se ha dei parenti, da qualche parte? Qualcuno che potrebbe ospitarla? Le sarei molto grato se potesse aiutarmi. — Disse Ermanno, accennando alla bottiglia, ormai mezza vuota.

— Ora che ci penso mi pare che avesse dei parenti, giù in città, forse è andata da loro.

— E si ricorda come si chiamano?

— Eh, la mia memoria non è più quella di un tempo, purtroppo.

L'assessore tirò fuori un paio di banconote e, posandole sul tavolo, disse: — Su, faccia uno sforzo.

— Damiani, sì, mi sembra si chiamassero così.

— La ringrazio, signor Guido, mi è stato molto utile, saprò esserle riconoscente.

Ermanno tornò a casa e fece una ricerca su internet. C'erano otto famiglie in città che rispondevano a quel cognome, si segnò gli indirizzi e la mattina dopo, di buonora, prese la sua auto e partì.

Al quarto tentativo trovò quello che cercava. La donna che gli aprì la porta, dopo aver ascoltato di certe fantomatiche pratiche comunali da definire, lo fece accomodare in salotto. La Strega, cioè, la signora Viviana, era molto cambiata: indossava un sobrio vestito blu, si era tinta i capelli, portava un paio di occhiali che giovavano ai suoi difetti di vista e una nuova dentiera le permetteva finalmente di parlare in modo comprensibile. Raccontò che, stanca delle umiliazioni e delle calunnie, si era decisa ad accettare l'invito che quella sua parente le faceva da tanti anni ed era andata ad abitare con lei, nonostante avesse nostalgia delle sue radici. Quando la nipote li lasciò soli per andare a fare la spesa, Ermanno si dovette sorbire una lungo racconto di povertà e patimenti, ma intuì che la vita in città, ospite della figlia zitella di un suo cugino, morto tanti anni prima, non le fosse del tutto gradita. Fra l'altro, la vecchia gli confessò candidamente che i pochi risparmi di una vita parsimoniosa e la sua misera pensione bastavano a malapena a mantenere lei e quella fannullona, così la definì, che l'aveva presa in casa. Facendo leva soprattutto su quel punto, lui sfoderò tutta la sua arte diplomatica per convincerla a tornare in paese. Lei all'inizio si mostrò restia, ma alla fine, esponendosi con promesse allettanti, anche a nome del sindaco, il Sacchetti riuscì nel suo intento.

Dopo averle concesso alcuni giorni per organizzare il suo rientro, tornò a prendere Viviana. Durante una sosta per fare benzina chiamò Corrado.

— Dimmi Ermanno, che vuoi?

— Cos'è quel tono irritato? Sto per risolvere tutti i tuoi problemi, troviamoci fra mezz'ora a casa della Strega, vedrai che sorpresa ti porto!

— Ascolta, se ne hai combinata un'altra delle tue, questa volta ti giuro che…

— Ma dai Corrado! E quando mai ti ho messo nei guai?

— Innumerevoli volte, ormai non le conto più.

— Tranquillo, questa volta sono sicuro che mi ringrazierai.

Quando arrivarono all'appuntamento, effettivamente, il sindaco fu sorpreso. All'inizio stentò a riconoscere in quell'anziana ed elegante signora la vecchia Strega di un tempo, poi, ascoltando le argomentazioni dell'assessore, si convinse che, forse, quella era la soluzione migliore per tutti. Accettò anche le richieste di Viviana, un vitalizio uguale a quello che aveva accordato a Gessica, la proprietà della casa, che sarebbe stata rimodernata a spese del comune, e dei brevi periodi di ferie da trascorrere alle terme, sempre a carico dell'amministrazione. In cambio lei avrebbe ripreso il suo ruolo abituale.

Alla prima uscita pubblica della Strega la gente si fermò incredula a guardarla, sulle prime qualcuno sostenne che doveva essere un'altra persona, che non era possibile che fosse tornata, ma ben presto anche i più dubbiosi ammisero che era proprio lei, le fattezze, i vestiti e quel ghigno erano inconfondibili. Molti provarono angoscia per la sua ricomparsa, ma in fondo tutti, anche quelli che non volevano ammetterlo, erano soddisfatti: era bello avere di nuovo qualcuno su cui indirizzare i propri timori e il proprio odio.

E così, alla fine, il sindaco fu rieletto e in paese tornò la pace e la paura della Strega.


(fine)


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Messedaglia


Il glorioso e tragico sacrificio dei combattenti di Isbuscenskji


Brrr, che freddo, la temperatura deve essere di almeno dieci gradi sottozero. È da un po' che, per non congelarmi, sto facendo avanti e indietro davanti a questa casupola, che un buontempone della mia compagnia ha battezzato l'Isba Cinema… Già, ieri ci hanno dato proprio una bella notizia: qui a Pobendikajia, uno sperduto villaggio dove la nostra divisione ha ufficialmente completato lo schieramento sul fiume Don, è stato allestito un cinematografo. Finora non ci stati scontri significativi con i russi, solo scaramucce di poco conto, le giornate scorrono pertanto alquanto lente e uggiose e la prospettiva di vedere qualche pellicola dell'Istituto Luce ha riportato un po' di buon umore all'interno del nostro battaglione. Certo che Pietro si sta facendo attendere, accidenti a lui.

— Edoardo, tieni le chiavi, su, veloce, apri la porta, non abbiamo molto tempo a disposizione, tra un'ora dobbiamo partire con il giro di perlustrazione.

— Pietro, mi hai fatto quasi prendere un colpo, per un attimo ho pensato che un russo mi stesse assalendo alle spalle… Sei in ritardo, è più di mezz'ora che ti sto aspettando, ancora un po' e sarei morto assiderato. Se tu non fossi il mio capitano ti avrei già mandato a quel paese.

— Tu prova a farlo e ti mando davanti al plotone di esecuzione seduta stante… —  Mi mette una mano sulla spalla, — forza, sbrighiamoci o il diversivo che abbiamo programmato rischia di saltare.

— Sì, ma gli altri? Come mai ci siamo solo io e te?

Mentre armeggia con il proiettore, Pietro mi fa cenno di sedermi. — Basta domande oziose, non ti è sufficiente sapere che oggi avrai la possibilità di assistere al principale evento che, in questi giorni, ha tenuto banco tra di noi? Ultimamente non vi ho sentito parlar d'altro.

Lo guardo stupito: — Alludi forse alla carica di Isbuscenskji?! Parliamo di un fatto accaduto meno di tre mesi fa, a Cinecittà ne hanno già realizzato una trasposizione cinematografica?

Pietro scuote la testa, sorride: — Non si tratta di una piatta e scialba ricostruzione, bensì del filmato originale girato durante l'omonima battaglia.

— Mi stai dicendo che qualche pazzo furioso si è preso la briga di riprendere la carica dei nostri lancieri? Se le informazioni che ci hanno dato sono vere anche solo per la metà, là c'è stato un vero inferno. Non ci posso…

Non riesco a finire la frase, mi ritrovo mio malgrado seduto dopo aver ricevuto da Pietro una spinta in pieno petto. Di colpo diventa tutto buio. Un fascio di luce viene proiettato sulla parete di fronte a noi, comincia il conto alla rovescia: 3, 2, 1… Appare infine il titolo a caratteri cubitali:


L'EPICA CARICA DEL REGGIMENTO SAVOIA CAVALLERIA


Isbuscenskji, 24.08.1942


È quasi l'alba. Una pattuglia del primo squadrone del reggimento Savoia, uscita in esplorazione, non ha percorso che poche centinaia di metri, allorché un violentissimo fuoco di armi automatiche e di mortai si abbatte su di essa. Il nemico si sta preparando a un'offensiva su larga scala. Alcuni cavalieri vengono colpiti da pallottole vaganti e cadono a terra, ma un ufficiale riesce a tornare al galoppo per dare l'allarme. Il caposaldo è in pericolo. Se i russi dovessero sfondare in questo punto, sarebbe la fine: le nostre divisioni si ritroverebbero accerchiate, occorre contrattaccare senza indugio! Un ordine aspro e rauco sibila nell'aria: 'Secondo squadrone, a cavallo!' È un urlo che va dritto al cuore, tutti gli uomini saltano in sella ai cavalli in un prodigio di destrezza. Nel giro di pochi istanti l'intero squadrone si muove fuori dal quadrato, compiendo una perfetta conversione verso l'ala sinistra del nemico, compatto, allineato, quasi si trattasse di una parata di rappresentanza all'interno di una piazza d'armi, e non di una disperata azione per difendersi da un attacco sferrato da forze soverchianti. Il capitano incita i compagni con quanto fiato ha in corpo, conscio che una defezione morale in questo frangente corrisponderebbe alla morte. Ma il timore è infondato: tra le file del Savoia serpeggia un entusiasmo incontenibile, gli uomini si preparano all'assalto finale. All'improvviso un fremito scuote gli intrepidi cavalieri: un maggiore, in passato comandante proprio del secondo squadrone, è giunto al galoppo e si presenta sorridendo: 'Capitano, sono un tuo gregario. Chiedo l'onore di partecipare alla carica contro il nemico!' La richiesta naturalmente viene accettata, e un'ondata di commozione travolge i lancieri del Savoia, il vecchio comandante si è unito a loro. È giunto infine il momento della verità: 'Sciabol… mano… caricat!' È il comando tanto atteso, lo squadrone si getta di prepotenza all'assalto delle posizioni sovietiche. Le pallottole fischiano da tutte le parti, il suono delle mitragliatrici è assordante, ma i nostri non mostrano il minimo segno di titubanza. Il fuoco nemico è tuttavia inesorabile, e alcuni uomini cadono a terra sotto le raffiche russe. Cade anche il capitano. Il suo cavallo muore all'istante, falciato da una scarica sparata da distanza ravvicinata. L'ufficiale cerca allora di montare sul destriero del suo attendente, rimasto privo di cavaliere, ma la bestia si imbizzarrisce e con uno strattone si libera e scappa lontano. Lo squadrone ha un momento di sbandamento, ma il maggiore, con voce ferma e risoluta, rinfranca l'animo dei suoi uomini: — Avanti Savoia! A quel comando, i cavalieri si abbattono con una violenza inaudita contro le postazioni avversarie, le loro sciabole fanno strage dei fanti rintanati nelle buche, i cavalli calpestano con gli zoccoli mitragliatrici, nastri e cassette. La lotta si fa via via più brutale e furibonda, ma il nemico è infine battuto; i nostri ritornano alla base portandosi dietro centinaia di prigionieri. Un soldato ferito a morte viene fatto scendere con delicatezza dal cavallo di un compagno. Ha un ultimo desiderio: baciare il tricolore. Tutti i lancieri si irrigidiscono sull'attenti, tre lunghi squilli di trombe risuonano mentre il moribondo posa le labbra sulla bandiera. Questi sono gli uomini del Savoia, questa è l'impresa che rimarrà scolpita per l'eternità nei nostri cuori.


Finita la proiezione, Pietro si gira verso di me: — Allora, ti è piaciuto?

— Sì, tantissimo! A tratti sono rimasto senza fiato…

— Che entusiasmo, calma, ho capito, ho capito, —  mi interrompe, — ma dimmi, come intitoleresti questo episodio della nostra storia?

— Il titolo che è apparso all'inizio va benissimo: l'epica carica del reggimento Savoia Cavalleria.

— Edoardo, in guerra non c'è mai nulla di epico, non lo hai ancora compreso? E poi ti sbagli, non è stato proiettato nessun titolo.

— Come no? L'ho visto distintamente, è comparso alla fine del conto alla rovescia.

— Probabilmente hai creduto di vederlo, quella frase c'era solo nella tua testa. Io non ho visto nulla. Al contrario tuo, mi sono preparato alla visione senza pregiudizi o preconcetti. Ora, per favore, a me gli occhi. A volte faccio davvero fatica a sopportare Pietro. Saccente e pedante allo stesso tempo. Comunque lo scruto con attenzione, attendo da lui qualche altra perla di saggezza…

— Ti vuoi muovere? Ti ho già detto che dobbiamo sbrigarci. Dammi gli occhi.

— Ti sto guardando appunto. Cosa vuoi dirmi? O intendi farmi vedere qualcosa?

— Ti ho detto di darmi gli occhi. Lo capisci l'italiano? Cavati quegli stracazzo di occhi!

La richiesta, nella sua assurdità, è talmente perentoria che mi affretto a soddisfarla. Tanto ormai è tutto un paradosso dietro l'altro. Mi infilo tre dita nelle cavità orbitali, i globi oculari escono con una facilità sorprendente, quasi fossero palline da golf tirate fuori dalla buca.

— Bene, ora mettiti questi —  mi dice porgendomi un paio di bulbi oculari nuovi di zecca. Non mi resta altra alternativa che infilarmeli.

— Ora riguardiamo tutto dall'inizio.

Rivedo nuovamente il lungometraggio. Le scene iniziali, con i cavalieri del secondo squadrone che si preparano alla carica e che si lanciano all'assalto delle postazioni nemiche, mi passano davanti quasi senza che io me ne accorga tanto sono rapide, come se qualcuno dalla regia avesse selezionato lo scorrimento veloce. Poco dopo però, le immagini frenano di colpo, e tutto mi sembra procedere al rallentatore. Lo spettacolo è desolante: pur nel quadro generale di una vittoria tattica italiana, la mia retina, adesso, non cattura nulla se non scene di morte e sofferenza. Circa metà dei nostri lancieri, i cui cavalli sono stati impietosamente abbattuti dal fuoco nemico, è appiedato. Molti uomini giacciono agonizzanti nella polvere, si toccano le ferite, chiedendosi febbrilmente se sopravviveranno o meno, mentre in bocca sentono il gusto dolciastro e nauseabondo del sangue. Tanti altri questa domanda ormai non se la possono porre, i loro occhi vitrei fissano già sbarrati il cielo, i corpi dilaniati dalle bombe a mano inizieranno a breve a decomporsi. Alcuni cavalli gironzolano tra le macerie, nitrendo sofferenti e affranti. Dopo un tempo che mi sembra infinito, la voce di Pietro mi riporta alla realtà.

— Ebbene, com'è andata? Dovresti avere avuto una visione più nitida delle scene a cui hai assistito.

— Sì, è stato terribile. Il campo di battaglia era disseminato di cadaveri e di uomini urlanti di dolore. Sento ancora dentro di me un'angoscia devastante.

— Mhmm. Forse ho esagerato. Qualche idea per un diverso titolo?

— Sì. Il tragico e crudele destino del reggimento Savoia cavalleria.

Pietro scuote la testa — già, ho proprio esagerato, questi occhi sono troppo forti, hanno un potere correttivo eccessivo. Pur nella consapevolezza della tragedia che si è consumata a Isbuscenskij, così sminuisci il valore e il coraggio dei lancieri del Savoia. Prima ho detto che in guerra non c'è nulla di epico. Ma ciò non significa che non ci sia lustro nelle impavide azioni dei nostri eroi. Prova questi.

Rivedo la pellicola con l'ennesimo paio di occhi. Stavolta i fotogrammi si susseguono tutti alla stessa velocità, sia quelli della carica di cavalleria che quelli che ripropongono sequenze di dolore e morte, così come le scene di giubilo per la vittoria e il saluto finale alla bandiera italiana. Mentre osservo i nostri, percepisco in ugual modo ogni singola vibrazione del loro cuore: la trepidazione prima dell'assalto, il timore di non rivedere più amici e familiari, la paura di morire. La sofferenza fisica, e ancor di più quella psicologica, di coloro che cadono a terra feriti. La solitudine di chi purtroppo non ce l'ha fatta. La commozione per i compagni caduti, la consapevolezza di aver compiuto con onore il proprio dovere, l'euforia per aver sconfitto il nemico. Mentre davanti a me scorrono le immagini di questi poveri soldati mandati a morire in terre lontane per una vana gloria, una morsa mi stringe il cuore. Ma, allo stesso tempo, comprendo che la drammaticità di tale vicenda nulla toglie al valore che hanno dimostrato i nostri prodi fratelli nell'andare a testa alta incontro a un destino avverso. Dobbiamo fissare nella memoria in modo indelebile il loro ricordo. E senza necessità di rivestire di retorica e di parole roboanti le loro gesta. Sì, perché questi atti di coraggio brillano già di luce naturale.

— Allora?

— Il glorioso e tragico sacrificio del reggimento Savoia cavalleria.

Una smorfia di perplessità appare sul volto di Pietro. — Meglio, ma non ci siamo ancora… Edoardo, i nomi dei reparti italiani sono scolpiti nel nostro petto, per esempio sai quale orgoglio provo ogni volta che pronuncio il nome della mia amata divisione Julia, però ricordati che i protagonisti, nel bene e nel male, sono sempre e solo i singoli uomini. E poi… —  Di colpo s'interrompe, sembra incerto sul da farsi. Schiocca, infine, le dita in un gesto d'illuminazione.

— Restituiscimi gli occhi, devo fare una leggera correzione. Ecco fatto, tieni.

Non faccio in tempo a indossarli, che mi accorgo subito che c'è qualcosa che non va: — Pietro, è tutto offuscato, vedo delle ombre… —  La mia protesta viene troncata sul nascere.

— Devi solo abituarti ai nuovi occhi bifocali, abbassa le palpebre per qualche istante e respira profondamente.

Seguo il consiglio, purtroppo però non cambia nulla. In primo piano si stagliano nitide le immagini dei fieri lancieri del Savoia, ma sullo sfondo intravedo delle figure evanescenti, dai contorni indistinti, sono confuso. Ma è questione di pochi attimi, d'un tratto i miei deficit visivi sembrano essere scomparsi. Riguardo il filmato in un batter di ciglia, ho come la sensazione di vederlo per la prima volta… Se in precedenza i bordi delle divise, vicine e lontane, mi apparivano su piani diversi, ora collimano perfettamente sul mio cristallino, in una scena unitaria di dolore e di coraggio.

— Sì, ora è tutto nitido e chiaro… Sono riuscito a percepire anche le tumultuose sensazioni che si dimenavano nell'animo dei russi, i nostri avversari: le altrettanto atroci sofferenze, lo stesso senso del dovere, il medesimo amor di patria.

— Ottimo! Il titolo, dammi il titolo…

— Il glorioso e tragico sacrificio dei combattenti, italiani e russi, di Isbuscenskji.

Pietro si sfrega le mani soddisfatto: — Edoardo, abbiamo finalmente trovato il paio di occhi giusto…


(fine)



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Marino Maiorino


Éfesto e Athena


Éfesto era signore del fuoco, protettore dei fabbri e di tutti gli artigiani, colui che con pazienza incrollabile, minuzia e precisa conoscenza delle proprie arti sapeva realizzare qualunque oggetto con maestria. Per questa sua capacità di creare opere frutto di uno studio attento, era massimamente apprezzato da Athena, dea della sapienza, che grazie alla sua mente sottile poteva sfidare il bellicoso Ares e batterlo persino sul campo di battaglia.

Athena era infatti solita chiamare Éfesto Klytotéchnes, "Rinomato Artigiano", senza farne mistero, perché le sue parole erano scevre da qualunque secondo fine.

Ma nella sua potenza e maestà Éfesto viveva appartato dagli altri dèi: concepito dalla sola Hera per ripagare il consorte dell'adulterio con Metis, era nato zoppo, sì che la madre stessa l'aveva scaraventato giù dall'Olimpo in segno di disprezzo; in seguito, ricevuta Afrodite in moglie, aveva sofferto i ripetuti tradimenti di lei con Ares. Per cotanta umiliazione il prodigioso fabbro aveva deciso di abbandonare l'Olimpo e dedicarsi tutto alla pratica della propria arte, mediante la quale creò tutti gli oggetti che danno lustro al suo nome.

Egli era così cresciuto in maestria ma era poco avvezzo ad altra lode che non fosse la propria: schivato da tutti per la zoppia, sofferente per la mancanza di calore che persino la moglie gli aveva riservato, non poteva credere che la bianca Pallade Athena, signora dei campi di battaglia, protettrice della giustizia, vergine, uno spirito così nobile ed elevato, avesse per lui parole di ammirazione.

Nondimeno, da un lato l'apprezzamento di Athena era genuino, e dall'altro essere oggetto dei pensieri dalla bianca dea era occasione per Éfesto di fantasticare durante i lunghi lavori alla forgia.

Un dì accadde che Athena si era recata presso la fucina del fabbro per chiedere un'arma: gli avrebbe incaricato la realizzazione di una nuova, se non l'avesse trovata, perché riteneva solo lui capace di creare un oggetto degno del suo braccio. Annunciata da una civetta, giunse presso le fucine di Éfesto a Lemnos.

— Éfesto Klytotéchnes, grande tra i fabbri! — , lo chiamò. — Io, Pallade Athena, sono qui per chiedere la tua opera!

Éfesto, che non si aspettava una visita della dea, sentendosi chiamare da quella voce desiderata e con quel nome a lui massimamente gradito, in un solo istante sognò che la sua lunga solitudine fosse terminata e i suoi sogni più sfrenati esauditi. Andò incontro ad Athena e la ricevette con la massima cortesia.

— Bianca dea, mi onori molto con la tua presenza! — , la salutò tentando un ossequioso inchino sulle proprie gambe malconce. — Dimmi quale ne è il motivo, perché certamente non può essere la mia opera: non c'è niente, infatti, che quest'umile fabbro possa realizzare che il tuo genio e la tua stessa maestria non possano già".

— Non dovresti essere così umile, o potente alla forgia — , gli instò Athena, — tu che hai infuso in rami di palma e mirto la bellezza dell'oro e la velocità del vento e le hai poste ai piedi di Hermes, tu che hai creato gli archi d'oro e d'argento di Apollon e della sorella Artemis, il carro di Helios, le dimore di tutti noi Olimpici, la portentosa egida del padre Zeus che conosco bene per averla io stessa indossata innumerevoli volte, i meravigliosi gioielli che, indossati da Tetis, suscitarono l'ammirazione di Hera! Tu, capace di infondere vita nella materia inerte, come dimostrano quei mantici che ti assistono infaticabili alla forgia e, come dimenticarlo, il guardiano Talos per Minosse e la sua Creta! Né ti astieni dall'usare la tua arte nel campo della medicina, tu che hai ricostruito in avorio la spalla del titano Pelope!

— Davvero, Éfesto, lascia che siano altri, forse timorosi o forse invidiosi, a usare mezze parole per descrivere la tua prodigiosa capacità. Io che sono dotata di un lucido intelletto e non ho motivo di occultare la verità, so di usare per te il giusto nome, quando ti chiamo Klytotéchnes.

Athena era dea dal parlare diretto e sincero perché le parole contorte sono nemiche della comprensione, ma le sue caddero su un cuore che troppo a lungo era stato privato del conforto di una parola amica, e parvero a Éfesto la tangibile conferma della legittimità di tutti i propri sogni.

— Dea dalle bianche membra, che mai degnò uomo del proprio apprezzamento con parole così dolci a udirsi. Figlia del Cronide che aiutai a nascere, ricordo come fosse oggi quel giorno che uscisti dalla sua testa, urlando pronta per la battaglia già armata di tutto punto! Sarei anch'io ipocrita e direi il falso, se non ammettessi che fin da allora anch'io ho ammirato tutte le tue virtù, sebbene segretamente, nella solitudine della forgia.

Poco avvezza all'amore e alle sue vie contorte, Athena ricambiò l'ammirazione di Éfesto con ulteriori lodi.

— La solitudine è una tua scelta! Non è questo il tuo posto, e lo sai bene. Sei un Olimpico, e l'Olimpo è la tua casa! Volentieri sarei venuta alla tua forgia lassù, non meno volentieri che per venire qui, se è per chiederti un frutto della tua mirabile opera!

— Le tue, bianca dea —, le rispose Éfesto, ormai ebbro di desiderio, — sono parole quanto mai dolci per un cuore poco avvezzo a complimenti o lodi. Il mio è il lavoro duro, oscuro e fumigante della fucina che io compio senz'altro riconoscimento attendere che quello delle cose da me create, che esse eseguano a dovere il compito per il quale le ho realizzate.

Svestendo le possenti mani dei pesanti guanti da forgia, il prodigioso fabbro si avvicinò alla giovane, cercando nei glauchi occhi di lei un segno di ciò che mai aveva trovato in quelli della consorte e, giunto a un palmo da lei, osò domandare: — Ma posso chiederti, Signora, se la mia arte meriterebbe di risvegliare una tua più viva attenzione per la mia persona, perché è duro condurre la mia esistenza senza poter condividere con alcuno il piacere per un lavoro d'ingegno ben fatto? Nessuno ignora, infatti, che persino la mia consorte apprezza più volentieri l'energia e il bel corpo del rissoso Ares che la minuzia delle più prodigiose tra le mie opere!

— Da amica devo risponderti che quanto dici di Afrodite della bella cintura — non le avessi tu mai donato quel portentoso artefatto, le sue malie non sarebbero certo minori — è purtroppo vero, ma questa è la sua natura e io, rispettandola, non desidero guerreggiare con lei.

— Il mio voto di castità mi impedisce di pensare a te, Éfesto, come a più che un meraviglioso artigiano, l'opera del quale ammiro in massimo grado, nell'intimo dei miei pensieri e pubblicamente con parole.

— Ma se fossi libera di esprimere e sentire tutto ciò che Afrodite comanda senza le restrizioni del mio voto, allora sì, Éfesto, la maestria delle tue opere mi avrebbe tutta inebriata per il loro artefice, e io non potrei non cedere alle tue lusinghe, se mai vi ti cimentassi.

Quelle parole vinsero ogni prudenza e riserbo da parte del fabbro, che improvvisamente afferrò Athena per le braccia, approfittò della sorpresa e, coi propri occhi fissi in quelli di lei, la baciò preso dalla passione a lungo covata.

Né Athena si ritrasse: tale era stato il parlare dell'uomo da lei tanto apprezzato che ella cadde preda di un desiderio di unione con quella mente, l'unica tra tutti gli Olimpici che potesse competere in sottigliezza con la propria, e per un po' credette che con quel contatto avrebbe raggiunto, lei condannata a una vita di castità, la compagnia di un animo affine al proprio.

Tutto depose ai piedi del fabbro: si svestì dell'elmo, gettò lontano lancia e scudo perché Éfesto non era nemico né aggressore, si spogliò del chiton e lo abbracciò cercando una comunione totale con lui, di mente attraverso il corpo. Anche Éfesto desiderava lo stesso, sì che i due si trovarono presto a esplorare luoghi dell'animo umano dove raramente due amanti si sono incontrati, perché la solitudine che cercavano di curare era dell'anima.

Eppure, anche i loro corpi erano partecipi di quell'unione, e la bianca dea sentì crescere il piacere del fabbro, quella che sarebbe stata una violazione della propria natura, perciò cercò di sottrarsi a quell'onta, lottò con tutte le proprie forze, riuscì a divincolarsi dalla poderosa stretta di quell'amplesso divino, e il piacere di Éfesto fu versato sulla gamba di Athena, la quale si deterse con un panno di lana che poi gettò al suolo, per poi andar via senza dire altro.


Così il seme di Éfesto cadde su Gaia, la Grande Madre Terra, che ne diede frutto: un bambino che fu chiamato Erichthonios. Grande fu il clamore che si sparse al conoscere il lieto evento, che giunse fino alle orecchie di Athena, colei che, essendo vergine, non era mai stata madre, pur desiderando come tutte le donne conoscere il miracolo della maternità. Ella viaggiò per mari e per monti e raggiunse il bambino, lo reclamò come proprio e lo educò presso il sacro recinto a lei dedicato: il figlio di Éfesto, il quarto re della città che porta il nome della dea.

In seguito, i due Olimpici ebbero diverse occasioni per commentare quell'episodio, ma le prime volte Éfesto ne sembrava addolorato.

— Grande fabbro, perché sembri sfuggire la mia presenza, da che abbiamo avuto Erichthonios? Erano dunque vuote le parole che mi hai rivolto, di avere in grande apprezzamento la mia stima e la mia compagnia? Non mi è parso così, al contrario! Ma vedo che ora tolleri a malapena la mia vista. Ho fatto qualcosa che ti ha offeso?

— Davvero sei così a digiuno del cuore e delle sue vie, o bianca dea? — , chiese il fabbro al colmo della sorpresa. — Volevo unirmi a te, non avrei avuto alcun obiettivo più alto di questo, ma quando finalmente ti ho avuta per me, mi hai allontanato da te e hai gettato il mio seme al suolo come in segno di disprezzo!

Al che la dea, rendendosi conto del proprio gesto, rispose: — No, amico, non lasciarti ingannare da una triste apparenza. Non ho gettato il tuo seme al suolo per disprezzo di te, ma perché sapevo che ventre più sicuro e generoso del mio seno guerriero era quello di Gaia che ci ha dato Erichthonios. Avrei mai cresciuto in saggezza e per diventare re della mia città tuo figlio, se non avessi riconosciuto in lui le tue qualità? Éfesto, il mio apprezzamento per te non è scemato, ma io non posso dare la mia virtù a uomo o dio che sia. Se davvero anche tu nutri per me la stima che dicevi, resterai mio amico.

— Ora capisco il tuo gesto — , sentenziò il fabbro divino, — e ti chiedo perdono per il mio fraintendimento. Anzi, sono contento che tu mi abbia parlato in questo modo, perché è davvero grande il mio desiderio di stare ancora con te.

— E il mio di stare in tua compagnia, Klytotéchnes, seppure non sarà necessario dare un nuovo re alla mia città ogni volta che ci vedremo — , lo irrise la dea, scherzando come raramente le era capitato in passato.


(fine)


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Athosg


Un raglio infinito


Il cartello di metallo arrugginito con scritto CHIUSO sbatteva lentamente contro l'inferriata del campo sportivo.

Dall'esterno non si notava nessun movimento e il silenzio nella campagna era interrotto solo da quel tintinnio sinistro.

I tre ragazzi erano arrivati di gran carriera, e una volta fermi si guardarono smarriti davanti a quella natura morta.

Misero a terra le biciclette e si avvicinarono al cancello d'ingresso.

Franti mosse inutilmente la maniglia.

Era un giovinetto biondo e dinoccolato, dall'aria pensierosa. Si voltò e guardò gli altri due con gesto di sfida, sospirando e grattandosi l'incurvatura del naso. Non era un bravo calciatore, non ci provava nemmeno a giocare. Studioso quanto bastava, s'intravedeva in lui un futuro da fine intellettuale, di quelli con una logica spiazzante, trasversale. Anche i professori si stupivano per quella visione del mondo così particolare. Un filosofo in erba che frequentava amichetti che negli anni a venire avrebbe sicuramente perso di vista, considerato il netto divario d'intelligenza.

I due fratelli Pasztor non si assomigliavano per nulla. Pasztor I era alto e atletico, un felino dallo sguardo cattivo. Un autentico duro. In paese girava la voce che andasse in città a farsi investire. Si metteva vicino alle strisce pedonali vicino agli incroci, e una volta individuata la vittima, generalmente anziana, faceva finta di farsi investire, per ricavare oltre alle scuse impaurite anche qualche banconota. I compagni lo tenevano a distanza o, nella peggiore delle ipotesi, cercavano di tenerselo buono.

Pasztor II era l'esatto opposto. Non molto alto, grasso, bonario e giocherellone. Era amico di tutti, rassicurante nel suo sguardo amichevole, con una vocina stridula che contrastava con la mole robusta del corpo.

— Cazzo, non ci voleva —  imprecò Pasztor I.

— Dai, non fa nulla, tra qualche giorno riaprirà —  gli rispose il fratello, ricevendo in cambio un'occhiata torva.

Franti rimase in silenzio a fumare. Arrivava da un altro pianeta e guardava la scena con tranquilla curiosità.

— Ve lo avevo detto —  sbottò.

— Che cosa è successo a Mangiafuoco? chiese Pasztor I.

— Ha preso una pallonata sul naso che non gli permette di stare in piedi per più di venti secondi, poi si deve sedere e appoggiare la schiena. L'hanno messo in malattia e non c'è un custode di riserva. È stato Csonakos con un gran tiro a giro —  gli rispose Franti.

Nonostante non giocasse a pallone, gli piaceva andare a vedere i compagni di classe all'allenamento. Si presentava sempre vestito da damerino, con un paio di stivaletti di camoscio beige che rimanevano sempre lindi e vergini, anche quando pioveva e il fango occupava gran parte della viuzza per accedere alla panchina. Era sempre stata un mistero quella purezza degli stivaletti, e Franti ne andava orgoglioso, gridando e spingendo chi gli si avvicinava o addirittura tentava di infangarglieli di proposito.

— Che facciamo ragazzi? Si fa un giro in bici?

La giornata settembrina era ancora calda.

— No. Andiamo a casa —  gli rispose Pasztor I.

— Ok, Ok, sei nervoso. Avresti voglia di giocare a pallone ma non puoi. Impara ad aspettare il tuo turno. Dovresti imparare dalla Francy, che…

— Franti, vaffanculo. Vaffanculo e vaffanculo.

I due ragazzi non si sopportavano e quella provocazione studiata a tavolino colpiva sempre nel segno. Franti non aveva paura di quel bullo, lo teneva sulla corda e si faceva rispettare.

Pasztor II era seduto su un cumulo di terra e osservava muto la scena.

Franti sbuffò e si accese l'ennesima sigaretta.

In piedi, emettendo fumo con la bocca a culo di gallina, si atteggiava ai poeti maledetti dell'ottocento. S'ispirava spesso a Baudelaire, da una foto che aveva visto leggendo I fiori del male. Aveva trovato il volume nella libreria di sua madre e subito l'immaginazione si era incendiata. Amava la figura del dandy, così lontano dagli idoli dei ragazzini tutto calcio e Youtube.

— Imbecille, guarda che sta prendendo fuoco la sterpaglia —  gridò Pasztor I tutt'a un tratto.

Gli altri due si guardarono sorpresi per poi voltarsi verso quest'ultimo.

Pasztor I si alzò da terra e tutto agitato gridò di nuovo.

— Brucia tutto! Al fuoco!

Il cerino usato da Franti era finito su un piccolo rovo giallastro, seccato dall'arsura di quell'estate. La pianta aveva preso subito fuoco. La siccità dei mesi precedenti aveva inaridito tutto intorno al campo sportivo e Franti, come i bambini colti in flagrante, inizialmente reagì alzando le spalle fregandosene dell'avvertimento.

Il fuoco ormai aveva avviluppato quel piccolo rovo e si stava propagando intorno.

Franti si spaventò e corse verso l'incendio. Ci saltò sopra con veemenza, con le sue scarpe candide a punta. Impaurito, prese il giubbetto di renna e lo usò a mo' di coperta. Anche gli altri corsero lì, e cominciarono a saltare e a sputare.

Pasztor II prese della terra e la lanciò sulle fiamme. Come impazziti, tutti correvano cercando di arginare il fuoco.

Franti, sudatissimo e rosso in viso, cominciò ad ansimare. Respirava a fatica, perché non era abituato ai grandi sforzi. Si girò verso il portone per cercare dell'acqua, sperando di trovare un qualsiasi tubo di gomma, di quelli utilizzati per bagnare il campo. Fatica inutile dietro di loro c'era solo il cancello con quel maledetto cartello tintinnante.

Il fuoco si stava ormai propagando alle robinie lì vicine, e le piccole lingue giallo-rossastre cominciavano a salire sempre più, allargandosi di albero in albero. I tre si guardarono in faccia stanchi e sudati, inermi al cospetto del crepitare delle fiamme.

— Sei stato tu —  disse Pasztor II.

Franti sentì l'accusa del più buono dei due fratelli come un ago che gli si conficcava nel costato. Non disse nulla. Il giubbetto era ormai mezzo bruciato e le scarpe si erano sporcate nel tentativo di spegnere il fuoco. Gli s'inumidirono gli occhi. Volse lo sguardo intorno, smarrito e indifeso, mentre il calore cominciava a farsi sentire.

Tutti si precipitarono verso le biciclette. Una volta giunti sulla stradina sassosa, cominciarono a pedalare forte.

Superarono la salita con fatica, per imboccare poi la discesa che portava alla strada principale. Continuarono a pedalare a tutta forza.

In cinque minuti arrivarono sulla provinciale. Franti fermò gli altri due.

— Ricordatevi che siamo in tre —  disse veloce.

I due fratelli lo guardarono. Erano stravolti, la fatica e la paura aveva modificato i loro grezzi lineamenti. Rimasero in silenzio per qualche attimo e poi ripartirono verso casa. Franti li osservò pedalare a tutta birra e urlò ancora — Siamo in tre.

Ripartì, attraversando la strada senza guardare. Non passava nessuna macchina e così poté continuare la sua corsa.

Pedalava a tutta velocità, sentendo che le forze stavano per finire. Guardò verso sinistra e vide le fiamme che avviluppavano il bosco. Nel monotono mulinare delle pedivelle si guardava le scarpe sporche, sentendo una gran puzza di merda e di bruciato. Erano arrivate alla fine dei loro giorni e lui non sapeva come spiegarlo a suo padre e a sua madre.

Dopo un quarto d'ora arrivò a casa. I suoi genitori erano ancora al lavoro. Si diresse subito in cantina. Tolse le scarpe e aprì il rubinetto della lavanderia. Le mise sotto l'acqua, cominciando a pulirle. Prese una spazzola trovata sul pianale vicino alla lavatrice. Fregò con forza, gridando e piangendo.

— Dai, dai, bastarde!

In un primo momento sembrò che le scarpe stessero tornando alla loro antica purezza. — Daiiii, daiiii… —  gridava come un invasato. Poi cadde in ginocchio e si sedette contro il muro. La spazzola gialla aveva grosse setole di plastica dura e le scarpe ora erano tutte rigate. Pianse davanti all'irreparabile mutilazione del camoscio vellutato che le ricopriva. Ora sembravano stivaletti da vachero, macchiati e duri, gli mancavano solo gli speroni.

Dopo qualche minuto di scoramento riprese il controllo della situazione. Doveva cercare una scusa con i suoi genitori.

Sapeva che avrebbe dovuto fare l'attore, interpretare un ragazzetto che spaventato dalla visione di qualche piccola macchia aveva cercato di eliminarla e così facendo aveva combinato un bel guaio. Avrebbe dovuto essere pronto nel simulare l'angoscia provata pochi minuti prima. Doveva guardare negli occhi soprattutto sua madre con l'atteggiamento contrito di un povero disgraziato che aveva commesso l'errore e cercava perdono.

E il giubbetto? Lo aveva perso, oppure glielo avevano rubato. Con calma avrebbe pensato alle due possibilità.

Si accese una sigaretta e gettò il cerino nello scarico del lavello.

A piedi nudi, con i calzini azzurri a far bella mostra, sorrise e cominciò a pensare all'incendio. Era stata una giornata disastrosa e per il momento nessuno lo sapeva. Doveva studiare tutti i piani, prima che tutto il mondo ne avesse saputo, e lui avrebbe cercato di sfangarla.

— Aaaaahhhhhhhhhh! gridò a voce alta nella lavanderia e tutto rimbombò intorno a lui.

Non poteva rimanere fermo ad aspettare. Si rimise gli stivaletti modello vachero e riprese la bicicletta. Uscì a testa bassa per non incrociare lo sguardo di nessuno e ritornò sulla strada principale. Cominciò a pedalare impazzito, con il sudore negli occhi e lo sguardo fisso sulla strada.

In dieci minuti percorse quasi tutto il tragitto fino al campo sportivo. Da un lato la lunga distesa dei campi di granturco imbionditi dal sole di quella calda estate e dall'altro il rumore del fuoco, il suo leggero crepitare nelle fiamme alte che non trovavano ostacolo al loro avanzare. Il bosco indifeso soccombeva, illuminando di rosso l'orizzonte.

Proseguendo, incontrò un signore che conosceva di vista.

— Che è successo? chiese con il cuore in gola.

— E non lo vedi? Qualche coglione ha appiccato il fuoco al bosco. Gli taglierei la gola a un pirla simile! gli rispose l'uomo molto arrabbiato.

Franti lo guardò stranito e ripartì. Dopo una curva a gomito, intraprese un piccolo rettilineo. Al termine si apriva un incrocio. Ogni accesso era chiuso al traffico e molte persone erano accorse curiose a vedere lo spettacolo. Poco lontano si vedeva un grande capannone che stava per essere inghiottito dal fuoco.

— Che disastro, Dio che disastro. Un uomo si teneva la testa tra le mani e urlava.

I pompieri erano già in azione. Tre camion cisterna e un paio di vetture. Lunghi getti d'acqua erano sparati sulle mura pericolanti in fiamme. Si udiva chiaramente lo sbattere delle mucche terrorizzate lungo i rettilinei delle mangiatoie, un ammasso di carne e mammelle muggiva di dolore e di terrore. Anche le povere bestie stavano per essere divorate dal fuoco.

All'improvviso un raglio infinito sezionò l'aria.

Un asino, completamente avvolto dalle fiamme, correva impazzito nel recinto. Era riuscito a fuggire dalla stalla, con la forza della disperazione aveva trovato un pertugio e vi si era infilato. Il fuoco gli dilaniava le carni. Piange, pensò Franti impressionato. L'asino era diventato una torcia, si dibatteva rovesciandosi a terra, rialzandosi accecato e andando a sbattere contro il muro e poi ritornare verso la staccionata. Uno, dieci, centomila ragli perforarono le orecchie di Franti, che chiuse gli occhi in silenzio.

Ritornò verso la bicicletta e si rimise in strada. Ora la pedalata era leggera e armoniosa, sembrava che il mezzo si spostasse da solo. Rientrò a casa senza accorgersene, e la trovò ancora vuota. I suoi genitori erano sicuramente corsi sul posto dell'incendio. Si sdraiò sul letto, così com'era. Stanco e sudato, con gli stivaletti da vachero.

Li attese e appena sentì aprire la porta chiamò sua madre. Disse che aveva mal di pancia. Lei con la solita premura gli preparò una minestrina di riso. Mangiò in fretta e andò a letto. Era venerdì sera, aveva a disposizione un intero fine settimana per pensare al da farsi. Prese un foglio di carta e scrisse alcune regole. Doveva essere inflessibile e deciso nel seguirle.


- Stare zitto.

- Far finta di essere sereno perché l'accaduto non lo sfiorava nemmeno.

- Se le cose avessero preso una brutta piega, doveva negare tutto. Negare sempre.

- Doveva attendere qualche giorno, poi tutto si sarebbe calmato.

- Nell'eventualità di essere messo alle strette, avrebbe potuto ribaltare l'accusa verso i fratelli Pasztor. Avevano una fama poco raccomandabile che calzava a pennello con la situazione.


Si addormentò in un sonno agitato, pieno di mille colori, dove a tratti echeggiava il raglio disperato di quell'asino morente.

Il giorno dopo lesse l'articolo del giornale. In quell'incendio erano morte ventisette mucche e un asino. Fece finta di nulla a tavola, mentre i suoi genitori ne discutevano.

— Sarà stato uno delle giostre —  disse suo padre.

— Matteo, come fai a saperlo?

— L'ha detto Giorgia, la moglie del macellaio. Quando c'è qualche festa nei dintorni, puntualmente accade qualcosa di strano. Chissà come mai!

Sua madre guardò il marito e scosse la testa.

— Matteo, ho letto l'articolo attentamente. È stato un incendio fortuito, non c'è nulla di doloso. Per accendere un fuoco potrebbe bastare un fiammifero gettato così, in maniera stupida.

— Beh… sì… in effetti può essere come dici. Però Giorgia era sicura nel dire quello che diceva. Io le credo. Si è anche giocata i numeri al lotto: ventisette per le mucche, uno per l'asino e sessantacinque per lo straniero che ha appiccato il fuoco.

— Li hai giocati anche tu?

Sì.

— Allora speriamo di vincere —  rispose la madre.

Franti continuò a non parlare. La testa frullava come uno spremiagrumi nel tentativo di trovare un appiglio per cambiare discorso. Tanta era la paura di essere scoperto. Sua madre lo avrebbe perdonato ma suo padre sicuramente no.

Molto probabilmente aveva già fatto il solito comizio nei bar per addossare la colpa a qualche extracomunitario. Non sopportava i diversi e se fosse trapelato che dietro l'incendio c'era la mano di suo figlio, la frittata sarebbe diventata troppo appiccicosa.

Finito di pranzare andò in bagno.

Si guardò nello specchio. Sapeva che il raglio dell'asino lo avrebbe svegliato ancora nel cuore della notte. Era il suo destino ormai.

Pianse.

L'esile corpo era scosso da violenti colpi di tosse che cercava di soffocare con un asciugamano. Come si sarebbe comportato Baudelaire? Cos'avrebbe detto o non detto, si chiese.

Vomitò tutto quello che aveva mangiato.

Una volta svuotato lo stomaco si sentì leggero e libero. Si lavò la faccia e scoprì di essere forte, nonostante stesse scivolando in una voragine senza fine. Provò una sensazione di ribrezzo verso se stesso per la codardia studiata per deviare il corso degli eventi. Non è l'errore che fa piccolo l'uomo, pensò, e affermare la verità al mondo lo avrebbe salvato.

Uscì dal bagno e andò in camera. Doveva spiegare ai suoi genitori che le scarpe e il giubbetto si erano irrimediabilmente rovinati nel tentativo di arginare l'incendio. E doveva confessare la sua colpa, quella stupida leggerezza di gettare un fiammifero non ancora spento in quella selva gialla e secca.

Ora aveva solo bisogno di riposare e non pensare. Mise le cuffie e accese lo stereo. Una musica eterea gli riempì la mente. Guardò la copertina di Atom Heart Mother dei Pink Floyd. Sorrise amaro nel vedere la mucca che lo osservava.

Prima di immergersi nello spleen, si ripromise di andare dal sindaco a vuotare il sacco della sua coscienza. Era il padre di un suo compagno di scuola e di lui si fidava.


(fine)



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RobertoBecattini


Spacc!


Da quando era morto lo Zanchi, non ballavamo più. Era lui quello scatenato che andava ai concerti punk per ballare a spintoni. Si divertiva, ma se prendeva una spinta più forte si incazzava. Allora individuava il tipo e lo caricava come un muflone. Noi ci guardavamo, scuotevamo la testa e si diceva: — Spacc —, che voleva dire quello che prende i cazzotti. Infatti partivano le botte. Poi quando tornavamo in macchina mentre lui si toccava la mano insanguinata, ridevamo e dicevamo: — È spacc, afaa, aui —  e altre parole inventate da noi. Solo Agostino faceva sempre il bastian contrario. — No, spacc non vuol dire questo —  e noi lo cazzottavamo fitto. E gli urlavamo: — Sei spacc!

Effettivamente spacc ebbe sempre un significato vacante. Non voleva dire solo colui che prende i cazzotti. Cambiò significato quando lo Zanchi morì in un incidente con la moto. Eravamo in cerchio intorno al suo corpo, non mi ricordo se all'obitorio o all'ospedale. Lo guardavamo senza dire nulla. Poi uno disse: — È spacc! E allora proseguimmo per tutta la sera. — È spacc, aui, killo, kitti, afaa, Kev, zdrg.

Adesso spacc non significava più picchiato a sangue ma morto a cazzo. E tutti ridevamo contenti. Tutti tranne quello stronzo di Agostino.

— Ma perché se non ti diverti non te ne vai via? gli chiedevamo.

Ma lui ci guardava imperterrito e diceva: — Spacc non vuol dire morto a cazzo

— Allora cosa vuole dire idiota?

— Non lo so

Allora giù, cazzotti a non finire. Tornava a casa bello pesto. Intanto il Carrari era sparito. Da più di due mesi nessuno ne sapeva nulla. Credevamo fosse andato in Colombia perché era un demente appassionato di Escobar. Pensavamo che fosse spacc. Una sera camminando sotto l'arco di San Pierino lo vedemmo uscire da un cunicolo con gli occhi rossi e abbastanza fuori dalle orbite. Come ci vide ci venne incontro.

— Ragazzi c'ho il business, venite a vedere.

Ci infilammo in uno sgabuzzino. Il business era logicamente vendita di droga. Dopo qualche mese andammo a trovarlo in prigione. Gli avevano dato cinque anni. Aveva messo su uno spaccio esagerato, non si contavano più le persone che passavano da quello sgabuzzino. Nell'uscire dalla sala degli incontri non so chi disse: — È spacc — e tutti iniziammo a ridere e a dire: — Spacc, aui, aitto, afaa.

Da quel momento chi finiva in galera era Spacc. Non vi dico la reazione di quel deficiente di Agostino.

— No, spacc vuol dire altro.

— E tua madre maiala cosa vuol dire? E giù botte.

Poi toccò a me. Avevo conosciuto una ragazza. Suonava il violino e mi faceva vedere film d'amore in bianco e nero. Ai ragazzi dicevo: — Mi tocca passare tutti i fine settimana a guardare questi film, mi stronco le palle.

Quelli ridevano e mi prendevano per il culo, dicevano che ero un cafone. Che non mi meritavo una donna come quella. Ma che ci potevo fare se i concerti di canto gregoriano mi scioglievano le palle come candele? Il Rimba mi appoggiò una mano sulla spalla, ci fu una pausa poi disse: — Sei spacc —. E allora tutti insieme, me compreso: — Spacc, aui, afaa, all'inche, avvea —. Eh sì! Spacc aveva nuovamente un altro significato: cafone, ignorante, sottosviluppato, bestia. Comunque la lasciai. Una sera fu organizzata una festa. Era una specie di addio al celibato, anche se per la verità nessuno si sarebbe sposato, ma avevano dato gli arresti domiciliari al Carrari, perciò era baldoria. Nel gruppo furono invitate quattro prostitute. Due non erano male, ma per risparmiare ce n'erano altre due ai limiti della decenza. A turno o insieme ci alternavamo in un tour de force pornografico. Agostino riprendeva tutto con una telecamera. Quella ripresa sarebbe stata il nostro vanto. Alla fine della serata riproducemmo le nostre peripezie, ma la sorte ci aveva giocati. Non si vedeva niente. Non una minchia, non un seno, niente.

— Ragazzi ho fatto del mio meglio, non è facile mentre voi fottete, starmene qui con la telecamera —  si giustificò il pezzente. Però notammo che non era colpa della telecamera. Era stato l'idiota a non aver premuto il tasto rec. Mettemmo Agostino nel mezzo e lo riempimmo di cazzotti. Lo pestammo per bene finché non andò in coma. Lo caricammo in auto e lo portammo in un bosco. Lo gettammo in una specie di foiba, poi il gruppo si sciolse. Avevo un presentimento… Cambiai città. Incontrai una donna. Vissi con lei per un po'. Una sera tornando a casa la trovai con una lettera in mano.

— Che cos'è? chiesi

— Non so, ci sono scritte incomprensibili.

La lessi. Una frase: — Sei spacc

Fu lì che mi venne il primo capello bianco. La scrittura era quella di Agostino. Provai a contattare gli altri del gruppo ma non erano rintracciabili. Poi arrivarono le prime notizie. Matteo era morto durante una pesca subacquea infilzato da un pesce spada. Il Carrari di overdose. Il Rimba folgorato su un traliccio. A Ivan gli erano scoppiati i timpani e la scatola cranica. E io… penso che prima o poi toccherà anche a me. Penso ad Agostino. Forse aveva ragione, forse spacc vuol dire morto per mano di Agostino, o ucciso dallo spirito di Agostino, o forse Agostino vaffanculo!


(fine)



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Alberto Marcolli


E la chiamavano musica...


Una mattina di maggio del '72, dalle parti della London Victoria Station, i pochi ammutoliti passanti assistettero a un avvenimento davvero inconsueto. Ogni angolo della stazione, infatti, era letteralmente invaso dalla moltitudine dei ragazzi di Bickershaw, appena sbarcati da un centinaio di vecchi autobus, al termine di un viaggio apocalittico durato tutto il tempo di una rigida notte inglese.

I nostri eroi, coperti fino ai capelli da una fanghiglia sottile e compatta che aveva cancellato dai loro vestiti i mille colori della beat generation, rendendoli simili a maschere di creta, si trascinavano stremati, facendo appello agli ultimi brandelli d'energia per individuare la giusta direzione tra le mille possibili, in questa metropoli immensa.

Rammento che più tardi, se capitava d'incrociarsi nuovamente in qualche via o parco, anche molto distante da Vittoria, il riconoscimento era immediato, tant'era evidente che solo i reduci del festival pop di Bickershaw potevano vagare per la città conciati in quella maniera.


Tutto era partito dagli inviti assillanti di un tal Steve, promettente chitarrista inglese da me incontrato, nella passata stagione invernale, in una rassegna musicale molto nota in Italia. Scriveva e telefonava in continuazione, pregandomi di venirlo a visitare nella sua Londra, dove aveva fondato un nuovo gruppo, a suo dire dal successo garantito.

Alla fine riuscì a convincermi e prenotai l'aereo utilizzando la provvidenziale Student Card, che mi permetteva di viaggiare da Milano a Londra con sole dodicimila lire.

Masticavo un inglese forse un gradino superiore a quanto imparato a scuola, per via di alcune frequentazioni femminili, ma certo avrei potuto migliorarlo parecchio: un'opportunità, questa, che persuase i miei a lasciarmi partire, schivandomi le solite noiose discussioni.

Steve venne di persona all'aeroporto di Gatwick e con il suo pulmino Bedford mi accompagnò fino a Londra, lasciandomi con la solenne promessa di ritrovarlo il lunedì successivo al Marquee Club, dove avrei assistito, nel pomeriggio, alle prove del suo gruppo e poi ospite dello spettacolo serale.


Per combinazione ero rimasto in contatto con due amici, da un paio di mesi residenti in Inghilterra, ospiti di un'arzilla signora conosciuta rispondendo a un'inserzione. La benefattrice si chiamava Elise e credo fosse sulla cinquantina. Da poco separata dal marito, abitava con il figlio Adrian in una graziosa villetta con giardino a Finchley, quartiere a nord della città di Londra e, forse per solitudine, forse per nostalgia, aveva deciso di assumere, in cambio di vitto e alloggio, Enrico e Rolando come giardinieri e aiuto nei lavori domestici. Grazie a loro, la cara Elise accettò di ospitare anche me, versando un ridotto contributo spese: una bella comodità, in una città splendida ma assai costosa.


Diplomato in ragioneria per il rotto della cuffia, con un misero "trentasei", e bloccato in attesa dell'imminente chiamata alle armi, avevo escogitato un buon metodo per non pagare l'ingresso nei vari locali e teatri di Milano. Per conto di una casa discografica, il cui direttore era un amico di famiglia, osservavo e segnalavo, guidato dal solo fiuto personale, qualche personaggio degno di nota tra la miriade di complessini che allora spuntavano come funghi, un po' dappertutto. Da parte mia sfruttavo la situazione senza prendere troppo sul serio un incarico che con poca fatica mi aveva già permesso di conoscere mezza città e oltre. Mi era spesso sufficiente, infatti, mostrare il tesserino con il simbolo della Record Company e la scritta "agente artistico", per vedermi magicamente trasformato in un oggetto di desiderio, corteggiato in ogni modo.


La trovata di assistere al festival di Bickershaw era stata mia. Vi partecipava un numero notevole di gruppi, molti assai famosi e si trattava, quindi, di una ghiotta opportunità, che mi avrebbe consentito, in soli tre giorni di show continuato, da mattina a notte fonda, di ascoltare il meglio in circolazione: un compito impraticabile se avessi voluto inseguire tutti questi musicisti uno per uno, concerto per concerto.

Al ritorno dal festival avrei rivisto con calma i miei appunti e scritte decine di relazioni che mi avrebbero fruttato un bel gruzzolo, ripagando ampiamente i costi della vacanza.

Enrico e Rolando furono subito entusiasti alla mia proposta di barattare un loro aiuto nella valutazione degli artisti con l'ingresso gratuito e la copertura di una parte delle spese. Senza saperlo ci stavamo imbarcando nella più allucinante delle peripezie, in cui accadde l'impossibile salvo riuscire a scarabocchiare una sola relazione perché sarebbe stato un imbroglio clamoroso.


Prevedendo di servirmi, anche in terra inglese, del magico tesserino che si era sempre rivelato un lasciapassare infallibile, avevo giudicato opportuno non acquistare in anticipo i biglietti d'ingresso, limitandomi al solo viaggio in autobus, andata e ritorno, da Londra a Bickershaw. Autobus che ci depositò la mattina seguente davanti agli ingressi, dove, all'istante, esordirono le sorprese.

Il luogo era al centro di un enorme spazio vuoto, in prossimità di un pendio collinare. Solo prati e pascoli, nient'altro. Il villaggio di Bickershaw, ovunque esso si trovasse, era ben al di fuori della nostra visuale, mentre un robusto ondulato metallico, alto più di tre metri, isolava totalmente dal mondo esterno i partecipanti al festival. In aggiunta, un folto gruppo di poliziotti a cavallo sorvegliava i cancelli, pronti a intervenire al primo accenno di disordini.

Una pioggerella bastarda ci aveva già bagnato oltre il necessario e le code erano lunghissime. Dove e a chi avrei mostrato il mio pass?

Controllai a lungo la scena.

L'esperienza mi aveva insegnato che avrebbe dovuto pur esserci una seconda entrata, riservata a operatori e interpreti. Cominciammo allora a girare intorno alla recinzione, ma non era facile: pioveva e dovevamo camminare in mezzo a prati inzuppati, con le nostre scarpette di tela che affondavano fino alle caviglie.

Alla fine distinguemmo, dalla parte opposta, una strada che si dirigeva verso un secondo portone. Raggiuntolo, ci sostammo innanzi, scettici sul da farsi.

Sempre convinto di riuscire a non pagare, mi avvicinai a un gruppo di persone dietro al cancello e con il mio inglese stentato, cercai di farmi capire, dichiarando di essere l'agente di una nota casa discografica di Milano, incaricato, con due collaboratori, di scritturare per l'estate prossima dei validi musicisti per un gran tour italiano.

L'esagerazione era palese e questi tizi, accidenti a loro, non sembravano per nulla disposti a bere il mio racconto, ma semplicemente ridevano e parlavano fitto tra loro.

Preoccupato per la piega degli avvenimenti, non rinunciando, tuttavia, a sperare in qualche favorevole sviluppo, indugiavo pensieroso, mentre Enrico e Rolando mi spiegavano, con una punta di superiorità, che non eravamo in Italia, dove tutto si accomodava. Qui la gente era abituata diversamente: o si pagava con sonante moneta o si rientrava a casa.


Mi ero ormai rassegnato, quando uscì uno dei tipi con i quali avevo parlato. Avvicinatosi silenzioso, mi bisbigliò nell'orecchio che per tre sterline ci avrebbero accompagnati all'interno: il trasporto era offerto dagli addetti all'impianto luci, in arrivo da lì a pochi minuti.

Accettai immediatamente, raggiante di essere riuscito a farla in barba a tutti.

Arrivò un decrepito furgone e vi saltammo dentro dal portellone posteriore, sistemandoci tra una confusione di cavi e fanali, non prima di aver consegnato all'autista i tre pound pattuiti. Con tre brevi colpi di clacson il cancello si aprì e transitammo tranquilli. Trascorsi sì e no due minuti, il presunto elettricista ci fece cenno di scendere, proprio dietro ai tralicci del palco. Era fatta!


Primo dettaglio che causerà non poche complicazioni: eravamo entrati, questo era pacifico, ma privi di biglietto e impronta indelebile sul dorso della mano, eseguita utilizzando un curioso timbro a olio con il quale bollavano i ragazzi in transito all'ingresso ufficiale. Risultato: saremmo potuti uscire soltanto al termine dei tre giorni di festival.

Nel frattempo veniva giù insistente un'acquerugiola che pareva una nebbiolina autunnale.


Lentamente prendevamo contatto con lo strano pianeta nel quale c'eravamo catapultati, frequentato da una massa brulicante d'individui emaciati, dagli sguardi imbambolati e dai vestiti stravaganti. Qui avrebbero celebrato indisturbati i loro riti, mentre i poliziotti si sarebbero limitati a impedire ogni contatto tra loro e gli abitanti locali, garantendo a questi ultimi la possibilità di proseguire, ignari, la vita di sempre.


La prima necessità, per tipi come noi, accantonato per il momento l'ascolto della musica, che giungeva come un eco smorzato, tra queste colline spoglie e battute da un vento gelido, era capire cosa vi fosse di commestibile. Iniziammo così un laborioso girovagare tra banchetti carichi di mercanzie d'ogni tipo, scoprendo alla fine anche qualche cibaria, purtroppo molto lontana dai nostri gusti. Un miscuglio di piattini con cavoli, carote crude, patate lesse, rape, cetrioli e altro della stessa specie, in aggiunta a misteriose salsine colorate, davvero poco incoraggianti. Ma guardando e riguardando, spuntarono nientedimeno che dei ravioli al sugo, ahimè non fumanti su un elegante vassoio, ma freddi e ben tappati in un barattolo. Ci accorgemmo che alcuni volenterosi, aperto il contenitore, sistemavano i ravioli direttamente su delle grandi fette di pane bianchiccio, mentre Rolando, il più affamato del gruppo, osservò che la loro provenienza era italiana. A parte rari e timidi diversivi, furono il nostro pasto fino a domenica. Per colazione, invece, ci saziammo con ampie scodelle di caffè bollente e torta al rabarbaro che, riflettendoci, furono il ricordo più soddisfacente dell'intero festival.

Risolto in questo modo l'affare alimentazione, il cruccio successivo fu trovare una soluzione accettabile per il riposo, sprovveduti com'eravamo ad affrontare l'imprevisto di quel nostro ingresso rocambolesco. Si era immaginato, infatti, di poter uscire a piacimento dalla zona del festival e scegliere, con comodo, un economico alloggio in uno dei tanti bed and breakfast disseminati per tutta l'Inghilterra, quindi anche a Bickershaw. Peccato che la momentanea quanto scomoda posizione di clandestini limitasse grandemente la nostra libertà di movimento, e non ci restava che adattarci.

In un'area centrale, qualche anima pia aveva allestito un paio di tendoni, tipo croce rossa internazionale, unico riparo dalla pioggia e dal vento. Entrati, ci accomodammo con altre centinaia di ragazzi sull'erba umida, utilizzando come isolante delle scatole di cartone appiattite che avevamo scovato rovistando tra i rifiuti ammassati nel retro delle bancarelle. Il giorno dopo ci dotammo, per la modica spesa di una sterlina, di tre sacchi a pelo veramente originali, erano di cartone pure quelli. Pazienza! L'ultima notte, invece, si dormì, per modo di dire, sui sedili dello scalcinato autobus che ci riportava a Londra.

Rimuginando sulla struttura delle latrine, credo che i soldati nelle trincee della prima guerra mondiale fossero meglio attrezzati, ma viva i nostri vent'anni che quando scappa... scappa, e nessuno badi alla puzza.

A questo punto rimanevano soltanto le ragazze. Ce n'erano tantissime, tutte bionde, tutte altissime, tutte allegre, ma quella cosa era l'ultimo dei loro desideri. Stavano da mattina a sera sotto il palco, semi nude (la pioggia e le grandi folate di vento non erano un problema), a gridare e scuotere la testa come forsennate.


Musica: e chi ci pensava. Inutile, non riuscivamo proprio a lasciarci andare.


Arrivò domenica sera. Stanchi morti, non c'eravamo lavati né tolti i vestiti da tre giorni, ma alla fine suonò Gerry Garcia con la sua band americana. Era ormai notte fonda, e quando attaccarono con Dark Star, ci misero i brividi alla schiena. L'immensa collina era rischiarata da decine di falò, in lontananza bruciavano alti nel cielo dei grandi pali simili a croci. L'atmosfera era carica al massimo: dimenticammo tutto e ci buttammo nella mischia, fra un'ora sarebbe finita, si tornava a casa.


Finalmente eravamo al sicuro, nella nostra villetta a Finchley.

Sotto la doccia sognavo un vero english breakfast, con salsicce, patatine, uova strapazzate e tutto il resto.

Asciugato e rivestito, scesi in cucina, bloccandomi sull'uscio: non volevo disturbare la cara Elise che sapevo occupata nei preparativi. Poi, non resistendo alla curiosità, socchiusi cautamente la porta e sbirciai furtivo, attento a non richiamare la sua attenzione.

Appoggiate sul mobile, accanto al frigorifero, riconobbi all'istante delle forme cilindriche che speravo di non dover mai più rivedere. Erano quattro belle, grasse scatole d'Italian ravioli in tomato sauce, pronte da riscaldare a bagnomaria, non appena fossimo stati seduti nel dining room. Ecco qual era la colazione. Altro che english breakfast!


(fine)



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Giovanni p


Vrimka


La pelle blu di Vrimka emergeva, come un lago azzurro, dal candore della neve che, appena toccato il suo corpo, subito si trasformava in acqua e poi aria.

Il monte sul quale sedeva era costantemente battuto da raffiche di vento violentissime, la fatica per rimanere in equilibrio era costante.

Solo la sua barba metallica non subiva torsioni a causa del vento. Niente poteva smuoverla, a eccezione delle sue mani enormi e dalle dita lunghissime. La sua altezza ciclopica lo rendeva un essere unico nell'universo, il suo volto sereno e suoi occhi grandi gli davano un aspetto dolce e infantile.

Vrimka guardava la tempesta infinita biancheggiare, seduto sulla pietra nera e liscia del monte monolitico. Non sapeva da quanto tempo stesse fissando la tormenta che circondava lui e la montagna e sembrava non accennasse mai a finire.

La tempesta non lasciava spazio ad altri panorami se non al grigio in tutte le sue sfumature. Era sempre stato lì, non aveva altri ricordi e non conosceva altri colori se non il nero della pietra, il grigio sbiadito della tempesta e il blu cangiante dei lampi che, di tanto in tanto, squarciavano il cielo.

Non riusciva a vedere cosa ci fosse sotto le nuvole che avvolgevano la montagna, né aveva mai immaginato che potesse esserci qualcosa sotto a esse.

Nubi e lampi erano le sue uniche distrazioni, non c'era altro nella sua vita. Ma il suo destino non era quello di rimanere lì. Vrimka avrebbe viaggiato, misurando la sua anima contro forze ed esperienze che mai avrebbe pensato di sperimentare. Non fu lui a decidere di andarsene, di intraprendere quel viaggio che lo attendeva, ma il vento lo spostava in continuazione e la pietra nera sulla quale era seduto era liscia come il vetro, e scivolò. La sua caduta durò tanto, tantissimo, dandogli un'idea di quanto quel monte fosse alto. Più volte urtò i fianchi della montagna durante la caduta, ma il suo corpo era troppo solido per scalfirsi, perfino per fargli provare dolore. Rovinò con la schiena su qualcosa che la sua pelle non aveva mai sperimentato. Qualcosa di stranamente morbido.

Alzò gli occhi dopo la caduta e vide che la tempesta di nuvole grigie e fulmini era lontana e circoscritta alla sola cima del monte. Quello che era tutto il suo mondo adesso si riduceva a una piccola macchia nel cielo. Sopra di lui i lampi dardeggiavano, facendo brillare il monte nero. Per la prima volta in vita sua, rimaneva in equilibrio senza sforzi.

Le sue orecchie ebbero pace, vento e fulmini non le martellavano più. Il suo naso sentì per la prima volta l'odore acre dell'erba. Non era abituato agli odori, né al buio, ma gli piacquero entrambi. I suoi occhi contemplarono una meraviglia mai vista prima. Una luna enorme, gialla e intarsiata di crateri illuminava il bosco che lo circondava.

Fissando il buio iniziò a scorgere una miriade di piccole stelle che nel cielo nero brillavano ovunque, piccole e lucenti, fredde e lontane. La luce statica delle stelle e della luna si contrapponeva a quella fulminea dei lampi che aveva visto fino a quel momento. Vrimka voleva raggiungere quelle stelle, toccare la luna e camminare all'interno dei suoi crateri.

Non voleva tornare da dove era venuto, si era perso troppe cose e sentì che nulla gli era irraggiungibile. Si accovacciò sull'erba morbida e gli piaceva. Strappò alcuni ciuffi e assaporò l'odore acre che gli solleticava le narici. Il prato intorno a lui era circondato da una foresta di alberi dritti e alti. Il buio non aiutava a stimarne l'altezza, ma erano addirittura più alti di lui. Decise di entrare nel bosco. Gli aghi di pino risplendevano sotto la luce della luna e delle stelle. Lì vi dominava la pace. Il bosco s'infittiva e si diradava. Sembrava disabitato. Nessuno, tranne lui, ne respirava l'aria e calpestava il manto soffice che ne faceva da pavimento.

Lui solo esisteva. Lui e gli alberi. Lui e le stelle. Lui e la luna. Nessun suo simile gli si mostrò. Avrebbe voluto vedere un altro gigante blu, osservarne il volto e ascoltarne la voce. Sarebbe stato bello non essere soli, avere qualcuno che gli somigliasse, qualcuno che lo avesse fatto sentire meno perso e con lui condividere tutte quelle scoperte. La sua pelle blu risplendeva sotto le stelle come una bruma fra i tronchi, mentre avanzava in quel bosco incantato. Alzando lo sguardo verso le chiome degli alberi, vide una sottile linea di luce che, partendo dal cielo, raggiungeva la terra. Sembrava una corda di pietre scintillanti. Era una luce sottile, o almeno così sembrava vista da lontano, ma emanava molta più potenza rispetto a quella delle stelle o della luna. Indugiò a lungo con lo sguardo fisso su quella retta lucente.

Accarezzandosi la barba ferrosa, decise di avvicinarsi per vederla meglio. Notò che, a differenza della luna, toccava terra, quindi non serviva saper volare per vederla da vicino e toccarla. Avanzò in direzione della lama di luce. Quel bagliore stretto cambiava colore, assumeva sfumature calde o fredde, a volte più intense, altre più brillanti. Impiegò molto tempo per arrivare in prossimità di quella meraviglia e quando fu abbastanza vicino, notò che gli alberi intorno erano sostituiti da fiori viola.

La luce scintillava di fronte a Vrimka come un arcobaleno che da terra raggiungeva le stelle senza curvarsi. Provò a toccarla, e la sua mano sparì nel bagliore multicolore. Ritrasse subito la mano, ma poi provò di nuovo. Quel fenomeno non era dannoso, la sua mano era come sempre era stata, percepiva solo un piccolo formicolio. Toccò l'estremità di quella linea di luce e sentì che si apriva, come fosse una porta. Facendo forza il bagliore aumentò di spessore, e fu così che quello spiraglio di luce diventò un passaggio abbastanza spazioso da poterci accedere. Vrimka entrò nella luce rimanendone accecato e stordito, provando una serenità mai sperimentata prima. Il suo corpo blu non era più sotto le stelle e la luna, i suoi piedi non calpestavano più il prato fiorito. Era nel nulla, era nulla.

Cercò con lo sguardo se stesso, le sue mani e le sue gambe, ma non le vedeva. Non esisteva più, esisteva solo la luce. Poi il buio, poi se stesso. Al termine di quello strano viaggio si grattò la testa, poi istintivamente iniziò a massaggiarsi le tempie. Ripeté questa operazione più volte, con la massima delicatezza. Aveva finalmente capito quanto il contenuto della sua testa fosse prezioso. Durante il viaggio attraverso la linea di luce, tutto il suo corpo era sparito, tranne la sua coscienza. La coscienza abitava nella sua testa, da lì sentiva partire tutto. Era un tesoro inestimabile, più importante della sua altezza o della sua barba che tanto gli piaceva. Aveva coscienza di tutto grazie alla sua mente. Il cuore che sentiva battere dentro di se manteneva vivo il suo corpo, ma la mente era qualcosa di diverso. Si trovò seduto sulla sabbia.

Era successo improvvisamente, dalla luce alla sabbia sotto un altro cielo stellato. Notò che cinque lune verdi illuminavano il cielo ingioiellato di stelle.

Era un nuovo mondo chissà quanto lontano dal posto che aveva lasciato. La sabbia era sottile e calda, come una coperta. Lì il silenzio era totale, quasi assordante, poi un fulmine colorato si avvicinò lasciando dei disegni sulla sabbia. Quando il fulmine fu vicino, Vrimka notò che era vivo, aveva un muso, una bocca e due occhi.

— Chi sei? — Domandò Vrimka.

— Sono un serpente.

— Scusami. Non ho chiesto cosa sei ma chi sei.

— Io sono un serpente e so bene cosa sono e quindi chi sono.

— Intendevo il tuo nome.

— I serpenti non hanno nome. Tu per esempio cosa sei?

— Io sono Vrimka.

— E cosa sei?

— Di preciso non l'ho mai capito. So di essere un gigante blu, ma non so perché.

— Sai come ti chiami, ma non sai cosa sei. Ne sai meno di me.

— Ma ho un nome.

— Ed io consapevolezza.

Vrimka si sentì strano. Conosceva il suo nome senza che nessuno glielo avesse dato. Sapeva cosa fosse senza che nessuno gli avesse spiegato il perché. Non aveva mai visto un suo simile e non sapeva cosa fosse una madre. Pensò di aver perso troppo tempo a guardare una tempesta senza fine. C'era un universo da esplorare, sperava di avere abbastanza tempo per farlo. Guardò il serpente brillare e poi chiese:

— Dove siamo?

— Stiamo vivendo. Siamo sulla sabbia, sotto la luce delle cinque lune, — rispose il serpente.

— Perché ci sono cinque lune?

— Perché così è.

— Perché c'è solo sabbia qui intorno?

— Perché così è.

— Il cielo sopra di noi è il solito che stava sopra la foresta e sopra la montagna dalla quale sono caduto?

— Probabile. Il cielo è senza tempo e spazio, è ovunque nel solito momento. È sereno, stellato o nuvoloso sempre nel solito istante. Pervade e collega tutti i mondi che esistono. È universale, costante, senza tempo.

— Cosa mi ha portato qua?

— Immagino la luce. Attraverso la luce viaggia tutto, informazioni colori ed entità. Non sei il primo ad arrivare in questo mondo.

Vrimka guardò il serpente luccicare.

— Anche tu sei fatto di luce?

— No, io la posso immagazzinare attraverso la mia pelle.

Il serpente brillava di tutti i colori che esistevano in natura. Vrimka guardò la sua pelle blu prendere tonalità differenti, vicino a quell'essere fantastico. Sopra di lui le cinque lune verdi troneggiavano come degli enormi spettri rotondi. La sabbia fine e morbida era rimescolata di tanto in tanto dal vento.

— Sono arrivato qua attraverso la luce ma come posso continuare a viaggiare senza di essa?

— A quello posso porre rimedio io, — disse il serpente sibilando.

Vrimka sentì il suo torace gonfiarsi per l'emozione.

— La scelta sta a te. Vuoi continuare a viaggiare o tornare indietro?

Non sapeva cosa rispondere, né cosa fare. Del suo mondo conosceva solo il monte dal quale era caduto. Poco altro aveva visto. Cos'avrebbe potuto vedere altrove?

— Consigliami, — chiese Vrimka.

— Casa è sempre casa. L'ignoto può essere ricco di pericoli. Tuttavia alcuni viaggi ti portano così lontano che non conviene più tornare indietro. Bisogna andare avanti.

— Fammi viaggiare altrove allora.

— Saggia scelta.

Vrimka guardò per l'ultima volta le cinque lune, poi toccò il serpente e poco prima di sparire chiese:

— Dove andrò adesso?

— La luce non è il cielo buio, non è una costante, ma un moto. Andrai dove sarà lei a portarti.

Il serpente vide Vrimka sparire nel nulla, chiedendosi se avesse ascoltato le sue ultime parole. Quel viaggio fu strano e più lungo. Vrimka non aveva coscienza di sé né del suo corpo. Non ebbe le sensazioni estatiche del primo viaggio. Il buio era totale, credette di avere gli occhi chiusi, ma non era così. Nell'oscurità più totale scorse delle stelle, da lì intuì di non essere in viaggio, ma di essere arrivato. Non vedeva niente a eccezione di qualche piccola stella, neppure il suo corpo. Iniziò a muovere braccia e gambe e sentì che niente opponeva resistenza. Non c'era un sopra, né un sotto, né un davanti o un dietro. I rumori non esistevano, la sua pelle non percepiva nulla se non una strana sensazione di freddo. Iniziò a provare ansia. Dal punto di vista fisico era libero come non era mai stato, poteva muoversi in uno spazio dove non c'era nient'altro che lui. Urlò il suo nome, ma il suono che uscì svanì subito. Non c'era un eco, non ci furono risposte. Urlò di nuovo, e ancora, fino a che la gola non iniziò a bruciargli.

Dove lo aveva portato la luce? Perché in quello spazio infinito non c'era nient'altro che buio? Chiuse gli occhi, li aveva tenuti aperti per troppo tempo e gli bruciavano. L'unico punto di riferimento erano le poche stelle che brillavano minuscole. Doveva orientarsi con quelle, provare a spostarsi da un punto all'altro seguendole. Riaprì gli occhi e cercò un astro da seguire. L'ansia aumentò, le stelle erano così piccole che non riusciva a vederle senza poi perderle di vista. Iniziò a muoversi in una direzione, nuotando in maniera esagitata. Fece questo sforzo per molto tempo, senza che riuscisse a capire quanto tempo fosse passato. Fu il corpo a dirgli che si era agitato troppo. Era stanco, infatti, come mai avrebbe potuto credere di essere. L'ansia si trasformò in disperazione, urlò di nuovo il proprio nome fino a che la voce glielo consentì. Rilassò ogni muscolo del corpo, non doveva bruciare altre energie.

Poi a un tratto sentì qualcosa di strano. Qualcosa di invisibile, intangibile e inodore stava esercitando una forza su di lui. In quella posizione di totale scioltezza, sentiva che il suo corpo veniva trascinato. Pensò che non valesse la pena di opporre resistenza, qualsiasi cosa lo stesse muovendo. Fissò la direzione verso la quale stava scivolando, non c'era niente a parte il buio. Chiuse gli occhi, e fece attenzione a non contrarre i muscoli e dopo molto li riaprì.

Qualcosa simile a un fiore emerse nel nero profondo. Nuotò nel vuoto cercando di raggiungere quella meraviglia fatta di colori caldi e brillanti, inizialmente sembrava piccola, poi si rese conto che era solo lontana. Impiegò tutte le sue forze per raggiungere quel fiore luminoso nel nulla, e una volta che gli fu vicino si rese conto che non era un fiore, ma un'enorme nuvola fatta di colori che andavano dall'arancio al rosa. La struttura di quella gigantesca nuvola sospesa nel nulla era affascinante. Era fatta di sbuffi morbidi di polvere colorata ed era attraversata da lunghissime catene di fulmini. Vrimka era come un granello di polvere al cospetto di una montagna. Era uno spettacolo incredibile. La nube iniziò prima a brillare intensamente poi a parlare.

— Chi sei?

— Mi chiamo Vrimka.

— E cosa sei?

— Sono un gigante blu.

— Perché sei qui? Non viene mai nessuno qui.

— Sono caduto dal monte sul quale ho sempre vissuto. Dopo ho seguito la luce e ho visto mondi differenti.

— Non dovresti essere qui, io sto per diventare una stella.

— Qual è il problema?

— Distruggerò tutto quello che mi circonda.

Vrimka per la prima volta provò un sentimento nuovo, era la paura.

— Come posso salvarmi?

— Non lo so. Non posso più fermarmi ne tornare indietro. Diventerò luce, una fonte di luce e la mia luce viaggerà ovunque, raggiungendo i punti più lontani di tutto ciò che esiste.

Vrimka provò ad allontanarsi sempre nuotando, ma il fiore luminoso lo risucchiava. Era esausto.

— Io non voglio morire. Non so cosa succede dopo, non so nemmeno cosa significhi vivere. Sono rimasto sempre nel solito posto senza ricordare neppure come abbia fatto ad arrivarci. E ora che ho iniziato a viaggiare, non voglio morire.

— Mi dispiace davvero, ma io non ne ho colpa. Non dipende da me. Io esploderò e mi trasformerò in luce, che tu e io lo si voglia o no.

Vrimka chiuse gli occhi, rivide i tuoni e le nuvole del monte dal quale era caduto, poi gli alberi, le stelle, i fiori, la linea di luce, il serpente, le cinque lune, e infine il bellissimo fiore fatto di aria colorata e fulmini che lo stava per uccidere. Morire era un peccato.

— Possiamo tentare una cosa, — disse il fiore.

Vrimka spalancò gli occhi, forse c'era una via di salvezza.

— Prova a toccare uno dei fulmini che mi attraversano. Sento che la mia sostanza tende a comprimersi, ad avvicinarsi verso l'interno. Solo i fulmini emanano energia verso l'esterno. Se non morirai folgorato, il fulmine ti spingerà lontano da me, e forse ti salverai.

Vrimka non disse nulla. Lasciò che la forza misteriosa lo risucchiasse verso le nubi colorate che formavano quell'entità fantastica. Quando gli fu possibile, afferrò una catena di fulmini e lo shock lo sbalzò a una velocità straordinaria verso il buio.

— Addio Vrimka, — disse il fiore fatto di nubi, ma lui era svenuto e non poté sentire.

L'elettricità lo fece schizzare via a velocità supersonica. Svenne sul colpo e non ebbe tempo neppure di sentire dolore. Nel vuoto non trovò ostacoli che ne arrestassero la corsa. La velocità non diminuì e lui non riusciva a svegliarsi, forse sognava, forse no. Dopo molto tempo qualcosa rallentò la sua corsa. Vrimka si svegliò.

— Chi sei? Non ti ho mai toccato prima.

Qualcosa di sgradevole, di sporco entrò nella sua bocca e nelle narici. Riuscì a svegliarsi, la mano che aveva toccato il fulmine gli bruciava tremendamente. I suoi occhi vedevano solo grigio. C'era polvere ovunque, solo polvere sottile e cattiva che non lo faceva respirare.

— Mi puoi rispondere per favore?

— Non vedo nulla, — rispose Vrimka.

— Che significa vedere?

Vrimka non capiva, annaspava in quella polvere sottile e velenosa.

— Allora? Non capisco cosa sei.

— Non ti vedo, c'è solo polvere qua.

— Allora mi vedi perché io sono la polvere.

Vrimka provò a dibattersi, a nuotare, ma la polvere era ovunque.

— Lasciami respirare, per favore allontanati, — si lamentò Vrimka.

— Lo farei ma non posso. È la mia natura io sono il nulla. Io sono il non essere. Sono composto di tutto ciò che è morto o distrutto, la polvere è il residuo di pianeti e mondi divenuti polvere dopo essersi sbriciolati. Io vago nel nulla e distruggo tutto quello che incontro, avvolgendolo. Io divoro i mondi e li trasformo in polvere. Spengo le stelle e le trasformo in polvere. Soffocherò anche Vrimka e lo trasformerò in polvere.

— Ti prego non farlo, — implorò Vrimka.

— Non è questione di volontà, ma di natura. C'è addirittura chi ha provato a fermarmi. Erano delle entità strane, antiche. Ma la pazzia di uno di loro li ha distrutti prima che io li inghiottissi.

— Io ho paura, — gemette Vrimka.

— Lo sento da come ti dimeni.

— Io non voglio morire.

— Niente muore veramente. Tu diventerai polvere come i mondi e stelle che ho distrutto. Esisterai come polvere, vagherai nel nulla come polvere.

— Non potrò vedere nulla. Tu non puoi vedere, non puoi distinguere. Hai mai visto un mondo o una stella prima di distruggerli? No, non puoi, se no non li distruggeresti. Non soffocheresti i colori se tu potessi apprezzarli.

— Tu critichi l'architettura dell'assoluto, sei un idiota. È vero io non so cosa significhi vedere. Io sono quello che sono. Io sono sempre esistito. Io sono il silenzio del buio e che tu lo voglia o no finirai con me. Diventerai parte di tutto, del silenzio e della morte.

Vrimka ormai era sul punto di soffocare, la polvere stava vincendo un'altra delle sue infinite battaglie. Rilassò i muscoli e accettò la fine. Il grigio diventò nero e iniziò a non sentire più niente. Ormai i suoi polmoni erano pieni di polvere, non riusciva nemmeno più a tossire. Nel buio avvolto dalla polvere, l'unico gigante blu esistente stava morendo. All'improvviso le sue palpebre furono accecate dalla luce, il suo volto sembrò andare in fiamme e la speranza iniziò a pervaderlo.

— Vrimka, vieni.

Quella voce l'aveva già sentita, non era quella della polvere.

— La luce non può spazzare via la polvere, arrenditi anche te, non puoi nulla, — disse la polvere con tono apatico.

— Vrimka, apri gli occhi.

Con le ultime forze ubbidì. La luce era ovunque, la luce filtrava fra la polvere, la luce disperdeva la polvere.

— Chi sei? — Domandò Vrimka alla luce.

— Il mio tuono ti ha scacciato e ora vengo per salvarti. La luce non tollera il silenzio, non tollera il freddo.

La polvere si stava diradando, ormai non era più densa come prima.

— E tu polvere va a creare nuovi mondi. Crea nuovi pianeti. Crea nuova vita! Diventa densa, diventa utile, io ti do l'energia per farlo.

La polvere s'infiammò, e iniziò a girare su sé stessa prima in un gigantesco vortice e poi in altri mille più piccoli.

— Vieni Vrimka, è ora di andare.

Vrimka viaggiò prima verso la luce e poi attraverso essa. Sentì la sua voce senza capirne le parole, come una melodia sconosciuta. E infine fu buio.

Dischiuse gli occhi e vide sotto i suoi piedi la pietra nera e liscia del monte dal quale era caduto. Ma in cielo un'enorme stella illuminava tutto ciò che riusciva a vedere. I fulmini e la tempesta che aveva sempre visto dalla cima della montagna si erano dissolti. Il cielo non era più nero ma azzurro.

La stella che lo aveva riportato a casa splendeva su tutto il suo mondo. Vrimka non riusciva neppure a guardarla. Il suo bagliore era accecante, il suo calore irradiava tutto. Intorno a lui i colori erano per la prima volta brillanti e vivaci, nuovi e affascinanti.

— Sei di nuovo a casa.

— Sì, ma è tutto nuovo.

— È il tuo nuovo mondo, gigante blu. Tutto ti appartiene, ogni tuo respiro sarà una nuova scoperta. Ogni tuo sforzo la costruzione di nuovo mondo. Io sarò sempre con te, sarò il tuo giorno, la tua forza. Donerò energia a tutto ciò che vive su questa terra, e la vita vincerà sul nulla.

Vrimka si sdraiò sulla pietra nera, chiuse gli occhi, sorrise e lasciò che la luce scaldasse la sua pelle, le sue ossa e il suo cuore. Sentì l'energia della luce invaderlo, il suo sangue ora caldo scorrere. Si alzò in piedi e stavolta scese il monte senza che niente, a parte la sua volontà, lo buttasse giù.


(fine)



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Namio Intile


Nόστοι, Ritorni


Prima di giungere alla villetta sulla Universitätstraße di Marburg, la strada saliva verso una scena senza prospettiva che pareva un fondale dipinto contro il sole morente di novembre.

Dalla finestra di fianco alla porta mi fermai a osservarlo mentre sorseggiava del whisky seduto alla scrivania, immerso nell'alcool quanto nella soluzione della congettura di Goldbach supposi, alla ricerca di un risultato per quel problema su cui da mesi si frangeva la sua caparbietà.

— Dovrebbe esserci un esperimento mio lì — riuscii a decifrare dal movimento delle labbra.

E il mio pensiero scivolò sull'LHC di Ginevra, l'anello sotterraneo dal diametro di ventisette chilometri, terminato di costruire nel 2008.

Mi decisi a bussare.


La donna di mezza età, esile elegante, tamburellò con l'indice sul microfono per reclamare il silenzio.

Le voci in sala si sopirono, in breve si spensero del tutto.

Col sorriso più largo che il suo minuscolo e proporzionato viso potesse offrire, annunciò: — Today is the day — alla marea di scienziati, di giornalisti, di semplici curiosi assiepati in platea.

— Oggi, ventuno maggio 2015, a Ginevra, il Large Hadron Collider ha raggiunto per la prima volta l'energia di tredici tera electronvolt — continuò, nel suo inglese dall'accento bretone.

— E un rivoluzionario esperimento alle alte energie ci ha permesso una scoperta straordinaria.


— Chi diavolo sarà a quest'ora? — Lo udii lamentarsi mentre mi apriva.

— Signor Velez — rispose in italiano, chinò il capo e nell'indietreggiare incespicò. — Io… Non l'aspettavo — balbettò in evidente imbarazzo.

— Ich bin gekommen um sie an ihre Pflichten der Treue zu erinnern — Sono venuto a ricordarle i suoi doveri di fedeltà, mi limitai a dire, e gli porsi la mano destra.

Ego Wenger chinò il capo in avanti e con le labbra sfiorò il minerale opalescente perfettamente sferico inanellato all'anulare sinistro.

Entrai, e mi offrì la migliore seduta a disposizione.

Non feci in tempo ad accomodarmi che ebbe fretta di farmi sapere: — Voglio che lei si renda conto, signor Velez, di quanto le sono grato per il denaro con cui ha finanziato i miei studi, per la cattedra in questa prestigiosa università, per la casa, voglio dire… per ogni singola cosa — si sentì in dovere di ringraziarmi. — Ich schulde ihr alles — io le devo tutto, ammise, ed esibì una sorta di reverenza.

Lasciai che un vago sorriso mi increspasse le labbra insieme a una scrollata del capo, che significava: Verrà il momento per rendere il debito.

— Si segga, Herr Wenger, voglio metterla al corrente di una storia mai scritta — proposi, e picchiettai col palmo il cuscino di fianco al mio.

— Lei sa qualcosa della campagna di Russia, Herr Wenger?

Incredulo posò il suo sguardo sui miei occhi verdastri e incerto rispose: — Quel che tutti sanno, ritengo: l'invasione nazista partì nel migliore dei modi, ma si arenò in Ucraina perché Hitler venne ucciso in un attentato, se ben ricordo mentre era in visita a Kiev nel 1941; e con lui furono eliminati anche Mussolini e Himmler. Göring si ritrovò solo al potere...

— Già, per quanto fosse stato uno dei primi a credere in Hitler, quel morfinomane si era persuaso che quella guerra non potesse esser vinta e giunse a un armistizio con le potenze alleate: la Repubblica venne restaurata.

Ego Wenger chinò il capo, indeciso se replicare.

Gli porsi una vecchia fotografia, di un uomo in divisa da SS.

— Lo conosce?

— Dovrei? — Replicò risentito, e le labbra si contrassero in una smorfia colla quale si manifestò la sua insofferenza.

— Non usi il sarcasmo con me, Herr Wenger, non si confà alla sua posizione.

— Mi perdoni, signor Velez, non era certo mia intenzione — si difese — tuttavia no, non sono in grado di conoscere l'identità di quell'uomo. Seppure, a ben vedere i lineamenti… mi dia un istante per controllare —  si scusò, e si mosse per raggiungere il portatile.

Dopo qualche momento si presentò, con l'aria frastornata, e mi mostrò una pagina HTLM. — Quel volto mi diceva qualcosa… e infatti: si tratta di Felix Bloch, svizzero, primo direttore del CERN di Ginevra, dal 1954 al cinquantasei; o almeno, Bloch somiglia maledettamente all'uomo della sua foto. Però com'è possibile che sia proprio lui? — Si domandò. — Bloch nel 1952 aveva già vinto il Nobel, era amico di Heisenberg e Schrödinger, mentre il suo uomo pare un generale nazista.

— Non proprio, era uno Standartenführer delle SS, l'equivalente di un colonnello — precisai. — Tuttavia si trattava ugualmente di un uomo influente; eravamo amici, sa? — Gli rivelai — E cresciuti insieme fin da piccoli io e Manfredi… o forse dovrei dire Felix Bloch.

— Si vuol burlare di me, signor Velez? Lei non può essere tanto vecchio.

Mi scappò un sorriso e con un cenno lo invitai a pazientare. — Il vero obiettivo dell'attentato del 1941 non era il Führer, o il Duce, o Himmler, ma colui che lo aveva ideato.

Lasciai che mi fissasse titubante. — Vuole dire che... il reale bersaglio era l'organizzatore dell'attacco? Ma perché poi? — Osservò, carico di scetticismo. — Mi pare comunque di ricordare che la mente fosse quella di un nobile bavarese, un alto ufficiale della Wehrmacht: Michael von Poshinger, se non erro.

Non riuscii a trattenere un fremito. — L'ideatore dell'attacco si chiamava come me — gli svelai: — Ludovico Velez.

— Mi perdoni, ma... io proprio non la seguo.

— Non è necessario che adesso lei capisca, ma che rammenti. Come tutti lei pensa il tempo in modo lineare, Herr Wenger, nello svolgersi di una successione immodificabile: passato presente futuro sono un concetto, frutto di migliaia di anni di metafisica teologia fisica, che accompagna ogni pensare il mondo. La Natura ama nascondersi, Herr Wenger. Se io le dicessi che ciò che è esiste all'interno di un orizzonte estatico non le direi nulla. Non mi aspetto che adesso comprenda, ma solo che mi ascolti.

Πάντα δε πόλεμοϛ iniziai, e continuai a raccontare finché non sentii il ticchettio dell'orologio da tasca. E mi trovai di nuovo dentro il tempo.

— Ecco il mausoleo di ogni speranza, lo prenda — dissi per congedarmi, e glielo porsi.

— Le sono molto grato, ma...

— La guerra tra Einai e Ananke è senza tempo, Herr Wenger, anzi si svolge al di fuori del tempo; non le regalo questo orologio perché possa ricordarsi del tempo, ma perché possa dimenticarlo e non commettere l'errore di assecondarlo. Mi metterò io in contatto con lei, quando arriverà il momento. Nel frattempo, dia un'occhiata a questo volume.


Ego Wenger aprì il piccolo tomo dalla spessa copertina di marocchino: la carta sembrava antichissima, ma i caratteri di stampa erano senza dubbio moderni.

Il tempo ci trascina in un'unica direzione, pensò, non si torna indietro, è impossibile.

E fu invaso da un misto di sconforto e di rabbia.

— Sento la necessità d'abbandonarmi a ciò che è — lesse ad alta voce. — Da tempo gli esseri umani hanno dimenticato di non essere altro che un ente che riflette sul proprio esser-Ci; portare alla luce la latente potenza di questa dimenticanza, attraverso un ricordo di essa in quanto dimenticanza, è in ciò la risonanza di ciò che è.

Cosa diavolo volevi dirmi?

Ed esasperato si affacciò dalla finestra cercando conforto nel cielo stellato.

— È così assurdo chiedersi perché quando si pronuncia la parola necessità si pensi a qualcosa di negativo, come se fosse una sventura? E, al contrario, l'assenza di necessità è vista come un bene, specie dove si attribuisce importanza alla fortuna e al benessere? Che invece si mantengono solo grazie all'ininterrotto rifornimento di quanto è godibile e utilizzabile, che si incrementano per il tramite unico del progresso: che di conseguenza si fa esso necessità, diviene esso stesso il nostro unico destino: Ananke, la Necessità che ci costringe a procedere per quell'unica via dimenticando Einai.

Viviamo in un'epoca in cui l'incanto non ce lo regala più ciò che è, ma il solo progresso e la tecnica: che si superano di continuo puntando tutto sul calcolo, sulla funzionalità, sulla maneggevolezza, sull'utilizzazione. Nel progresso è insita l'idea di miglioramento, e attraverso il miglioramento la tecnica si assicura il dominio più incontrastato e inappariscente che sia mai esistito sulla faccia della Terra; si innalza il livello medio, ma allo stesso tempo, inquietantemente, scompare lo spazio per le domande e per la decisione, segno dell'abbandono di ciò che è. La tecnica è il mezzo che si fa fine, l'assenza di necessità che diventa necessità, e lascia svanire tutte le mete, le uniche che trasformano l'uomo e gli conferiscono un senso; senza un senso la vita si trasforma in angoscia e, preclusa qualsiasi decisione, sboccia e si propaga il nichilismo, il trionfo più grande di Ananke.

La tecnica moderna non ci è stata donata da Prometeo, ma da suo fratello Epimeteo.

E questa umana assenza di mete trasforma in schizofrenia il nostro affannarci sulla superficie di questa palla di fango che chiamiamo Terra, il cui unico scopo si riduce al ruotare intorno a un grande nulla infuocato che si muove non si sa per quale motivo insieme a miliardi di incandescenti altri nulla, in un distillato di pura angoscia esistenziale.

Credo che succeda per via di questo stato di cose, di questa indeterminatezza, di questa impossibilità di scegliere, di prendere una decisione per imboccare una strada che abbia un senso, che la scrittura moderna si mostri tanto ambigua, priva di direzione, di respiro, anche sintattico e lessicale, di orizzonti, e non sappia far altro che concentrarsi sull'individuo, uno qualunque non importa: che sia un povero fruttivendolo o un oscuro agente di commercio, un arrapato avvocato o un poliziotto fascista, una mignotta o un anatomopatologo allergico alla formalina, un ricco finanziere o un ottuso specialista nell'asportazione di gliomi e astrocitomi.

E l'in-dividuo, ciò che non può esser diviso, viene invece fatto a pezzi, smembrato e analizzato, e i suoi organi, persino i suoi pensieri, trattati come un qualcosa di non umano.

Anche lo scrittore scrive scambiando i mezzi per i fini: non per comunicare, mostrare, pensare o criticare, ma per il denaro, per sostenere una traballante autostima, per l'avidità di elogi: alle volte per un compulsivo istinto, che lo costringe ad apparire attraverso la scrittura e non invece mediante un'arrampicata sulla parete nord del Cervino...


E nauseato l'abbandonò sulla scrivania.

Che magnifico sentimento il disprezzo, pensò. Come in quel romanzo italiano che una volta aveva letto.

E la considerazione gli illuminò il volto. Sottile, spigoloso, tutto naso, e con piccoli occhi scuri accesi da una luce torbida e profondi come le tenebre.

Ego Wenger di professione faceva il fisico, con una specializzazione in particelle elementari. Cose tipo neutroni e protoni, ma anche quark e bosoni, misteriose presenze a cui la stampa internazionale tributava onori occasionali ogni qual volta capitavano fantasmagoriche, eccezionali, sensazionali, incomprensibili, nuove scoperte.

Ed era ateo. Pensava che dio, o Dio, fosse solo un'emanazione della mente umana e la religione nient'altro che un comodo strumento per offrire struttura a ciò che ne era privo; ma ciò solo nel migliore dei mondi possibili. Anzi, disprezzava chi credeva in Dio, anche se era un dio qualunque, a conti fatti un dio buono e inoffensivo che aveva a cuore soltanto il benessere del genere umano e dell'universo intero; lo riteneva insensato, e da anni lavorava alla teoria delle stringhe come teoria del Tutto, per poter dimostrare che un dio, o quel Dio, proprio non esisteva.

Infiniti universi in infinito tempo, questo cercava.

Che motivo d'un dio può mai esistere là dentro?

Per Ego Wenger nessun essere soprannaturale si nascondeva nelle sue equazioni: nessun ente divino governava gli infiniti universi in infinito tempo: nessuna chiave della creazione, a meno di un mistero buffo. L'ultimo atto della metafisica è la morte di Dio, scriveva Nietsche.

Quella sera gli venne in mente così, forse a causa di Ludovico Velez, del suo orologio o del suo libro, o per merito di quel whisky invecchiato dodici anni in qualche barrique bordolese da duecento litri più la parte degli angeli. E se ne andò a dormire beato, dimenticò tutto: l'università di Marburg, il Sogno d'amore di Liszt, le riflessioni su Dio e sulla metafisica di Nietsche, sull'idealismo di Hegel, l'esistenzialismo di Heidegger, la fenomenologia di Husserl. E quel libro tanto imbrogliato lasciatogli dal suo misterioso anfitrione: forse un capolavoro, tanto da meritare il Nobel per la letteratura, o forse per la fisica. Un testo profondo, un po' com'era l'ateo Ivan Karamazov, e anche genuino, come il suo santo e devoto fratello Aleša, preciso e razionale, quanto il saggio di Hoffstaeder che accomunava le opere di Escher a Bach e a Gődel: denso di spirito critico, come i testi del Montano che esaminavano le diatribe tra Sartre, Camus e Merlau-Ponty sulla validità o meno dell'uomo in rivolta e sul liberismo e il marxismo, il post-strutturalismo o la rilevanza dell'Essere: dall'approccio inusuale, come le Dialettiche dell'Illuminismo e Negative: poetico, come le liriche di Antoine Madrid su Parigi: realista, come il Contesto di Sciascia: originale, come quella rivista letteraria dal nome altisonante: Il guardiano del faro.

Ma quale faro? Si svegliò di colpo con quel tarlo in testa e non gli rimase altro, per passare la nottata, se non di sorseggiare una tazza di camomilla aromatizzata con del Cointreau.


Qualche giorno dopo (o forse prima) a un congresso di fisici teorici e delle particelle, a cui s'era aggiunto un nutrito manipolo di cosmologi e di matematici sperimentali (che il cielo li abbia sempre in gloria per quanto sono astratti e fluttuanti, come particelle di Planck), lo arrapò un desiderio nitido e nettissimo di rum. Non di uno qualunque, ma di quello secco e scuro che distillano a Port au Prince e che sa di tabacco più che di canna da zucchero. Le Diable si chiamava quella bottiglia dall'etichetta nera con su stampato un cornuto rosso con la coda a punta e, nel bar dell'hotel dove si teneva la conferenza, gliene servirono quattro bicchieri di fila, da buttare giù uno appresso all'altro.

Quando tornò nella sala, con un sorriso ebete ben visibile, si decise a seguire il relatore numero otto. Diversamente dai congressi medici, foraggiati da miliardarie case farmaceutiche prodighe nell'elargire gadget inutili o utilissimi regali insieme a pranzi meravigliosi in luoghi esotici o in città d'arte con hostess prorompenti ad assecondare ogni più piccolo desiderio, i congressi dei fisici consistevano in tristi adunanze per stempiati iniziati quasi sempre autofinanziate dal club degli iniziati stessi. Si pagava quel che si consumava insomma. Hotel squallidi in apatiche città di provincia nella speranza di risparmiare qualche centesimo. Di euro, di dollari o di yen faceva poco la differenza.

Ma perché il denaro è tanto scarso? Si distrasse ancora Ego Wenger.

Che aveva letto Smith e Ricardo, Malthus e il Kuznets dell'ingannevole curva della crescita, Il Capitale di Marx, con la sua terribile profezia della caduta tendenziale del saggio di profitto, e quello posteriore di quel professore della Sorbona di cui non ricordava mai il nome: solo per provare a entrare dentro la Mente dell'Imperatore. E sperava di non aver capito. Perché gli pareva assurdo che si trattasse solo di un fattore legato all'avidità umana. Che il sistema economico che governava il mondo degli uomini fosse del tutto identico a quello degli scimpanzé: io mangio tu no. Orgogliosamente mosso e motivato da un paio di irrazionali sentimenti, di quelli che hanno origine nel cerebro primitivo, detto rettiliano per l'appunto, e neanche dei più pregiati: l'avidità e l'invidia. Roba da sette peccati capitali, da sette piaghe d'Egitto e altre atrocità essenziali del Vecchio Testamento, della Torah nonché del Corano e di quel magnifico poema indiano dal nome impronunciabile. Però, a quanto ricordava d'aver udito dai numerosi esegeti, il detto sistema funzionava assai bene ed esistevano un mucchio delle sue care equazioni, adoperate con perizia e diligenza dal fior fior di questi sacerdoti in giacca e cravatta, a giustificare (con la razionalità), più che garantire, il funzionamento di un motore tanto meraviglioso e il propagarsi dell'ordine precostituito: pochissimi ricchi, tantissimi poveri.

Nel sistema delle sfere perfette di Tolomeo niente era più puro e meritevole di attenzione e venerazione di un cerchio, di una sfera: il simbolo della perfezione dell'Essere, di Einai, ora ricordava, lo aveva visto all'anulare di Ludovico Velez.

Ma chi era quell'uomo? Da dove veniva?

— Se ho tempo le verifico queste equazioni — decise al quinto rum, un Tio Pepe filippino questa volta, mentre un altro barman barbuto lo squadrava di sottecchi, forse perché non aveva usato il sottobicchiere e macchiato il finto marmo del banco con una sfera perfetta. O forse perché gli stava antipatico e basta.

I fisici sono quasi tutti uomini, come i matematici. Nessuna bella dottoressa in medicina e chirurgia a leggere relazioni: nessuna figlia di Venere a illustrare alla platea le ultime tecniche di laparoscopia ginecologica, pensò. Nessuna sottomissione.

Si rannicchiò sulla sedia di plastica rossa col banchettino snodabile e si sforzò di ascoltare delle vicissitudini di un esperimento eseguito con l'LHC di Ginevra, che per amor di serendipità aveva aperto le porte a un'altra incredibile scoperta e svelato l'ennesima effimera, ipotetica, verità scientifica, pronta a essere confutata al successivo esperimento.

Odio le donne, gli venne da pensare, soprattutto quando sono a capo del CERN. Odio le donne, perché non riesco a farmi finanziare un esperimento decente da portare al cospetto di sua Maestà l'LHC, nonostante gli appoggi di Ludovico Velez. Odio le donne, perché mi trovano noioso e antipatico e non mi guardano neanche in faccia. Odio le donne, perché non riesco a scoparmene una senza dover pagare.

E si rassegnò a far ricorso all'ultima risorsa possibile: una fiaschetta di gin gallese che teneva di riserva nella tasca interna della giacca.

— Ego Wenger? — Si fece avanti un tizio dall'accento farsi o forse pashtun, dall'aspetto persiano o potrebbe darsi khorasanita come quell'Assad ibn al Furàt.

Fece segno di sì, e con disprezzo scrutò quegli occhi verdastri incorniciati dal kajal.

Ripeté dentro di sé di non nutrire esigenza alcuna di vedere una faccia barbuta e musulmana, adoratrice di un libro nevrotico, a meno di un metro dalla sua e poi si perse ancora in fantasie con congressi pieni di medichesse che lo applaudivano con l'intento di portarselo a letto.

Il tizio parlò, lo sentì ma non lo ascoltò, abbassò la testa e mormorò qualche davvero nella stessa lingua con cui il tizio gli parlava. Poi lo sconosciuto affondò la mano in una tasca e ci frugò dentro.

Dio santo, pensò, Ego Wenger. È un maledetto terrorista, e adesso mi sgozza.

Ma al posto del coltello gli sembrò di vedere una pen drive.

Perché diavolo me la sventola davanti al naso? Come fosse una scimitarra affilata, pensò irritato.

E si sentì come il Salman Rushdie dei Versetti Satanici: pronto a sacrificarsi per la libertà d'espressione.

Lo sconosciuto gliela offrì.

Afferrò l'oggetto e con un sorriso gli garantì la sua futura attenzione.

Si meravigliò d'esser lasciato in pace tanto facilmente senza neanche la fatica di dover mentire un indirizzo email, e tranquillizzato si alzò per un altro salto al bar.

Aveva voglia di qualcosa di dolce adesso, e al barista antipatico ordinò uno Slivovitz, che non aveva, e poi si accanì chiedendo una Rakija, che gli mancava pure. Adocchiò una bottiglia di Boroviçka mezza piena e non fu contento finché non l'ebbe svuotata, quindi tirò fuori il libro di Ludovico Velez dalla borsa.

Odio quando l'autore si rivolge al lettore e magari gli strizza l'occhio, pensò. Ma questo è un racconto poi? O una storia vera? Si dice così per dare credibilità alle più incredibili stronzate, gli venne da ridere.

E per poco non eruttò le bacche di ginepro e il rum ben schakerati insieme nel calduccio dello stomaco.

Eppure sembra un saggio, o un manuale, a volte una monografia o un paper review.

— Mi è successo prima che diagnosticassero un astrocitoma diffuso nell'emisfero destro. Mi guardo allo specchio e somiglio a Nicanor Parra con la barba, la prima poesia latinoamericana che ho letto è Viaje a Nueva York di Ernesto Cardenal. Ma in lingua spagnola preferisco Tigre y Paloma di Garcia Lorca, soprattutto se dopo leggo Fontamara di Ignazio Silone. Georg Simmel scriveva che chi possiede un segreto, un segreto qualsiasi, possiede un'arma. Un'arma formidabile.

Mica scemo quel Simmel, pensò.


Quando inserì la chiavetta nel computer apparirono delle equazioni in un campo pluridimensionale.

Chissà che mi aspettavo, fu la sua unica riflessione.

Rimase immerso per ore, giorni, settimane, mesi in quell'universo simbolico e probabilistico. Non era un'ipotesi. Non era uno studio.

Era matematica che non poteva esistere sulla Terra, in questo Universo, o almeno in questo Tempo.

Un passero tagliò il sole di sbieco, si posò sul davanzale e alzò la testa verso di lui.

— Tu sei il diavolo, oppure Dio — ruggì.

Corse alla ricerca della sua riserva segreta: un cognac invecchiato venti anni, d'un deciso colore ambrato, dall'aroma legnoso di ciliegio, dal sapore delicato, persistente, duraturo, dal magnifico aroma di vaniglia e rovere, di ribes e pesca, — anche se è perfettamente inutile spiegare cos'è il cognac a degli astemi che ignorano la meccanica quantistica.

È lui il mio bianconiglio? Quel barbuto dall'aspetto mediorientale e dall'accento di Tabriz o di Shiraz o di Mazar i Sharif?

Sistemò sul piatto il primo coro della Passione secondo Matteo e ascoltò quella perfetta architettura armonica e impareggiabile consistenza melodica mentre invadeva la stanza.

— Neanche Bach è riuscito a farmi credere in Dio — mormorò. — Ma nelle equazioni di quell'angelo barbuto l'ho trovato, quella processione armoniosa di simboli dimostra che Dio esiste e ha creato il Tutto.

Da lontano vide Scriabin comporre il finale della sua seconda sinfonia e Jacob Gershowitz con Antonìn Dvořàk sulla Quinta Strada, incontrò Rachmaninov a San Pietroburgo e ascoltò Einaudi suonare Oltremare per la prima volta.

Dio ha creato la Terra per far nascere Bach, è lapalissiano in fondo. Ludovico Velez aveva ragione.

— Noi esistiamo in un orizzonte estatico.

Ma ogni edificio teorico ha bisogno di esser dimostrato.

Dopo aver tirato il tappo a uno Chateau Lafitte del '92 iniziò a scrivere la relazione per un esperimento all'LHC di Ginevra, nella speranza che quella maledetta donna gli dicesse di sì.

Mentre lo faceva gli sembrò di essere uno di quei magnifici bari che si possono ammirare a Forth Worth, e quella donna assunse la consistenza della Madonna del Magnificat di Botticelli.

Anzi, tutte le figure femminili adesso gli apparivano tonde e materne, dai toni forti ma non aggressivi, come quelle del Bronzino, e gli uomini avevano gli sguardi alti e severi immaginati da un Velazquez o da un Rubens.

Esiste un fil rouge nella pittura europea, da Buffalmacco Buffalmacchi a Picasso? E perché non poteva far a meno di pensare al Trionfo della Morte?

Non ricordava più quanta Moskovskaja avesse buttato giù nel tentativo di dimenticare quel volto angelico tanto simile alla Virgo Legens di Antonello da Messina.

E quel libro non era più riuscito a finirlo, dopo che il protagonista si era ammalato di gliomatosis cerebri.

— Sconvolgerò il mondo — proclamò ad alta voce.


Prima di giungere alla villetta sulla Universitätstraße di Marburg, la strada saliva verso una scena senza prospettiva che pareva un fondale dipinto contro il sole morente di novembre.

Dalla finestra di fianco alla porta mi fermai a osservarlo mentre sorseggiava dello Stroh dal colore verdastro seduto alla scrivania, immerso nell'alcool quanto nella dimostrazione della Teoria M-Bosonica su cui da mesi aveva focalizzato la sua ostinazione.

— Ci sarà un esperimento mio lì — riuscii a decifrare dal movimento delle labbra.

E il mio pensiero scivolò sullo ZHK di Ginevra, l'anello sotterraneo dal diametro di duecentoventisette chilometri, terminato di costruire nel 2008.


La donna di mezza età, esile, elegante, tamburellò con l'indice sul microfono per reclamare il silenzio.

Le voci in sala si sopirono e poi si spensero del tutto.

Col sorriso più largo che il suo minuscolo e proporzionato viso potesse offrire annunciò: — Heut ist der Tag — alla marea di scienziati, di giornalisti, di semplici curiosi assiepati in platea.

— Oggi ventuno maggio 2015, a Ginevra, il Zukunft Hadron Kollider ha raggiunto per la prima volta l'Energia di Planck a 100 exa electronvolt — continuò, nel suo tedesco dall'accento bretone.

— E un rivoluzionario esperimento alle alte energie ci ha permesso una scoperta sconvolgente.


Dalla finestra accanto alla porta lo spiai mentre sorseggiava dell'ambrosia dai riflessi mielati.

— Ego Wenger non sarà mai pronto per iniziare a decrittare il piano di Dio — mormorai. E decisi di non bussare.


(fine)



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Stefano M.


L'ignoto Punto della Creazione


Il Sesto Giorno, a mattina inoltrata, il demone Bathalon irruppe con foga nella sala del trono di Satana per l'annuncio della ferale notizia:

— Sire, Signore del Male, il Vostro fiero avversario Dio, Signore del Bene, ha giusto appena compiuto un enorme prodigio: dopo la Terra, il Sole e la Luna, le acque e le strutture verdeggianti che da ieri l'altro li adornano, ha messo mano alla creazione di novelli esseri. Essi sono mobili come noi, hanno la facoltà di spostarsi lungo il terreno e ad alcuni, alati come gli angeli, è stato persino concesso di staccarsi dal suolo e librarsi sopra i monti. Ne ha creati a milioni, di mille e mille tipi assai differenti in forma e dimensioni. Alcuni sono umili, miti, perlopiù minuscoli, e si nutrono delle verzure appena create. Altri più grandi, forti e altezzosi, li ha concepiti per soggiogare i più piccoli, tanto da consentire loro di cibarsene. Alcuni sono mollicci e striscianti sul terreno; molti duri e scorzosi; i più si elevano su sottili arti che consentono grande velocità.


Alla notizia Satana, Signore del Male, salì in Terra per verificare se quanto riferito corrispondesse a realtà e rimase stupito quanto ingegno, grazia e perfezione fossero instillati in ciascuna bestiola, che ben presto iniziò a colonizzare quanto compiuto poco prima. Rimase ancor più stupito di quanta armonia regnasse sovrana, nulla era eccessivo in alcun essere, tutto perfettamente funzionale alla sua sopravvivenza. Dio aveva dotato i più grandi di forza bastante ad agguantare e divorare i più piccoli, ai quali erano state invece concesse agilità e prestezza per fuggire agli attacchi: la nobiltà della caccia pareggiava così la nobiltà della fuga, talché né predatore né preda apparivano vili o ridicoli.

Addentrandosi in boschi e prati, rimpicciolitosi quanto una foglia, Satana constatò che pure il suolo pullulava di esseri minuscoli, meno appariscenti e piuttosto informi, tutti altrettanto utili alla cura della Terra e dei vegetali da poco creati. Parimenti, tuffandosi tra i flutti e scendendo nelle profondità marine, notò che nulla era lasciato al caso nemmeno nelle regioni sommerse, contenenti una straordinaria varietà di viscide creature dai corpi affusolati, forgiati per scivolare nelle acque.


Tornò quindi nella sua cavernosa Sala del Trono:

— Bathalon, mio fido scudiero, quali mirabili creature ed esseri popolano oggi la Terra e dominano sulla vegetazione! Giusto ieri discutevamo di quanto risulterebbe utile, nella nostra opera di diffusione del Male e di distruzione del Creato, se terrificanti strutture, quei "draghi" di cui ti ho parlato, avessero la facoltà di muoversi. In me, tuttavia, non ho ancora scovato l'alito di vita e pertanto ogni ideazione è vana. Ormai è troppo tardi, Dio mi ha preceduto e io Satana, Signore del Male, riconosco che non avrei potuto fare opera altrettanto completa e aggraziata. Mi resta solo il rammarico di non poter dare il mio tocco a tale eccelsa perfezione, per minarne l'armonia.

— Satana, Signore mio, spero non si scateni su di me la Vostra superba ira se oso rammentarVi che Dio, Signore del Bene, è buono e misericordioso. Non si dimostra rancoroso con Voi, sono certo che la Vostra estrema malvagità e sottigliezza Vi sarà da guida nel trovare il modo per farVi affidare una parte della creazione di questi esseri mobili

— Sia, Bathalon, i tuoi consigli mi paiono saggi. Ti affido l'ambascia. Avvisa Dio, Signore del Bene, che il suo nemico Satana, Signore del Male, chiede udienza presso di Lui.


L'udienza fu accordata qualche ora più tardi, quando Dio tornò in Cielo dopo essersi sincerato che nulla stonasse nei novelli esseri mobili e che l'uomo, ultima e più importante tessera della Sua creazione, ricevesse in dono un giardino felice dove prosperare e lodarlo giorno e notte, per tutta la vita e oltre.

— Buon Dio, Signore del Bene, resto ammirato e stupefatto di quanta grazia e bellezza risplendano nella tua creazione. Io stesso Satana, Signore del Male, assuefatto a scovare sempre e solo deformità e bruttezza, trovo tutto ineccepibile. Di grazia, quale segreto hai infuso nelle creature mobili per renderle così leggiadre e svelte?

— Di che parli, degli animali? Ammetto che son grande cosa, ma mai quanto previsto per stasera!

— Eppure a me pare già tutto perfetto e sublime, mi resta giusto il rammarico di non aver contribuito a tanta magnificenza. Non posso creare anche io un animale, come tu chiami le mobili creature?

— Mai! Sarebbe sufficiente un tuo semplice gesto, per piccolo che sia, a rovinare l'armonia che oggi regna sulla Terra. Guarda, ho plasmato anche questo animale ma poi l'ho scartato, convinto che possa risultare pernicioso per gli altri.


Condusse così Satana in un antro più oscuro delle sue Tenebre dove, fra bagliori accecanti, una dozzina di possenti sbarre contenevano a stento la foga di un essere enorme e grandioso, dal lungo collo e che sputava tanto fuoco da poter ardere la Terra con un solo respiro. Il Signore del Male si accorse presto che la creatura era in tutto e per tutto simile al "drago" che avrebbe voluto creare egli stesso. Dio riprese:

— Son certo che tu avresti pensato a un animale pericoloso e terrificante come quello che stai ora ammirando, pertanto ti vieto di contribuire alla mia creazione con animali da te ideati.


Satana tornò infuriato nell'oltretomba e, sedutosi irato sullo scranno da cui soggiogava il suo esercito di demoni, urlò minaccioso al fido scudiero:

— Bathalon, sia tu maledetto fra tutti i miei servi! La tua proposta è stata ignobilmente rigettata. Dio, Signore del Bene, ha già plasmato ciò che avevo in mente, il mio "drago", e lo ha scartato perché troppo avventato. Così non mi ha concesso di creare alcunché!

— Vostra Malvagità, signore mio Satana, forse le dimensioni non sono tutto, la Vostra capacità di generare caos è tanto smisurata che sarebbe sufficiente una Vostra minuscola creatura per interrompere l'armonia del creato di Dio. A volte basta poco per produrre grandi danni!


Bathalon e Satana discussero a lungo, il primo con sussiegoso rispetto, il secondo infiammato da concupiscente gioia. Il Signore del Male si presentò da Dio il Settimo Giorno, sorprendendolo in riposo a contemplare il creato. Recò con sé una minuscola gabbietta, tanto fragile da poter essere divelta da una bava di vento.

— Dio, Signore del Bene, ieri mi hai giudicato male, non volevo irrompere nella tua creazione con spaventose creature o mostri in grado di danneggiarlo. Ecco a cosa avevo pensato, eccolo. Un piccolo dono per impreziosire il creato e ricordare a tutti che anche io Satana, Signore del Male, posso creare qualcosa di buono e innocuo.

I soliti occhi di bragia, affinati dai secoli a scrutare bassezza e incitare distruzione, si erano ora raddolciti, rasserenati, placidi e innocui come quelli di un puttino. Sul fondo della gabbietta a fatica si scorgeva la forma di un minuscolo essere, simile a quello chiamato "mosca", ma ancor più piccolo ed esile, con zampette tanto sottili da parere sul punto di staccarsi a ogni balzo; il corpo, snello e leggiadro, sosteneva due alette trasparenti e quasi eleganti. Solo la testa, con quella lunga e robusta proboscide, destava qualche perplessità.


Fugati i residui dubbi, infine Dio, Signore del Bene, valutò che un'elegante animaletto così piccolo e insignificante non avrebbe potuto generare gran danno alla sua creazione.

— Tu Satana, Signore del Male, non possiedi l'alito di vita che io Dio, Signore del Bene, uso con giustizia per far germogliare la Terra. È per questo che ti sono superiore e che sempre lo sarò. Il tuo unico potere risiede nel corrompere e ammalare qualsiasi cosa da me creata, nulla può venire da te fin dal principio. Eppure la mia misericordia è grande e il tuo sguardo triste e invidioso della mia Creazione mi dimostra che forse, per questa volta, mi posso fidare di te. Oggi è giorno di festa grande per me e per le mie creature: la nostra momentanea tregua non può che esserne il degno suggello.

Il Signore del Bene soffiò delicatamente su quell'esserino, prestando la massima attenzione a non spazzarlo via.


La creatura prese vita, ronzò con tono acerrimo e andò presto a posarsi sul capo di Dio, succhiando una goccia della sua rossa linfa vitale e cagionandogli una nuova, molesta sensazione, tanto tediosa da costringerlo, per placarla, a passare più volte dita e unghie sulla porziuncola di pelle appena trafitta.

— Satana, mi hai ingannato! Per quanto sia piccolo, questo animale non ha nulla di buono e aggraziato; nonostante le dimensioni minuscole, sono certo che potrebbe mettere a repentaglio l'armonia e la perfezione che ora regnano nel creato!

Gli occhi di Satana, Signore del Male, furono di nuovo pervasi dall'ardente passione che solo la più viva cattiveria sapeva infondergli:

— Dio, Signore del Bene, ora questa creatura ha in sé parte della tua rossa linfa vitale, pertanto la sua stirpe sarà immortale come noi. Potrai ucciderne una, cento, mille, forse milioni, ma la sua genìa proseguirà imperitura nella storia e accompagnerà il creato nelle infinite tribolazioni che gli infliggerò. Essa si assopirà in inverno, quando le mie Tenebre e il freddo già attanagliano creature e verzure. Ma essa rispunterà ogni primavera a pungolare i viventi, a ricordare loro che io Satana, Signore del Male, ho il potere di rendere deprecabile qualsiasi giorno della loro vita, per quanto lieto e felice possa apparire.


Saggezza e decoro spinsero Dio a non rivelare agli uomini l'increscioso inghippo occorso il Settimo Giorno, talché oggi non è tramandato in alcuna Scrittura.


Fu così che la zanzara, pungente nome che iniziò a designare la vile creatura, colonizzò ogni parte della Terra, resistendo immutata per ere ed eoni, sopravvivendo a cataclismi, glaciazioni, grandi estinzioni e alla mano distruttrice dell'uomo. Ogni suo acutissimo battito d'ali e ogni sua urticante puntura restano gli unici, immondi testimoni che anche Satana, Signore del Male, e Bathalon, suo fido scudiero, furono gli artefici di una parte della Creazione.


(fine)



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Domenico Gigante


Maricò


"Conosco l'ora di quest'attimo rabbioso,

È un moto aspro nel sangue

Che, come un albero, ha radici

E gemme in te.


Tu hai peccato, cuore periodico;

Ti affogherò irragionevolmente,

Ti lascerò in me perché ti trovino

Più cupo che mai,

Troppo colmo di sangue perché vi scorra il mio amore.


Andarmene è il mio desiderio;

E dunque andrò,

Ma nella luce dell'andare

Gli attimi sono miei,

Ad altro potrei dedicarli.

La sosta non ha attimi,

ma io o vado o muoio."


(Dylan Thomas)


Mia zia era un po' come la morte: arrivava sempre per ultima. E questo, ovviamente, infastidiva tutta la famiglia. Non lo faceva per una insana mania di protagonismo o per farsi notare. No! Ma perché se ne dimenticava. Si dimenticava di venire ai pranzi, si dimenticava delle feste, si dimenticava di fare i regali di Natale, e si dimenticava anche del Natale. Così finiva sempre che bisognava chiamarla a casa e intimarle di venire.


L'unica cosa che riempiva la sua esistenza erano i libri: quelli li ricordava tutti a memoria. Erano la sua vera realtà. Quando ero piccolo faceva apparire all'improvviso Sherazade, che mi svelava i segreti delle notti arabe con quella passione e quel sentimento che solo l'esperienza diretta sa suscitare. Io sono cresciuto così: commuovendomi, ridendo, sorprendendomi e sognando un mondo profumato di incenso e di bergamotto — falso forse, ma estremamente più piacevole e sensuale di quello reale. La supplicavo di raccontarmi qualche avventura di Don Quixote o di Münchhausen e lei mi rispondeva sempre: "Più tardi! Dopo pranzo"; e se poi se ne ricordava, ero accontentato.


La zia era simpatica così svampita. Però era anche un problema per i fratelli e per noi bambini. Bisognava vegliare e controllare che non lasciasse le cose sul fuoco e che, dopo averle cotte, le mangiasse. Mia madre qualche volta mi ordinava di andare a controllare che non avesse bisogno di nulla. Io correvo a casa sua e ci rimanevo le ore.


Il suo appartamento era situato nel palazzo dietro al nostro, due isolati prima dell'altro mio zio. E tutti noi abitavamo a non più di cento metri da mia nonna. Si potrebbe pensare che i figli avessero scelto spontaneamente di restare vicini alla vecchia madre per assisterla e aiutarla. E invece no! Abitavamo vicino a mia nonna perché lei si credeva il sole e noi eravamo solo i pianeti che le ruotavano intorno. Aveva organizzato tutto nei dettagli: aveva acquistato le case prima ancora che i figli si sposassero; le aveva arredate secondo il suo personale buon gusto; infine le aveva affidate alle cure delle nuore, le quali, fingendo lacrime di gioia, covavano in cuor loro risentimento e vendetta.


Mia nonna aveva un'opinione decisamente buona di sé. Non si attribuiva mai alcun difetto, tranne che per mantenere un minimo di forma. Diceva sempre di essere stata un'ottima figlia, un'ottima studentessa, un'ottima moglie, un'ottima madre, ma di essere rimasta umile. In compenso si rammaricava di non riuscire a essere migliore di così e in confidenza ammetteva di aver commesso anche lei qualche peccatuccio.


Parlava bene di tutti, ma seppelliva dalle critiche ciascuno. Casa sua era come un porto di mare. La gente andava e veniva in continuazione. Tutti la ossequiavano e lei dava udienza a quasi tutti. Parlava con loro e, naturalmente, parlava di sé senza mai stancarsi. Non era cattiva. Anzi era quasi una pia donna, sempre dedita a opere di carità. Il problema è che aveva un modo tutto suo di dimostrare generosità: una maniera che metteva al centro sempre se stessa e che le dava modo di rifulgere. Ma se glielo facevi notare strabuzzava gli occhi.


L'unico insuccesso nella sua vita era stata la figlia (mia zia) che non si era mai sposata. Si racconta, però, che c'era andata molto vicina. Infatti aveva avuto un fidanzato, che l'amava e riusciva a sopportare le sue amnesie. E probabilmente era anche ricambiato. Un bel giorno lo sventurato, però, le aveva fatto la fatidica domanda e lei aveva risposto emozionata: — Oh Dio, sì! Ho bisogno di pensarci —. Quella risposta glie l'aveva suggerita mia nonna, perché non sta bene che una ragazza di buona famiglia accetti senza riserve. Dopo un po' di tempo, però, il poveretto ebbe la malaugurata idea di sollecitare una risposta. Mia zia gli sorrise smarrita e chiese: — Qual è la domanda? —. L'infelice amante scappò via piangendo disperato e sconcertato. Di lui si è persa qualsiasi traccia. Pare che abbia avuto un lungo travaglio interiore. C'è chi sostiene che il leggendario fidanzato, non sarebbe altri che il sagrestano della chiesa di Gesù Bambino a Sacco Pastore. Ma sono soltanto voci. In ogni caso la nonna, pur di togliersi di torno quel tormento di figlia, le aveva affidato una delle tre case, dove adesso mia zia abitava da sola.


Mi ricordo ancora quel sabato. Sono passati ormai molti anni, ma era un sabato come un altro e sarà stato uguale agli altri. Eravamo a pranzo da mia nonna, così come facevamo già da molti anni e come avremmo continuato a fare per molti anni a venire. E anche allora la zia era in ritardo.


Si era fatto molto tardi e non riuscivamo a telefonarle, forse perché aveva lasciato la cornetta alzata. All'epoca non c'erano i cellulari e se volevi chiamare qualcuno, dovevi affidarti a pesanti arnesi attaccati al muro con un doppino ritorto. La nonna era molto irritata e si aggirava irrequieta per il salone spostando le orrende vecchie sedie di Vienna, eredità di non si sa quale lontano parente scialacquatore, che le aveva acquistate per quell'insana mania che si ostina a rosicchiare anche i più consistenti patrimoni. Il mio quarto fratello, quello più piccolo (aveva meno di un anno), piangeva insistentemente. Mio cugino provava a quietarlo, contorcendo il volto in smorfie che turbavano più che far ridere. Mia madre, che teneva in braccio il piccolo, sembrava preoccupata e rattristata da quella oscena esibizione del nipote. Insomma l'aria era piuttosto tesa e si decise di cominciare il pranzo senza la zia. Non si poteva o non si voleva più aspettare.


A pranzo, oltre che di mia nonna, si parlava di un'altra cosa: politica. Era l'unico argomento che potesse mettere tranquillamente in disaccordo mio padre e mia nonna. Si approfittava di qualunque occasione, di ogni distrazione dell'altro, per introdurre il discorso e per litigarci sopra. Non ricordo quale era stato il pretesto quel giorno. Forse il muro di Berlino da poco caduto. O più semplicemente qualche piccolo scandalo di corruzione che stava iniziando a venir fuori. Tanto bastava perché mio padre potesse subito accusare mia nonna di collusione con esponenti del regime democristiano. A quel punto mia nonna reagiva parlando male dei comunisti e rinfacciando a papà il suo passato craxiano. Da lì in poi era un'apoteosi di retorica, un comizio in piena regola.


Potevano anche essere d'accordo su tutto e affermare entrambi la stessa cosa, ma gridavano in modo tale che chiunque fosse entrato in quel momento avrebbe potuto a ragione pensare che si stesse discutendo su posizioni estreme e inconciliabili. Nella sostanza erano solo due persone arrabbiate, che cercavano di mascherare il vuoto affettivo tra di loro e il bisogno vitale di riconoscimento con questo assurdo accapigliarsi, sterile come certe domeniche passate in casa ad aspettare qualcosa che dia un senso. O forse in cuor loro desideravano semplicemente un po' di rispetto per le loro idee.


All'epoca non lo capivo ancora e anelavo far parte di tutto questo. Cercavo di afferrare il più possibile. Iniziavo a istruirmi, perché sentivo ruggire dentro di me il desiderio di essere ascoltato con attenzione e approvazione da loro. Fu certamente in quel periodo che cominciai a maturare le scelte più importanti. Dovevo e volevo stabilire da che parte stare. Così decisi di andare a sinistra, perché sapevo che avrebbe dato fastidio a mia nonna.


Poco alla volta conquistai a forza di intemperanze uno spazio nel gotha della tavola: tra quelli che potevano dire la loro gridando. Imparai questa forma particolare di dialettica che si praticava a casa mia e partii all'assalto di mia nonna. Lei, però, era una rocca inespugnabile: viveva di preconcetti sui tempi moderni, le mode e i giovani; e questo io non Io sopportavo. Mi irritava nel profondo, perché in questo modo (parlando male della mia generazione) toglieva valore morale anche a me e alle mie idee. Per anni abbiamo litigato e ci siamo lanciati accuse reciproche. Ho scoperto quanto nauseante fosse ripetere all'infinito sempre le stesse scene. Qualche volta ho cercato di parlare del vero problema: di come non sopportavo il suo modo arrogante di trattare e denigrare le mie convinzioni. Ma lei tornava a ripetermi che ero soltanto un iconoclasta. Così ricominciavamo a discutere di inutili fesserie.


Poi un giorno presi atto con orrore di essere anch'io intrappolato, come mio padre, in quel gioco delirante. Non c'era ormai via di scampo: mi ero formato a quella scuola e il mio modo d'essere e di credere in me stesso erano totalmente condizionati da quell'incessante e vana ricerca di un mio posto a quella tavola. La rabbia e il senso di fallimento che mi consuma ancora oggi è il frutto di quell'incertezza tra la convinzione di non essere mai stato considerato per quello che valevo e il sospetto sempre dominante che, in fondo, era vero che non valevo granché.


Confidai di potermi redimere da tutto questo con il silenzio. Per anni io e mia nonna non ci siamo parlati. Ed ero convinto che fosse giusto così. Ma la verità è che confondevo la giustizia con la pietà. La giustizia è solo divina. Dio ci lascia solo un suo surrogato, la pietà, che ci permette di sentirci in pace con la coscienza. La pietà, però, non abbatte i muri che ci dividono e non consente di tornare ad avere un rapporto più giusto con gli altri, fatto di rispetto, tenerezza e sensibilità. Così, quando mia nonna morì, provai un senso di sollievo, ma anche di vuoto: per l'affetto che era mancato e per l'incomprensione che ci aveva diviso.


Un pezzo di purè, volando dal cucchiaio di uno dei miei fratelli al piatto di mio cugino, interruppe l'arringa di mio padre. La nonna non lo sapeva proprio preparare il purè. Aveva la stessa consistenza della calce e, si potrebbe sostenere, anche lo stesso sapore. Noi bambini scoppiammo tutti a ridere, Nonna urlò, mamma sgridò il figlio e, infine, l'ordine tornò a regnare attorno alla tavola. Ma nessuno aveva più una gran voglia di parlare. Evidentemente erano tutti abbastanza scocciati dall'andazzo che la disputa aveva preso.


Non si dà mai un gran peso a ciò che si pensa durante una discussione, ma evidentemente la nostra mente elabora altri pensieri mentre parliamo; idee che probabilmente non hanno niente a che fare con l'argomento della conversazione. Fatto sta che quando scende finalmente il silenzio quell'idea sfuggita acquista una sua importanza e, frustrati, la cerchiamo con la coda dell'occhio, come fosse una qualche verità nascosta nell'ombra, pronta ad assalirci a tradimento.


Credo che fosse qualcosa di simile ad aver creato quella pace: la certezza di aver dimenticato qualcosa. Il suono del telefono fu la lama di luce che tagliò improvvisa quella calma impaziente: la zia. Era questo quello di cui c'eravamo dimenticati. Rispose al telefono mia nonna. — Sì, sì! Oh mio Dio!

Un'infermiera parlava all'altro capo. Mia zia aveva avuto un incidente. Stava camminando per la strada ed era svenuta improvvisamente, senza spiegazione. — Dove sta? Come sta?

— Al policlinico. Adesso si è ripresa. La faranno uscire in giornata. Comunque entro domani.

— Tutto bene, quindi?

— Non vi dovete preoccupare.

— Come sarà successo? cominciammo a chiederci.

Mio cugino azzardò: — Un colpo di sole!

— Il 15 dicembre?! — gli rispose ironica mia madre.


In pochi minuti eravamo per strada e stavamo andando a riprendere la zia. La trovammo sorridente che parlava con una bambina dalla faccia tenera e tranquilla che la ascoltava con attenzione. Ci salutammo allegramente. Scherzando ci facemmo raccontare quello che era successo. Mia zia non dava spiegazioni, non ricordava nulla, sapeva solo di essersi risvegliata sull'ambulanza. La facemmo uscire. Il medico, in realtà, la voleva ancora trattenere per fare qualche controllo, ma mia nonna si impose come al solito suo.


Mentre mia zia veniva aiutata a prepararsi e ancora cianciava con tutte le altre donne che si trovavano con lei nella grande camerata dalle pareti bianche e crepate, guardai la bambina che giaceva nel letto accanto al suo. Aveva chiuso gli occhi e riposava. Era coperta da un camice blu in fibre plastiche come quello dei chirurghi: sterilizzato e dallo spiacevole odore di farmaci e anestetici. Sembrava la Morte della Madonna del Caravaggio con quei capelli lunghi, biondi, sparsi sul cuscino. Mio padre chiese a un'infermiera che cosa avesse. Riuscii a sentire una sola parola: epilessia. Io non avevo mai visto un'epilettica. A dirla tutta non sapevo neanche cosa fosse l'epilessia. Purtroppo lo scoprii non molto tempo dopo.


Uscita dall'ospedale la zia andò a dormire per qualche giorno da mia nonna, ma tutto sembrava tranquillo in quel periodo. Così ci rasserenammo.


Mia zia è morta da almeno trent'anni. È morta di un tumore al cervello di cui si è accorta troppo tardi. È morta felice e incosciente. Alcuni giorni prima la potevi incontrare in giro per il quartiere che sorrideva pallida, magra e senza capelli e ti raccontava che stava bene e voleva andare a comprare un libro che aveva intenzione di leggere nei prossimi giorni. — Il fatto è che ho così tanti impegni, che non trovo il tempo —, ti diceva. Davanti a quelle parole non osavi fare riferimento alla sua malattia. Sembrava quasi che se ne fosse dimenticata; e forse se ne era veramente scordata. Io me Io auguro, perché con quell'atteggiamento rendeva l'attesa della morte una serena opportunità per il futuro.


Al funerale venne molta gente sconosciuta; ignota almeno a noi. E il sagrestano della parrocchia di Gesù Bambino a Sacco Pastore pianse tanto. A un parente che tesseva le lodi funebri di mia zia, la nonna aveva risposto: — E vabbè! Amen! —. Amen: così sia. Un'espressione dalla doppia faccia: da una parte simbolo della gioia umana nell'abbandonarsi alla volontà di Dio; dall'altra segno di disfatta di fronte al destino. Ma davanti a questa sconfitta non è necessario cercare una spiegazione; né è sensato ribellarci e per questo essere infelici. Dobbiamo solo convincerci che, in fondo, i nostri peccati non ci appartengono, abbandonati come siamo in un mondo vagamente allucinante e mostruosamente crudele. E, se vogliamo, possiamo perdonare e scordare i rancori, le stupide battaglie e le illusioni smarrite da qualche parte nel tempo. Impedire con tutte le forze a queste cose tremende di riaffiorare e lacerarci il cuore. Dimenticare tutto ed essere felici come mia zia.


(fine)



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Macrelli Piero


Giuditta


(Love will Tears Us Apart. Joy Division, 1980)


L'insegnante del corso di scrittura creativa che sto frequentando lo ripete di continuo. Non bisogna raccontare, bisogna mostrare. Show don't tell, proprio così dice. E poi dice anche che bisogna usare pochi aggettivi e bisogna scordarsi degli avverbi. Ma allora io come faccio a raccontarvi questa storia, come faccio a farvela vedere?

Mi ero iscritto a questo corso che si teneva a Santarcangelo così, per caso. Cioè non proprio per caso, ma perché ero ridotto uno straccio e fare qualcosa di diverso, qualcosa al di fuori dalle mie solite cose forse mi avrebbe aiutato; e poi andare a Santarcangelo mi avrebbe portato fuori dai miei soliti giri, per quel che valevano oramai, ma così mi ero detto. Al corso siamo una dozzina e io sono l'unico ventenne. La maggior parte mi sembra che siano oltre i quaranta anni. Secondo me si sono iscritti per cercare di sistemare la loro esistenza, di mettere un po' d'ordine ai pensieri, come se la scrittura potesse risolvere i guai della vita. Questo è quello che mi sembra sperano tutti e siccome anche io lo spero, siamo tutti sulla stessa barca.

Per quanto riguarda me la colpa di tutti i miei guai è di Giuditta che poi non si chiama Giuditta, ma poco importa. Giuditta era il nome che le avevo dato io quando quando ancora non l'avevo conosciuta, ma la vedevo sempre in giro e mi piaceva da matti. Grazie al cazzo, Giuditta è una grandissima figa e sa di esserlo. È anche molto pericolosa, ma io questo ancora non lo sapevo.

Le avevo dato quel nome perché una volta alla libreria Riminese, quella di fronte al duomo, avevo sfogliato per caso un libro che avevano messo in vetrina. Era un libro su Klimt, su i suoi quadri e quando ho visto la foto del quadro di Giuditta ho sorriso perché ho visto lei, la tipa di cui vi racconto. Perciò se volete sapere di chi parlo cercate una foto di quel quadro. E se riuscite a immaginare la ragazza del quadro con i capelli spararti in alto alla new wave, con il trucco pesante alla Siouxie e la maglietta dei Joy Division capite subito di chi sto parlando e l'avete sicuramente già vista in giro allo Slego o all'Isola Che Non C'è. Lo sguardo è lo stesso, quegli occhi a metà, le sopracciglia sollevate e con quella bocca cattiva E con quella faccia da cazzo che sembra che le dai fastidio solo per il fatto di esistere.

Che poi io questo Klimt non sapevo nemmeno chi cazzo fosse. Io andavo in libreria perché amo la fantascienza, anche se nelle librerie la fantascienza è un po' trascurata, insomma roba da poco che la mettono sempre laggiù nascosta vicino ai libri sugli U. F. O, su Atlantide, sui misteri delle piramidi e cazzate del genere, che mi incazzo anche perché la fantascienza con quelle cose non c'entra niente. Invece se vuoi trovare della buona fantascienza devi andare in quella rivendita di libri usati davanti al cinema Santagostino che lì hanno gli Urania, i Galaxy e altre riviste fuori dall'editoria ufficiale. Però alla Riminese c'è questo tipo che ci conosciamo un po' perché anche lui viene allo Slego e frequentiamo gli stessi giri. E allora delle volte parliamo di musica e di cose così, oltre che dei libri. Ma mi sto perdendo in chiacchiere mentre dovrei rimanere sulla storia che vi voglio raccontare.

Durante la settimana io e i miei amici andavamo a passare le serate il questo locale che poi è un circolo Arci e si chiama L'Isola Che Non C'È. Ma siccome il nome è troppo lungo tutti lo chiamano, l'Isola. Ci vediamo stasera all'Isola, così dicono tutti. È un locale alternativo che piace a quelli che poi il sabato vanno allo Slego e perciò tutti gli strambi di Rimini sono lì dentro e anche i tossici della piazza Cavour sono tutti lì dentro. Una bella compagnia, niente da dire. I fighetti di Rimini che vanno in discoteca al Paradiso e frequentano pub alla moda dicono che l'Isola è un posto da sfigati e anche dello Slego dicono che è un posto da sfigati. Lo dicono perché non capiscono un cazzo.


— Vuoi che sia, tenere chiuso lo Slego perché questi devono andare a Bologna a vedere il concerto dei Talkin Heads? Mi sembra una stronzata.

— Ma ieri hanno detto così su Radio San Marino.

— Vorrà dire che sabato andremo all'Aleph.

— Sarai contento te, che vuoi sempre andare all'Aleph.

— Vaffanculo. Dico solo che qualche volta... si potrebbe andare anche là... va bene lo Slego, ma cazzo...

— Il sabato allo Slego non si tocca. È semplice.

— Però, visto che questo sabato lo Slego è chiuso...

— Non è detto, da qui a sabato questi Talking Heads del cazzo potrebbero anche morire tutti.


Noi quattro avevamo creato una banda e ci chiamavamo The Goorkies. Avevamo trovato dei pantaloni a righe molto fighi che erano diventati la nostra divisa e quando uscivamo insieme ci mettevamo sempre quei pantaloni e così avevamo iniziato a farci conoscere. Cioè, a parte fare casino, non facevamo niente. Ogni tanto veniva la voglia di metterci a suonare, ma poi la cosa finiva lì e si finiva a fare i persi allo Slego, che per me era già abbastanza.

Anche Giuditta veniva all'Isola, ma solo verso la fine della settimana perché sta a Bologna che studia al Dams. Così mi aveva raccontato una sua amica e mi aveva anche detto che le stavamo sul cazzo, cioè che i Goorkies le stavano sul cazzo, che in gruppo eravamo anche passabili, ma che presi uno per uno non valevamo un cazzo. Così diceva Giuditta alle amiche e così mi aveva raccontato la tipa che poi mi ha detto che invece secondo lei eravamo fighi e che Giuditta è una stronza. Che poi quella volta che mi ha detto questo dopo siamo finiti a fari i baci sui divanetti dello Slego. Perciò io le ho creduto e me la sono legata al dito.

Quando Giuditta arrivava All'Isola era sempre assieme alle sue amiche e si vedeva lontano un miglio che comandava lei. Si mettevano sempre in un tavolo a giocare a carte e più di una volta lei mi a sorpreso mentre la guardavo dal mio tavolo. Sembrava che il mio sguardo le pesasse addosso e così voltava il capo verso di me, senza fretta. E poi mi guardava con quei occhi e quell'espressione del cazzo e reggeva il mio sguardo senza mai scomporsi. Poi tornava alle sue carte, diceva qualcosa che non riuscivo a sentire alle sue amiche e scoppiava a ridere.


— Allora come hai fatto l'altro sabato che lo Slego era chiuso?

— Cosa intendi...

— Non dirmi che sei rimasto a casa invece di andate al concerto dei Talking Heads?

— Alla fine siamo andati all'Aleph... Ma perché?

— Guarda che l'altra volta ti ho sentito all'Isola che ti disperavi perché lo Slego stava chiuso per il concerto...

— Non ero mica disperato... dicevo solo...

— Sì, sì. E invece di andare al concerto sei andato All'Aleph...

— Perché tu sei andata al concerto?

— Dio, quanto sei marginale e periferico. C'è il concerto dei Talking Heads a Bologna e tu mi vai all'Aleph. Sicuro che sono andata al concerto.


A me quel cazzo di marginale e periferico aveva dato fastidio da matti. E poi che cazzo intendeva con marginale e periferico, che non l'ho mica capito.

Quel sabato mi ero ubriacato per bene per essere al massimo della potenza e quando l'avevo vista andare verso il bar dello Slego l'avevo raggiunta. Insomma, che ci considerasse degli sfigati non l'avevo mica mandata giù e mi ero messo in testa di sedurla per dispetto. Non solo per ripicca perché era una grande figa e mi piaceva da matti e ne ero anche innamorato, ma questo lo tenevo per me che volevo fare il duro.

Fu facile, troppo facile e la cosa avrebbe dovuto insospettirmi. Ma lei mi era sembrata più ubriaca più di me e mi ero spiegato così il fatto che in quattro e quattr'otto l'avevo portata sui divani a fare i baci. E che le donne fingono di essere ubriache, dicevamo fra amici per ridere, fingono per coprire i loro loschi affari. E che non hanno gli enzimi per l'alcol. Bevono e non si ubriacano e così fanno finta. La cosa ci divertiva molto a raccontarla, ma secondo me era anche una cosa molto vera.

E così sono caduto nella sua ragnatela che le sono bastare due o tre settimane per staccarmi dai miei amici e dalla banda. E io imbarcato come uno scemo non me ne sono reso conto. Mi trovai invischiato in assurde trasferte a Bologna per stare dietro a lei e ai suoi giri del cazzo del Dams. Che non era il mio ambiente e mi muovevo male e lei sembrava provare gusto a farmi fare delle figure di merda. Dio, come mi facevano male le sue risate quando sbagliavo la pronuncia di qualche parola in Inglese o non sapevo la differenza tra lo stile Liberty e il Decò. E anche quando mi portava a vedere gli spettacoli della Societas Raffaello Sanzio che sembrava si trascinasse dietro il fratello scemo. Lei mi pigliava per il culo e io facevo finta di niente che se ci penso adesso mi spaccherei la testa contro il muro. Ma è tutta colpa mia, che dovevo sottrarmi a questo suo gioco, a quello che era, adesso ne sono sicuro, un suo preciso piano per demolirmi.


E così mi ha liquidato con una telefonata, che le andavo stretto; che lei è una donna sofisticata e complicata; che io sono stato una delusione: un sempliciotto marginale e periferico; che tanto valeva che tornassi da quei deficienti dei miei amici. Ecco cosa mi ha detto.

Solo che i miei amici non ci sono più. Cioè ci sono, eccome se ci sono. È che io oramai sono stato tagliato fuori. Mi hanno detto che hanno conosciuto un tipo che suona il basso e sa anche cantare e che hanno messo su un gruppo. Poi mi hanno detto che Garattoni, il dj dello Slego che è anche un grafico e cura l'immagine del locale, gli ha fatto il logo del gruppo dei Goorkies che è una figata e che adesso suoneranno anche allo Slego.

Per finire sono anche venuti a chiedermi i pantaloni per il bassista che dei pantaloni così non si trovano più. E io glieli ho anche dati anche se so benissimo che non torneranno più indietro.

È andata così, continuo a ripetermi.


Teoricamente, adesso che ho buttato fuori tutta la storia, che l'ho scritta, mi dovrei sentire meglio, ma non mi sento meglio neanche per il cazzo. Sono qui davanti allo specchio totalmente distrutto. Distrutto io, non lo specchio. Non riesco a capire come sia potuto succedere tutto questo e come sia potuto cadere così facilmente nelle mani di Giuditta.

Mi sento la faccia scottare e ronzare come se fossi sotto l'effetto di un potente anestetico del dentista. Mi sento la testa staccata dal corpo e l'unica cosa che provo è solo un gran disprezzo verso me stesso.


(fine)



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Temistocle


Mia figlia è una zoccola


Mia figlia si chiama Gabriella, ha 32 anni ed è una zoccola.

Nel senso che lo fa per mestiere.

Ora è bene dire che in verità sui biglietti da visita di mia figlia c'è scritto "escort"; ma in un paesino come il nostro, dove il massimo della vita sociale è la partita a scopone della domenica sera con in palio il fiasco di rosso del Cioni, questo nome richiama più scenari di guerra (poi perché?) o di alta finanza. E invece è bene che sia chiaro a tutti che mia figlia è una zoccola, fa il mestiere più antico del mondo; quindi: perché dovrebbe vergognarsene?

Ma vi racconto com'è andata.

Finita la scuola Gabriella cominciò ad andare a bottega da una manicure, imparò e si fece una clientela sua.

Andava casa per casa, con la sua valigetta piena di smalti, limette e creme e si prendeva cura delle mani delle casalinghe che non si potevano permettere un negozio specializzato ma non volevano rinunciare a tenersi in ordine.

Gabriella imparò anche a laccare le unghie di tanti colori e con tanti disegni, quell'arte che non mi ricordo come si chiama.

Era molto brava nel suo lavoro e ben presto cominciò anche a ricevere molte clienti a casa.

La nostra casa non è molto grande: un tinellino con annesso cucinotto, due stanze da letto e un bagno; il tipico appartamento anni '60 da 70-80 mq.

Ma per Gabriella, io e mia moglie Monica abbiamo rinunciato anche al tinellino, pur di lasciarle lo spazio per lavorare.

Gabriella non ha mai avuto tempo per altro che per il lavoro, ha sempre detto che quando avrebbe messo abbastanza soldi da parte avrebbe pensato a cercarsi un marito e a sposarsi. Ma evidentemente finora non c'è riuscita.

Poi un giorno la Giulia, la sua amica del cuore di quando andavano a scuola, è venuta a trovarla e si sono chiuse in camera di Gabriella a parlare, e parlavano fitto fitto che non si riusciva a capire niente, anche se la porta della camera c'ha il vetro come tutte le porte delle case degli anni '60.

Quando dopo più di un'ora sono uscite, Gabriella era molto contenta e anche la Giulia sembrava soddisfatta.

Monica, mia moglie, preparò un tè e lo servì con biscotti fatti in casa; ci sedemmo attorno al tavolo e ricordammo insieme tutte le marachelle che la Giulia e Gabriella avevano fatto da piccole. Ridevano e celiavano come ai vecchi tempi ed era un piacere guardarle così felici e serene.

Poi la Giulia si alzò e ci salutò abbracciandoci tutti e dicendo che si trasferiva in città, dove aveva trovato un buon posto, perché ormai lì in paese non aveva più possibilità di migliorare nel suo lavoro.

A cena chiedemmo a Gabriella cosa le aveva raccontato l'amica e quale fosse il lavoro della Giulia; ma lei rispose solo che era un lavoro molto remunerativo e non costava neanche molta fatica.

Dopo qualche giorno bussarono alla porta e un giovane lungo lungo e con un paio di stivali da cowboy chiese di Gabry.

Ci misi un po' a capire che Gabry in effetti era Gabriella, ma fui contento che ora mia figlia avesse anche una clientela maschile.

Allora Gabriella portò il cliente con gli stivali in camera sua e si chiuse a chiave. Dopo una mezz'ora venne fuori col ragazzo e l'accompagnò alla porta, quindi ci disse che da ora in poi preferiva ricevere i clienti in camera sua invece che nel tinellino, perché aveva capito che la gente è più propensa a parlare delle cose proprie quando è in intimità, e se la gente sa di potersi confidare si sente più a suo agio.

La cosa strana fu però che se il cliente era uomo lo riceveva in camera e se era donna (ma ne venivano sempre meno…) la serviva nel tinellino.

Monica, mia moglie, cominciò ad avere qualche dubbio su quello che stava succedendo, finché una sera, quando ormai tutti i clienti erano maschi e Gabriella lavorava fino a notte alta, la prese in disparte.

Parlarono in camera da letto nostra, fitto fitto, e io non capivo niente di cosa si stavano dicendo, anche se la porta della camera c'ha il vetro come tutte le porte delle case degli anni '60.

Poi Monica e Gabriella vennero fuori e mi parlarono.

La Giulia, raccontò Gabriella, in verità faceva un lavoro particolare: era una zoccola ed era andata in città perché lì c'erano molte più opportunità di trovare bei giovanotti in cerca di giovani ragazze ben disposte. Così aveva pensato, in nome della loro vecchia amicizia, di lasciare a lei i suoi clienti invece che abbandonarli a chissacchì: quando era possibile fare un favore…

E così Gabriella era diventata Gabry con tutti gli annessi e connessi del caso.

Mentre mia figlia raccontava, mia moglie sorrideva e anzi sembrava partecipare alle parole di Gabriella, con cenni della testa e delle mani come volesse spiegare lei stessa.

A me quei discorsi facevano un po' impressione… non mi so spiegare… mi pareva che c'era qualcosa di sbagliato, come quando vedi, ad esempio, un muro pitturato di blu cobalto e non capisci perché hai l'impressione che ci sia qualcosa che non va'. Ma poiché vedevo Gabriella (ora diventata Gabry) e mia moglie contente e serene, anch'io mi tranquillizzai e ci facemmo tutti una bella risata e Monica, mia moglie, preparò una bella pasta aglio olio e peperoncino, davanti alla quale per la mia famiglia iniziò un nuovo periodo di pace e prosperità.

Infatti Gabriella, che evidentemente doveva essere molto brava nel suo lavoro, cominciò a incassare sempre più soldi e a riempire me e mia moglie di regali anche al di fuori delle feste e delle ricorrenze.

Io potei comprare l'auto nuova; Monica, mia moglie, si fece la pelliccia e cominciò ad andare dall'estetista, visto che Gabriella non esercitava più il suo vecchio lavoro. E poi: i sanitari del bagno nuovi, l'impianto stereo che si sentiva davvero bene (questo veramente era stata una idea di Gabriella che diceva che con un sottofondo musicale l'attesa dei clienti era più rilassante (un po' come dal dentista); e, naturalmente, un nuovo salottino in stile moderno.

Tutto procedeva nel migliore dei modi; la mia casa, semplice e pulita, serviva egregiamente come luogo di lavoro di Gabry e i clienti erano sempre soddisfatti.

Una sera, era d'inverno, e c'era un temporale che era iniziato al pomeriggio e ancora continuava a scaricare vagonate d'acqua sul paese, perciò nessuno era venuto a bussare alla nostra porta. Così Monica, mia moglie, preparò un sugo alle melanzane, di quelli che sa fare lei, e ci condì tre bei piatti di tagliatelle, spolverandoli abbondantemente di parmigiano e aprendo una bottiglia di rosso corposo delle sue colline astigiane. Conserve fatte in casa e frutta di stagione completavano l'intima cenetta.

Eravamo ormai alla fine quando trillò il telefonino.

Gabriella (per noi aveva conservato il suo nome da bambina) appena vide il nome sul display s'illuminò in viso e corse a rispondere dalla sua camera.

Parlò fitto fitto per una buona mezz'ora e alla fine tornò a tavola e ci disse che la Giulia si stava trasferendo in una città più grande e che le lasciava tutti i suoi clienti che aveva adesso lì.

Certo per Gabriella era un bel salto di qualità, poter fare strada nella città, far vedere quant'era brava. Era solo dispiaciuta di dover abbandonare i clienti che aveva a casa.

E così Gabriella ci lasciò per la grande città, per inseguire il suo sogno. Un po' come la mia famiglia che dalla Calabria era salita al Nord per riscattarsi dalla povertà e dall'ignoranza.

Qualche giorno dopo la partenza di Gabriella, seduto sul divano di pelle a leggere il giornale, guardavo Monica, mia moglie, che in babydoll fucsia si passava non so quale crema sulla pelle delle braccia davanti allo specchio del bagno e quel movimento così aggraziato non solo mi fece venire certe idee interessate, ma anche alcune interessanti.

In fondo Monica aveva 55 anni molto ben portati e si sa che la donna a quell'età ha raggiunto una sua certa maturità anche per cose di cui è meglio non parlare in pubblico.

E poi bene o male c'erano da pagare i bolli e le assicurazioni delle nostre automobili (che stangate! Ma per una Maserati e un Porsche, si sa…), da mantenere un certo stile di vita che ormai sarebbe stato difficilmente abbandonabile, le ferie e le settimane bianche in posti frequentati solo dalle élite.

E così mi sovvennero le parole della Giulia: perché abbandonare i clienti a chissacchì? Ormai tutti conoscevano la casa, gli orari; e di certo se la figlia era così brava, la mamma non sarebbe stata da meno, anzi avrebbe avuto quel guizzo in più d'esperienza che…

Monica, mia moglie, fu ben contenta di quest'idea, quando gliela dissi. E anzi, mi rispose, questo lavoro le permetteva anche di occupare le sue giornate ora che Gabriella era partita e non doveva badare più a lei.

Ma soprattutto la rendeva orgogliosa il fatto di portare anche lei dei soldi a casa e partecipare alle spese della famiglia.

E così eccovi spiegato perché mia figlia è una zoccola.

Ma ora ho scoperto che anche mia moglie ci sa fare.


(fine)


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