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presenta


La buona scuola / Profondo nord

e gli altri racconti


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ebook della Gara letteraria stagionale d'inverno 2023/2024


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Ebook della Gara letteraria stagionale d'inverno 2023/2024


A cura di Massimo Baglione.


illustrazione di copertina: "Anziani e cane", free picture on web.


Nota: le opere qui pubblicate sono le prime 10 classificate e hanno subìto un blando editing formale rispetto ai testi originali nel forum di BraviAutori.it dedicato alle Gare letterarie stagionali.


Nota: la classifica qui pubblicata fa riferimento al periodo in cui si è svolto questo concorso. Se dalla pubblicazione dell'ebook a oggi qualche iscritto al sito ha cancellato il proprio account, le graduatorie odierne potrebbero differire.

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Regolamento delle Gare Letterarie Stagionali di BraviAutori.it


Le Gare letterarie stagionali sono concorsi a partecipazione libera, gratuiti, dove chiunque può mettersi alla prova divertendosi, conoscendosi e, perché no, anche imparando qualcosa.

I migliori testi di ogni Gara letteraria saranno pubblicati in un ebook gratuito.


Per il regolamento completo: www.braviautori.it/gare?mode=istruzioni


Per visionare la pagina riassuntiva con i totali parziali dei voti espressi, clicca qui.


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Marino Maiorino

(vincitore della Gara d'inverno, 2023/2024)


La buona scuola


Reksa, figlio-di-capo, si svegliò del solito umore: euforico tendente al "padrone del mondo". Con sedici anni da poco compiuti e il fisico che si ritrovava, anch'io mi sarei sentito come lui: tutte le ragazze del villaggio gli morivano dietro e lui lo sapeva bene, ma Reksa aveva occhi solo per Herda; peccato che Herda non lo ricambiasse nemmeno lontanamente.

Amori giovanili, sono così, pensava la madre di Reksa, ricordando la propria gioventù nel figlio, una lunga catena di "amo qualcun altro".

Com'era riuscita, lei, a farsi conquistare dal marito? Ah, sì, certo! Il ricordo la fece sorridere e arrossire.

Reksa, alzatosi dal pagliericcio, era sceso nel fumoso ambiente cucina e aveva visto le piccole uova di merlo nella scodella sul tavolo. Si sedette sullo sgabello e prese un uovo, ne picchiò la testa con l'unghia. Quando il guscio cedette, lui ne sollevò una scheggia, poi succhiò il contenuto. Prese un altro uovo.

— Reksa, che farete, oggi? — chiese la madre.

— Non lo so! — rispose il ragazzo, seccato. — Io non capisco perché devo sorbirmi tutti i giorni quel barbogio!

— Come "non lo sai"? — osservò la madre, sorvolando pazientemente sul commento poco rispettoso. — Possibile che il vecchio Wossama non ti abbia detto che farete oggi?

— Sì, madre, lui lo dice, ma poi fa tutta un'altra cosa! — Reksa non ne poteva più di come Wossama, il saggio della tribù, lo sciamano, il maestro, l'uomo santo, teneva le sue lezioni. Quella discussione l'avevano affrontata già molte volte, il ragazzo e i suoi genitori, ma non sembrava ci fosse modo di mettere un po' di buon senso nella testa di Reksa.

— I tuoi compagni non fanno tante storie! — La madre ripeté una frase che era già campionario. — Com'è possibile che solo tu, il figlio del capo, fai tanti problemi?

— Magari, proprio perché io sono il figlio del capo! — rispose il ragazzo, con un misto di superbia e insolenza che avrebbe fatto perdere all'istante la pazienza a chiunque altro.

— Signorino! — la madre fu a tanto così dall'allungargli un sonoro ceffone. — Se ti sento ripetere una cosa del genere, andrai a lezione dai cinghiali! Essere il figlio del capo non ti rende migliore di nessuno dei tuoi amici, hai capito? Voglio che t'impegni e che segui con attenzione le lezioni di Wossama: ha educato tuo padre, me, ed educherà anche te! E se non ci riuscirà, sarà solo colpa tua! Perciò stasera, quando tornerai, voglio sapere cos'avete fatto, e cosa farete domani! È chiaro?

Reksa l'aveva sparata grossa: raramente la madre si arrabbiava in quel modo, e la minaccia di andare a lezione dai cinghiali… Terminò il terzo uovo in silenzio e salutò la madre un po' mogio. Lei, sperando che il figlio ricapacitasse, lo prese per i capelli e lo abbracciò con affetto.

— Mi raccomando, Reksa, è importante! — Lo lasciò andare.


Era bello, il mondo. Era bello il villaggio, coi suoi abitanti, i suoi animali… Era bello il sole nel bel cielo fresco e azzurro, tra belle nuvole cotonate spinte dal vento profumato di primavera. Erano belli gli alberi al limitare del villaggio, ed era bella oltre ogni dire Herda, ma Herda non degnava Reksa nemmeno di uno sguardo, tranne che quando Reksa cantava. Ma Reksa era il figlio del capo, non un cantore! Perché Herda lo guardava solo quando cantava?

Come al solito, arrivò in ritardo alla radura dove il vecchio Wossama teneva le lezioni per i ragazzi del villaggio. L'anziano stava terminando il ringraziamento al sole con il rituale saluto all'astro. Si voltò verso i ragazzi e vide che anche Reksa era arrivato. Sorrise.

— Buon giorno, Reksa, figlio-di-capo — , disse. — Che hai visto stamattina, mentre ci raggiungevi?

A Reksa non importava se gli altri ridevano di sottecchi di quel teatrino quotidiano: lui era il figlio del capo e, quando sarebbe diventato capo, le risate sarebbero finite.

— Ho visto il sole salire nel cielo azzurro e illuminare il villaggio. Ho visto il vento spingere le nubi leggere. Ho visto gli animali del villaggio, e ho visto Herda! — L'ultima frase gli uscì di getto, senza poterla frenare, ma era colpa di Herda: ce l'aveva proprio davanti agli occhi, ed era così bella che a lui era sembrato ovvio aggiungerla alle belle cose che aveva visto quella mattina.

Herda arrossì un poco e si voltò, per non tradire di essere stata lusingata dal pensiero. Anche Wossama sorrise, ma chiuse gli occhi e si appoggiò al bastone col quale si aiutava ad andare. — Non temi che parlare di Herda accanto agli animali la offenda?

Qualche compagno sghignazzò senza potersi controllare, Reksa si fece rosso in viso.

— Io… No, non volevo… — balbettò.

— Va bene, va bene, figlio-di-capo. — Con questo suo modo di fare, Wossama lo metteva sempre a disagio: lo faceva sentire un bamboccio senza mai offenderlo. A volte avrebbe preferito le sberle del padre ma no: il vecchio riusciva a farlo sentire peggio senza averlo nemmeno rimproverato. — La prossima volta farai meglio con maggior attenzione.


Dovevano affrontare un'escursione nella foresta, come accadeva spesso, ma questa volta Wossama davvero non ne aveva anticipato il motivo. Infatti Ulrich, il ragazzino che spesso guardava Reksa come un mito da emulare, chiese ad alta voce: — Allora che faremo stamattina, Wossama?

Rispose Nitur, l'apprendista dell'anziano: — Tranquillo, Ulrich. Lo vedrete sul posto. Nel frattempo, Reksa, perché non ci canti qualcosa?

Il giovane fu imbarazzato dalla richiesta, come capitava spesso negli ultimi tempi. Oh, a Reksa piaceva cantare, molto! Avrebbe passato tutto il giorno, a cantare, e aveva anche una bella voce. Quando Reksa cantava, tutti ammutolivano; anche Herda lo guardava diversamente.

— Io… Non so. — titubò il ragazzo. Aveva appena fatto una figuraccia, e cantare gli sembrava fuori luogo, in quel momento. E gli sembrava fuori luogo per un figlio di capo cantare senza un'occasione da celebrare.

Il vecchio Wossama dovette leggergli nella mente, perché subito propose: — Sì, figlio-di-capo, canta! Prepara il canto della vittoria!

Quello sì! Quello era un bel canto! Quello gli si addiceva! Reksa prese a cantare a pieni polmoni mentre tutti ascoltavano deliziati quelle parole di valore e gloria conquistati con intrepido coraggio su sanguinosi campi di battaglia contro nemici spietati. Gli altri ragazzi restavano talmente rapiti dal canto di Reksa che spesso, Wossama l'aveva già notato in passato, dimenticavano la fatica di una lunga marcia o il freddo, quasi che il mondo si fermasse.

Il mondo forse si fermava, ma i loro piedi trottavano, e fu così che tutto il gruppo, una ventina tra ragazze e ragazzi di ogni età dai dieci ai sedici anni, avanzò nel folto del bosco con l'anziano e il suo apprendista fino a un guado che attraversava un impetuoso corso d'acqua.

Lì, come altre volte, il vecchio tutore prese una lunga fune che portava sempre appoggiata di traverso su una spalla, vi legò un masso a un'estremità, lo fece roteare velocemente sopra la testa e lo catapultò dall'altro lato del torrente, dove la corda si avvolse diverse volte intorno a un ramo. Il vecchio tirò l'altra estremità della fune per assicurarsi che quella non si sciogliesse, e disse alla più piccina del gruppo di raggiungere l'altra sponda. — Forza, Freyda, oggi tocca a te! — e si diresse alle spalle del gruppo con l'altro capo della fune, cercando qualcosa per assicurarla.

Freyda non se lo fece ripetere: in fin dei conti, essere la più leggera aveva anche i suoi vantaggi.

Per Reksa la scena era ormai consueta, sicché non distolse i propri occhi da Herda nemmeno per un istante: non si curò del proprio turno, avrebbe attraversato quando sarebbe toccato a lui. Ulrich, al contrario, era tutto preso; se la sua vocina non fosse stata ancora troppo infantile, avrebbe gridato lui tutte le raccomandazioni del caso: "Stork, aiuta Freyda! Passale la corda nella cintola! Tienila tesa senza farla dondolare!". Stork era il più alto tra i ragazzi: grande, forte, docile e sveglio come un vitello, e con un cuore altrettanto grande.

Gli altri ripassavano le raccomandazioni già udite tante volte, Freyda si aggrappò alla corda e, muovendosi con la perizia di un bruco sullo stelo di un ramo, giunse sull'altra sponda, raggiunse il capo della corda e lo assicurò al ramo in modo che non potesse sciogliersi; poi la fune venne abbassata e lei mise i piedi a terra. Strofinò le palme delle mani sulla vestina e attese che gli altri la seguissero.

Herda si fece avanti. Anche lei fece passare la fune nella cintola e cominciò la traversata. Reksa la seguì con lo sguardo, imbambolato: quando Herda si stringeva la cintola intorno alla vita, poteva intravederne le snelle caviglie che sembravano chiedergli di cantare affinché lei potesse danzare.

Herda si aggrappò alla fune e si tirò per diverse braccia sul corso d'acqua, e all'improvviso vi cadde con un rumoroso Splunf!

Solo tre persone reagirono all'istante: di qua, Ulrich gridò con voce squillante — Reksa, no! — ma era troppo tardi, perché istintivamente il ragazzo si era già tuffato nell'acqua rapida e gelata; dall'altro lato, Freyda afferrò la fune e cercò di tirarla sperando di soccorrere Herda, ma la bimba era troppo piccola per lottare contro la forza della corrente, e presto cominciò a piangere disperata.

Reksa non aveva capito cosa fosse accaduto: aveva visto la corda scivolare via e lui era riuscito a non lasciarsela sfuggire tra le mani gettandosi di scatto, ma ciò non gli aveva impedito di finire in acqua, né aveva aiutato Freyda, anzi! La bimba, dall'altro lato della corrente, subì lo strattone dovuto all'improvviso peso di Reksa sulla fune finendo per terra e facendosi male. Lo slancio di Reksa non aiutò neanche Herda: con la cintola annodata intorno alla corda, il peso del ragazzo la tirò a fondo, e lei cominciò a ingoiare acqua senza poter respirare.

Ulrich capì che i compagni da aiutare erano tre ma non si perse d'animo: diede uno spintone con tutta la propria forza a Stork e lo riscosse: — Muoviti, bestione! Dobbiamo fare una catena umana! Tu sarai il primo!

Così incitati dal ragazzino, i suoi compagni poco a poco entrarono in acqua cercando di raggiungere Herda. La mole di Stork gli impediva di essere trascinato dalla corrente, ma il letto del torrente era maledettamente scivoloso, e l'acqua dannatamente fredda. Una lunga catena di ragazzi attraversò poco a poco l'aqua impetuosa cercando di raggiungere Herda, che non riemergeva. Reksa, più a valle, non mollava la corda per non essere trascinato chissà dove, ma riusciva a restare a galla.

Freyda si rialzò, ma poco poteva, a parte gridare di fare attenzione: con due persone attaccate alla fune, Herda ormai incosciente e Reksa sbattuto dalla corrente, le era impossibile tirarla di un solo pollice. Ulrich, che si era posto a metà della catena di ragazzini, le ordinò di guidare Stork da fuori l'acqua affinché quello non inciampasse su pietre o in fossi sommersi.

In un tempo che parve un'eternità, ma che in realtà fu molto breve, Stork raggiunse finalmente Herda e la tirò per la cintola fuori dall'acqua. Più giù, Reksa la vide incosciente e gli sembrò che il cuore gli esplodesse nel petto. — Herdaaa! — gridò, allungando la mano, e perdendo la presa della fune. La corrente se lo portò via.

Ulrich gridò a tutti: — Lasciatelo! È andato! Pensiamo a Herda, ora! — La voce ne tradì il pianto a singhiozzo.

Stork era esausto: aveva affrontato la corrente, aveva pescato dall'acqua tumultuosa Herda e se l'era caricata su una spalla, aveva visto Reksa sparire trascinato dai flutti, ma aveva anche lui solo sedici anni; s'impietrì senza poter fare un altro passo.

— Se ti fermi ora, siamo spacciati! — cercò di riscuoterlo Ulrich. Non era quello il momento di scoraggiarsi, ma Stork era perso, senza più fiducia in sé stesso: sarebbero finiti tutti come Herda e Reksa.

— Dannato bestione! Usa la fune! La fune è ancora attaccata all'albero! — gridò ancora Ulrich, e finalmente Stork si accorse che la salvezza era, letteralmente, a un palmo di mano.

Non era mai stato una cima, Stork, ma mentre quel pacioso pachiderma cominciò a tirarsi fuori dall'acqua con la corda, e a trascinare con sé tutti gli amici, prese anche a considerare alcune stranezze: la fune non si era sciolta dal lato di Freyda, ma dal loro! E dov'erano, ora, l'anziano Wossama col fidato Nitur? Loro, forse, avrebbero potuto evitare che Reksa… No, non ci doveva pensare! Ora gli altri dipendevano da lui, aveva ragione Ulrich. Ma la fune… la fune aveva ceduto dov'erano l'anziano e il suo apprendista! Come mai?

Lentamente, tirando la fune, incoraggiato da tutti, Ulrich in testa, Stork raggiunse l'altra sponda del torrente; scaricò Herda sul prato che lambiva la riva fangosa e scoscesa.

— Adesso reggiti alla fune, e aiuta prima i piccoli! — gli ordinò Ulrich.

Che avrebbero fatto, senza di lui? Il piccoletto aveva ragione: i più giovani stavano soffrendo il freddo dell'acqua, e sarebbe stato più facile per loro uscirne col suo aiuto. Stork avvolse la fune intorno al proprio avambraccio destro e aspettò che i bambini, in fondo alla catena, la percorressero tutta fino a mettersi in salvo sulla riva. Quando Ulrich gli passò addosso, lo abbracciò, lo guardò negli occhi con ammirazione e lo ringraziò: — Sei stato davvero grande! — gli disse, e prese terra.

Mentre i ragazzi raggiungevano la riva uno a uno, la piccola Freyda li aiutava: lei, la più piccola di tutti. Finalmente toccò a Stork, che si rivoltò semplicemente sulla sponda, esausto e infreddolito, stendendosi a pancia in su. — Che cosa è successo?! — chiese, volendo qualcuno con cui prendersela.


Reksa aveva perso la presa della fune e la corrente l'aveva trascinato via, facendolo bere un po' e sballottandolo pericolosamente. Forse Herda era annegata, a che pro opporsi al fato? Il figlio di capo si abbandonò alla violenza dei flutti.

Poi, all'improvviso, un braccio possente lo prese per la collottola e lo pescò fuori dall'acqua quasi fosse stato un gattino caduto in una tinozza. — Che cavolo combini, figlio-di-capo? — gli rimproverò una voce.

— Per gli spiriti! — imprecò ancora la voce. — Ma ti rendi conto di quanto sei stato idiota e imprudente?

Mentre così gli diceva, l'uomo lo trascinava risalendo il corso d'acqua, ma Reksa non capiva davvero cosa stesse dicendo: Herda era annegata, perché quest'intruso l'aveva salvato? Scartò di lato per gettarsi di nuovo in acqua, tanto era sconvolto, ma lo stesso braccio di prima lo riafferrò e lo costrinse prepotentemente a riprendere la marcia.

— Che credi di fare, ancora? E tu saresti il figlio del capo? Sembri un pezzo di scemo! — lo rimproverò ancora, e Reksa non lo tollerò più, si voltò divincolandosi e riconobbe Nitur!

— Buono, Nitur! — parlò pacata un'altra voce più avanti. — Non vedi che non capisce niente, in questo momento? — Reksa si voltò di nuovo, e lì era Wossama, il saggio, appoggiato al suo bastone.

Il ragazzo corse in lacrime dall'anziano e cadde in ginocchio ai suoi piedi: — Wossama! Herda…

— In piedi! In piedi, giovane Reksa! — cercò di rincuorarlo lo sciamano. — Andiamo e vediamo: nessuno sa davvero ciò che crede solo di aver visto. Porteremo l'aiuto che sarà possibile. Piangeremo se sarà il caso.


Wossama, Reksa e Nitur percorsero il breve tratto che li separava dal resto del gruppo preda del dubbio. Reksa seguiva il suo tutore vinto dalla venerabilità di quello, ma si sarebbe piuttosto gettato a terra per lasciarsi morire d'inedia. Herda, la sua Herda…

Nitur non sembrava molto allegro, o almeno il suo cipiglio non lasciava sperare nulla di buono, ma gli adulti sanno nascondere le proprie emozioni.

Wossama era imperscrutabile, come sempre. A tratti sorrideva, addirittura? Una vaga preoccupazione ne adombrava l'espressione, ma nulla più. Dunque non temeva per cosa poteva essere accaduto ai ragazzi posti sotto le sue cure? Ma lui era Wossama il saggio, le cui capacità erano state dimostrate tante volte: chi avrebbe osato muovergli alcuna rimostranza? Così pensava Reksa nel proprio modo ancora infantile di vedere gli adulti e le loro relazioni.

Ma Wossama era preoccupato, molto, sebbene non lo desse a vedere. Se ne sarebbe accorto anche Reksa, se avesse valutato la rapidità dei loro passi in quel momento: l'anziano sapeva che non c'era un istante da perdere, e la sua età avanzata non era una scusa buona per attardarsi.

Raggiunsero il gruppo in breve tempo, e la loro comparsa rincuorò i ragazzi. Alcuni stavano stretti tra loro per riprendere calore dopo l'acqua gelata; altri, come Stork, stavano supini sul suolo umido, sfiniti; Ulrich, in piedi, urlava a quei pochi con abbastanza energia di provarle tutte per far rinvenire Herda, immobile. Freyda, che andava qua e là cercando di aiutare tutti, fu la prima a scorgere l'anziano che tornava. — Wossama! — esclamò, e gli corse incontro piangendo un pianto liberatore. Tutti si voltarono da quella parte.

La bimba lo raggiunse e gli si aggrappò alle gambe, nascondendo il viso tra le pieghe della tunica. — Wossama, non è colpa mia! La fune non si è sciolta! — Piangeva e pronunciava terrorizzata frasi smozzicate.

— Lo so! Lo so, piccola Freyda — , la consolò il vecchio, accarezzandole i corti capelli corvini. — Sono io, che ho sciolto la corda! — confessò, per liberarla da quel peso. — Hai fatto bene, sei stata brava. Ma ora dimmi, state tutti bene?

— Herda! È Herda! — singhiozzò la bambina.

— Nitur! — comandò l'anziano, e l'apprendista si fiondò dalla ragazza stesa per terra. Reksa gli si trovò accanto senza nemmeno rendersi conto di aver corso come mai prima in vita sua. S'inginocchiò e si tenne da parte, ma non riusciva a togliere gli occhi di dosso alla fanciulla.

Herda era livida, di un pallore ancor più spaventoso perché in così forte contrasto con l'oro dei lunghi capelli. Nitur le premette ripetutamente con impeto l'addome e un fiotto d'acqua le uscì dalla bocca, poi un altro, poi più niente. L'uomo la schiaffeggiò, le premette il torace, cominciò a strofinarle vigorosamente tutto il corpo per farle riprendere calore, ma Herda non si ridestava. Wossama si adombrò.

Ulrich aveva seguito la scena studiando le espressioni: la preoccupazione, la costernazione, il dolore, la resa. Rifiutò quello che tutti sembravano considerare un verdetto ormai stabilito gridando forte a Reksa: — Finiscila! Non piangere, fai qualcosa! — Lo scosse con violenza.

— Che posso fare? — piangeva Reksa, inginocchiato. — Che posso fare?

— Canta! — fu la sorprendente e perentoria risposta di Ulrich. — Cantale quella canzone che stavi componendo per lei!

Reksa guardò il ragazzino istupidito dalla richiesta. "Canzone" Lo sarebbe stata, forse, un giorno. Per ora erano solo due strofe tenute insieme da una rima approssimata. Avrebbe dovuto essere la cosa più bella che Reksa avesse mai immaginato, che Herda avesse mai udito, e ora non l'avrebbe mai più udita. Con gli occhi cercò nel viso di Ulrich una spiegazione per la sua richiesta, e lesse solo la preghiera Fai qualcosa, qualunque cosa! Reksa prese a cantare.

Ma il ritmo di quello che avrebbe dovuto essere un canto nuziale allegro, veniva rotto dai singhiozzi e dal pianto, perché Reksa non riusciva a vincere il dolore, e ora gli sembrava di aver immaginato quelle strofe solo per torturare sé stesso.


Ci scalderemo al sole del nostro dolce amor,

e il fuoco del tuo riso sarà per noi liquor

del quale poi berremo per darci compagnia

e quando sarem bianchi, invecchierò con te…


La strofa terminò in un acuto ma il ragazzo non riuscì a chiudere la canzone, perché le ultime parole avrebbe dovuto cantarle lei. Si gettò con la testa sul corpo esanime di Herda piangendo e singhiozzando, inconsolabile.

Nessuno ebbe il coraggio di avvicinarglisi, perché sapevano del sentimento che il giovane provava per l'amica. Reksa pianse senza ritegno, senza alcun segno di volersi separare dal corpo della ragazza.

Poi, come esitando, le dita affusolate della destra di Herda, impercettibilmente, si contrassero, presero a muoversi, raggiunsero poco a poco la chioma di Reksa e s'intrecciarono coi suoi capelli, e lei sussurrò, cantando.… e io, con te.


Reksa alzò il capo e incrociò lo sguardo di lei, che aveva gli occhi aperti, e lo guardava.

— Perché piangi, Reksa? — gli disse.

E lui prese a ridere tra le lacrime: qualcosa gli era esploso dentro, una follia irrefrenabile. — Chi, io? Piangere? — le rispose, si asciugò gli occhi e tirò su col naso. — Dev'essere di gioia: non vedi che sto ridendo? — E davvero rideva e piangeva allo stesso tempo, come quando un forte acquazzone si scatena col sole.

Tutti accompagnarono il riso di Reksa con un urlo di giubilo: Ulrich abbracciò Reksa gettandosigli al collo, Freyda saltellava strattonando la cintura di Wossama, Stork aprì le braccia in pace con il mondo: davvero il suo sforzo non era stato invano. Nitur restò seduto in ginocchio, sollevato e finalmente stanco; il vecchio Wossama si appoggiò al proprio bastone come se avesse appena terminato un'estenuante camminata, e il suo sorriso diceva quanta gioia provasse in quel momento.


Reksa si svegliò persino più euforico del solito: non era più il — padrone del mondo — del giorno prima ma, anche alla mia età, col suo nuovo sé appena conosciuto, io mi sentirei proprio come lui. E poi Reksa aveva Herda, e ora Herda lo ricambiava.

Amori giovanili, sono così, pensò la madre di Reksa, ricordando la propria gioventù nel figlio, infine sbocciano.

Reksa scese nel fumoso ambiente cucina e vide le piccole uova di merlo nella scodella sul tavolo. Prese un uovo, ne ruppe la testa senza tanti complimenti e ne succhiò il contenuto. Prese un altro uovo.

— Allora. Che farete, oggi? — chiese la madre.

— Faremo scuola, mamma! — rispose lui, entusiasta. — Impareremo qualcosa, suppongo.

— Qualcosa… — commentò dubbiosa la madre. — Non è un po' poco per Reksa, il figlio del capo?

— No mamma, non è poco, alla scuola di Wossama. — ribatté sicuro. — E poi… basta con questa storia del "figlio del capo": bisogna avere qualità, per fare il capo, che nessuna scuola può insegnarti. La buona scuola non è quella che ti insegna a fare quello che non sei e non puoi essere, ma quella che ti insegna a essere ciò per cui sei nato.

La madre lo guardò sorpresa: che maturo era diventato il suo Reksa in un giorno solo! — Quindi non pensi male di Wossama per la prova di ieri?!

— Male? E perché? — rispose il ragazzo. — È vero, ha azzardato tanto e la cosa stava per sfuggirgli di mano, ma soprattutto a causa mia: ci aveva insegnato tutti i modi di soccorrere, e quando più serviva io li ho dimenticati tutti, a cominciare dall'essere prudenti. Se le cose fossero finite male, potrei averla fatta annegare io, Herda! Perciò, perché dovrei pensar male di Wossama?

— In passato — rispose la madre, — molti hanno chiesto al vecchio di essere più… "morbido" e meno fantasioso, con le sue prove — . Evidentemente, stava ricordando momenti spiacevoli per la loro piccola comunità, perché il suo tono di voce si era incupito.

— Pensavo che andassimo a scuola per imparare a cavarcela! — osservò Reksa. — Che senso avrebbe, altrimenti? Non saremo mai pronti al peggio, sperando che il peggio non debba mai venire! E non sarebbe un bene per il villaggio, se il peggio ci trovasse impreparati!

Sembrava un ragionamento assennato, ma la madre volle saggiare la solidità di quelle parole e assicurarsi che il figlio non parlasse così solo per lo spavento vissuto il giorno prima. — E allora dimmi, se non tu, figlio di capo, chi sarà il capo?

— Di questo, non devi preoccuparti! — rispose sicuro Reksa. — Il giovane Ulrich ha dimostrato tutte le qualità per essere un capo eccellente! Quando ieri… — Il ricordo si risvegliò in tutta la sua drammaticità e lo fece sentire di nuovo impotente e disperato. Ulrich l'aveva riscosso da quello stato! — Lui ha pensato alla sicurezza di tutti! Lui ha stabilito cosa fare e come farlo! Lui è stato pronto e attivo e non ha ceduto alla paura, ma ha guidato gli altri! Io non immagino chi potrebbe essere più adatto di lui!

— E tu, allora? Che farai tu? — chiese la madre, come se avesse perso un punto d'orgoglio.

— Io sarò cantore! — la guardò negli occhi con un misto di emozioni tra la sicurezza di aver capito chi si è, il dubbio del non essere più accettato da una persona cara, e quello di non sapere esattamente cosa una scelta di vita comporti.

— Anche Wossama mi ha detto che potrei fare bene. Dice che ce l'ho dentro, anche se non lo vedo ancora. E quello che è successo con Herda…

Lui l'aveva risvegliata col solo canto quando tutto era perduto. Provare quella strada, nuova, nemmeno immaginata prima, era certo più stimolante che limitarsi a essere Reksa, figlio di capo.

— E sia! — gli rispose la madre. — Ma qualunque cosa tu faccia, falla bene, intesi? — Lo baciò sulla fronte e lo abbracciò, il suo ragazzone. — E salutami Herda. Dille di venirmi a trovare, qualche volta. — Aveva uno strano sorriso ammiccante, mentre gli diceva così.

Era bello il mondo. Era bello il villaggio coi suoi abitanti, i suoi animali… Era bello il sole nel bel cielo fresco e azzurro, tra belle nuvole cotonate spinte dal vento profumato di primavera. Erano belli gli alberi al limitare del villaggio, ed era la prima volta da molto tempo che non sarebbe arrivato tardi.

Ed era bella oltre ogni dire Herda, che ora lo guardava, che Reksa cantasse o meno.


(fine)


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Fausto Scatoli

(vincitore della Gara d'inverno, 2023/2024)


Profondo nord


Il mese d'aprile tra tutti è crudele,

sui morti fiorisce il lillà.

L'inverno ha sepolto la loro memoria,

lasciando soltanto pietà,

e adesso una vita è una faccia ingiallita

è solo una fotografia,

la morte non vale nemmeno il giornale

che leggi e che poi butti via.


Alla soglia dei cinquant'anni ho scoperto l'amore, cosa che mai avrei creduto possibile. Per questo ho deciso di affrancarmi dal peso che mi opprime, per potermi sentire libera di amare un uomo. Ne avevo quindici quando mi violarono corpo, anima e cuore.

Il mio non è che un insieme di frammenti, spesso intrisi di dolore e rabbia, e siccome la storia inizia quando ero bambina, i ricordi non sono completi e ho chiesto aiuto a Livio, mio fratello maggiore, testimone di molte delle scene che mi hanno vista attrice principale, pur se involontaria.


Valle Camonica, maggio 1936


Come ogni giorno, all'ora di pranzo mio padre accese l'apparecchio radio che ostentava con tanto orgoglio a chiunque venisse a farci visita. Poteva permetterselo anche per via del fatto che in zona c'era l'elettricità, grazie alla centrale idroelettrica di Sonico, e sebbene abitassimo in un'area isolata, tra Berzo Demo e Cevo, eravamo in grado di usufruirne.

E l'accendeva per ascoltare il notiziario di regime, di cui era fervente ammiratore.

La voce era trionfale: — Oggi, 5 maggio 1936, l'Impero italiano in Africa si è espanso. Le truppe, guidate dal generale Badoglio, sono entrate ad Addis Abeba: l'Etiopia è italiana!

Ero una bambina di dieci anni, ma ricordo bene il volto soddisfatto di mio padre mentre ascoltava per poi sbottare: — Finalmente abbiamo qualcuno capace di far valere la Patria e portarne in alto il nome. Grande Duce! Continua così e l'Africa intera sarà nostra.

Mio fratello, di un lustro più vecchio di me, non contraddiceva mai, ma scoprii presto che la pensava in maniera diametralmente opposta.

Non osava contrapporsi al padre padrone, non era ancora il momento. Mamma, invece, borbottò: — Però stanno uccidendo tante persone, donne e bambini compresi, anche se non hanno fatto niente di male.

— Taci, donna, non capisci niente. Quelli sono negri, mica gente normale, e anche se crepano non importa a nessuno.

E tutto finì lì, perché altrimenti sarebbero arrivate ritorsioni e botte, tante botte. Per tutti.

Sono certa che quello fu un episodio chiave per le future scelte di mio fratello.


Proprietario terriero, possessore di una ventina di mucche, spesso al pascolo, con cui produceva latte e formaggi, mio padre fu felice alla nascita di Livio. Un maschio in più per il lavoro, questo era il suo pensiero.

L'anno successivo, mia madre diede alla luce due gemelli, ancora maschi. Morirono pochi giorni dopo e lui le si scagliò contro accusandola di non essere una donna capace. Arrivò a picchiarla ferocemente.

Quando nacqui io fece la stessa cosa: voleva un maschio e non una femmina, quindi se la prese pure con me e non mi vide mai di buon occhio.

Si aggregò ai fascisti locali facendo anche donazioni, convinto che così sarebbe stato lasciato in pace.

E per un bel periodo ebbe ragione, poi qualcosa cambiò.


Aprile 1939


Il giorno del mio tredicesimo compleanno, mamma mi regalò una piantina di lillà, splendido fiore.

A tavola, mi resi conto che mio padre mi guardava con occhi diversi dal solito, e infatti a un certo punto mi disse: — Meno male che non abitiamo in paese, altrimenti saresti già incinta, Sara.

— Mario! — esclamò mia madre, mentre Livio lo guardava con occhi sbarrati.

Si difese: — Beh? Ho solo detto che ho una bella figlia, nonostante tutto. Forse non posso esprimere il mio pensiero? Adesso mangiate e state zitti.

Non osai aprire bocca.


Nel pomeriggio presi la piantina, scelsi un angolo del giardino e la misi a dimora. Stavo male e sentivo crescere una sorta di timore, ma per fortuna non accadde nulla.


Aprile 1941


Il lillà aveva proliferato e creato un'aiola, che curavo quotidianamente ogni momento che non dovevo aiutare mamma o Livio. Stavo ripulendo i fiori dalle erbacce, quando vidi arrivare dalla strada di Cevo due militari a cavallo.

Corsi in casa: — Mamma, mamma, ci sono i soldati!

— I soldati? Presto, vai a chiamare papà.

Andai alla stalla e lo trovai intento a foraggiare le mucche insieme a Livio.

Quando gli dissi dei militari rispose: — Impossibile. Cosa vuoi che vengano a fare qui? — Però il viso dava segni di preoccupazione; depose il forcone e andammo alla casa.

Trovammo i due sulla porta, insieme a mia madre.

Non appena ci videro, uno di loro parlò: — Camerata Mario Boni, sei tu?

— In persona, ragazzi. Ditemi, che posso fare per voi?

— Sappiamo che già fai tanto col gruppo locale, ma puoi fare molto di più.

— Spiegatevi meglio.

— Mario Boni, siamo in guerra. Lo sai, vero?

— Certo che lo so, ma questo cosa significa?

I due si lanciarono uno sguardo, poi: — Significa che hai un figlio di vent'anni che deve servire la Patria. Dov'è?

Il panico colse tutti noi, mio padre provò a ribattere: — No, un momento, non è possibile. Se mi portate via il figlio come farò a seguire tutti i lavori di casa? Resterei solo con due femmine incapaci e non potrei più garantire aiuto ai camerati. — Vidi uno strano lampo attraversare i suoi occhi.

— Questo non ci interessa, Mario Boni. Sono fatti tuoi. Chiama tuo figlio.

Uno strano ghigno accompagnò le parole di papà: — Aspettate un attimo. Se invece vi concedessi mia figlia? È giovane e illibata, potreste divertirvi con lei e dire che non avete trovato nessuno.

L'orrore sul volto di mia madre credo riflettesse il mio. — No, vigliacco! Non puoi fare questo a tua figlia! — e cercò di scagliarglisi addosso ma un ceffone violento la fece cadere.

Urla e pianti seguirono subito dopo. Anche da parte mia, visto che i due parevano aver accettato la proposta.

— Va bene, Mario Boni, indicaci la stanza dove andare — disse il primo che aveva parlato. Mi prese per un braccio, stringendo fino a farmi male, e mi portò dentro mentre mio padre faceva strada.

Le grida attirarono Livio, che accorse immediatamente, ma venne fermato dall'altro soldato sotto minaccia di una pistola.

Comprese quanto stava accadendo e lo sguardo divenne cattivo. Rammento le sue parole, lontane: — Papà, questa la pagherai cara, te lo giuro su mia madre e mia sorella.

Ricordo anche la risata di risposta, mentre il dolore della violenza l'ho cancellato dalla memoria.


Nel periodo successivo, mamma mi fu molto vicina e cercò di lenire le ferite, soprattutto morali, che mi erano state inflitte.

Si rifiutò al marito da allora in poi, insultandolo ogni volta che lui la prendeva con la forza, facendole male. Il suo odio crebbe, il mio ancora non era nato.

Nacque nel momento in cui mi resi conto di aspettare un bambino, figlio della prepotenza maschile, del patriarcato, dello schifo in cui il paese era finito.

Insieme all'odio nei suoi confronti, sorse una repulsione totale verso i maschi, fratello compreso. Dal quel giorno era scomparso ed ero convinta fosse scappato. Vigliacco come il padre, pensavo. Non sapevo di sbagliarmi, ero piena di rabbia e incapace di raziocinio.


Non feci parola della gravidanza, anche se mamma se ne accorse quasi subito. Mi venne accanto, in lacrime, e mi fece la domanda. Alla mia risposta affermativa disse: — Lo uccido.

— No, non farlo, mamma. Non se lo merita.

Mi guardò, stranita per le mie parole, e mi abbracciò forte. Piangemmo tanto.


Il problema reale si manifestò quando tutto divenne evidente.

Una sera, a cena, mi chiese se aspettassi un bambino. Gli sorrisi e accennai col capo, facendolo infuriare: — Puttana schifosa, una figlia puttana, ecco cosa mi ritrovo. Un bastardo che mi ha abbandonato e una figlia puttana… — non andò oltre perché la lama di un coltellaccio da cucina, impugnato da mia madre, lo punse alla gola.

Scioccato, mormorò: — Che fai Resi, sei impazzita? O sei bastarda e puttana anche tu?

Solo la pressione della lama sulla giugulare lo fece stare zitto.

— Se c'è un bastardo in casa, quello sei tu, Mario. Il ventre di tua figlia è stato riempito dai tuoi amici fascisti, contro la sua volontà. Sei tu il colpevole, lo sarai per tutta la vita.

Si allontanò, sempre col coltello in mano, e mio padre si girò di scatto, colpendola al volto e riempiendola poi di botte.

Non mi toccò ma mi disse: — Tu non uscirai più da questa casa fin che io sarò vivo, intesi?

Se ne andò bestemmiando: — Puttane, tutte troie e puttane, sono le donne.


Gennaio 1942


Il 10, con il supporto di mamma, partorii Michele. Lo chiamai con quel nome, anche se mio padre voleva imporgli il proprio, Mario. In fin dei conti, era felice per il fatto che fosse maschio e si congratulò con me: — Sei meglio di tua madre. — il mio disprezzo nei suoi confronti crebbe ancora.

Sebbene non desiderato, si era formato nel mio grembo e lo sentivo parte di me. Lo amai dal primo minuto, come ogni madre dovrebbe amare i frutti del proprio corpo. Fortuna volle che il bimbo fosse sano, il che fu un'agevolazione non da poco.

In caso di malattia avrei dovuto far venire qualche dottore, e cos'avrebbe pensato, vedendolo?

Alle cose necessarie pensò sempre lei, mia madre Teresa, o Resi, come la chiamava lui. Meno male che avevo lei, altrimenti non so come sarebbe finita la storia.


Aprile 1942


Una bella giornata di sole mi vide nel giardino a ripulire i lillà che cominciavano a fiorire. Poco prima avevo allattato dal seno il piccino, che ora dormiva beato. Mio padre aveva condotto le vacche al pascolo.

Mi sentivo osservata e infatti giunse una voce: — Ciao, Sara.

Livio! Mi guardai in giro cercando di capire dove fosse e lo vidi: fucile a tracolla, mi sorrideva da oltre la siepe che delimitava il giardino.

Per un istante ebbi l'istinto di maledirlo, poi scoppiai a piangere e andai ad abbracciarlo.

— Dove sei stato finora? Se papà ti vede…

— Mi sono unito ai partigiani, Sara, non sono scappato. Cerco di difendere la mia terra dal sopruso fascista.

— Scusami, Livio, pensavo che fossi andato via per la paura.

— Nessuna paura, sorellina. Però voglio vedere il mio nipotino.

Lo guardai, attonita. — Come fai a saperlo? Ne parlano in giro? Oddio, che vergogna.

— No, non ne parlano. Pochi sanno dell'accaduto, e sono tutti fidati, ma ogni tanto passavo di qua e ho visto l'evoluzione del tuo corpo. Ho parlato con mamma più di una volta, per questo sono a conoscenza dei fatti.

Lo presi per mano ed entrammo in casa. Michele dormiva nella culla, mio fratello gli si avvicinò e gli diede un bacio in fronte. — È bellissimo — sussurrò per non disturbarlo.

Apparve mia madre e, vedendolo, lo abbracciò fortemente.

Poche parole, poi ci disse: — Devo andare, mi stanno aspettando, ma tornerò, statene certe.

— Fermati — esclamò mamma, — ho messo da parte tre forme senza che tuo padre se ne accorgesse, ora te le prendo. Vi saranno utili di sicuro, figlio mio.

Pochi istanti dopo ci accomiatammo, ma prima di partire mi guardò negli occhi: — Ho giurato di vendicarti, Sara, e mantengo sempre la parola. Al momento opportuno lo farò, ora sarebbe dannoso.

Mi baciò sulle guance e partì.


Luglio 1944


Le stagioni si susseguirono, Michele crebbe senza particolari problemi, mia madre era una nonna formidabile. Mario Boni era sempre quello. Cattivo, violento, arrabbiato col mondo per il tradimento di Livio, che l'aveva lasciato solo a gestire ogni cosa.

Nonostante le sorti della guerra si stessero ormai delineando in modo netto, rimase ancorato alla sua idea fascista, continuando a frequentare i gruppi in zona e aiutandoli come poteva.


Una sera, non ricordo la data precisa, sentimmo spari a oltranza provenire dalle parti di Cevo. Stava accadendo qualcosa di brutto, in paese, e ci sorse il timore che potessimo venire coinvolti anche noi, pur essendo piuttosto lontani.

Non avvenne, ma vedemmo fiamme e fumo alzarsi nel cielo.

— Speriamo non ci sia di mezzo Livio — esordì mamma. Aveva ragione, non ci pensavo ma poteva benissimo essere uno scontro tra partigiani e militi.

Mio padre non ribatté, stranamente.

Qualche giorno dopo, mio fratello si fece vivo, rassicurandoci, tramite Roberta, sua compagna di lotta. Che fosse anche compagna di vita lo avremmo scoperto in seguito.


Aprile 1945


Lo vidi entrare sorridendo e urlare: — Sono arrivati gli americani, abbiamo vinto!

Sbalordite, lo guardammo. Mio padre che esultava per la vittoria degli alleati? Aveva cambiato idea, ma da quando? Fino a poco prima sosteneva che la vittoria avrebbe arriso agli altri, e ora…

Tacitamente decidemmo di non ribattere e la cosa lo fece infuriare: — Non siete contente? Non siete mai contente voi donne, maledizione! — Uscì sbattendo la porta e andò verso la stalla.

Pochi minuti dopo giunse Livio. Non lo aspettavamo, fu una sorpresa. Aveva una mano fasciata e gli chiesi se avesse bisogno di medicazione.

— Dopo — fu la sua risposta. — Ora prendete il bambino e allontanatevi, è giunto il momento che aspettavo. Mamma, dov'è lui?

Scosse la testa: — Non farlo, figliolo, ti prego. Non farlo.

— Non posso, mamma. È sempre stato una spia fascista, ha mandato lui i repubblichini a Cevo perché sapeva che noi eravamo là. Sei morti e tutto il paese in fiamme, grazie a lui. Dov'è?

— Non so, credo sia nella stalla.

Livio mi prese per un braccio: — Andate, Sara. Recatevi alla baracca nel pascolo, verrò a chiamarvi.

Facemmo come ci aveva chiesto, col cuore gonfio.


Michele stava raccogliendo fiori di campo, controllato a vista da noi due, quando sentimmo due colpi d'arma da fuoco. D'istinto io e mia madre ci abbracciammo, sotto lo sguardo sorpreso del piccolo.

Passarono parecchi minuti prima che arrivasse Livio.

Osservandolo, mi accorsi dei suoi occhi arrossati. Aveva pianto, di sicuro, ma quale fosse il motivo preciso potevo solo supporlo, e mi ruotavano in testa tesi e antitesi.

— Venite, potete rientrare — disse mestamente.


A casa non c'era traccia di alcun accadimento e così gli chiesi dove lo avessero sepolto.

— Sotto i lillà, Sara. A imperitura memoria del suo infame comportamento nei tuoi confronti.

Il cuore mi fece un sobbalzo. Piansi. Mia madre era invece imperscrutabile e gestiva mio figlio con una noncuranza che non comprendevo. O forse sì, ero molto combattuta, pur se conscia del male e dei torti subiti.


Alcuni giorni dopo, stabilizzatasi del tutto la situazione nazionale con la fine ufficiale della guerra, Livio si trasferì definitivamente da noi insieme a Roberta, conosciuta durante la resistenza.

La convivenza non fu difficile. Lei era una brava donna, lui riprese a occuparsi della fattoria e del terreno, sostituendo in toto nostro padre, mentre mamma si andò lentamente spegnendo, forse sopraffatta dalla portata degli eventi, e pochi mesi dopo ci lasciò.


Il giorno del suo funerale, Michele mi chiese per la prima volta dove fosse nonno Mario.

— Al prossimo compleanno ti spiego tutto, bimbo — fu la mia risposta.


Gennaio 1946


La festicciola in famiglia per il quinto anniversario di vita di mio figlio fu semplice e frugale, pur se allietata dalla notizia della gravidanza di Roberta. Gravidanza cercata, voluta, gradita.

Dopo pranzo andai in giardino con Michele e gli feci vedere una fotografia, ingiallita dal tempo, dei nonni. Mario e Teresa.

— Nonna se n'è andata pochi mesi fa per malattia, lo ricordi, vero? Il nonno invece è morto poco prima. Ha avuto uno scontro a fuoco col nemico ed è rimasto ucciso.

— Davvero?

— Sì, gioia, davvero. Al pari di tuo padre, ha cercato di difendere la Patria come poteva e ci ha rimesso la vita.

— Povero nonno. Grande nonno… — Prese la fotografia e la baciò.

Non stavo rivalutando mio padre, volevo solo che Michele crescesse tranquillo.

— Di papà non ci sono fotografie?

— No, piccolo, non c'è stato il tempo.

Un giorno, forse, avrebbe saputo la verità, ma per ora andava bene così.


Aprile 1975


Sono passati decenni. Livio e Roberta hanno avuto tre figli; uno è professore universitario, le due femmine sono sposate felicemente.

Anche Michele si è maritato e insieme a Clelia mi ha reso nonna due volte, con Carlo e Claudio.

Io non ho più avuto un uomo in vita mia, non me la sono sentita.

Mi sono dedicata ai fiori e agli animali, ai lillà e ai cagnolini, ultimo dei quali è Toby, una vera peste.

Però qualcosa sta cambiando, dentro di me. Ho conosciuto Giorgio, in paese, un paio di settimane fa, e da allora mi sento scombussolata. Ansia e desiderio di ritrovarlo, batticuore quando accade… cose mai provate prima.

Oggi viene a casa mia, vuole presentarsi alla famiglia, farsi conoscere.

Lo attendo girovagando per il giardino, insieme al mio cane.

Che sta cercando di fare una buca dove ci sono i lillà.

— Toby! Smettila e vieni subito via da lì. Non si fanno le buche in giardino, se non servono.


"Quel corpo che tiene sepolto in giardino

di fiori ne dà o non ne dà?

Tenga lontano il suo cagnolino:

se scava lo ritroverà."


Stormy Six - La sepoltura dei morti - 1975


(fine)


Nda: i nomi dei protagonisti sono di pura fantasia, ma si fa riferimento a fatti realmente accaduti. A Cevo, nel luglio 1944, i fascisti uccisero, dopo tortura, sei persone, poi diedero fuoco a quasi tutto il paese lasciando mille persone senza tetto.


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Giovanni p


Marchesi e mezzadri


— Marchese, mi ha fatto chiamare?

Belotti, attese con le mani in mano una risposta mentre il marchese Francesco Giacomo Roy da Serravalle fissava il grano verde ondeggiare teneramente al vento. Dalla finestra del suo studio si potevano ammirare le colline più belle della zona, accoccolate come dei gatti che dormono. Quel grano era il vanto della sua provincia, riempiva gli occhi a tutti quelli che percorrevano le strade candide che si snodavano fra le colline, alzandosi e precipitando a perdita d'occhio verso la vallata dove alcune casupole, squallide e scalcinate, ricordavano più delle famiglie di funghi in un bosco che dei veri centri abitati. Laggiù, sotto quei tetti fatiscenti, tre generazioni di essere umani abitavano numerosi in poche stanze in una promiscuità squallida. Le donne più anziane si occupavano dei bambini che erano molti e gli uomini, per quanto vecchi fossero, lavoravano tutto il giorno nei campi per far sì che il grano del marchese fosse il più fitto del centro Italia. Le donne giovani aiutavano come potevano nei campi i loro padri, fratelli e mariti, distruggendosi schiena e mani.

— Belotti, vuoi siete uno svizzero in terra italica — dissi il marchese voltandosi — un tesoro prezioso per un modesto possidente come me.

Belotti chinò la testa con profonda modestia, senza però accogliere nel suo animo quelle parole.

— La chiamavo perché ho bisogno di consultarmi con voi, ci sono alcune questioni economiche che mi disturbano il sonno.

A quelle parole le mani di Belotti si fecero umide.

— Questioni economiche, signor marchese?

— Non si allarmi buon Belotti — disse il marchese sedendosi alla sua scrivania di ebano — non siamo ancora sul lastrico!

Belotti colse il tono ironico del marchese e sorrise benevolo stando attento a non sconfinare nella condiscendenza.

— Vede Belotti, i tempi cambiano, le persone cambiano e persino il denaro cambia, questo lei lo capisce vero?

Belotti annuì, ma nella sua testa si agitavano i pensieri più gravi, anche se il marchese sembrava tranquillo la sua posizione poteva essere a rischio. A lui era concesso di vivere nella cascina dei casieri, dove sua moglie e i suoi figli non avrebbero mai conosciuto il lavoro nei campi svolto dai poveri diavoli con metodi settecenteschi e paghe che prevedevano unicamente la sussistenza. La posizione di Belotti era arpionata da questo con tutte le sue forze, l'unico modo per concedere ai suoi due figli una vita umile e non misera.

— Come saprà, con i cambiamenti che ci sono stati, un paolo non vale più un paolo da quando c'è la lira.

— Signor marchese — incalzò con tono basso Belotti mentre guardava la scrivania scura — io posso giustificarmi.

Il marchese guardò la testa di Belotti, quasi ormai calva e sorrise aspettando le sue giustificazioni.

— Ho investito buona parte dei suoi titoli in obbligazioni britanniche, ho fatto cambi di valute in franchi svizzeri e ho commerciato in pietre preziose tutte le entrate non registrate, il suo patrimonio è intatto ve lo posso garantire.

La faccia di Belotti si alzò, era pallido e aveva gli occhi lucidi. I marchese gli sorrise con benevolenza, poi disse mentre la luce del giorno a le sue spalle lo illuminava:

— Belotti… ma che mi combina?

Questo non rispose, il marchese scosse la testa sorridendo e aggiunse:

— Io non sono qua per rimproverarla, io non dubito del suo lavoro che per me è preziosissimo. Io ho bisogno del suo aiuto.

Belotti sentì il sudore inzuppargli la schiena, la sua camicia fortunatamente era coperta da un pesante capotto scuro che portava anche in quei giorni di primavera.

— Sono al vostro servizio, marchese. — disse abbassando di nuovo la testa.

Il marchese si alzò e tornò a guardare fuori dall'enorme finestra che dava sulle sue proprietà. I suoi lineamenti erano distesi, ma i suoi occhi puntavano qualcosa che poteva scorgere appena dalla sua finestra.

— Come sono messe le mie polizze assicurative? Chiese il marchese senza voltarsi.

— Perfettamente, signor marchese. Le ho revisionate tutte!

— Anche quelle dei campi?

— Soprattutto quelle dei campi, signor marchese!

— Anche quelle sulla mia tenuta?

— Certamente, signor marchese!

— Anche quelle della diga?

Quella domanda risultò strana a Belotti, si agitò, ma poi rispose:

— Certamente, signor marchese. Ma è mio dovere ricordarle che la polizza sulla diga non è tutta a carico vostro, ma anche a…

— A carico dello stato - disse voltandosi il marchese — giusto?

Belotti annuì nervosamente.

— Per fortuna ci capisco ancora qualcosa — aggiunse il marchese sorridendo — vero, Belotti?

Il tono gioviale lo mise in profondo imbarazzo, si limitò ad annuire di nuovo nella maniera più ossequiosa possibile. Il marchese si rimise alla sua scrivania scivolando come un felino.

— Vede Belotti, come saprà io viaggio molto.

Belotti annuì con il solito nervosismo.

— E viaggiare apre la mente, espande gli orizzonti.

— Sì, signor marchese.

— Io appartengo a un'antica famiglia, nemmeno io conosco alla perfezione il mio albero genealogico, forse nemmeno mio padre lo conosceva… se lo ricorda mio padre, Belotti?

— Io devo tutto a suo padre, signor marchese - disse Belotti scattando sull'attenti — io sono figlio di contadini, è stato lui a farmi studiare!

Per un attimo Belotti era uscito dal suo angusto confine, il ricordo del marchese Ferdinando Francesco Quarini da Serravalle lo aveva acceso, gli aveva reso la luce nello sguardo. Impiegò poco però a capire che il suo era stato uno sbaglio. Il marchese infatti lo fissava, il suo sorriso si era ritirato e il suo sguardo si era fatto inquisitorio.

— Le chiedo umilmente scusa, signor marchese, ho parlato con un trasporto che non sì…

Una risata interruppe Belotti, il quale nel vedere ridere il marchese si mise a ridere anche lui, sudando e con il cuore che gli batteva forte.

— Scusarsi? Ma lei Belotti mi riempie di gioia!

Questo annuì come se fosse colpito da una scarica elettrica.

— Mio padre è nel cuore di tutti, e sarà sempre così!

Il marchese si alzò dalla sedia per sedersi sulla scrivania.

— È stato mio padre a voler far studiare i figli dei mezzadri e sempre lui a bonificare tutti i territori che vanno verso il mare, dove la povera gente moriva di malaria e di stenti.

La faccia di Belotti si fece scura.

— Non mi morirono anche i suoi genitori di malaria, Belotti?

Lui annuì deglutendo, senza nervosismi.

— Vede Belotti — disse il marchese alzando il ginocchio destro per poi afferrarlo con entrambe le mani — la generosità della mia famiglia ha reso grande questa terra una volta aspra. Ma i tempi stanno cambiando e anche noi dobbiamo cambiare con loro.

— Certamente, signor marchese.

— Nel mio ultimo viaggio al meridione ho notato che tutti i miei eguali hanno portato avanti un'unica strategia, cioè la tesaurizzazione.

Il marchese si alzò e iniziò a camminare per la stanza sgranchendosi le gambe.

— Alcuni mesi fa sono stato al nord, e lì invece quelli come me hanno sposato la causa dell'innovazione.

Belotti cercava di capire dove il marchese volesse arrivare, temendo il peggio.

— E mi sono domandato: — ma noi del centro, in che direzione dobbiamo andare?

— Non lo so, signor marchese.

Il marchese sorrise e avvicinandosi a Belotti disse:

— La nostra strada è la speculazione.

Belotti rimase immobile come se una belva feroce lo stesse puntando.

— Nelle mie farneticazioni improduttive ho pensato: — quanto potrei riscuotere di premio assicurativo se la diga venisse giù e danneggiasse i miei possedimenti?

— Seicentomila lire, signor marchese - rispose Belotti muovendo sole la bocca, come se il resto del suo corpo fosse murato.

— Bravo Belotti! — esclamò il marchese indicandolo con l'indice destro - e mi dica, quanto possono valere i miei possedimenti?

Belotti abbasso la faccia avvicinando il mento allo sterno, poi rispose:

— La sua magione e i campi possono valere centomila lire. Con le case dei mezzadri potremmo arrivare a perdere centocinquantamila lire.

— Belotti, voi siete troppo buono! Le case dei mezzadri valevano questa cifra quando mio padre faceva manutenzioni e interventi edili, ma ora non varranno più di trentamila lire.

Belotti si sentì morire, il marchese annusò la sua paura e ne trasse un godimento simile a un orgasmo.

— Belotti lei come immagino si terrà aggiornato, immagino, sull'annosa questione meridionale?

Belotti annuì.

— Sa dirmi quanto vale un bracciante lucano?

— Intende quanto deve essere retribuito?

— Sì, quanto vale, Belotti.

— Non saprei dire…

— Un bracciante lucano vale un terzo di quelli nostrani.

Belotti sentì il conato salirgli dallo stomaco.

— Vede, io nel mio fantasticare ho pensato a una tragedia, d'altronde le tragedie succedono, vero Belotti?

Lui non rispose.

— Mettiamo che il fiume esondi a causa della diga che non regge la pressione dell'acqua, e che oltre che il grano spazzi via anche le povere case dei miei mezzadri. Io avrei il cuore distrutto da tanta sciagura, ma le mie tasche sarebbero decisamente più gonfie, molto di più che a raccogliere il grano che vede la fuori.

— Ma signor marchese…

— E poi, in fondo, non siamo tutti italiani? Non sarebbe bello rimpiazzare i nostri mezzadri, ormai stanchi e sfibrati, con dei mezzadri nuovi?

— Signor marchese, io…

— Già, veniamo a lei, Belotti!

La faccia del marchese si avvicinò a quella di Belotti come il muso di un aspide si avvicina al topo che sta per mangiare.

— Lei metterà in pratica le mie fantasticherie, e lo farà con la precisione e la serietà che la contraddistingue. Lei farà tutto questo per me e lo farà impegnandosi al massimo, ma soprattutto stando zitto con tutti, mezzadri in primis.

La faccia del marchese si allontanò da quella cadaverica di Belotti, poi riprese dicendo:

— Hanno dodici e dieci anni i suoi figli?

Belotti annuì cercando di domare il tremito.

— Ho già sottoscritto per loro le spese di trasferimento a Torino per le scuole superiori e se saranno bravi per gli studi universitari. Naturalmente avranno vitto e alloggio pagati e anche dei vestiti che si addicano alla città.

Il petto di Belotti accusò una fitta mentre il marchese fissava con malcelato sdegno il cappotto sdrucito di chi aveva di fronte sapendo benissimo che questo non ne possedeva altri.

— Se li immagina, Belotti… due dottori. — disse il marchese avvicinandosi alla finestra. — Un giorno titoli come marchese, conte o barone non varranno nulla, ma un dottore è per sempre.

La testa di Belotti girava al punto che rischiò di svenire.

— Voglio che entro novembre sia tutto fatto, quando le piogge gonfieranno il fiume. Pensi lei a tutto.

Belotti si inchinò capendo che doveva andare.

— Belotti…

Questo si bloccò come se gli avessero sparato

— Sì, marchese? Domandò con un filo di voce

— Non si rammarichi per i mezzadri, fra cento anni saremo tutti morti, compresi noi due.

Belotti uscì sentendo lo stomaco bruciargli, il marchese lo vide marciare gobbo verso la tenuta dalla vetrata del suo studio sorridendo.

Mentre il marchese scriveva alla sua amante francese dandole appuntamento nella sua villa sul Tirreno per novembre, Belotti piangeva accarezzando il grano ancora tenero cercando di non pensare ai mezzadri e le loro famiglie.


(fine)


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Selene Barblan


Kitsune


Sono ore ormai che aspetto, nel buio di questa camera d'albergo, il risveglio del mondo. Dall'esterno la luce filtra attraverso la carta sottile delle finestre e fa emergere i contorni netti dei mobili di legno scuro. Parallele che vanno a incontrare altre parallele creando geometrie leggere.


Percorro il canale che scorre vicino all'hotel, accompagnata dal suono assordante delle cicale; il caldo è già soffocante anche se la giornata è solo agli inizi. La vegetazione delle aiuole a ridosso degli argini del canale è ripiegata su sé stessa, aspetta il sollievo di una vera pioggia che sembra non arrivare mai. Solo poche macchie di colore qua e là ravvivano l'ambiente, alberi di San Bartolomeo e piante gamberetto in fiore. Non i ciliegi dell'Hanami*, ma ne ammiro comunque i petali delicati. Più avanti vedo una signora: indossa stivali di gomma e cammina nell'acqua bassa. Con un mestolo di legno dal lungo manico bagna le piante del suo pezzo di giardino, il giardino di tutti. Questo prendersi cura di un bene comune mi regala un attimo di gioia.


Sul treno ripenso a ciò che ho letto riguardo al luogo che sto andando a visitare. Non è stato tanto il tempio, dedicato alle divinità del riso e del saké, ad aver catturato la mia attenzione quando ho letto la guida di viaggio. Piuttosto mi ha attratto il sentiero che, immerso nel bosco, risale la montagna per una manciata di chilometri. Il cammino ha inizio alle spalle del santuario ed è racchiuso da centinaia di torii** rossi, portali per il mondo spirituale.


Le strade del quartiere che devo attraversare per raggiungere la Fushimi Inari-Taisha sono un fiume in piena di turisti accalcati, sudati; potrei anche fermarmi e la corrente mi porterebbe senza sforzi a destinazione. Quando finalmente raggiungo il santuario mi soffermo per qualche momento ad ascoltare il suono delle Furin*** che vibrano allegre e danno voce al vento.

Una strana calma comincia a filtrare dentro me, come se quel luogo non mi fosse del tutto sconosciuto. Come se fossi tornata a origini delle quali non sospettavo l'esistenza. O forse è il demone volpe delle leggende che si sta insinuando in me.


In questa stagione della mia vita mi sento permeabile agli influssi esterni, forse comincio a nutrire il bisogno di credere in qualcosa. Cammino come in trance su per gli scalini; luce e ombra, ombra e luce. Un'alternanza che magnifica la sensazione di distacco e di appartenenza che si amalgamano a creare una tonalità sempre meglio definita. Le persone attorno a me si diradano, sono sempre più sola e sempre più tranquilla, il sudore che mi scivola lungo la schiena è piacevole, cola come cera, una carezza lieve. Ad accompagnarmi ora ci sono solo statue dal muso allungato e il loro sguardo penetrante.


Mi si apre di fronte un luogo che sembra dimenticato da secoli. La vegetazione è un tutt'uno con le rocce, decine di piccoli altari si susseguono e la luce filtra lieve dall'alto. Mi avvicino a uno di quegli altari, il più grande; una grossa corda si muove in oscillazioni appena percettibili, sembra sospesa nel nulla e protendersi verso il cielo, verso il divino. Sento nelle tempie un pulsare lento ma intenso, mi rifugio in uno stato di estraneità, non so per quanto tempo. Come attraverso un velo, vedo immagini che si rincorrono, sembra una danza di colori confusi e forme che si amalgamano. Rimango così, immobile, la carne come pietra, la mente come vento. Poi sono di nuovo io, afferro la corda e tiro. Eseguo il rituale e la formula esce dalle mie labbra con una naturalezza che non mi so spiegare; non avevo mai compiuto quei gesti, non avevo mai sentito né pronunciato quelle parole.


Scendere, tornare, andare verso il basso. Verso la gente, verso il caldo che ricomincio a percepire, ma che non mi pare più così soffocante. È come tornare alla vita, l'esistenza dalla quale a volte vorrei sfuggire. Un desiderio di sparire e unirmi alla natura che mi ha reso debole e ha permesso a qualcosa di impossessarsi di me. Questi pensieri mi assorbono a tal punto che mi ritrovo con un senso di sorpresa davanti al disegno che illustra l'intero complesso sacro. Cerco con lo sguardo quel luogo che, lo sento, mi ha segnato. Ma seguendo il cammino di torii dipinti non lo trovo, me lo sono immaginato, ciò che ho creduto di vivere è stata una pura illusione.


Torno a quella stanza che considero una casa temporanea; aspetto la notte indecisa tra la delusione di non aver trovato niente e il sollievo dall'angoscia di un mistero che forse non saprei gestire. E tra la veglia e il sonno sento crescere in me una strana sensazione, perdo il controllo, varco la soglia.


È notte fonda e la donna si mette a sedere nel letto, le lenzuola sono intrise del suo sudore, il suo sguardo nel buio sembra riflettere la luce della luna che entra dalla finestra dimenticata aperta. Il suo viso è cambiato, i suoi occhi ora hanno riflessi dorati, il viso si è come allungato, i capelli hanno sfumature rosse. Con movimenti lenti mette i piedi nudi a terra, si spoglia e cammina. Ha fame, molta fame, si deve nutrire. Varca la soglia che dà sul giardino, un guaito nasce dalla sua gola, poi corre via, la notte la inghiotte, forse per sempre.


(fine)


*È usanza in Giapppone ammirare la bellezza della fioritura dei ciliegi e delle piante in generale, in primavera. Hanami è il termine usato per descrivere questa tradizione. (Liberamente tratto da Wikipedia).

** I torii sono portali d'accesso tradizionali alle aree sacre, in Giappone. (Liberamente tratto da Wikipedia).

*** I Furin sono campanelle che, mosse dal vento, suonano.


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Laura Traverso


Le cugine e il mare


Piove, una pioggia insistente e rabbiosa non concede tregua. Fa freddo, il gelo è implacabile e fa rabbrividire mentre il vento soffia impetuoso e penetra nelle ossa; eppure lei quasi non se ne accorge. Il ghiaccio avvertito nel cuore è molto più intenso di ciò che proviene dall'ambiente circostante. C'è silenzio attorno, una pace ovvia, consueta e rispettosa. Singhiozzi trattenuti le ricordano che non è lì da sola, però è come se lo fosse.

La sua mente va a ritroso e ricorda.


Abitavano vicine, nella medesima via di quel paese di provincia dove la vita pareva scorrere più lenta rispetto alla città, distante nemmeno trenta chilometri da lì.

Lei era la più ricca tra le due cugine, possedeva una bella villetta con un ampio giardino dall'aria antica, coperto parzialmente da uno strato erboso, quasi sempre fiorito e profumato. Le loro preferite, però, erano le panchine in cemento grigio in quanto servivano da teatro su cui inscenare molti giochi: erano talvolta banchi di vendita con la merce esposta; vi si potevano trovare pietruzze colorate e non, ritagli di foglie, ramoscelli spezzati e anche crema di girini — raccolti nel torrente vicino — e trasformati (crudelmente) in poltiglia per essere venduti come pregiato paté.

La venditrice di solito era lei, l'altra andava al suo negozio a comperare per poi tornare alla sua panchina che serviva da casa, dove c'era una cucina attrezzata con tanti pentolini di alluminio adatti a cucinare la merce acquistata nella bottega della cuginetta.

Avevano passato così tante estati, stagioni bellissime fatte di giochi e di gioia, di armonia, buon umore e risate, e anche di qualche bisticcio e malumore, come succede sempre anche tra chi si vuole molto bene.

Poi lei, il cui nome è Lorenza, si era trasferita in città, la sua famiglia aveva deciso così, di lasciare il paese per una vita, dicevano, migliore.

Era sempre stata molto intelligente e studiosa, la prima della classe alle elementari nel loro paese natio.

Andavano nella stessa scuola anche se in classi diverse, le distanziavano due anni di età.

Inevitabilmente l'amicizia, privata dalla frequentazione assidua, si era affievolita.

Si vedevano sì, ma sporadicamente. Intanto gli anni volarono via imprimendo sulle due bambine, ormai adulte, il proprio destino.

La cugina più piccola, fedele a sé stessa, si era laureata con centodieci e lode, diventando poi una brava docente di inglese nel prestigioso liceo della città in cui anni prima era andata a vivere.

L'altra, invece, aveva seguito un diverso percorso di vita, certamente più usuale per le ragazze dell'epoca, dopo la maturità classica, non aveva più voluto continuare gli studi e, giovanissima, si era sposata.

La sorte, però, avvicinò di nuovo le due cugine. La più grande, con l'andare degli anni e con i figli ormai adulti, mise fine al suo matrimonio ormai esaurito e pensò di trasferirsi dalla provincia in città.

Fu molto facile e spontaneo ritrovarsi e riprendere a frequentarsi.

Anche l'altra si era sposata, anche se, contrariamente a lei, in età più avanzata e consapevole; non aveva figli ma un marito molto affiatato col quale condivideva al meglio la vita, fatta di viaggi, rispetto e altri interessi in comune.

Avevano ripreso a divertirsi assieme andando a fare lunghe passeggiate, ma ciò che le rendeva più felici e complici era il mare. Ogni estate avevano il loro appuntamento immancabile: la spiaggia.

Ma erano sagge e prudenti; data l'età ormai più che adulta sceglievano stabilimenti balneari al meglio attrezzati, non rischiavano mai di "bruciarsi" sotto il sole, riparandosi adeguatamente con l'ombrellone dopo essersi spalmate di abbondante crema protettiva. Non si privavano, però, di lunghe nuotate intervallate da soste in cui non smettevano di raccontarsi, e a volte di rievocare il passato, per poi riprendere a nuotare avventurandosi al largo, in mare aperto, in quanto brave, coraggiose e con un ottimo rapporto con il mare.

Erano abituate a dialogare su qualsiasi argomento. Entrambe interessate alla vita e alle sue molteplici opportunità, fatte anche di viaggi (avevano viaggiato moltissimo in molte parti del mondo, per proprio conto, e amavano ripercorrere con la memoria i luoghi visitati per poi condividerne le esperienze) di cinema, teatro e mostre d'arte. Sovente, però, parlavano della loro vita, di quanto in fretta fosse trascorsa, di come pareva ieri quando erano bambine, e invece il tempo si era srotolato in fretta portandosi via figure amatissime e sempre rimpiante, come i nonni, i genitori, gli zii e tanti parenti.

Su questo argomento più di una volta si dissero, ridendo ma con un filo di malinconia: — Chissà chi delle due dovrà partire per la prima? Be', quando succederà l'altra, quella che rimane, non potrà non ricordare soprattutto l'ultima estate, quella precedente, quando come ragazzine ridevamo ed eravamo felici di nuotare assieme.


La pioggia è sferzante, l'ombrello non riesce a trattenerla, il vento impietoso la fa precipitare sul corpo di tutti i presenti. Si sente anche il viso bagnato, e anche un poco caldo. Non è solo la pioggia ad averlo trasformato, sono anche le lacrime che silenziosamente, senza il minimo sussulto, sgorgano dai suoi occhi stanchi e tristi. Avverte una lieve pressione sul braccio, si gira e vede suo cugino, il fratello di lei, anche lui affranto. La circonda con un abbraccio affettuoso. Non parlano, guardano attoniti la bara che lentamente scende. È circondata da tanti fiori variopinti, le piacevano tanto i fiori.

Andranno ancora al mare assieme, ne è certa. In qualche altra forma ignota si ritroveranno: sulla spiaggia e tra le onde del mare.


(fine)


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Maria Spanu


La ciambella del giovedì


Quella mattina si svegliò con un senso di pace interiore profonda, in lui nacque una voglia smisurata di una ciambella al pistacchio, che comperava ogni giovedì. Il giorno prima, però, mentre andava al supermercato, un acquazzone lo aveva fermato al sottopassaggio della metro A.

— Chissà quanto durerà, qui è sempre un problema quando piove — lo approcciò una signora dietro di lui.

— Lasciamo perdere signora, l'anno scorso mi sono trovato nella stessa metro ad aspettare e alla fine sono tornato a casa alle dieci, tutto zuppo — rispose, con tono rassegnato, sapendo dentro di sé che anche quella sera non gli sarebbe andata meglio.

— Certo, se non puliscono le fogne, questa città prima o poi si allagherà del tutto — ribatté la signora.

Aveva le scatole piene di quelle frasi fatte, trite e ritrite, che lo infastidivano fino all'orripilazione; non rispose alla signora, fece solo un cenno con la testa in segno di approvazione.

Di lì a poco ebbe uno strano senso di calore e dovette uscire di corsa, sotto la pioggia, per respirare, rendendosi conto di essere diventato claustrofobico. D'un tratto aveva capito perché aveva sempre detestato le piccole stanze, i luoghi affollati. Si poggiò a un corrimano del passaggio pedonale per riprendersi, ma non riuscì neanche a respirare quando da lontano sentì:

— Nicola! Ciao, stai bene?

La collega invasiva del quarto piano, ufficio contabilità, che più di quindici anni fa ebbe una cotta per lui.

— Ciao, Alda! Io bene, tu, come stai? — esclamò con un sorriso ipocrita Nicola, sapendo che la conversazione si sarebbe dilungata a sproposito.

— Bene, sapessi cosa mi è successo...

— Scusami, cara, sono uscito di fretta e temo di aver lasciato sul fuoco il pentolino del latte, dovevo stare via solo un minuto, devo scappare, ci si vede in ufficio!

Alda rimase sconcertata, con la mano tesa, guardando Nicola allontanarsi, ma si promise di andarlo a trovare nel suo ufficio; nessuno aveva mai osato scaricare la Alda, colei che emanava luce e ottimismo quando passava per i corridoi, coi suoi tacchetti battenti a ritmo sul laminato scivoloso.

Nicola, preso da un senso di colpa, si recò direttamente al lavoro, molto presto quella volta.

Si sedette alla scrivania e tutto ciò a cui riusciva a pensare era quella ciambella mancata, quell'appuntamento del giovedì ormai svanito.

Uno squillo di telefono infranse quel silenzio sordo, e Nicola dovette riordinare le idee.

Quel giorno doveva consegnare l'ultimo rapporto sui rendimenti di fine trimestre; non aveva alcuna ispirazione, le formule e i numeri che stava leggendo non avevano alcun senso, e quel desiderio di uscire si fece pian piano più incombente.

— Gabriella, per favore portami un bicchiere d'acqua e una zolletta di zucchero. Chiese alla sua assistente all'interfono.

— Certo, Nicola. È quasi mezzogiorno, vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?

— No, non ti preoccupare, basta l'acqua e lo zucchero.

Gabriella entrò con il suo fare silenzioso, un passo felino quasi impercettibile.

Gli porse il bicchiere e lo guardò bere come se non avesse mai bevuto.

L'acqua scese giù veloce, fredda e leggermente frizzante, come piaceva a Nicola, irrorando dentro di lui un senso di piacere.

Decise di continuare il suo lavoro e lasciare i pensieri per la sera, quando poteva essere quel che voleva.

Le ore passarono e il report era quasi completo, giusto qualche controllo finale su qualche grafico; mentre la stampante era al lavoro, Nicola pensava alla figuraccia fatta con Alda. Nonostante il suo carattere, in fin dei conti, non era poi così male come persona, "meglio di tanti altri qui che sono ipocriti e falsi" farfugliò tra sé e sé.

Prese quel fascicolo, lo spillò e lo mise nella cartella da consegnare al dottor Eraldi, il suo supervisore. Un uomo alto e secco; si era chiesto spesso come facesse a stare in piedi, sembrava come, in un attimo, il vento lo portasse via. Immaginò il dottore volare per il giardino dell'ufficio e si fece una risatina, quasi diabolica.

Mentre apriva la porta per uscire si ricordò che doveva spegnere il computer, non poteva lasciarlo acceso fino al giorno dopo, sapeva si sarebbe bloccato; quel catorcio neanche rispondeva più ai comandi, un dinosauro con quattro schede di archiviazione, da lui installate, che arrancava sempre più. Un giorno decise di sbarazzarsene, ma doveva prima ricopiare tutto sui floppy e non ne aveva voglia, così rimandava, giorno dopo giorno.

Lungo il corridoio ormai non si sentiva tanto chiasso, le voci erano più nitide.

Erano quelle di chi rimaneva fin tardi al lavoro, come Nicola ogni sera.

Prese l'ascensore e salì all'ultimo piano dal dottor Eraldi, intento a consegnare il lavoro e filare via prima delle sette.

Uno scricchiolio preoccupante accese in Nicola un disagio, una sensazione che gli cingeva la gola. Si guardò attorno e l'abitacolo sembrò più piccolo e angusto, sentiva l'odore della moquette sotto i piedi e, non riuscendo più a muoversi, si poggiò allo specchio con la mano sulla testa per riposare.

Lo scatto delle porte gli portò sollievo e uscì di fretta per riprendere fiato.

Giunto di fronte alla porta bussò lentamente ed entrò salutando il dottore, seduto in fondo alla stanza, alle prese con un funzionario.

— Prego, entri e si sieda. Arrivo in un istante. Pronunciò gesticolando Eraldi.

Si accomodò sulla poltrona di fronte la scrivania, e si guardò intorno con fare distaccato. Osservò come il dottore avesse una passione smisurata per le monete, tutte incastonate in quadri minuziosamente confezionati e catalogati; più vicino, sullo scrittoio, teneva una cinquecento lire del 1957 d'argento. Quella con le caravelle di Colombo. Pensò dentro di sé quanto fosse scintillante, non se ne vedevano tante in giro.

— Anche tu ne sei appassionato?

— Non come lei, vedo che è un assiduo collezionista.

— Diciamo che ho una modesta conoscenza delle monete, ma vedi, caro Nicola, questa moneta? Questa fu per me il primo passo, la mia prima paga. Quel giorno, ancora ricordo, ne fui entusiasta. Un lavoro svolto da me che veniva retribuito, dando un valore intrinseco al mio operato. Ero considerato abile nel farlo, mi ha permesso di poter valere qualcosa. Capisci, Nicola?

Quelle cinquecento lire, all'epoca, non valevano un granché, eppure avendole tenute quale ricordo personale e intimo, trascorsi oltre 40 anni, valgono tantissimo; se guardi bene le vele delle navi, noterai che sono controvento.

— Che significa? Chiese Nicola con interesse.

— Significa che quella moneta è il risultato di un errore di conio, che la rende unica nel suo genere.

— Chissà quanto varrà?

— Inestimabile valore affettivo, non c'è cifra eguagliabile.

Hai portato il fascicolo?

Nicola rimase un po' di tempo fermo, per poi porgere il fascicolo ed esprimere la sua stima verso l'Eraldi, pensando di averlo da sempre frainteso. L'atteggiamento duro del suo supervisore non era dovuto al suo carattere ma, al suo essere introverso e non adatto a una socialità moderna, non concepibile dal suo punto di vista.

Si salutarono, e Nicola uscì dalla stanza pieno di pensieri, quei blocchi di granito che giacevano nella sua mente si sgretolarono di getto, lasciando spazio a nuovi e scintillanti blocchi da ricostruire, alla luce di quanto udito nella stanza.

Questa volta, per scendere, prese le scale; non poté neanche avvicinarsi all'ascensore, nonostante pensasse che fare otto piani a piedi fosse assai scomodo.

Uscì dall'androne dell'ufficio con la sua ventiquattro ore in mano, e salì in macchina per tornare a casa. Nel viaggio si rifugiò nei suoi pensieri, il tempo era relativo e non lo sentiva più scorrere. Sapeva che qualcosa in lui era cambiato per via dell'Eraldi, aveva scosso tutte le sue certezze sull'uomo e si meravigliò di quanto fosse difficile crederci, eradicare un'idea, rivoluzionarla.

Giunse di fronte alla sbarra del garage, ma il telecomando non funzionava; dovette scendere dalla macchina e azionare il comando da dentro, pensò che un giorno avrebbe preso un'ascia e spaccato quel maledetto arnese. Da quando lo avevano installato, otto anni fa, non aveva funzionato mai pienamente e ne aveva le scatole piene delle cose che funzionavano a metà.

Furioso e contrariato, salì e si gettò sul divanetto con ancora il trench addosso; cinque minuti di riposo, un attimo per non pensare a niente. Chiuse gli occhi e cercò di rilassarsi, ma un tarlo iniziò a rosicchiargli il cervello.

Con un vago rantolo, si recò in cucina per mangiare qualcosa, non poteva più stare sul divano, le gambe avevano iniziato a formicolare.

Mangiò quella tristissima cena fatta di una scatoletta di tonno e dei pomodori che aveva nel frigo, intrisi di maionese, quella delicata della Calvè, che a lui piaceva oltremodo. Aprì una rosetta e ci schiaffò dentro quel miscuglio ormai indistinto, che divorò in quattro bocconi, dissetandosi con una Ichnusa non filtrata, ghiacciata. Pensò che le meraviglie del mondo, talvolta, risiedessero nelle cose più stupide e ridicole, come bere una birra ghiacciata e osservare dalla finestra una coppia, che si lascia andare in effusioni amorose, sulla panchina della fermata del bus.

In una serata uggiosa e noiosa, decise di lavarsi i denti e mettersi a dormire, non avendo neanche voglia di guardare il suo programma serale, quella trasmissione di politica, in cui gli ospiti sono intenti a fare polemiche sterili per aumentare l'audience: aveva le scatole piene anche di quella roba.

La notte infine giunse e la città si silenziò gradualmente, permettendogli di addormentarsi in pochi secondi.

L'orologio ticchettava: cinque e trenta del mattino.

Nicola di colpo si svegliò zuppo di sudore, e con un gran mal di testa. Sognò quella pasticceria dietro Piazza di Spagna, che aveva sempre le ciambelle calde al mattino e le farciva a volontà con ogni ben di Dio.

Pensò di non riuscire più a dormire, e si vestì di fretta, indossò il trench, quello marrone e concio come uno straccio; era affezionato a quell'abito, nonostante fosse abbruttito dal tempo, gli fu regalato in giovane età dalla sua mamma, quando discusse la tesi di laurea.

Pensò che gli avesse portato fortuna, e decise di tenerlo per lungo tempo, talmente tanto che diventò un pezzo di Nicola.

Arrivò alla pasticceria e chiese tre ciambelle con la crema al pistacchio, doveva riempire quel vuoto, che si era portato dentro per tutto il dì.

Si sedette sulla panchina di marmo davanti la fontana della Barcaccia, ammirandone la rara bellezza, nel mentre gustava la sua tanto agognata ciambella.

Da dietro senti una voce che riconobbe familiare e mentre si voltava capì che si trattava del dottor Eraldi.

— Cosa ci fa qui, dottore, a quest'ora?

— Potrei farti la stessa domanda — Disse ridendo.

— Non riuscivo a dormire e, mentre passeggiavo, avevo voglia di una ciambella calda.

— Idem, io ci vengo tutti i giovedì, a prendere la mia ciambella alla crema.

Nicola era sconcertato, non poteva crederci. Il dottore era lì, i due si guardavano, legati da un comune denominatore. Nessuno parlò più, si sedettero sulla panchina, zitti; il solo rumore che si poteva udire era quello dei granelli di zucchero che cadevano nella bustina cerata, e quello delle loro mascelle che gustavano, avide, quelle piccole meraviglie profumate. Ogni problema svanì, come la notte, con l'alba in divenire, e quel freddo affilato che pungeva le guance, ma che in fondo era sopportabile.

Rimasero seduti, senza dire più niente, solo il canto degli uccellini e qualche clacson.


(fine)


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Andr60


Nazista per caso


1.

— Ecco, è qui!

Hans scostò un cumulo di sterpaglie, mettendo alla luce una botola di metallo.

Mike sgranò gli occhi, stupito. — E secondo te, questo sarebbe uno degli ingressi?

— Ne sono sicuro, così come sono certo che nessuno ci sia più entrato da decenni. Non vedete in che condizioni è?

— Perché non sei entrato da solo, visto che sembri così ansioso di farlo? — chiese Bobby, il fratello minore di Mike.

— Mi serve qualcuno che tenga aperta la botola; non so se c'è un meccanismo di chiusura. — rispose prontamente Hans. — E poi, stai tranquillo, lo so che hai paura e che non entrerai mai. — Lo canzonò.

Mike si mise a ridere: — Hans ti conosce proprio bene: la signorina Bobbie è terrorizzata dai ragni...

— Sei proprio scemo, sono solo un tipo prudente... — cercò di giustificarsi il ragazzino.

— Allora, il piano è questo: io e Mike entriamo e lo esploriamo per un po' mentre tu rimarrai qui a fare la guardia. Per te è okay? — tagliò corto Hans, scostandosi il ciuffo biondo dalla lunga zazzera.

— Dai, andiamo, — fece Mike, ansioso di entrare nel rifugio segreto. — abbiamo perso fin troppo tempo con queste bambinate. — concluse, guardando negli occhi Bobby, per farlo sentire ancora più inadeguato a quell'impresa temeraria.

Così, dopo aver aperto la pesante apertura, i due sedicenni s'inoltrarono nel budello scendendo lungo la scaletta.

Bobby rimase accanto al chiusino, dopo averlo appoggiato a terra; in effetti, la chiusura era piuttosto arrugginita e non sembrava molto affidabile, e d'altra parte lasciare un simile buco incustodito (anche se lontano dal traffico e dalle abitazioni) poteva essere rischioso per chiunque.

Almeno così si giustificò con sé stesso.


2.

Dopo aver disceso la lunga scaletta, i due ragazzi s'inoltrarono in un buio corridoio illuminato solo dalle loro torce elettriche, sentendosi un po' come Indiana Jones; alla fine, giunsero in un'ampia sala ugualmente scura, dalla quale si dipartivano altri corridoi in tutte le direzioni.

— È incredibile pensare che non ci sia entrato più nessuno, dalla fine della guerra. — disse Mike, col naso all'insù per stimare l'altezza del soffitto.

— Ed è anche divertente pensare a quale sarebbe stata la loro reazione, a vedere un nero curiosare nei loro affari… — commentò Hans, — Nel Terzo Reich i profughi e i rifugiati non erano contemplati, e tantomeno i loro figli.

— Già, gli sarebbe venuto un infarto, al povero Adolf, ad accogliere degli africani e a naturalizzarli tedeschi. — sogghignò Mike, seguito dall'amico — ariano.

— I nazisti erano maestri nel mimetizzare i rifugi, — commentò Hans, dopo aver riassunto un tono professorale, — del resto erano obbligati a farlo, visto che potevano essere bombardati in qualunque momento, negli ultimi anni di guerra.

— Secondo te, cosa facevano qua dentro?

— L'ipotesi più probabile è che preparassero esplosivi per bombe e munizioni.

— Che ficata! — esclamò Mike, entusiasta. — Pensa se trovassimo delle bombe a mano, potremmo divertirci un sacco a spaventare le ragazze.

— …Oppure perdere qualche dito. — fece Hans.

— Mi sembri quel fifone di mio fratello.

Un rumore improvviso li fece sussultare: — Ehi, hai sentito? — disse Mike, con una sfumatura di nervosismo nella voce.

— Mi pareva arrivasse da dove siamo venuti, andiamo a vedere. — propose Hans.

Ritornarono sui loro passi e, rannicchiato in un angolo, videro Bobby: — Che ci fai qua, non dovevi essere sopra a fare la guardia? — chiese bruscamente Mike.

— Mi annoiavo, e poi non ho paura. — disse il ragazzino, alzando il mento per darsi un'aria sfrontata.

— Sì, certo, basta guardarti per vedere quanto sei coraggioso. — lo prese in giro bonariamente Hans.

Così proseguirono l'esplorazione, con Bobby in mezzo per essere controllato dai due che, di malavoglia, lo cooptarono nella squadra.

I corridoi davano tutti in stanzoni con grosse vasche di miscelazione, per dar ragione del fatto che Hans c'aveva visto giusto; oltre tutto, alle biforcazioni c'erano scritte sui muri in gran parte cancellate dal tempo ma che si potevano intuire senza difficoltà. Tutte invitavano alla cautela e due, in particolare, segnalavano due nicchie dove potersi riparare; da cosa, si poteva immaginare.

Dopo un'ora di ricerca infruttuosa e anche tediosa, i tre erano ormai stanchi e sfiduciati di riuscire a rinvenire qualcosa d'interessante. Finché s'imbatterono in una porta blindata, chiusa.

— Strano, è l'unica porta che abbiamo trovato finora, ed è sbarrata. — disse Hans.

— Ci sarà qualcosa d'importante, dietro. Dai, cerchiamo di forzarla! La serratura sarà malridotta, non ci vorrà molto. — disse Mike, ottimista come sempre.

Ma non fu così semplice, tutt'altro; alla fine, Bobby fu mandato di sopra a prendere una grossa pietra, così riuscirono a scassinare il lucchetto.

La stanza era molto grande; alla luce fioca delle torce, videro delle bombole accatastate le une sulla altre: — Non sarà mica quel gas che usavano nei lager per… — Mike s'interruppe, al pensiero; voleva sempre essere spavaldo, ma i documentari sulle vittime dei campi di sterminio lo avevano colpito nel profondo, anche se non l'avrebbe mai ammesso.

— No, non credo. — disse Hans, che voleva farsi passare da esperto di storia solo perché aveva dei buoni voti, — i contenitori avevano un aspetto diverso, e poi di solito recavano evidente la scritta Zyklon B, che in realtà è un agente fumigante. Credo che sia un altro tipo di gas, forse volevano usarlo in battaglia, come nella I Guerra Mondiale.

— Ehi, questa bombola ha la valvola tutta storta… — Intervenne Bobby, rimasto in silenzio fino a quel momento.

— Non toccarla! Potrebbe essere difett... — Hans cercò di trattenere il ragazzino, ma era troppo tardi.

Bobby sfiorò appena la valvola, che quella si staccò dal corpo della bombola, che emise un fischio.

Un getto di gas grigiastro investì in pieno la faccia di Bobby, che in breve fu avvolto da una nuvola nebbiosa, mentre gli altri due, presi dal panico, scapparono dalla stanza.

Appena usciti, Hans, appoggiandosi ansimante contro la parete, disse a Mike: — Non possiamo lasciarlo là, dobbiamo tornare indietro.

— Sì, hai ragione. — fece Mike, il cui coraggio era evaporato, ma non ancora il senso di parentela.

Il gas si era ormai diradato; Bobby giaceva a terra, esanime.


3.

Aprì gli occhi, con enorme sollievo di entrambi: — Finalmente ti sei ripreso, c'hai fatto prendere un bello spavento! — disse Mike.

Erano all'aperto, appena fuori dal rifugio.

— Che cosa è successo? Mi ricordo solo che eravamo in quella stanza e… il gas! Aveva uno strano odore e… devo essere svenuto. — mormorò Bobby, ancora tramortito. — Come sono arrivato qui?

— Ti ho portato io in spalla, — disse Mike, — non pensavo che pesassi così tanto.

Bobby fece una smorfia: — Avrei fatto meglio a starmene qua, buono buono.

— Già, te l'avevo detto di stare lontano da quella bombola, ma tu, niente! — lo rimproverò Hans, ma senza severità. Si vedeva che anch'egli doveva essersi spaventato parecchio, al pensiero di trovarsi di fronte ai genitori dei fratelli, con quella loro aria perenne di cani bastonati.

Intanto Bobby si stava alzando, quando gli venne un giramento di testa che quasi non lo fece cadere nella botola, rimasta aperta.

— Stai attento, dannazione! — gridò Mike, stavolta perdendo la pazienza. — Sei peggio di un bambino piccolo, non mi posso distrarre un minuto!

— Non sono un lattante, cazzo! — urlò Bobby a sua volta, tirandogli un pugno che colpì il fratello maggiore al mento, facendolo barcollare.

Mike non replicò, trasecolato dalla sua reazione. Anche Hans rimase a bocca aperta.

Il ragazzino si era appena ribellato.


Naturalmente entrambi non fecero parola dell'accaduto. Mà fu la prima ad accorgersi che in Bobby c'era qualcosa di strano.

A colazione, la mattina dopo, lo sentì brontolare: — Questa cagata non mi piace, è cibo da checche. — disse, storcendo il naso di fronte alla solita scodella di corn flakes.

— Mangia e stai zitto. — gli ordinò, — E poi non voglio che ti esprimi con quelle parole.

— Quale parola? Cagata o checche? Ma io ne so anche di peggiori... che ne dici di merda e froci, piglinculo...

— Si può sapere cos'hai? — La donna alzò minacciosa il mestolo che stava usando e lo agitò davanti alla sua faccia. — Sei tu che ha sempre voluto fare colazione con quella roba, perché ci sono le figurine dei giocatori di basket. Quindi che vuoi da me?

— Hai ragione, mà, — convenne Bobby, calmandosi un po', — ma d'ora in poi fammi würstel e crauti.

— A colazione? Ti verrà un bruciore di stomaco pazzesco...

— Cazzo, mà, non discutere! — esplose Bobby, alzandosi e uscendo da casa, prima della reazione della donna, rimasta a bocca aperta per lo stupore.


Anche a scuola le occasioni per discutere non mancarono; i compagni di classe gli sembravano tutti molto infantili, strano che non se ne fosse mai accorto prima. Tutti interessati al calcio o al basket, in adorazione di miliardari dopati in mutande e canottiera, alle prese con sport ridicoli ideati solo per il controllo delle masse. E poi, le ragazze... quelle, poi, erano anche peggiori; passavano il tempo a sparlare di questa o di quello, attaccate come piattole ai loro dannati telefonini.

Per fortuna c'era Ulrike: lei no, era diversa. L'aveva notata durante la ricreazione, era nella classe di fianco alla sua. Si erano scambiati delle occhiate, ma Bobby non aveva mai avuto il coraggio di avvicinarla. Ora però sentiva di potercela fare, a prendere l'iniziativa.

Stava leggendo un libro ed era seduta in disparte da sola, come al solito: — È un libro interessante? — le chiese, più interessato al fatto che sollevasse lo sguardo che alla risposta in sé.

— Jane Eire, — disse, mostrando il titolo. — un romanzo d'amore. Lo conosci?

— Temo di no, non è il mio genere. Di cosa parla? Be', a parte di due che vogliono stare insieme e non ci riescono per svariati motivi.

Lei si mise a ridere e per Bobby fu la parte migliore della giornata: — La trama è più complicata, però devo ammettere che hai ragione.

— Mi chiamo Bobby, sto nella classe accanto alla tua.

— Lo so. Ma adesso devo andare.


5.

Cominciarono a vedersi spesso, dapprima durante l'intervallo, poi anche al pomeriggio frequentando i corsi integrativi o extra-curriculari.

Poi un giorno, all'uscita da scuola dopo una di queste attività — disegno pubblicitario — Bobby ruppe gli indugi e la baciò.

Un bacio molto casto, più che altro uno sfioramento di labbra; Ulrike sorrise, gli prese la faccia tra le mani e lo baciò seriamente, con la lingua.

Bobby stava per essere avvolto in una nuvola rosa, quando una voce maschile infranse l'incantesimo: — Ehi, negro, cosa fai con mia sorella?

Ulrike si ritrasse subito e, rivolgendosi al ragazzo alto e biondo che si stava avvicinando, disse: — Non è niente, Dieter, ci stavamo salutando.

— Con te faremo i conti a casa, — fece lui, scostandola con un braccio, — invece col negretto ci chiariremo subito. Vero, africa?

Bobby e il fratello di Ulrike si trovavano uno di fronte all'altro, e il nigeriano gli arrivava sì e no all'altezza della spalla. Ma non indietreggiò: — Io non devo vergognarmi di nulla, e questo è un paese libero.

Dieter lo prese per il collo, e cominciò a stringere.

— No, Dieter, ti prego, lascialo andare! — urlò la sorella.

Ma Bobby fu più lesto: dimenandosi, riuscì a tirargli un calcio al di sotto della cintura; molto al di sotto.

Il diciassettenne crollò in ginocchio, boccheggiante, e lo lasciò andare: — Sei un gran bastardo, tiri i calci come le femmine. — riuscì a mormorare, con difficoltà.

Bobby gli sussurrò nell'orecchio: — La cosa paradossale è che siamo d'accordo, i negri fanno schifo anche a me. — e se ne andò, lasciandolo trasecolato.

Il nigeriano salutò Ulrike, che non aveva sentito ciò che aveva appena detto, e si dettero appuntamento all'indomani.


Non sapeva spiegarsi bene il motivo, ma la cena da qualche giorno era per Bobby il momento peggiore della giornata: pà e mà lo guardavano in modo strano, come se non l'avessero mai visto in vita loro. E meno male che Mike non c'era quasi mai — ormai rientrava sempre tardi, la sera — altrimenti sarebbe esploso prima: — Si può sapere che avete da guardarmi così? — proruppe, alla fine.

La prima a rispondere, rivolgendosi però al marito, fu mà: — Non sembra anche a te che Bobby abbia qualcosa di diverso nella faccia, nel naso…?

Izu Azuka, dall'alto della saggezza dei suoi avi, rispose: — Starà diventando un vero tedesco, in fondo è quello che abbiamo sempre desiderato.

Sunday Azuka rispose, sbuffando: — Non dire idiozie, sto parlando seriamente. Hai visto i suoi capelli? Sembra che abbia una ricrescita.

— Ehi, io sono qui! Non sono diventato invisibile, e non c'è niente che non vada in me! — ma nell'attimo stesso in cui pronunciava quelle parole, seppe di stare mentendo. In quella casa si sentiva fuori posto, e l'odore delle spezie provenienti dalla cucina cominciava a dargli veramente fastidio, per non dire di peggio.

Andò in bagno a controllarsi i capelli; mà aveva ragione: dalla radice fino a circa mezzo centimetro, il colore nero aveva lasciato il posto a un colore chiaro indefinibile, sembrava biondo.


6.

Mike, Hans e i loro amici del Collettivo si erano dati veramente da fare: lo striscione color arcobaleno, recante la scritta — No alla guerra, sì all'amore — era uno dei più suggestivi, al corteo per protestare contro l'intervento della UE in Ucraina per spalleggiare il governo filo-nazista nella sua azione in Donbass.

Tutto sembrava andare per il meglio, quando da un vicolo sbucò un drappello di giovani tutti vestiti di nero, tatuati con svastiche sugli avambracci. Avevano anche dei bastoni, e iniziarono a usarli contro le prime file del corteo, mentre quelli del servizio d'ordine se la davano a gambe.

Mike, Hans e gli altri non volevano certo fare la parte delle vittime sacrificali, e usando le aste delle bandiere cominciarono anch'essi a menare botte da orbi a tutti i neo-nazisti che capitassero loro a tiro. C'era soprattutto un ragazzino tra i più esagitati: capelli corti biondi, robusto ma non sovrappeso, sembrava un torello imbizzarrito. Brandendo una corta catena, si avventò su Mike: — Prendi questa, negro di merda! — urlò.

Mike si scansò e lo colpì con un pugno al volto; sanguinante ma non domo, il ragazzino si avventò nuovamente contro di lui. Solo allora il nigeriano si accorse che quella faccia aveva qualcosa di familiare, anche se era impossibile; eppure… : — Bobby, ma sei proprio tu?

— Bobby non esiste più, — rispose il fratello minore, — ora mi chiamo Siegfried.

— Che diavolo ti è successo? Sei diventato un bianco, è pazzesco. — Mike era scioccato, ma riuscì a prenderlo per un braccio e a trascinarlo fuori della mischia.

— È stato quel gas, ricordi? — disse Bobby anzi, Siegfried.

— Certo che lo ricordo, però sembrava che non ti avesse fatto nulla. E invece…

— Invece mi ha fatto la cosa migliore che mi potesse capitare, mi ha fatto diventare un Vero Ariano.

— Un… vero ariano? Vuoi dire, un nazista?

— Ovviamente. — spiegò Bobby-Siegfried, entusiasta. Pare che quel gas venisse sintetizzato da un medico collega di Mengele, negli ultimi mesi di guerra. Aveva lo scopo di trasformare tutti i prigionieri in convinti sostenitori del regime; purtroppo non fecero in tempo a usarlo.

— Già, che peccato… — mormorò Mike, sarcastico. — Dove sei stato, in tutti questi mesi? Ti abbiamo cercato tanto, e tu c'hai fatto solo due telefonate.

— Mi dispiace, Mike, — fece il fratellino, — ma non faccio più parte della vostra famiglia.

— Siegfried, si può sapere che fai? — gli urlò da lontano un ragazzo coi capelli rasati.

— Arrivo, Dieter! — rispose a voce alta, dando un'occhiata di commiato all'ex fratello maggiore e allontanandosi da lui.

Il ragazzino stava per raggiungere il grosso dello scontro, quando dal gruppo delle LesbichePerlaPace si staccò un'energumena brandendo un tubo di ferro, e dopo pochi passi glielo vibrò sulla testa.


7.

— Bobby! Ehi, Bobby, ti svegli?

Il fratello gli stava urlando nelle orecchie: Bobby aprì gli occhi con fatica e si tirò su, stiracchiandosi e cercando di ricomporsi.

— Ho fatto una dormita, e anche un sogno pazzesco…

— Ah, sempre meglio di noi; almeno ti sei riposato. — considerò Hans, autoironico.

— Perché, che avete trovato, là sotto?

— Un mucchio di polvere e qualche straccio. — rispose Mike, deluso. — Niente per far colpo sulle ragazze o per venderlo a qualcuno interessato ai cimeli della guerra.

— Che disdetta, mi dispiace davvero. — disse Bobby, senza riuscire a trattenere un tono di scherno.

— Hai poco da scherzare, tu, sei solo un buono a nulla. Soltanto a dormire, sei un fuoriclasse. — Mike ricambiò con lo stesso tono.

— Ritira quello che hai detto! — disse Bobby, digrignando i denti.

— Perché, altrimenti, che mi fai? — chiese Mike, sfidandolo apertamente.

Aveva appena finito di parlare, che Bobby, con un destro d'incontro, lo mandò al tappeto.

Il fratello maggiore si sarebbe stupito di meno, se suor Angelika del catechismo si fosse messa a cantare una canzone rap.

Hans iniziò a contare, però Mike si rialzò quasi subito per avventarsi sul fratellino, ma l'amico lo fermò: — Credo che possa bastare, il ragazzino ha tirato fuori le palle, finalmente.

— Mi ha preso di sorpresa, altrimenti…

— Altrimenti sarebbe stato uguale. — ribatté Bobby. — Hai finito di approfittare del fatto che sei il maggiore.

— Che diavolo ti è successo? — chiese Hans, che non si spiegava quell'improvvisa metamorfosi.

— Ho fatto un sogno, adesso ve lo racconto...


(fine)


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Teseo Tesei


Il "Giorno della Memoria"


— Antonio e Giovanni, mi raccomando nuovamente!

— Tutto chiaro comandante: presidiare il monumento e mantenere l'ordine.

Tutto procedeva lentamente, nel freddo invernale, scandito dallo sciabordio del mare e da qualche raggio di sole che di tanto in tanto faceva capolino tra le nubi.

Innegabilmente, la situazione era rilassante per i nostri — caimani — , abituati a ben altri ritmi e situazioni.

— Antò, quest'anno il comando ha paura che i gabbiani si portino via il monumento?

— No Giò, è per via delle manifestazioni filo-palestinesi.

— Ho capito Antò, ma che diavolo! Mettono qui noi armati di tutto punto? Mica siamo forze dell'ordine.

— Vero Giò, siamo professionisti del caos: addestrati a operare in esso con l'obbiettivo di ritrovare il bandolo della matassa.

Un sorriso malizioso delinea l'espressione dei due marinai.

All'improvviso un rumore acuto e stridulo anticipa l'arrivo di un bambino in bicicletta che frena di colpo davanti ai due militari, avvicinandosi dopo aver lasciato cadere la bici in terra.

— Che fate?

— La guardia al monumento, ragazzino.

— Che, avete paura che ve lo freghino?

— Circolare, ragazzino, circolare!

Il ragazzino si allontana, poco soddisfatto della risposta.

— Giò, ci pigliano per i fondelli anche i ragazzini.

Nuovamente si ode quel rumore acuto e stridulo. Lo stesso bambino si avvicina.

— Che fate?

— Siamo qui per il giorno della memoria, facciamo la guardia e manteniamo l'ordine.

— Anche la nonna dice che deve mettere in ordine le idee perché ha problemi con la memoria.

Neanche il tempo di dirlo e sparisce.

— Antò, se questo torna gli sparo.

— Ma dai è un ragazzino, al limite lo sculacciamo.

Dopo una mezz'ora torna quel rumore acuto e stridulo. E'ancora lui: il piccolo.

— Che fate?

— Ragazzino, tu sai cosa è il giorno della memoria?

— No!

— È un giorno dell'anno in cui tutto il mondo commemora le vittime dell'Olocausto.

— Ah!

— Ragazzino, sai cosa è l'Olocausto?

— Sì, lo racconta sempre la nonna, lei è stata in un posto in Germania dove ammazzavano tutti. Ma siete qui per fare la guardia in modo che quegli uomini cattivi non tornino ad ammazzare tutti? E per far tornare la memoria?

— In un certo senso: si è così!

— Ah OK! Fate buona guardia, ciao.

In un lampo il ragazzino sparisce ancora.

— Giò, vedi che adesso ha capito?

— Speriamo Antò, speriamo.

Il tempo passa lentamente: i due marinai quasi rimpiangono quel piccolo rompiscatole.

Tutto sommato a entrambi mancano le sue incursioni.

A un tratto i due si accorgono di uno strano essere, appena sbucato da un vicoletto, in avvicinamento, con fare furtivo e quasi strisciante che li punta da circa cento metri alla loro dritta.

Istintivamente le loro mani si appoggiano sincronizzate sull'impugnatura del gladio di ordinanza.

Un riflesso condizionato.

I due, continuano a tenere d'occhio quello strano fagotto semovente che pian piano si avvicina.

Giunto davanti a loro, il fagotto si alza, raddrizzando la schiena: è una signora anziana.

— Buongiorno, giovani!

— Buongiorno signora, possiamo esserle utili?

— Credo di sì. Matteo, il mio nipotino mi ha detto che siete qui per la memoria.

— Un ragazzino con una bicicletta azzurra, alto circa un metro e mezzo, con una giacca gialla?

— Sì, mi sembra, il mio nipotino.

— Certo signora siamo qui proprio proprio per la memoria.

— Oh, sia ringraziato il Signore!

— Signora, Matteo ci ha detto che lei è stata prigioniera in Germania.

— Mi chiamo Miriam, si è vero ho visto tutto quell'orrore. Voi giovani non potete neanche immaginare.

— Signora Miriam, parecchio di quell'orrore lo vediamo ancora oggi, sarà stata dura…

Pian piano un capannello di curiosi si forma attorno alla signora Miriam e ai due militari.

Intanto la signora Miriam racconta, con dovizia di particolari, tutto quel che ricorda della sua infanzia.

Mentre racconta vive nuovamente quelle sensazioni, sembra tremare di paura, tremare di freddo, avere crampi per la fame, chiude gli occhi quando descrive gli spari, li sbarra mentre descrive situazioni che gelano il sangue nelle vene dei presenti.

Dopo due ore di racconto lucido, anche se talvolta ripetitivo, il capannello comincia a diradarsi, ormai siamo entrati nel periodo del crepuscolo e il freddo è sempre più pungente.

Di colpo la signora Miriam si ferma col racconto e smette di parlare.

I due marinai, credendo che la signora stia per congedarsi, si guardano e schizzano sull'attenti rivolgendole il saluto militare portandosi all'unisono la mano alla fronte e battendo i tacchi.

— Signora Miriam, grazie per aver condiviso con noi quei brutti momenti. Ora torni a casa che è tardi, fa freddo e tra poco sarà anche buio.

La signora Miriam, dopo aver udito quelle parole, diventa scura in viso e con un' espressione tutt'altro che serena replica:

— Giovani, pensate che io abbia tempo da buttare? Mi avete fatto perdere più di due ore con le vostre chiacchiere, ma non crederete che io me ne vada così: a mani vuote?!

I due militari si guardano in faccia l'un l'altro senza capire, minimamente, cosa voglia intendere quell'anziana signora e dove voglia andare a parare:

— Signora Miriam, cosa vuole da noi?

— Lo sapete giovanotti, non fate i furbi, me lo avete detto voi, confermando quel che mi aveva riferito il mio Matteo. Avete promesso e ogni promessa è debito.

— Cosa le abbiamo promesso, signora Miriam?

— Siete proprio due marinai, fate promesse e non le mantenete. Volete farmi fessa!

— Ma signora, non ci permetteremmo mai.

— E allora datemi quello per cui sono venuta.

— Ok, calmiamoci tutti. Ma tu Antò hai capito cosa vuole la signora?

— No, non ci ho capito davvero nulla Giò. Signora Miriam, per cortesia potrebbe descrivere cosa spera di ottenere da noi?

— Ma la memoria, giovani, e cosa sennò. Matteo mi ha detto che qui avrei trovato la memoria, voi avete confermato che era il giorno giusto per la memoria: ora la rivoglio.

— Signora Miriam, lei non ha bisogno: ha una memoria di ferro.

— No! Non è così! Mi ricordo di quando ero giovane, ma non ricordo sempre quel che è appena accaduto.

All'improvviso un rumore acuto e stridulo rompe quella conversazione assurda:

— Che fate? Lasciate andare la mia nonna! Nonna ti ho cercato da tutte le parti cosa fai qui che è freddo e buio.

— Non mi ricordo, Matteo. Non mi ricordo proprio.

— Vieni che andiamo a casa nonna.

— Buongiorno giovinotti!

— Ciao, fate bene la guardia così quegli uomini cattivi non tornano più.

I due Caimani si guardano l'un l'altro salutando nonna e nipote mentre si allontanano.

— Capito, Antò?

— Giò, qualche volta dimenticare è un bene.

— Sicuramente chi dimentica può apparire meno "rompiscatole". Ma ricordare è comunque sempre meglio.

— Questo è sicuro.

— È bene ricordare quel che è successo in passato, ma anche quel che succede nel presente, Antonio.

— Giovanni, ricordare è importante assai.


(fine)


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Athosg


La fratellanza


Giordano Bruno Galli era un uomo di sessantacinque anni alto e atletico, con un bel viso dai tratti regolari e un ciuffo quieto che scendeva obliquo lungo la fronte, poco sopra le sopracciglia. L'unico difetto era l'occhio spento e indifferente, come se la scintilla divina si fosse inceppata proprio lì, su quello sguardo anonimo.

Tutti in azienda lo appellavano Ambrogio, a sua insaputa, come spesso capita anche in politica. Il nome era stato mutuato dal celebre spot della Ferrero Rocher, dove Ambrogio era un maggiordomo serio e impettito, tutto dedito al servizio di una signora molto elegante. In questo caso invece la peculiarità del soggetto era dovuta a un elemento del corpo umano: la lingua. Aveva buona parlantina senza dire nulla, amico dei potenti e compagnone del mondo di sotto e di mezzo.

Ambrogio possedeva un'innata predisposizione al salamelecco. Al popolo aziendale era rimasta impressa come un timbro infuocato sulla ceralacca, un episodio di tanti anni prima, dove il nostro corse come Usain Bolt a porgere i saluti, sotto una pioggia battente, alla moglie di Piccion, il patron della Divanite. Lo si vide ritornare verso l'auto inzuppato come un biscotto del mattino, con stampato in faccia un sorriso ebete e felice.

In quel caso, la frase che Giobbe scrisse sulla chat degli Eretici Aziendali — Ma neanche Ambrogio farebbe così! — entrò nel mito.

Ambrogio lavorava alla Divanite da circa quarant'anni. A un primo successo, che lo aveva affrancato dal lavoro di magazziniere, seguirono anni di scarso rendimento. Piccion, quando veniva sollecitato dai collaboratori che chiedevano un giudizio su Ambrogio, da anni usciva con la stessa frase: è un bravo ragazzo.


In quell'ottobre piovoso alla Divanite gli animi erano un po' sottosopra: mentre le vendite diminuivano, i problemi di produzione aumentavano. Ambrogio, quel lunedì mattina, mentre si recava a lavoro nel traffico della tangenziale, sentiva un fastidioso fischio alle orecchie.


Alle otto meno dieci Osvaldo Piccion se ne stava seduto alla sua scrivania. Gilberto, il figlio destinato a rilevarne le redini, si sedette compunto con la schiena leggermente arcuata. Si era preparato tutto il discorso la notte prima, ricontrollandolo più volte, perché le riunioni con il padre lo trovavano sempre in soggezione.

— Papà, il fatturato è calato del due virgola zero ottantatré per cento. C'è stato un problema di produzione che conto di sistemare entro fine mese. Volevo però porti l'accento su questo dato: le vendite in Inghilterra e Irlanda si sono bloccate. È strano, fino a sei mesi fa era l'unico mercato che tirava e ora è in piena crisi.

— Lo so. Ne hai parlato con Giordano Bruno?

— Sì, mi spiegava che Smith, il coordinatore inglese, ha avuto dei problemi negli ultimi mesi. Gli è morto il gatto.

— Il gatto?

— Sì, il gatto. Gli era molto affezionato e lui è andato in crisi; si è chiuso in casa per due mesi. Senza mai uscire. E senza lavorare. La governante badava a tutto.

Piccion sentiva il nervoso salire dalle viscere; ne aveva udite tante nella sua lunga vita d'imprenditore ma questa panzana del gatto gli suonava proprio strana.

— E tu non gli hai detto niente?

— No.

— Chiamalo.

Dopo mezz'ora Ambrogio entrò nell'ufficio del gran capo. Indossava un abito grigio, con un fazzolettino rosa che sbucava dal taschino della giacca. A prima vista sembrava invitato a un matrimonio, se non addirittura che fosse lui stesso lo sposo.

— Ciao GB, come sei vestito bene.

— Osvaldo, come stai? Mamma mia quanta pioggia. Pensa che a Lissone le strade erano allagate e i…

— Sì, Sì, lo so. Senti, mi diceva Gilberto del problema che ha avuto Smith.

— Taci, ne sono rimasto sorpreso anch'io. Gli è morto il gatto e non è più uscito da casa. Era più di un mese che non lo sentivo poi, quando gli ho mandato un messaggio, mi ha risposto che era al buio in cucina ad aspettare non si sa cosa — gli rispose Ambrogio affannato.

Piccion lo guardò con durezza. — E tu non l‘hai chiamato per più di un mese! Cris… è il capo di ventisette rappresentanti, come fai a non sentirlo mai? — ringhiò.

— Eh, mi sembrava che le cose andassero bene, gli ordini arrivavano e quindi lo lasciavo stare.

— GB, gli ordini nell'ultimo periodo non sono calati, sono crollati! — intervenne Gilberto rosso in viso, con un ciuffo di capelli che gli ballonzolava davanti agli occhi. Piccion ascoltava le parole del figlio quando squillò il telefono. Fece segno con la mano ai due di uscire.

Gilberto e Ambrogio si guardarono in faccia senza proseguire il discorso, poi ognuno andò per la sua strada. Quest'ultimo salì al quarto piano a parlare con Orietta. Quando si sentiva con le spalle al muro, si rifugiava spesso dalla ragazza dai lunghi capelli biondi.

Entrò in ufficio e la vide tutta seria e concentrata su un tabulato pieno di numeri.

— Allora come va? Io sono appena stato da Piccion. Tutto bene, le vendite sono un po' in calo, ma non vedo problemi.

Orietta lo guardò incuriosita. — Solo con te è tranquillo. Ieri era qui con me, Pelliccia e Giobbe e ci ha fatto una scenata memorabile. Se non ci ha preso a randellate è un miracolo, rimandato a un giorno peggiore.

— Ma no, che dici, con me era tranquillo. Abbiamo parlato delle vendite in Inghilterra, e mi ha fatto qualche domanda, niente di più. Non vedo tutti questi problemi — gli rispose serafico Ambrogio.

Pochi secondi dopo ai due si aggiunse Pelliccia, caricato di un tabulato di un centinaio di pagine.

— Dio santo, mi fa morire Piccion. Devo controllare tutti i dati riguardanti le vendite in Inghilterra degli ultimi quattro anni. Come cazzo faccio a fare tutto... — Era sudato e stanco, si percepiva chiaramente che si sentiva uno straccio d'uomo.

— Ma a te non ha chiesto niente? — chiese.

No, abbiamo parlato delle vendite, Smith ha avuto un problema, ma niente di che. Ripeto, l'ho già detto a Orietta, non vedo il problema. Siete sempre pessimisti, e quando siete davanti a Piccion, vi cagate sotto.

I due lo guardarono freddamente, facendogli capire che il tempo era scaduto. Lui, sentendosi emarginato, uscì con la testa bassa.

Pelliccia subito urlò: Giobbeeee, e questi arrivò subito di corsa.

— Mi sembra diventato una di quelle mosche che vivono a sbafo sul dorso degli ippopotami — esordì.

— Ahahah, sei simpatico. Io non lo sopporto più.

Giobbe si fece serio.

— Per un verso è innocuo, la valvola di sfogo del sistema. Se giri la carta, le cose cambiano: strisciante troverai cinismo, arroganza e adulazione sfrenata del potere. Lui è il re del positivismo assoluto, il principe del bisogno primario, per certi versi un genio. Non avrà mai crisi di burnout.

Orietta lo osservò dubbiosa e ribatté. — Sì, e in sovrappiù è ben visto da Piccion.

— Cara, è la solitudine dell'imprenditore — rispose Giobbe facendo l'occhiolino, — contratti, dipendenti, soldi, debiti, investimenti, la testa sempre su tabulati e schemi, nuovi modelli e clienti che non pagano. Deve avere qualcuno in azienda che gli dica di sì, che lo accompagni, che gli sia in qualche modo amico. Ambrogio è l'uomo ideale! Noi Eretici Aziendali siamo esecutori, e anche se abbiamo l'occhio lungo e sistemiamo tanti problemi, siamo solo collaboratori. Chi può dare una carezza sul testone di Osvaldo Piccion? Tu? Io? Pelliccia? No, la carezza leggera della sera la darà Ambrogio. Noi andremo da Piccion e illustreremo i problemi, Ambrogio andrà da Piccion e sparerà una qualsiasi cazzata. Hai sentito l'ultima?

— Quella del tavolo mongolo?

— Sì! Pare che Piccion stia sbolognando la patata bollente a Gilberto.

— Uh Uh, interessante.

Giobbe picchiò il pugno sul tavolo.

— Bene, tiriamo fuori un po' di droga — disse aprendo un cassetto.

Gli altri due si toccarono dentro. Sul tavolo finirono sei Ferrero Rocher.

I tre colleghi mangiarono i cioccolatini ridendo abbastanza spensierati. La visita di Ambrogio, almeno i cinque minuti iniziali, dava sempre un certo vigore al gruppo.


La patata bollente, come previsto, era finita nelle mani di Gilberto.

I due s'incontrarono una sera di fine ottobre quando gli uffici erano chiusi.

— Allora, tuo papà ti ha spiegato la mia idea?

— In parte Gb, mi ha accennato qualcosa. Sai che non mi dice mai molto. Dimmi — rispose Gilberto.

Ambrogio si sentì carico a pallettoni.

— Gilberto, basta divani e poltrone, basta nazioni enormi, dove la concorrenza è troppo forte. Dobbiamo cambiare filosofia. E sai cosa faremo?

— No, non lo so.

— Faremo business con i tavolini. Sto mettendo in pista quest'affare che come ti avrà detto tuo papà è mastodontico. Il nuovo, enorme mercato dei tavolini, aperto, vergine, una vera innovazione nella vita di milioni di persone. Sai dove sarà questo Eldorado?

— Dove?

— In Mongolia.

Gilberto aggrottò la fronte.

— La Mongolia — riprese Ambrogio a voce alta — è una nazione stepposa. La maggior parte della popolazione vive in tende e caravan. Addirittura anche Ulan Bator ha metà abitanti che vivono in case e metà che sostano ai margini della città allo stato nomade. Mangiano seduti a terra, il loro salotto è formato da qualche cuscino al centro di un tappeto. Bene, sto progettando con Pino Secco, un rappresentante conosciuto alla Fiera di Milano, dieci tavolini di varie misure da integrare con i tappeti. Per i mongoli sarà una rivoluzione concettuale, un nuovo stile di vita. Tra qualche anno, le foto dell'interno di una yurta mongola, ritrarranno un bel tavolino della Divanite, dove gli indigeni mangeranno, berranno e riceveranno gli amici.

Ambrogio si sistemò il fazzolettino rosa che sbucava dal taschino della giacca, con gli occhi opachi fuori dalle orbite tanto era la concitazione del discorso. Gilberto, all'opposto, sentiva la poltrona sempre più calda. Era il rampollo della dinastia e gli Eretici Aziendali lo avevano incoronato con il nome di Rampulcino.

— Allora?

— Mah, non mi sembra che ci siano molti abitanti in Mongolia. Guarda, fonte wikipedia, tremilioni e mezzo di abitanti, non sono molti.

— No, non hai capito. È lì che colpiremo, se cominciamo dalla fiera del bestiame di Ulan Bator che si tiene a maggio, faremo colpo in contropiede. La concorrenza ancora non ha pensato a questo business!

Gilberto si accomodò ben bene sulla poltrona.

— Mmhhh…

Ambrogio preparò il colpo finale, il suo — effetto speciale.

— Questo è solo l'inizio. Poi abbiamo tutto il mondo arabo da conquistare. Basta yurte, troveremo abitazioni più ricche e il margine crescerà a dismisura.

— Cavoli Gb, il mondo arabo è tutto in subbuglio.

— Anche lì ho il mio uomo di fiducia. Si chiama Ahmed Tarel e gestisce un suk in Tunisia. Ha una voglia pazzesca di lavorare. Pensa che al collo porta la mano di Allah.

— Dici che è in gamba?

— È sveglio, attivo, una faina. Ti ricordi di Popescu?

— No.

— Forse eri giovane. Popescu era il mio aggancio in Romania, lo avevo presentato a tuo padre prima che costruisse lo stabilimento. Mi aveva detto che era un bravo ragazzo, ma non se ne fece niente. Con lui, Gilberto te lo assicuro, avremmo sfondato ancora di più in Romania. Poteva trovare tanti operai a cento euro il mese. E loro sarebbero stati contenti! Hai capito? Ma tuo padre pronunciò un no perentorio. Contento lui!

Ambrogio, ieratico come uno sciamano in stato di grazia, si strofinò gli occhi, poi prese il fazzolettino rosa che sbucava dal taschino della giacca, lo dispiegò, e si soffiò rumorosamente il naso. Il fazzolettino pieno di muco giallo verdastro finì tutto appiccicoso nella tasca dei pantaloni.

Gilberto, pur sorpreso da quest'ultimo gesto, cominciò a rasserenarsi. La proposta stava prendendo forma nel cervello e gli tornò alla mente che suo padre di Gb diceva sempre che era un bravo ragazzo.

— Mmhhh… non è male la tua idea. Senti, per me va bene, organizziamo un viaggio iniziale in Mongolia. Cominciamo a pensare ai modelli dei tavolini.

Ambrogio era al settimo cielo.

— Dai Gilberto andiamo a mangiare una pizza che approfondiamo l'argomento.

Negli occhi del Rampulcino si era accesa una strana luce, il successo sembrava a portata di mano con la conseguente approvazione di suo padre. Dopotutto Ambrogio era uno di famiglia, non come quel saccente di Giobbe che lo sfotteva anche quando l'Inter vinceva con un solo gol di scarto.

Si alzò tutto ringalluzzito, sistemando il fazzolettino giallo che sbucava dal taschino della giacca e andò felice incontro al suo destino.


(fine)


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Marirosa


Natale a Tokyo


— Ostukaresama.*

— Ostukaresama. — Rispose automaticamente.

Il saluto si ripeté più volte, fino a quando l'ufficio rimase quasi vuoto. Restavano lei e altri tre colleghi. Anche Nakamoto san era lì. Era un po' di tempo che si trovava a condividere i turni di straordinario con lui. Non era una cosa che le dispiaceva, lui era sempre gentile, e poi era l'unico che conosceva qualche parola di italiano, lì dentro. Eppure le sembrava un po' strano. Scrollò la testa e cercò di stiracchiarsi. Aveva bisogno di allentare la tensione. Il suo gesto le valse qualche occhiataccia dai colleghi, a metà tra il rimprovero e lo stupito. Non ci fece caso, era abituata a questo, era lì ormai da quasi due anni. Si era abituata a molte cose, eppure spesso avrebbe voluto scappare.

Era stata l'azienda, giapponese, per cui lavorava in Italia a mandarla nella sede centrale, a Tokyo. Il suo primo pensiero era stato quello di rifiutare. Amava il Giappone, per questo aveva studiato il giapponese all'università, ma un conto era ammirarlo da lontano, o al massimo da turista, un altro era viverci. Però, accettare il trasferimento le avrebbe anche portato alcuni vantaggi. E alla fine si era decisa ad accettare, anche se aveva pensato di tornare in Italia, dopo un certo periodo. E quell'idea non l'aveva ancora accantonata. Ma neanche aveva fatto qualcosa, per chiedere il trasferimento, si era limitata a prendere informazioni generali su come procedere, ma mai aveva cominciato la procedura, né aveva pianificato il suo rientro. Perché? Non c'era nulla che la trattenesse in Giappone, ma non c'era neanche nulla che la spingesse a tornare in Italia, il cuore era lì ma la testa restava in Giappone, le mancava qualcosa che le scattasse dentro per prendere la decisione definitiva. Certo in Italia aveva la sua famiglia, e qualcuno, pochi in verità, degli amici d'infanzia, ma la sua famiglia riusciva comunque a sentirla regolarmente, e sapeva che i suoi genitori tenevano molto al suo lavoro, e in quel momento aveva buone prospettive per il futuro, se restava in Giappone. Però le costava uno sforzo enorme.

Così restava sospesa, tirando avanti giorno dopo giorno, senza prendere una decisione. Sì stiracchiò di nuovo. Altre occhiatacce. Era stanca di molte cose, e per di più il suo umore era piuttosto depresso. Si stava avvicinando il Natale, ma quell'anno lavorava e aveva dovuto spostare il suo rientro in Italia al periodo di capodanno. Natale in Giappone... ecco una cosa di cui avrebbe fatto a meno. Volentieri. Natale erano luci, suoni e sapori, Natale era aria di casa. E in Giappone non avrebbe trovato nulla di tutto ciò. Certo le luci, gli spettacoli c'erano anche in Giappone, Tokyo si vestiva a festa per Natale, ma non era il Natale che voleva. Era un Natale di un giorno, con pollo fritto, Stolen o torta alle fragole, che somigliava a un San Valentino con le luci. Single, lontana da casa, nel periodo della famiglia, in una città che celebrava l'amore di coppia e per di più doveva lavorare. Quest'ultima notizia in realtà era quasi positiva, almeno le avrebbe evitato di chiudersi nella sua stanza, a deprimersi. Tornò a concentrarsi sul suo computer e sul suo lavoro. Se avesse perso tempo avrebbe ottenuto solo lavoro extra.


Finalmente finito. Era pronta a salutare e ad andare via. Miyajima san si era avvicinata alla sua scrivania.

— Otsukaresama.

— Otsukaresama.

Pensava che Myajima si sarebbe allontanata, e invece era rimasta lì. Perché?

— Rando** san... perché non vieni a bere con noi? — Le chiese, in giapponese. Voleva rifiutare. Non le piaceva mischiare lavoro e vita privata, non che avesse una vita privata. In realtà non voleva stringere legami, in fondo sarebbe stata lì solo temporaneamente. Sorrise. Il solito "chotto", che aveva sulle labbra, però non uscì.

Si ritrovò ad accettare l'invito. Cosa aveva fatto? Ormai non aveva più modo di rimangiarsi la parola, per cui si stampò un sorriso sulle labbra, cercando di sembrare normale.


Ora si trovava seduta in un izakaya***, con tre persone che la fissavano. Myajima, Yamada e Nakamoto san. Si sentiva a disagio e insicura. Perché diamine aveva accettato? Ma in fondo lo sapeva bene: non voleva trascorrere l'ennesima serata a mangiare ramen istantaneo chiusa nella sua stanza. Gli altri avevano cominciato a bere. Il primo brindisi, a cui lei aveva finto di partecipare, era stato accompagnato dal solito "otsukaresama". Poi aveva perso il conto dei bicchieri, quelli degli altri. Lei aveva davanti ancora il primo bicchiere, da cui ogni tanto fingeva di bere. Le piaceva bere in compagnia, qualche volta, ma in quell'occasione non si sentiva davvero a suo agio. Forse era dovuto al fatto che in quei due anni, aveva eretto un muro con i colleghi oppure era solo malinconia. Passare le feste, in un posto così diverso da casa era pesante. Intanto Myajima e Yamada erano diventati più rumorosi, e sembravano più interessati del solito a lei. Parlavano velocemente in giapponese, riempiendola di domande, e fissandola incuriositi. Nakamoto san, invece sembrava più silenzioso. Perché? Aveva ancora addosso il completo d'ufficio, ma sembrava diverso. Più rilassato. Era affascinante, ma stranamente non lo aveva mai notato prima. Sembrava molto sicuro di sé, ma non era per nulla arrogante. In quel momento, in quell'occasione ben più informale del lavoro sembrava perfettamente a suo agio. Non era bello, Yamada san lo era molto di più, ma non le piaceva. Gli uomini giapponesi erano molto diversi da quelli italiani, sul piano fisco, e non solo per i tratti somatici, per portamento e per carattere, ma in quei due anni, sebbene non avesse cercato relazioni e neanche appuntamenti, aveva avuto modo di osservare gli uomini e soprattutto modo di guardare qualche drama, serie televisiva giapponese, e leggere delle riviste. Se avesse dovuto dare un giudizio su Yamada san, avrebbe detto che somigliava a un attore. Ma era troppo perfetto per i suoi gusti. Nakamoto san era meno bello, ma più interessante, più vero. Scosse la testa. Quei pensieri confusi, da dove le erano venuti? Forse la stanchezza, unita a quel bicchiere di birra, che ormai era finito, forse lo stress che stava provando, mentre cercava di stare al passo con la conversazione, che ora si era sposata sullo sport, e si sforzava di sorridere. O più semplicemente stava guardando i suoi colleghi per la prima volta.

Myajima era la persona che più faticava a inquadrare, forse perché aveva sempre limitato i contatti con lei, e adesso, non conoscendola, faticava a capire qual era la vera Myajima: Al lavoro era sempre silenziosa, eppure a vederla adesso sembrava andare molto d'accordo con i suoi colleghi, anche con Nakamoto san. E si stava sforzando molto di andare d'accordo anche con lei

Non era una situazione del tutto spiacevole, ma neanche riusciva a definirla positiva. Era contenta di passare una serata diversa, non era male parlare con i colleghi e le sembrava che loro cercassero di metterla a suo agio, ma si sentiva un po' un pesce fuori d'acqua.

Qualche volta, si era trovata in difficoltà a rispondere, o sovrappensiero aveva risposto in italiano, e in un paio di occasioni Nakamoto san l'aveva tratta d'impaccio, traducendo per lei oppure sviando la conversazione. Era stato gentile. In realtà lo era sempre, ma ne era ugualmente sorpresa. Non si aspettava che lui fosse così anche fuori dal lavoro. O forse si comportava così perché in fondo era un'uscita tra colleghi? Quasi un prolungamento dell'orario di lavoro? Ma i suoi dubbi non avrebbero avuto risposta e lo sapeva. Yamada san, aveva bevuto molto, ma sembrava ancora pieno di energia, infatti fu lui a proporre di andare al karaoke. Karaoke? Sara sbiancò in volto, mentre Myajima diceva "iku iku". Forse a causa della birra, tutti sembravano allegri e poco inclini a finire la serata, e lei si lasciò trascinare dagli eventi.


L'atmosfera al karaoke era allegra e più leggera di quello che si aspettava. Avevano preso una stanza, e i suoi colleghi avevano cominciato a esibirsi. Myajima era seduta vicino a lei. E ogni tanto faceva qualche commento sulla canzone oppure su chi cantava.

— Myajima san, ho notato che guardi molto Yamada san, ti piace?

Myajima balbettò qualcosa al riguardo, cercando di sviare la conversazione.

— Scusami, non volevo metterti in imbarazzo.

— Va bene, va bene. Lavora molto ed è molto serio nel suo lavoro. E a te Rando san, perché ti piace Nakamoto san? — Le piaceva Nakamoto? Forse Myajima aveva davvero bevuto molto.

— No, no, non mi piace in quel senso. Lui è gentile

— Umm... scommetto che lui ha accettato di uscire solo perché c'era anche Rando san.

— Eh? — Chiese stupita.

— Nakamoto san, non esce spesso con i colleghi è molto riservato e spesso sta per conto suo.

— A me non sembra così... — Si lasciò sfuggire, lasciando la frase in sospeso. Avrebbe voluto aggiungere che le sembrava molto amichevole e che con lei era sempre disponibile ad aiutarla, ma non ne ebbe il coraggio, non voleva che l'altra fraintendesse.

— Lavoro con Nakamoto san da 5 anni. È cambiato da quando è arrivata Rando san. Forse a lui piaci.

Lei si affrettò a negare. Poi Yamada san chiese a Myajima di cantare e lei poté trarre un respiro di sollievo. Ma l'attimo di calma durò poco.


— Diventano rumorosi quando bevono, vero? — Nakamoto era seduto accanto a lei. Lo guardò brevemente con la coda dell'occhio. Aveva imparato a osservare chi le stava intorno senza farlo apertamente. Non riusciva a togliersi le parole di Myajima dalla testa.

— Sono gentili.

— È vero, ma possono essere fastidiosi, qualche volta. Rando san, lavorerai il giorno di Natale?

— Sì, il 24 e anche il 25 lavoro. — Sospirò.

— Scusa, ma sembri un po' triste.

— In Italia non si lavora il 25, e poche persone lavorano il 24.

— Davvero? Sembra che prendiate il Natale molto sul serio.

— È importante per noi, come per voi il capodanno.

— Oh capisco. Sembra bello.

— Sì lo è... non che il Giappone non lo sia...

— Hai nostalgia dell'Italia?

— Qualche volta penso di tornare a viverci.

— Capisco. — Poi Yamada e Myajima si unirono a loro e la conversazione si spostò su altri argomenti.


Nakamoto era alla sua scrivania, gli occhi incollati al monitor, i pensieri altrove. Due scrivanie più avanti, c'era Lando San... Sara san, come la chiamava nei suoi sogni. Si era innamorato di lei quasi due anni prima, quando lei era stata mandata lì dall'Italia, ma non si era mai dichiarato. Aveva cercato di aiutarla, di starle vicino, aveva anche ripreso a studiare italiano per poter parlare di più con lei, ma non aveva fatto altro, si diceva che gli bastava esserle amico, ma adesso non gli bastava più. In tutto quel tempo aveva sempre saputo che lei prima o poi sarebbe tornata a casa sua, e si era preparato mille volte a quel momento. L'anno prima lei era tornata a casa per Natale, e lui ne aveva sofferto, ma sapeva che sarebbe tornata in Giappone, quest'anno era diverso. Lei gli aveva confidato che stava pensando di trasferirsi, e lui sospettava che avrebbe preso una decisione mentre era in Italia, durante le feste di capodanno. Stava per perderla e per quanto si fosse preparato mentalmente, adesso si accorgeva che non voleva perderla. Non in questo modo, senza dirle ciò che provava. Sentiva che doveva fare almeno un tentativo. E quel giorno, si sarebbe dichiarato, finalmente. Era un po' preoccupato e non riusciva a concentrasi sul lavoro. Ogni tanto, sbirciava la scrivania di lei, stando attento a non farsi accorgere.

Aveva fatto un programma e voleva seguirlo, ma sapeva che avrebbe potuto anche fallire, era preparato ma quest'ultima ipotesi gli faceva un po' paura.


Sara guardò il computer, era la terza volta che controllava i dati. Voleva solo che quella giornata finisse presto. La sera che era uscita con i colleghi, avevano scambiato i contatti Line. Anche perché Myajima aveva voluto creare un gruppo.

Aveva scritto poco, non le sembrava il caso. Anche Nakamoto san e Yamada avevano scritto poco, la più attiva era proprio Myajima san.

Poi dopo due giorni Nakamoto l'aveva sorpresa. Le aveva mandato la foto di un babbo natale di luci, scrivendole che gli aveva fatto pensare alla loro conversazione. Non era proprio quello che lei definiva "spirito natalizio", ma apprezzava il tentativo di lui di tirarle su il morale.

Ma adesso non voleva pensare a quello. Voleva solo finire il lavoro e andare a casa. Era la Vigilia di Natale. Aveva scritto ai genitori, e anche a due amici in Italia. Si sentiva comunque un po' depressa. Forse se avesse avuto qualcosa da fare... ma era inutile pensarci. Si sarebbe concentrata sul lavoro, poi sarebbe tornata a casa, avrebbe mangiato una cosa al volo e sarebbe andata a letto presto. Il giorno dopo avrebbe lavorato e poi si sarebbe preparata per la partenza. Il 28 avrebbe preso l'aereo e sarebbe tornata a casa per capodanno. Una volta a casa avrebbe pensato a cosa fare.

Doveva pensare a questo e concentrarsi. Eppure non ci riusciva. Quel giorno oltre a lei lavoravano altri cinque colleghi e uno di questi era Nakamoto.

Aveva pensato molto, negli ultimi giorni, alle parole di Myajima. E alla fine doveva ammettere che erano vere: le piaceva Nakamoto. Era gentile, conosceva un po' dell'Italia, ma soprattutto era facile parlare con lui, e questo lo aveva capito già due anni prima. Però in quei due anni aveva fatto di tutto per non stringere legami con i colleghi. E adesso si rendeva conto di essersi complicata la vita. La sera in izakaya non era stata poi così terribile e neanche i messaggi di Myajima lo erano. Le ultime settimane le avevano fatto capire cosa si era persa, innalzando muri in quei due anni.

Cosa doveva fare adesso? Non lo sapeva.

O meglio lo sapeva, in fondo aveva un programma da seguire, ma non ci riusciva, perché tutti i suoi pensieri erano ingarbugliati, e alla fine si concentravano sempre sulla stessa domanda: voleva tornare in Italia o restare in Giappone? E ogni volta che si poneva il quesito il volto di Nakamoto le si affacciava alla mente.

Era davvero confusa.


Finalmente il lavoro era finito, raccolse le sue cose e fece per andarsene. Si voltò e vide il volto di Nakamoto san. Stava lì davanti a lei, sembrava un po' a disagio. Che fosse successo qualcosa?

— Otsukaresama. — Gli disse in automatico.

— Otsukaresama... ecco in realtà... vorrei invitarti a cena... — Una cena tra colleghi? Un appuntamento? Ma cosa andava mai a pensare? Sicuramente sarebbe stata una cena tra colleghi. Forse doveva rifiutare, ma in fondo non aveva nulla da fare e le sarebbe piaciuto passare un po' di tempo con lui.

— Grazie... accetto volentieri. — Nakamoto san le sorrise, rilassandosi quasi avesse trattenuto il fiato fino a quel momento, ma sicuramente lo aveva immaginato.


Nakamoto san l'aveva portata in un ristorante Italiano a Roppongi. Il nome era improbabile, ma la cucina era buona, più di quello che avrebbe potuto immaginare.

— Non è l'Italia, e forse non è il Natale che desideri, però volevo vederti contenta.

— Nakamoto san, sono contenta. Il locale è molto bello e la cucina è buona.

— Yokatta. — "Menomale!" Disse, e ancora una volta sembrava sollevato.

Sara era confusa. Era felice che lui avesse fatto un gesto carino per lei... ma non sapeva spiegarsi il perché le sembrava del tutto diverso dalla solita gentilezza che le riservava ogni giorno. Che Myajima avesse ragione? Anche lei piaceva a Nakamoto san? Ma non osava sperarci e poi ciò avrebbe reso tutto più difficile, o forse no?


Dopo la cena, si aspettava che si sarebbero salutati, e invece lui la stupì ancora.

— La serata non è ancora finita, camminiamo un po'?

— Certo... — Rispose lei, un po' felice, un po' speranzosa un po' confusa.

Lui la portò a vedere le luci di natale, tutta la strada, era piena di luci che davano sul blu, sembrava un bosco fatato. Non erano proprio le luci di Natale che desiderava, ma in quel momento le sembravano bellissime, forse, merito della compagnia.

Mentre camminavano parlarono come sempre, ma un po' di più e lui sembrava molto più interessato del solito all'Italia e a lei.


Nakamoto era agitato. Fino a quel momento il suo programma era andato bene, tutto era filato liscio, anche se era molto emozionato. Ma Ora? Ora veniva la parte difficile. E adesso era spaventato. E se le cose fossero andate male? Ma in fondo lo sapeva, lo aveva sempre saputo, che poteva anche fallire, lo aveva già messo in conto, ma ripeterselo non lo aiutava a calmarsi. Cercò un posto dove potessero sedersi. Se aspettava ancora non avrebbe mai trovato il coraggio di dichiararsi. Indicò il posto a Lando san.

— Rando san, puoi aspettare qui un momento? Devo prendere una cosa.

— Sì... certo — . Lei sorrideva, ma sembrava un po' confusa e lui non avrebbe saputo dire se era una cosa positiva o negativa, di sicuro aumentava la sua ansia. Lì vicino c'era una pasticceria e lui aveva ordinato una torta di natale. Si augurava solo di aver fatto la scelta giusta.


Sara era seduta, la gente le passava intorno, e le luci erano affascinanti, ma non capiva perché Nakamoto san si era allontanato lasciandola sola. Aveva mille dubbi che le si affollavano in mente. Eppure fino a quel momento la serata era stata perfetta, più di quanto avesse osato sperare. Cercò di non pensare a cose negative, sicuramente c'era una spiegazione, e non era legata a qualcosa che avesse detto o fatto, o almeno lo sperava. Poi lo vide arrivare con un pacchetto in mano e lasciò andare il respiro che inconsciamente aveva trattenuto, mente il cuore ritornava a batterle normalmente... o quasi.

— Torta di Natare!**** — Esclamò Nakamoto san, in italiano. Si era sforzato molto di parlare anche in italiano durante la cena e la passeggiata, e sapendo che lo avesse fatto esclusivamente per lei, ne era felice.

— Che bella! — esclamò quando la vide. Era una torta di panna e fragole con una scritta di buon natale, in inglese, e un babbo natale di zucchero. Poi lui accese le candeline, fornite con la torta. Era una scena surreale, loro seduti per strada, con una torta illuminata, mentre la gente li guardava stupita passando velocemente oltre.

Molte persone sembravano sconcertate, ma loro non ci facevano caso, impegnati a sorridersi, mentre spegnevano le candeline.

Sara, aveva appena addentato una fetta di torta, quando lui disse:

— Se devo essere sincero, Rando san, tu mi piaci. Vorrei che fossi la mia ragazza. — Sara, per poco non soffocò. Tutto si aspettava tranne una dichiarazione del genere. Ne era felice, anche lui le piaceva e tanto, ormai lo aveva capito, ma cosa sarebbe successo, se gli avrebbe risposto di sì?

— Nakamoto san, anche tu mi piaci ma...

— Ma stai per tornare in Italia, lo so. E so anche che stai pensando di trasferirti. Ma sono serio.

— Davvero? E non ti fa paura la distanza?

— No, mi fa paura la distanza, e tanto. Per questo, se tu mi dirai di sì, verrò con te.

— Verrai con me? In che senso? — Lei era confusa e lui cercò di spiegarsi.

— Se tu fossi la mia ragazza, verrei con te a capodanno in Italia. E se tu decidessi di trasferirti, allora anche io chiederei il trasferimento in italia.

— E se ti dicessi di no?

— Vorrei che restassimo amici.

Sara chiuse gli occhi. Aveva bisogno di riflettere. Era vero che le piaceva l'amicizia di Nakamoto, ma era anche vero che quella sera le aveva fatto capire che desiderava di più.

— Non voglio che restiamo solo amici... anch'io vorrei essere la tua ragazza.

— Ah. ... sono felice! — si guardarono negli occhi, poi si scambiarono un fugace bacio, mentre la gente li guardava con stupore, alcuni scuotevano appena la testa, altri gli lanciavano delle occhiatacce, altri erano solo curiosi. Ma a loro importava solo la loro felicità.


(fine)


* Otsukaresama, è un "saluto" giapponese, non direttamente traducibile in italiano. Suona un po' come un ringraziamento per il lavoro svolto e si usa quando qualcuno ha finito un compito oppure l'orario di lavoro.

** Il nome della protagonista è Sara Lando, ma in giapponese e non esiste il suono "l", esiste il suono "Ra"(il giapponese ha 3 alfabeti, di cui due sillabici e uno usato per le parole oppure i nomi stranieri.

*** Izakaya è un tipico locale giapponese, simile a un bar oppure un pub, dove la gente va a mangiare e soprattutto a bere.

**** Natale, traslitterato in giapponese suona come Natare, ma comunque la loro "r" è molto meno forte della "r" italiana.


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Alberto Marcolli


Quell'ultimo giro di valzer


L'altra sera, dopo una stressante giornata di lavoro, ho preferito disertare l'autobus per una salutare camminata lungo il viale che conduce alla mia casa in periferia.

Avevo percorso poco più di un centinaio di metri, quando mi sono ritrovato al centro di una multietnica gioventù femminile, che con mosse seducenti e frasi audaci esibiva un fermento di corpi seminudi nel gelo autunnale.

Non sono nato ieri e la presenza del popolo della notte non è più una sorpresa, eppure quell'apparizione repentina mi ha procurato una stretta al cuore, tant'è per me inaccettabile osservare delle adolescenti costrette a recitare scene avvilenti e subire abusi che infangano le loro vite.

Ho sofferto nel considerare, ancora una volta, come la società nella quale vivo preferisca fingere di non vedere, piuttosto che sporcarsi le mani combattendo contro questo strazio. L'imbarazzo e il tormento erano così forti che non sono riuscito a pronunciare nemmeno una parola, e con la testa bassa sono scivolato via, quasi correndo.

Aprendo la porta di casa, le emozioni appena vissute mi hanno acceso curiosità e memorie lontane, legate ad avvenimenti della storia patria, sepolti da decenni nell'oblio.

Quanti saranno gli italiani, mi son chiesto, che tuttora rammentano quelle pompose passeggiate in carrozza per le vie del centro che un'abbondante dozzina di allegre signorine, sbarcate fresche fresche alla locale stazione ferroviaria, compiva con regolarità quindicinale, prima di procedere al rimpiazzo del personale "di ruolo" nei vari bordelli, in quel tempo operanti un po' ovunque, su e giù per la penisola? Era questa una ricorrenza assai popolare, celebrata in ogni borgo che avesse il "piacere" di ospitare almeno una di quelle leggendarie case chiuse, cosi soprannominate dal giorno in cui, nel lontanissimo 1888, una scrupolosa legge del Regio Governo impose, per il loro funzionamento, una serie di regole categoriche, tra le quali vi era, per l'appunto, l'obbligo di mantenere le persiane perennemente accostate, i vetri oscurati e le finestre sbarrate; inoltre, essendo consentita una sola porta d'ingresso, si doveva murare qualsiasi comunicazione con altre abitazioni, case, quartieri, stanze private o botteghe.

Accertata l'impossibilità di sopprimerle, la bigotta morale italiana di fine ‘800 comandava, senza mezzi termini, che quei luoghi di perdizione, regni dell'amore mercenario, fossero il più possibile mimetizzati agli sguardi innocenti dei cittadini per bene, pur sapendo che molti di quei cittadini, cosiddetti "per bene", non avrebbero resistito alla tentazione di veloci scappatelle, come sarebbe facilmente dimostrabile interrogando sull'argomento qualche nostro parente un po' avanti negli anni. Si scoprirebbe allora che la folla di avventori, attivi in quei lupanari, apparteneva a tutti i ceti sociali: modesti e facoltosi, scapoli e ammogliati, laici e religiosi. A questo proposito, un antico adagio veneziano riassume, con l'arguzia che contraddistingue quel popolo di naviganti, la morale genuina della nostra cara italietta: "La matina ‘na meseta, dopo disnar ‘na basseta e la sera ‘na doneta", che tradotto recita grossomodo: "Una Messa la mattina, dopo pranzo una partitina (a carte) e la sera una donnettina".

La struttura interna delle case chiuse era all'incirca sempre la stessa, sia si trattasse di case di lusso, frequentate dalla quotata borghesia, o di categoria inferiore, zeppe di soldati, contadini e gente di passaggio. All'ingresso si trovava il bar con accanto uno spazioso salone, arredato con comode poltrone, utili affinché la fauna maschile avesse modo di ammirare e scegliere la ragazza adatta alla bisogna, mentre era nelle camere ai piani superiori che i maschi avrebbero poi consumato qualche scampolo d'effimera voluttà.

In quegli anni, valutata l'assoluta indisponibilità del gentil sesso, eccezion fatta per pochissime encomiabili signore maritate, era tradizione assolvere l'esigenza dell'iniziazione maschile mediante il passaggio in una di queste case. Una tradizione rimasta fino alla conclusione di quella lunghissima parentesi del costume nazionale, disciplinata ma non vietata dal codice civile, che implicitamente ne ammetteva la sua necessità.


Un discorso completamente opposto va fatto per chi stava dall'altra parte della barricata. I ritmi di lavoro costringevano le signorine a trascorrere una povera vita da carcerate, per essere infine sostituite, alla stregua di un logoro strofinaccio, trascorsa la canonica quindicina. Raccolte in una nuova — squadra — e restaurate alla meglio, affrontavano il trasloco in una diversa città, dove il calvario sarebbe immediatamente ripartito.


Probabile che l'ultimo girotondo, quello del 20 settembre 1958, anteriore di un solo giorno all'entrata in vigore della legge di abolizione delle case chiuse, sia rimasto ben impresso nella mente di una grossa fetta d'italiani, per sentito dire, se non per personale testimonianza.

Qui da noi l'avvenimento fu celebrato in un tripudio di paillette, lustrini e cosce al vento, con raduno finale nella centralissima piazza Monte Grappa, all'ombra della torre littoria. Volendo coinvolgere proprio tutti, i tenutari dei postriboli cittadini, accantonate le tradizionali rivalità, avevano assoldato pure la banda municipale, incaricandola di suonare quell'ultimo giro di valzer che chiamasse a raccolta tutti gli uomini validi, spronandoli a festeggiare virilmente la serata conclusiva, prima della chiusura definitiva dei casini.

Di quella giornata memorabile, conservo un ricordo preciso, anche se all'epoca, avendo solo otto anni, non ebbi modo di comprendere fino in fondo l'avvenimento e tanto meno il motivo per cui nonno Gustavo mi condusse in piazza, in gran segreto da mamma e papà.

Qualche anno più tardi, quando ne afferrai meglio il significato, era ormai tutto inutile. La signora Merlin, senatrice padovana, cattolica e socialista, aveva cambiato per sempre le italiche abitudini a vantaggio di uno squallido moralismo di facciata, ben sapendo che molte di quelle duemilaseicento prostitute sarebbero state costrette, per sopravvivere, a esercitare sulle pubbliche strade.


Da allora sono trascorsi cinquantadue anni, una vera era geologica che ha messo nel dimenticatoio persino la memoria di quei luoghi, in grado di attirare proprio tutti, dagli zitelloni per scelta agli uomini dal fisico infelice, dai timidi che non osavano fare la prima mossa, ai mariti annoiati da una lunga convivenza con mogli in declino.

Con l'arrivo della modernità le cose si sono ulteriormente evolute. Oggi vanno di moda i siti porno, con ogni genere di offerta a uomini e donne per una comoda quanto illusoria scappatoia, nel tentativo di fuggire dallo squallore di una vita in affannosa ricerca di un benessere tristemente materiale, sempre più irraggiungibile.

Non nego di subire infinitamente il fascino femminile e le birichinate non me le sono certo risparmiate, ma la sola idea di mancare di rispetto a una donna, trattandola come un oggetto da usare, pagare e gettare, mi dà il voltastomaco.

Nell'appartamentino accanto al mio, abita la signorina Miriam, un'arzilla ottantenne in pensione, animatrice volontaria presso la biblioteca comunale, dopo averci lavorato per trent'anni o poco meno. Tra lei e nonno Gustavo era sempre esistita un'amicizia molto speciale. Com'era piacevole osservarli, mentre rievocavano i loro verdi anni, beatamente seduti sulla panchina dei giardinetti, all'ombra di quel paio di pini, sopravvissuti per miracolo ai numerosi piani urbanistici.

Ricordo che il giorno in cui nonno Gustavo morì, la signorina Miriam, sopraffatta dal dolore, non se la sentì di seguire la bara fino al cimitero, e con la scusa di un caffè, mi chiese di accompagnarla a casa. Seduti nel salottino, si mise a parlare come un fiume in piena della sua gioventù, svelandomi, tra le lacrime, che le case chiuse le aveva frequentate pure lei, ma dall'altra parte dell'universo, e che il nonno, assessore alla cultura, era riuscito a salvarla offrendogli la possibilità di un lavoro in biblioteca.

Intuito il suo bisogno di compagnia, la incoraggiai a continuare, e lei iniziò a raccontare, compiaciuta d'aver trovato qualcun altro che la stesse ad ascoltare, ora che il nonno ci aveva lasciati.


Era una vita peggiore di quella delle suore di clausura, ma senza le messe e le giaculatorie quotidiane, mormorò soffocando un singhiozzo; le giornate trascorrevano cadenzate dal ritmo alienante delle semplici e delle doppie a una media di trenta, quaranta finti orgasmi. Un'esistenza precaria, legata al reggere della bellezza. Bisognava, infatti, poter interpretare un ruolo appetitoso che sapesse stuzzicare le voglie maschili. Rientrare nella schiera dei "bocconcini" o delle languide bambolone, oppure della maschietta, della falsa profuga russa o della bolognese, fertile di sofisticate promesse. Un lavoro estenuante che sfiancava in poche stagioni, e le case di lusso scritturavano solo carne fresca, non usurata dal mestiere.

— Bruciavamo in fretta, e la prospettiva di lauti guadagni era comunque un'illusione. — proseguì Miriam.

— Allargando le gambe, mantenevamo un esercito di parassiti, e lo Stato era forse il peggiore di tutti: tassa sulla licenza ... tassa sugli introiti giornalieri!

Poco prima che arrivasse la legge Merlin, la tariffa di una marchetta semplice era di quattrocento lire che, per una media di quaranta giornaliere, fruttava un incasso lordo di circa duecentocinquantamila lire a quindicina: una cifra importante, ma già il tenutario ne reclamava la metà. Il corredo era a nostro carico, e bisognava rinfrescarlo di novità: mutandine ricamate, veli, sciarpe di merletto e pagliaccetti. Vanità femminili sulle quali sfogavamo le nostre frustrazioni di recluse: un sollievo fugace quanto dispendioso. Ovviamente c'era da pagare la retta per il cibo, le spese mediche e le piccole necessità di tutti i giorni. Tirate le somme, restavano duecentomila lire, purtroppo ancora da dividere, perché i "pappa" esistevano anche allora: autentiche sanguisughe che nel sistema delle case di tolleranza agivano come reclutatori di ragazze da piazzare nel circuito delle quindicine, trattando gli ingaggi e incassando la percentuale sulle marchette giornaliere.

Per sopravvivere bisognava quindi compensare con la produttività, in altre parole saper farsi scegliere nelle "passate" fra i clienti del salone. Concentrare tutta la propria sensualità in quel "saliamo"? ammaliatore, capace di scollare il "flanellone" dalla panca o dal divanetto, e per meglio riuscire si cercava il sostegno del guardaroba. Funzionava il "ti vedo e non ti vedo": spacchi, scollature, trasparenze e pizzi traforati. Il nudo integrale non "tirava"; preferibile, per una platea di consumatori cattolici, il chiaroscuro, l'accennato o il tutto coperto tranne il pezzo forte, rappresentato da chiappe matronali o seni da maggiorata. Era di moda, negli ultimi anni, anche il tipo acqua e sapone: dopo le tragedie della guerra, i maschi italiani desideravano un'avventura domestica, che li illudesse di aver conquistato la ragazza della porta accanto.

Per la signorina Miriam, l'adescamento era l'unico momento divertente del mestiere. Su in camera, era solo noia, fatica e sciacquio di bidet.

Ogni tanto si creavano dei fugaci affetti, ma non c'era niente di soave. Per "loro", per la clientela, forse. La regola professionale, infatti, era metterli a proprio agio, quasi fossimo delle giovani mammine o delle amorevoli cugine. Per fortuna era raro imbattersi nel perverso, quello che pretendeva la "bilancia", cioè la presenza di una seconda ragazza. Il grosso dei consumatori erano maschi impacciati che occorreva accompagnare per mano, come se fossero alle prime armi. Non mancavano quelli che Miriam ricordava con il nome di "teneroni", quelli che prima, durante e anche dopo, parlavano incessantemente dei loro amori mancati, alla ricerca di conforto per un'insopportabile solitudine. E che dire dei "monsignori", quelli che pagavano non per "fare", ma per tentare di redimerti, o forse in loro c'era solo la morbosità di voler conoscere la triste verità di una prostituta, con figlio a balia. Naturalmente, tra i clienti fissi e le signorine, a volte si creava una certa familiarità, specie se si trattava di studenti squattrinati, piazzati nel salone a "far flanella", sordi ai richiami perentori della maitresse:

— Qui non si chiacchiera, si ciula!

Su tutto regnava la fatica alienante di un'impietosa catena di montaggio, e ti ritrovavi a trent'anni che eri già da sbatter via, buona per il giro dei casini da battaglia, a 150 lire la marchetta, quelli dove la maitresse, per incitare i fannulloni a sgombrare, utilizzava l'arma degli spruzzi di flit, un puzzo terribile che timbrava indelebilmente i vestiti dei malcapitati, con ovvie conseguenze una volta ritornati nelle loro case.


Ripensando a quel periodo, oggi ho acceso il computer e vagando a caso per la rete ho scoperto sull'argomento una storiella davvero spiritosa, vera o falsa non saprei. Un testimone di allora racconta che qui in provincia di Varese, negli anni in cui i bordelli funzionavano a pieno ritmo, il tram da Luino raddoppiava le corse domenicali, mentre al trenino della Valmorea aggiungevano regolarmente due carrozze. Molti mariti, dovendo motivare alle mogli sospettose quei frequenti viaggi festivi, si erano inventati la scusa di una gara di bocce nel capoluogo. Partivano dunque con la loro pesante valigetta, ma giunti a destinazione, non volendo trasportare fino al casino quell'inservibile fardello, se ne liberavano abbandonandolo nel deposito bagagli della stazione ferroviaria. Al ritorno, forse per la fretta o piuttosto per via di un comprensibile rilassamento, quelle bocce finivano spesso dimenticate, finché, alla fine del '58, preso atto che l'entrata in vigore della Legge Merlin aveva ridotto drasticamente quel gran viavai di uomini, le ferrovie scrissero alla bocciofila di viale Belforte affinché venissero a prelevare la marea di bocce che intasavano i magazzini.


Stuzzicato dalla curiosità di conoscere la sua reazione, ho ripetuto la storiella alla signorina Miriam, e lei, con un'arguzia degna di un filosofo greco, ha commentato:

— Mio caro Alberto, sai cosa ti dico? Le palle le avranno anche ritirate, ma i cervelli no, quelli sono ancora là, sepolti in quel deposito ammuffito!


(fine)

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