Il filatore di parole
La scrittura della poesia, in primis, è una traduzione in simboli di stati d’animo, che si realizzano internamente, soggettivamente esclusivi, dentro colui che verga il segno.
Lo stato d’animo, in sé, si vive, non è chiaramente e definitamente esprimibile in parole, a volte è una miscela di sensazioni e sentimenti diversi e quello che viene descritto, per esempio la rabbia, può avere molteplici livelli interpretativi, sia per chi è arrabbiato sia nei confronti del mondo esteriore. Rabbia verso se stessi per un errore, per un’occasione mancata, rabbia per un sopruso subito, per un danno ricevuto, fisico o psicologico.
Sintetizzando: é RABBIA, ma come quale? Come?
A volte è difficile definire a se stessi cosa si prova, figuriamoci ad altri…
Tradurre una cosa del genere in simboli, in lettere e parole, in concetti universali è come ridurre un pianeta a una palla. Ci sono cose di uno che ci ricordano l’altra, ma non sono la stessa cosa.
Poi, una volta scritte, magari in linguaggio ermetico, tipico di talune poesie, possiamo dare quasi per perso un messaggio, ma forse trasmettere messaggi non è compito della poesia ma del giornalismo.
La poesia trasmette, nella mente di chi legge, immagini, situazioni, stati d’animo, molto probabilmente diversi da quelli dell’autore, ma comunica ad un livello più profondo di quello della cronaca.
Mia esclusiva opinione.
Parlando IO della mia, autoreferenziandomi, posso dire che scrivo versi cupi, certo, disperati anche, ma fossi allegro e lieto forse mi godrei la felicità anziché cercare d’ancorare il dolore alle mie parole sulla carta.
Spesso scrivo in quello stato di coscienza vaga che sta fra il sonno e la veglia, quando si perdono i limiti reali e si vive nell’immaginativo senza le inibizione della vita relazionale diurna, quando le parole non si susseguono ordinate in frasi, ma scorrono fluide in flussi armonici ma senza regole a restringerle, senza la direzione obbligata del pensiero cosciente, passando dal pesce al autobus agli armigeri ai fotoni alle grotte… Un flusso ad elevato tasso creativo.
Le mie poesie poi hanno scarsa punteggiatura e quando c’è, essa distanzia i concetti, i simboli tradotti, le immagini imprigionate nelle parole più che l’ordine delle parole stesse.
Se alla fine di una riga non c’è un punto è perché il flusso immaginativo di chi legge deve/dovrebbe continuare a fluire OLTRE il verso, autoampliarlo, probabilmente a livello inconscio cerco la complicità del lettore, un suo “concorso di colpa” ai miei scritti…
Se metti un punto, chiudi, e categoricamente determini che c’è il passaggio “a calare” al rigo successivo chiudendo un “capitolo” mentale.
Senza, la mente scorre sul binario appena imboccato ma l’automatismo della lettura, scendendo al rigo successivo, sovrappone, incrocia il flusso, disegna lo scorrere di storie interiormente tangenti e intersecantisi.
Spesso alla fine della poesia c’è una specie di treccia di flussi, che, senza chiusure, lascia l’emozione fluente a continuare la discesa nell’interiorità del lettore.
Andrea Leonelli
filatore di parole
Biografia
41 anni, sposato 2 figli e 1 infarto senza effetti residui se non “dentro”; ha sempre letto, principalmente fantascienza di cui è anche collezionista e a periodi ha scritto per diletto personale.
Studia Scienze infermieristiche con il “vecchio ordinamento”, inizia a lavorare a 21 anni in settori eterogenei dell’assistenza, dalla medicinia alla psichiatria al pronto soccorso per poi approdare, ormai undici anni fa in Rianimazione, per la quale nutre oggi una specie di “tenera affezione”.
Esperienze di rianimazione in 3 ospedali diversi, talvolta attività di insegnamento.
Spesso contraddittorio, problematico, con una spiccata logorrea mentale, normalmente diplomatico, raramente perde completamente le staffe e poi se ne pente.
Ascolta un po’ di tutto riguardo la musica, prediligendo hard rock ed heavy metal.
Si pone domande, sempre, su tutto ma particolarmente, dato il lavoro, di carattere etico.
Ama la tecnologia e Internet