Io e Tric

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'autunno 2024.

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Lodovico
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Io e Tric

Messaggio da leggere da Lodovico »

leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Mi fissa. Le lunghe zanne bianche si slanciano a lato del naso e tra i folti baffi e sembrano indicare il pavimento. Mi fissa. Gli occhi, tondi e scuri, sono fermi in direzione dei miei. Tric mi fissa. Sì, perché gli avevo dato anche un nome: “Tric”. Adatto a un tricheco marrone. Il corpo è solo schizzato. Riprendo la matita. Con la mano tremolante aggiungo al tricheco disegnato la coda da sirena e le zampe anteriori. E poi un bicchiere d’acqua. Potrebbe venire sete a Tric, con questa canicola. D’altra parte, vive in acqua. Mezz’ora ci ho messo per abbozzarlo e non l’ho ancora finito. Bevo un sorso d’acqua e poi rimetto il bicchiere nel disegno. Basta! Mi sono stufato. Avrei voluto aggiungere una trichechina allo schizzo sul tavolo, gli avrebbe fatto compagnia, povero Tric. E invece lo avrei lasciato solo a godersi il foglio da disegno candido per metà e il bicchiere d’acqua semivuoto che gli stava a fianco. Solo come un cane. O come un tricheco. Ma non si dice “solo come un tricheco”. Chissà perché. Ha da bere, ma non da mangiare. Con pochi tratti sgraziati disegno, a fianco a Tric, un pesce. Di quelli stilizzati, che sanno fare anche i bambini, ma, al mio trichechino in grafite, sarebbe piaciuto. Osservo l’orologio. È arrivata l’ora. Il frigo in cucina è semivuoto. Apro un pacchetto di wurstel, di quelli piccoli, da trentacinque centesimi al discount, e ne divoro uno senza scaldarlo. Tric mi si struscia tra le gambe. Deve avere sentito l’odore delle salsicce e ha abbandonato il suo pesce essenziale sul foglio. Strappo a metà il secondo wurstel e glielo porgo. Avidamente lo mangia e ritorna ballonzolando in salotto. Osservo l’orologio. È arrivata l’ora. Tric è tornato nel disegno. Arrotolo il foglio e lo ripongo ordinatamente in frigo. Mi stanno aspettando, non devo ritardare.

L’automobile scorre liscia sull’asfalto, le montagne, in lontananza paiono non avvicinarsi mai. È curioso, si spostano a destra e a sinistra ma sono sempre alla stessa distanza. Come le nuvole. Tu corri verso di loro, ma le nuvole si tengono sempre lontane dagli uomini. Avranno paura che, se uno di noi le toccasse, si sporcherebbero e diverrebbero nere. Come quelle dei temporali. E invece adesso sono lì, colore della panna e forma di… di che? Mi fermo accostando l’auto al ciglio della strada per osservarle meglio. Quella lassù ha la forma di un… un… una nuvola. Sbatto il pugno sul volante. Non mi ricorda nulla quella nuvola. Il motore riprende a cantare, l’automobile a correre, l’autoradio a parlare. E so che mi aspettano, forse sono in ritardo. O forse no. Non lo saprò mai, non conosco l’orario dell’appuntamento. In realtà non conosco nemmeno il giorno, ma so che mi aspettano. E che non posso arrivare tardi.

L’inverno è la stagione che preferisco. D’estate si suda, l’acqua frizzante si scalda e fa schifo, le magliette che ho sono vecchie e non mi piacciono. Invece, quando fa freddo e gli alberi perdono la chioma e sembrano rami secchi, anche se si lascia la bottiglia di acqua Guizza in macchina la si può bere e le mie felpe sono decisamente carine. E, in ogni caso ho il giaccone imbottito, se nevica. E invece, oggi, torrida giornata di luglio, fa un caldo tremendo. Mi fermo davanti alla fontana nella piazza. L’acqua scorre continua e pare abbastanza fresca. Tric è lì sotto che si fa il bagno. Mi dovrei chiedere come sia possibile che si trovi in quel luogo, centoottanta chilometri da casa, e invece non mi stupisco. D’altra parte, è un disegno, mica un tricheco vero, comunque quando tornerò indietro lo cancellerò. Se tornerò indietro. Se loro non mi terranno là dove mi sto recando. Ancora un po’ di strada e li incontrerò. Non so di preciso dove, ma ne sono certo. Mi hanno detto di voltare sempre a destra, a parte alcune volte in cui avrei dovuto continuare dritto. Non mi hanno detto in quali incroci, ma poco importa, quando sarò arrivato al luogo dell’incontro me ne accorgerò.

Le cameriere degli autogrill sono tutte belle, tutte. Si gira per prepararmi il caffè che, da bravo avventore avevo pagato alla cassa. Ho dato un euro in cambio di uno scontrino e lei mi dà un caffè in cambio dello scontrino. Curiosa scienza, l’economia. Se avessi avuto più soldi avrei potuto avere un “Camogli” o un “Cotoletta”. Persino una “Rustichella” con provola e origano. Già, un “Camogli”. Questo nome mi ricorda qualcosa. E invece bevo il mio caffè osservando la donna con lo stesso sguardo affamato con cui guardavo la “Focaccella con prosciutto cotto”. Tric sì che si sta sfamando. Lo vedo nella vetrinetta, tra i panini, che assaggia una fetta di salame qui e una di speck là. Gratis. Nessun altro pare scorgerlo, nemmeno la cameriera dalla scollatura generosa. Beato lui.

E finalmente ci sono. Vedo in lontananza la mia meta, mi staranno aspettando. O forse no. Parcheggio la macchina. La bottiglia di Guizza, calda e sgasata cade fuori e rotola verso il basso. Tric passa tra le mie gambe trascinandosi pesantemente sull’asfalto tentando di farsi notare. Fa uno strano verso: “goo goo g’joob”. Lo guardo con attenzione, per la prima volta. Forse non lo è, forse non è un tricheco, ma un’ombra grigia, indistinta. Un foro, un tunnel. E, attraverso il tunnel due donne di spalle, quelle che sembravano zanne chiare, che si allontanano, senza voltarsi. Le riconosco: mia moglie, mia figlia. Le uova che ho in mano cadono sull’asfalto senza rompersi e rotolano nel tricheco verso le donne. Sto piangendo.

La stanza rotea davanti ai miei occhi. La bottiglia di whisky, praticamente vuota, mi osserva al di là del bicchiere. Ho un po’ di nausea, forse dovrei comprare del whisky di prezzo superiore ai quattro euro. O forse non dovrei fumarci insieme anche le canne. Forse. Lei è lì. Anzi no, lei non è lì, non c’è più. Loro non ci sono più. Andate via come foglie nel vento, insieme ai ricordi di una vita. Com’è vuota questa casa. Se avessi smesso di bere forse… ma in frigo devo avere ancora del vino in brick. Finisco il whisky e il vino, lei non mi fa più compagnia in questa maledetta casa, solo l’alcol me ne fa più, ormai. Finché dura. Sto piangendo. Devo distrarmi. Slancio la mano sulla scrivania e prendo la prima cosa che mi capita. Una matita. Disegno malissimo, ma potrebbe essere un modo per rilassarsi. Un foglio bianco di mia figlia, studentessa dell’artistico, giace, vergine, in fondo al tavolo. Lo sporco con pochi tratti di grafite. Pian piano appare. Un muso con delle zanne. Un tricheco, pare. Carino. Gli disegno gli occhi e mi rendo conto che mi fissa.

Mi fissa. Le lunghe zanne bianche si slanciano a lato del naso e tra i folti baffi e sembrano indicare il pavimento. Mi fissa. Gli occhi, tondi e scuri, sono fermi in direzione dei miei. Tric mi fissa. Sì, perché gli avevo dato anche un nome: “Tric”...
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Vittorio Felugo
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Bellissimo racconto, che inizia come un gioco, un cartone… animato, con questo tricheco che segue il suo autore in un viaggio che, forse, è solo nella sua mente, tra ricordi e fantasie. E poi si ritorna al punto di partenza… Dei racconti ce ho letto in gara questo è senza dubbio, per me, il più originale, e quello più emozionante. 5 sicuro!
Saluti
Vittorio
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Eleonora2
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Dunque, mi hai messo in difficoltà con questo testo. Ho dovuto prima liberarmi di tutte le associazioni che ho avute nella testa, la pima relativa all'animale. Lungi da me la presunzione di tirarmela, sperando di essere stata chiara! Il testo contiene molto, per me, dal sogno alla realtà, dai fatti personali a quelli non strettamente dedicati alle proprie conoscenze, dalla costruzione della storia, alla circolarità del finale che torna al punto di partenza. Le digressioni, quella sulla bottiglia, servono a tornare all'argomento principale dell'animale e del disegno. Queste sono considerazioni personali, mie e solamente mie, che mi hanno aiutato ad affermare la tua bravura. Voto 5.
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Il racconto è divertente.L'idea del disegno che diventa vivo e poi segue, vivo o meno, l' autore fino alla fine è simpatica. Un excursus che ritorna alla partenza come se, in fondo, si sta meglio con un Trik che con un… crac
Yakamoz
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Ciao Lodovico, (Io e Tric o Super-Io e Es)

Racconto breve ma interessante che sembra quasi voler rappresentare, in modo narrativo, un sintomo tipico, fra i tanti, della "Nevrosi D'angoscia", con il simpatico tricheco che rappresenta una sorta di fobia, o comunque un pensiero "intrusivo", su cui il protagonista focalizza la sua attenzione ossessiva/compulsiva. Breve il racconto ma molto bravo l'autore. Esiste un film "Strade perdute", (1997) di David Lynch che, con temi, argomenti e personaggi diversi, tratta quello che hai scritto tu. E la chiusura del film è come un cerchio di un compasso; esattamente come avviene nel tuo racconto.

Saluti,

Antonio

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Marino Maiorino
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Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Ciao Lodovico,
spero che perdonerai se non ho votato, pur avendolo letto, il tuo racconto della scorsa stagione: era un racconto che non entrava nelle mie corde e non ero in grado di emettere né un voto, né un giudizio.
Qui, invece, abbiamo un pezzone che mi è andato diritto al cuore. Colpito, e affondato.
Non riesco a dire di più, non c'è molto altro da dire.
A presto
«Amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza» - Diotima

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Macrelli Piero
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Tecnica narrativa non nuova, ma sempre piacevole da ritrovare. L'idea del loop mi ha sorpreso. L'idea del tricheco come scelta dell'animale tutelare mi ha incuriosito. Pensavo a un racconto leggero e divertente, ma poi quando sono arrivate la moglie e la figlia mi sono dovuto fermare e riprendere la lettura con un atteggiamento diverso. Nell'economia del racconto il whisky e il vino sono funzionale, le canne no.
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