Quelle imperfette solitudini

Spazio dedicato alla Gara stagionale di primavera 2025.

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Namio Intile
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Quelle imperfette solitudini

Messaggio da leggere da Namio Intile »

leggi documento Spiacente ma, in questo browser, la lettura a voce non funziona.

Quel giorno m’ero svegliata di malumore, forse perché era una mattinata fosca, forse perché sentivo freddo, forse perché era domenica, forse perché avevo superato da un pezzo i quarant’anni, e sentivo di aver buttato la mia vita nella tazza del cesso, forse perché mi sentivo sola, pazzescamente sola.
Me ne ero uscita la mattina presto e avevo pensato di anticipare la messa in modo da non incontrare compaesani, che magari avevano pure tirato tardi la sera precedente, che era quella del sabato prima di Carnevale. E invece sul sagrato di Sant’Eustachio chi si presenta? Agostino Caloscurò, proprio lui in persona, di professione idraulico, elettricista, montatore di condizionatori e caldaie, insomma impiantista, non uno qualsiasi ma il più ricco e ricercato del paese, che pare niente e invece è tutto, e che subito mi restituisce la mia occhiata sbieca con un’altra che mi immagino voglia significare: ma tu cosa vuoi da me?
Ma io da lui non volevo proprio niente: quell’occhiata era capitata e basta. Non per cattiveria, pure se mi passavano tanti di quei cattivi pensieri per la testa in quei giorni, né per malizia, anche se ci avevo posato gli occhi sopra al suo bel culo sodo, ma per caso, perché quell’occhiata profonda non era stata affatto voluta. O forse sì, perché pure se lo conoscevo da quando giocavamo ragazzini all’uscita della scuola nella calle di Sant’Isidoro, pure se lui s’era sposato da quanto... saranno stati minimo quindici anni, qualche volta io a lui ancora ci penso, ci penso come quand’ero ragazzina, anzi ci penso come una donna che pensa a un uomo.
E mi salgono i sensi di colpa, perché a sua moglie Melissa la conosco anzi siamo quasi amiche, e mi assalgono i sensi di colpa perché nonostante padre Simon, colla sua malalingua e la malafede e le polemiche gratuite a ogni omelia, io sono cattolica e pure apostolica e romana, e ogni mese ci tengo ad andarmi a confessare, a svuotare la coscienza per evitare l’Inferno, Dio me ne guardi e liberi, dove invece capiterà di certo quell’alito fetente e quelle occhiatacce gratuite attraverso la tenda del confessionale.
E adesso a don Simon che ci racconto? Minchiate, come al solito.
E solo dopo che Agostino mi aveva restituito l’occhiata mi sono fermata a pensare che quando ero ragazzina col grembiule pensavo oddio quant’è bono, e lui pareva che mi leggeva nel pensiero e con quei suoi occhi azzurri profondi e intensi ricambiava la battuta e mi diceva bella a me — a me, capite? — nonostante io bella proprio non mi ci sentivo, — e non mi ci sento manco adesso — per via delle gambe lunghe e un poco storte, e dei miei denti che mi sporgono all’infuori e della bocca stretta e senza labbra e degli occhi rotondi e quasi a palla e di un verde scolorito che pare un’alga morta. E mentre ci guardiamo mi domando se pure lui qualche volta aveva pensato a me come un maschio pensa a una femmina.
Ah, quarant’anni, e la fine s’avvicina diceva don Baldassare Speranza, ed è proprio vero, sapete: perciò è meglio levarselo prima qualche capriccetto, prima che sia troppo tardi, o prima che i rimpianti facciano a pezzi quel che rimane della nostra, anzi della mia autostima. E pazienza se poi dovrò convivere coi rimorsi. Chissenefrega!
E siccome non riesco a togliergli gli occhi di sopra, lui che fa? Si avvicina a me — maledetto lui —, e pure se lo stavo squadrando da capo a piedi è come se sia arrivato di soppiatto e mi abbia scoperto a fare cose che non si possono fare, e tanto meno dire, mentre il mio è solo un guardare senza giochi doppi, senza pensamento, senza turbamento di sorta. Che pure c’è, mannaggia se c’è.
Guardinga, lo saluto e gli porgo la manuzza, che ritraggo subito, perché mi piglia la paura che la consideri piccola e brutta, e pure molle e sudaticcia, e invece lui mi afferra le dita, che rimangono dentro la sua manona bella callosa, dura e forte; era talvolta in queste occasioni che mi pigliava la paura, fin da che ero ragazzina, che qualcuno trovi le mie dita fredde e ossute e anche inconsistenti, oppure si accorga dei miei denti storti e all’infuori. E allora faccio per sfilarle le mie dita, e invece lui le insegue e le trattiene, ancora tra le sue, e mi sorride, e io trovo che lui invece ha proprio dei bellissimi denti, dritti e bianchissimi. Mi sento all’improvviso sopra e sotto — sarà la sua aria malmostosa — e quel profumo d’acqua di colonia da quattro soldi che spande fragranze ai quattro venti di fiori di campo, in mezzo a un tramestio di rose e finocchietto riccio, e di sottecchi mi sembra adesso che sia lui a squadrarmi da capo a piedi, e mi viene l’ansia a pensare a come sono vestita, e se qualche cosa magari mi sta fuori posto. E comincio a stirarmi la giacchetta e a sistemarmi i capelli stinti e cerco di pensare a cosa ho messo stamattina, se forse ho sbagliato outfit nella fretta, pure se io sono vestita nel solito modo in cui sempre sono vestita per la funzione domenicale, per fare gracchiare padre Simon, con una gonna lunga a coprire le ginocchia grosse e una giacca dello stesso grigio scolorato a coprire una camicetta azzurrina che mi serra il collo fino fino perché ho sempre paura che stia iniziando a raggrinzare.
«Che hai, Agostino» ci domando senza alzare la voce. «Ce l’hai con me? Lo so che avanzi tanti di quei soldi per tanti di quei lavori che ti ho fatto fare... I tubi sono tutti fradici» provo a scusarmi.
Mi fece segno che no e pure mi chiede perdono per avermi fissata, e con un fare lamentoso mi racconta che si trovava sopra pensiero, perché ha un’infinità di problemi per la testa, che i soldi non c’entravano niente, che lo sapeva che casa mia era stata un malaffare.
«Hai problemi con Agatina?»
Di nuovo scende con la testa a dir di sì, e io sospiro soddisfatta, e mi viene il coraggio e me lo tiro di fianco alla scalinata, sotto all’atrio coperto della chiesa madre, di modo che nessuno dalla piazza ci possa dire cosa, ci possa spiare.
«Quella ragazzina mi fa diventare scimunito. Ora dice che la domenica mattina, prima di alzarsi dal letto...»
E così mi racconta che Agatina vuole fare quell’affare che vogliono fare tutti i ragazzini su tictac e che ogni mattina appena alzata, in pigiama e mezza nuda col culo di fuori, deve fare la diretta per i suoi... come si chiamano?
E per sì e per no mi faccio un rapido segno della croce e gli dico che ho capito.
«Ah, ‘sti benedetti ragazzini» mormoro, come a consolarlo e veramente mi pare afflitto da questa solenne minchiata.
E mentre mi aspetto che lui se ne esca con qualche parola di circostanza prima di allontanarsi e di lasciarmi sola colla mia vita buttata nel cesso anni prima, lo vedo invece farsi cupo, più fosco di quella fosca mattinata domenicale in attesa della messa di Nostro Signore, pure se recitata da quel pederasta maligno di padre Simon, e quel silenzio, quell’attesa, m’accende l’anima di desiderio.
«E quella disgraziata di mia moglie...» dice.
«E che ha fatto Melissa» ci domando, mentre il cuore mi si accendeva di speranza.
«Invece di dirci a quella scervellata che si spicciasse a pigliare il diploma da estetista che il papà le mette su una bella attività con tanto di insegna luminosa a Latisana, ecco lei...»
E questa volta si sfoga, mi dice che si sente solo, anzi solissimo, perché sua moglie è una cretina e una pettegola, e alla figlia le ha messo in testa che farà l’attrice, la cantante o una star con l’influenza.
«Con l’influenza?»
«Ma sì, quelle cose dei ragazzini su trictrac» dice mandandole a quel paese col bel braccio nerboruto di chi svita e avvita mille tubi al dì.
E anche questa volta faccio cenno di aver capito, mentre non ho capito un anonimo tubo e di più non me ne frega niente di Melissa e manco di Agatina, e me lo guardo tutto da vicino il mio Caloscurò, che Agostino è stato da sempre proprio bello, anzi un adone, il più figo del paese.
«Così per non avere la testa rintronata dalle loro urla e dalle riprese del culo di mia figlia me ne sono uscito, che magari forse per la messa di mezzogiorno ce la fanno a uscire da quel grande fratello che è diventata casa mia. Ah, come mi sento solo» e mi pare che se ne è pentito subito di avermi fatto quella che pare una confessione di colpa e di mancanza di paterna autorevolezza, e di umana debolezza.
«Se mi vedesse Umberto Bossi, qual è la colpa...»
Ma quale colpa? Sei bello, ricco e scimunito. Di quale colpa via cianciando? E nirvusa nivura apro la borsetta e ci frugo dentro finché nella mano non ci rimane il portasigarette lucido del papà dal quale afferro una sigaretta ri go ro sa men te senza filtro. Gliene ne offro una, e lui la sua l’accende dalla mia con le sue mani tra le mie, come a fare un nido di colomba innamorata, e ne aspira il fumo che sordido esce dalle sue labbra carnose per entrare dentro alle mie pittate di un rosso tumefatto, e mi viene da pensare che è vero quel che si sussurra in paese, che fuma come un turco, quaranta o sessanta sigarette al giorno, e poi non so per come o perché mi ricordo che mormorano delle corna fattegli da Melissa, quando lui si trova fuori per i suoi giri da impiantista indefesso e senza orari.
È la medesima vocina mi sussurra di non avere sensi di colpa.
«Pure la vita mia è stata un inferno» gli dico sibilando come una biscia.
E non so perché anche a me mi scaturisce la voglia di confessarmi e ci racconto che quand’ero piccola di soldi a casa non ce n’erano, che quel disgraziato di mio padre si beveva tutti i quattrini a grappe e zammù e pensava solo a bottiglia e bicchiere e così a me mi era venuta la certezza della vocazione.
«Per questo ti chiamavamo la monaca, a scuola?»
Gli faccio cenno di sì e gli rispondo che ci avevo provato a mantenermi fedele a questa vocazione, anche ormai grandicella.
«Per non venir meno al mio volto continuamente ispirato, io che poi ero bruttina...»
«Ma che dici, Clé? Da ragazzina io ti trovavo bellissima. Distante ma bellissima. E anche ora.»
Sento come una mano che mi porta su nel cielo, sempre più in alto, e quest’ebbrezza non fa altro che accelerare la mia confessione.«Così ogni notte, dopo la rimboccatura delle coperte, iniziavo a recitare le mie preghiere, ma immancabilmente gli occhi mi si perdevano sul soffitto bianco che mi sovrastava come un paradiso perduto, che però rimaneva bianco, senza cristi senza madonne senza cherubini, tranne quando pensavo a te, Agostino mio, bello come un angelo, buono come un santo, comprensivo come un padreterno, forte come un Maciste.
E lo vedo che sorride e mi pare che mi voglia regalare un bacio, che però non arriva.
E così gli racconto che mai una volta, dalle tante preghiere notturne, avevo sentito scaturire una fiamma, dell’ardore, il calore della fede, quando invece l’unico tepore mi veniva dalla borsa d’acqua calda stretta al petto.
Il ricordo mi mette di malumore, Agostino mi fissava, l’attimo era sfumato e non sapeva cosa dire, faccio spallucce e a labbra strette, tra un’aspirata e l’altra della mia senza filtro, ci confesso pure che mi rivolgevo a Sant’Antonio e a San Vincenzo e invocavo la loro protezione, oltre a quella di un gruppetto di santi che allora sentivo più affidabili e vicini, affinché mi mantenessero pura e mi allontanassero le tentazioni di questo mondo.
«Tutte minchiate» dico, riempiendo di voce e fumo l’aria del sagrato, che si colorò d’inferno.
È ad Agostino che mi rivolgo ora: gli afferro la mano e gliela stringo forte.
«I santi, Gesù Cristo, la Chiesa, le messe domenicali, padre Simon… sono tutte minchiate.»
«Ma che dici, Clé» mormora il pupo, e pare sinceramente scandalizzato.
«Quando più grandicella passeggiavo nel corso, gli occhi socchiusi e il capo chinato, spiavo gli uomini; e me li ricordo tutti gli sguardi colmi di lascivia dei miei coetanei maschi, che deviavano in modo inesorabile all’indirizzo delle amiche di fianco.
Erano occhi abituati a spogliare, tutte tranne me» dico, colma di rammarico, carica di rancore, stremata dal livore.
«Solo tu facevi eccezione, eh Agostì? Solo tu mi guardavi come gli altri guardavano le meglio amiche mie.»
«Che vai pensando, Clé. A quel tempo eravamo giovani e cretini e vero è che io ci pensavo a te. Ma tu stavi sempre sulle tue e dicevi che quella notte avevi parlato con Dio e mi pareva di far sacrilegio a parlarti pure io, che a Dio ci ho creduto e ci credo come allora. Poi arrivò Melissa e, seppure adesso ci voglio bene, non la amo più come a quei tempi; lei non mi capisce, non ci siamo mai parlati veramente io e lei, non ci siamo mai capiti né compresi… siamo due estranei che vivono insieme» infine mi rivela.
E con la sua mano scivola a stringere la mia, che ricambia quella stretta.
«Ma con te è diverso, con te non sono solo e sento di poterti rivelare il mio segreto.»
Si gira e stringe il suo corpo al mio, serrato stretto al mio. E sento che se solo mi baciasse io farei l’amore con lui là, in quel momento, di fronte a santi e babbuini, pure dentro la chiesa di Nostro Signore, davanti a tutti, se me lo chiedesse pure davanti a quello zozzone isterico di padre Simon.
«Dimmi tutto quello che vuoi, Agostino. Io ti saprò ascoltare, io ti saprò capire… Liberati dei tuoi rimorsi, alleggerisciti l’anima dei tuoi segreti.»
«L’hai voluto tu, Melissa» e sbaglia nome. O forse no, che a pensare male si fa sempre centro. Mi bacia profondamente con la sua lingua tra la mia e poi avvicina la sua bocca al mio orecchio e soavemente mi sussurra: «A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne.»


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Yakamoz
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Mi "arrischio" a commentare per primo:

Penso che la morale, il significato e la critica/analisi di questo racconto siano l'eccessiva preoccupazione, il malessere (l'ambascia, direbbe con un termine un po' eccessivo Pirandello) da parte della protagonista, ma che riguardano anche un po' tutti noi, rispetto all'attitudine di focalizzarsi troppo sulla propria immagine, da qui i complessi di cui soffre, che lei proietta sugli altri, senza davvero cercare di capire chi sono in realtà gli altri. Tema abbastanza pirandelliano. Il problema è che noi consideriamo gli altri come uno specchio in cui rifletterci, ma anche noi stessi siamo uno specchio nel quale si riflettono gli altri. Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano: c'è scritto, da qualche parte, sugli specchietti retrovisori di un'automobile. E parliamo di oggetti e di specchi veri; figuriamoci quindi quanto il nostro specchio (i nostri sensi e il nostro pensare, in realtà) possano alterare (filtrare male) quello che percepiamo e di come poi ci percepiscono gli altri. Mi è piaciuta molto la prosa colloquiale e vivace, "diversa dal tuo solito", con l'uso del presente narrativo/storico e di qualche tocco dialettale. Interessante il finale, la confidenza/rivelazione inaspettata di lui, che porta a una seria riconsiderazione, sia da parte della protagonista che da parte del lettore, di tutto quello che è stato detto/scritto prima.

La soluzione al problema delle false apparenze (o di quel che nel proprio immaginario si crede di conoscere, ma poi la verità è un po' diversa):

"Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi".

Dice la Volpe del Piccolo Principe; però bisogna prima "addomesticarlo" (non "il" volpe ma quello che si vuole conoscere al di là delle proprie apparenze).

Sempre molto bravo, Namio,

Antonio

P.S. La mia "soluzione" è ironica/poetica. Perché una verità assoluta non esiste e tutto è sempre un po' relativo nel nostro modo/maniera di cercare di comprendere quello (dove cade il nostro interesse) che ci circonda.

Io sono un po' "fissato" con la punteggiatura e scusami se ti faccio notare la mancanza di qualche virgola (refuso/distrazione), robetta, perché basta solo rileggere il testo e ti puoi "correggere" da solo.
Namio Intile
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Re: Quelle imperfette solitudini

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Innanzitutto grazie. Mi sarebbe piaciuta una tua analisi sulla struttura, sul lessico, e sul registro. Anzi la aspetto, di solito sei molto convincente.
Direi che è un racconto sul vorrei ma non posso, potrei ma non voglio. Ed è un racconto sulle apparenze, sulle facciate meravigliose esposte ai quattro venti su istagram e feisbuc e pure trictak e sui sorrisi a trentadue denti e sulla doppia e tripla e quadrupla morale della tanto cara, e tanto cara a, Santa Romana Chiesa. È tutto falso, tutto finto, tutto una menzogna. La verità esiste, ma non alberga dentro di noi. Va cercata, va scavata. Agostino diceva che la verità non deve essere evidente perché va rintracciata con la fatica. La verità è impegno e non può essere semplice, banale, bene in vista dove tutti possono vederla. E in assenza dell'impegno regnano le apparenze, la semplicità, la banalità. Dice Aurelio Agostino da Ippona. La povera Agatina e il suo culo del risveglio mattutino è solo l'ultimo anello di una lunga catena. Di cui Clé e Agostino sono ormai dei passaggi molto solidi, degli anelli di acciaio inox. Tutti vittime e carnefici, Clé come Agostino, Melissa come Agatina, come padre Simon, come noi che leggiamo e ci aspettiamo il meglio dalla superficie e invece questa superficie non è liscia ma scabra. E dal tuo specchio non esce il riflesso della verità, ma l'ossessione della realtà, della superficie che sembra liscia e invece è scabra, di un'esistenza che è basata sulla menzogna e dove si mente per primi a se stessi e poi a tutti gli altri a cascata.
A me mi piacciono gli uomini, Clé. E potrebbe anche non essere un bonario avvertimento, la verità non è liscia, ma una sorta di complimento. Perché Clé così bruttina, colle amme a ferru filatu che quannu camina si jetta di lato, pure gli piace.
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Vittorio Felugo
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Messaggio da leggere da Vittorio Felugo »

E' un testo scritto davvero molto bene. Mi piace il modo in cui hai descritto i pensieri di Clè, usando anche qualche sgrammaticatura (si può dire?) come sarebbe nella realtà. Il finale è tutt'altro che banale, quasi tragicomico, un poco perfido, come sa essere la vita vera, con la povera donna che si illude, e finisce delusa.
Voto massimo, senza alcun dubbio!
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Messaggio da leggere da Ombrone »

Che dire?
Bel racconto, mi è piaciuto.
E' quello stile narrato che adesso non va più di moda, ma a me piace sempre e piace molto.

Bella visione di un microcosmo di vita intima. Bello il flusso di pensiero e di sentimenti. Ricordi e desideri mai espressi.

Il mio spirito ci vede molto la riflessione se sia preferibile avere rimpianti o rimorsi e quindi fa vibrare una corda molto sensibile.

Dubbi? solo due.
1- L'apertura improvvisa tra i due è ovviamente funzionale alla storia, ma a tratti mi è sembrata un po' gratuita. Cosa l'ha realmente scatenata dopo tanti anni? solo il caso?
2- La battuta finale con lo stravolgimento dei punti di vista. Carino, divertente, mi ha fatto sorridere. Ma forse visto il tema già potente, potrebbe essere superflua. Il racconto si regge benissimo senza. Anzi forse meglio

Cmq mi sembra un pieno cinque!
Yakamoz
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Re: Quelle imperfette solitudini

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Namio Intile ha scritto: ieri, 10:58 Innanzitutto grazie. Mi sarebbe piaciuta una tua analisi sulla struttura, sul lessico, e sul registro. Anzi la aspetto, di solito sei molto convincente.
Direi che è un racconto sul vorrei ma non posso, potrei ma non voglio. Ed è un racconto sulle apparenze, sulle facciate meravigliose esposte ai quattro venti su istagram e feisbuc e pure trictak e sui sorrisi a trentadue denti e sulla doppia e tripla e quadrupla morale della tanto cara, e tanto cara a, Santa Romana Chiesa. È tutto falso, tutto finto, tutto una menzogna. La verità esiste, ma non alberga dentro di noi. Va cercata, va scavata. Agostino diceva che la verità non deve essere evidente perché va rintracciata con la fatica. La verità è impegno e non può essere semplice, banale, bene in vista dove tutti possono vederla. E in assenza dell'impegno regnano le apparenze, la semplicità, la banalità. Dice Aurelio Agostino da Ippona. La povera Agatina e il suo culo del risveglio mattutino è solo l'ultimo anello di una lunga catena. Di cui Clé e Agostino sono ormai dei passaggi molto solidi, degli anelli di acciaio inox. Tutti vittime e carnefici, Clé come Agostino, Melissa come Agatina, come padre Simon, come noi che leggiamo e ci aspettiamo il meglio dalla superficie e invece questa superficie non è liscia ma scabra. E dal tuo specchio non esce il riflesso della verità, ma l'ossessione della realtà, della superficie che sembra liscia e invece è scabra, di un'esistenza che è basata sulla menzogna e dove si mente per primi a se stessi e poi a tutti gli altri a cascata.
A me mi piacciono gli uomini, Clé. E potrebbe anche non essere un bonario avvertimento, la verità non è liscia, ma una sorta di complimento. Perché Clé così bruttina, colle amme a ferru filatu che quannu camina si jetta di lato, pure gli piace.
Ho scritto un commento "timido" con un approccio standard (che brutta parola) per creare una sorta di cerchio magico, simile a quello delle streghe quando preparano i loro filtri, per evitare troppe mie intrusioni esterne; ossia, per creare un mio margine di sicurezza comunicativa e relazionale, e non essere troppo invasivo rispetto all'autore, cioè tu. Non sempre scrivo tutto quello che penso, a prescindere che si tratti di cose, a mio avviso, buone ovvero cattive. Poi, non credevo di essere tenuto in così alta considerazione; io di solito ho quasi sempre un approccio umile, senza supponenza, verso ogni cosa, e mi devi credere perché dico il vero, che è un mio difetto ma anche un enorme vantaggio: poiché stare qualche passo indietro, non per vulnerabilità o mancanza di autostima, ma per scelta, mi permette di alzare lo sguardo e di vedere da una prospettiva più ampia e vantaggiosa. Manca tanto alla fine di questa gara e perciò dammi ancora un po' di tempo.

Grazie per la tua stima e considerazione, caro Namio Intile,

Antonio
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Re: Quelle imperfette solitudini

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Grande stima, caro Antonio.
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Re: Commento

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Ombrone ha scritto: ieri, 12:28 Che dire?
Bel racconto, mi è piaciuto.
E' quello stile narrato che adesso non va più di moda, ma a me piace sempre e piace molto.

Bella visione di un microcosmo di vita intima. Bello il flusso di pensiero e di sentimenti. Ricordi e desideri mai espressi.

Il mio spirito ci vede molto la riflessione se sia preferibile avere rimpianti o rimorsi e quindi fa vibrare una corda molto sensibile.

Dubbi? solo due.
1- L'apertura improvvisa tra i due è ovviamente funzionale alla storia, ma a tratti mi è sembrata un po' gratuita. Cosa l'ha realmente scatenata dopo tanti anni? solo il caso?
2- La battuta finale con lo stravolgimento dei punti di vista. Carino, divertente, mi ha fatto sorridere. Ma forse visto il tema già potente, potrebbe essere superflua. Il racconto si regge benissimo senza. Anzi forse meglio

Cmq mi sembra un pieno cinque!
Grazie per la recensione. Vado subito ai tuoi dubbi. Sull'approccio casuale (e quindi gratuito) ho riflettuto molto. E gran parte del racconto è pensata proprio per attenuarne l'effetto. La protagonista si è svegliata una mattina di malumore e quando vede Agostino tutto solo, una domenica mattina, ne approfitta per dare la stura a tutta una serie di pensieri sulla sua vita buttata nel gabinetto e da questa premessa e dalla sua attrazione di lunga data e dall'atteggiamento tenero di Agostino nasce tutto il resto. L'incontro tra i due nasce per caso, ma non è per caso. Si conoscono da una vita, e quindi il loro incontro si sviluppa non più tanto per caso. Quindi non pensare che la tua obiezione sia gratuita, in realtà su questa obiezione ho strutturato quasi l'intero racconto e ho tentato di tenerlo in equilibrio, di non sollecitare troppo la sospensione dell'incredulità del lettore.
Punto due, la battuta finale. In realtà anche a quella ho pensato molto. Volevo scimmiottare le short stories con il capovolgimento finale, anche se questa non è una short story, se non altro per ragioni di lunghezza di caratteri. Diciamo che è una citazione. A qualcuno mi pare sia già piaciuta, a fine gara tirerò le somme se tenerla o meno.
Grazie, Ombrone
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Namio Intile
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Re: Commento

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Vittorio Felugo ha scritto: ieri, 11:59 E' un testo scritto davvero molto bene. Mi piace il modo in cui hai descritto i pensieri di Clè, usando anche qualche sgrammaticatura (si può dire?) come sarebbe nella realtà. Il finale è tutt'altro che banale, quasi tragicomico, un poco perfido, come sa essere la vita vera, con la povera donna che si illude, e finisce delusa.
Voto massimo, senza alcun dubbio!
Ciao Vittorio. Come già ho spiegato non solo i dialoghi e i pensieri si appropriano del lessico e del registro linguistico della protagonista, ma anche l'io narrante. Questa omogeneità restituisce un effetto sgrammaticato, come giustamente osservi, perché in realtà Clé non è capace di pensare diversamente. È quindi il narrato ad adattarsi alla protagonista e non viceversa.
Grazie per la recensione.
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Re: Quelle imperfette solitudini

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Namio Intile ha scritto: ieri, 15:39 Grande stima, caro Antonio.
*Ampia prospettiva* (visto che mi dai carta bianca!)

Il racconto, in realtà, non parla solo di verità o di verità soggettive/apparenti, come ho evidenziato prima, perché ho messo in risalto nel mio precedente commento questi due aspetti, simili e contrapposti, in quanto mi sembravano quelli più preminenti dell'intera storia. Visto che si parla anche di solitudine e desiderio, cultura (la religione) e identità, e soprattutto di nostalgia, che inframezzano il flusso di coscienza di Clelia e la parte dialogica di entrambi i protagonisti, coinvolgendo quindi pure Agostino. Ho scritto "flusso di coscienza", essendo il racconto costruito su questo, che fa da spola tra passato e presente di entrambi i personaggi. Certamente più per Clelia, che appare (se il buon giorno si vede dal mattino) come una persona inappagata, frustrata, depressa, che si è sempre in un certo modo autolimitata nel suo agire. E il suo sentirsi brutta, inadeguata, poco ardimentosa a manifestare i propri sentimenti e le sue voluttà sono tipicamente delle "false giustificazioni" (complessi) come artifici che la mente crea per avere alibi a proprie mancanze. Di solito è sempre colpa di qualcuno o qualcosa se le cose non filano come vorremmo; anche se non sempre è così. A tal proposito, c'è una frase che recita, ma non ricordo di chi: "Che sia Re, Papa, Generale che ti comanda, in realtà sei sempre tu responsabile delle tue azioni e alibi o altre giustificazioni non esistono", e poi non esistono neppure i se, i ma o i forse. Quando si vuole fare una cosa, sia buona o cattiva, ci si riesce, non dico in tutto, ma almeno in parte, perché volere è potere.

Una riflessione sulla bellezza: non è che tutte abbiano la fortuna di nascere come Jennifer Lopez, Sophia Loren o Naomi Campbell. La bellezza fisica è solo un attributo, non un valore in sé; chi la possiede è sicuramente fortunato. Ma esiste anche una bellezza legata all'essere giovani. Avere vent'anni! Quando si è giovani, si è sempre belli. Perciò la Clé, che ha le gambe come il ferro filato e quando cammina pare che penda un poco di lato, sarà stata, a suo modo, bella anche lei quando era giovane. Si dice, inoltre, che la bellezza sta negli occhi di chi guarda: "Con uno sguardo mi ha reso più bella, e io questa bellezza l'ho fatta mia. Felice, ho inghiottito una stella", verso di Wislawa Szymborska.

Altro esempio piuttosto semplice: Carlo III ha scelto Camilla, che alcune persone paragonano a un cavallo, invece di Diana. È evidente che, essendo un appassionato di polo, Carlo sia attratto da un certo tipo di carisma che ricorda il mondo equino. Naturalmente non voglio esagerare nell'analizzare Camilla: il suo nome evoca più delle merendine che non un'immagine di nobiltà. Ma, rispolverando un luogo comune, potremmo sostenere che Camilla ha forse una bellezza interiore che merita di essere scoperta, e solo attraverso la conoscenza personale si può apprezzare il suo vero valore.

Questo passaggio qui:

"Ma io da lui non volevo proprio niente: quell'occhiata era capitata e basta. Non per cattiveria, pure se mi passavano tanti di quei cattivi pensieri per la testa in quei giorni, né per malizia, anche se ci avevo posato gli occhi sopra al suo bel culo sodo, ma per caso, perché quell'occhiata profonda non era stata affatto voluta. O forse sì, perché pure se lo conoscevo da quando giocavamo ragazzini all'uscita della scuola nella calle di Sant'Isidoro, pure se lui s'era sposato da quanto… saranno stati minimo quindici anni, qualche volta io a lui ancora ci penso, ci penso come quand'ero ragazzina, anzi ci penso come una donna che pensa a un uomo. E mi salgono i sensi di colpa, perché a sua moglie Melissa la conosco, anzi, siamo quasi amiche, e mi assalgono i sensi di colpa perché, nonostante padre Simon, colla sua malalingua e la malafede e le polemiche gratuite a ogni omelia, io sono cattolica e pure apostolica e romana, e ogni mese ci tengo ad andarmi a confessare, a svuotare la coscienza per evitare l'Inferno, Dio me ne guardi e liberi, dove invece capiterà di certo quell'alito fetente e quelle occhiatacce gratuite attraverso la tenda del confessionale."

Un rovellarsi contraddittorio tra sì e no, vorrei e non voglio, potrei ma non posso, mi piace però non oso; poi ci infila pure dentro che lui è ammogliato, il prete, che è credente e teme l'inferno: insomma, tutta una sua "filastrocca" fatta sempre per giustificare i "propri" timori/paure/timidezze che ho spiegato poco sopra.

Qui invece il suo pensiero si palesa ed è molto più audace:

"Sento come una mano che mi porta su nel cielo, sempre più in alto, e quest'ebbrezza non fa altro che accelerare la mia confessione. «Così ogni notte, dopo la rimboccatura delle coperte, iniziavo a recitare le mie preghiere, ma immancabilmente gli occhi mi si perdevano sul soffitto bianco che mi sovrastava come un paradiso perduto, che però rimaneva bianco, senza cristi, senza madonne, senza cherubini, tranne quando pensavo a te, Agostino mio, bello come un angelo, buono come un santo, comprensivo come un padreterno, forte come un Maciste."

Ricorda quasi la song di Vasco, "Albachiara": "E con una mano ti sfiori…", un po' monella la signora Clelia. Anche se non c'è scritto apertamente, ma se lo pensava al suo maschione Agostino…

Diciamo che la scena dell'incontro, davanti al sagrato della Chiesa, simbolo di rifugio, è un po' ripetitiva. Ma ripetitiva non significa per forza noiosa; malgrado sia sempre lo stesso arroverlarsi/tormentarsi sui soliti concetti/argomenti. Manca forse da parte di entrambi un qualcosa, capitato in passato, di davvero importante. Magari il ricordo di un bacio, un fiore regalato, qualche audace carezza peccaminosa o altro di simile; perché sembra che il rapporto tra loro sia sempre stato molto labile, come una sorta d'infatuazione occulta e mai esplosa in nulla di concreto, reale, minimamente appagante. Un po' come due "sconosciuti che si conoscono" e rimpiangono (in verità, più Clé che lui) di non essersi mai per davvero conosciuti. Un po' vaga e assurda, diciamo. Come avviene in un "Romanzo", scritto da un mio omonimo (solo di cognome), "La solitudine dei numeri primi", di Paolo Giordano; libro interessante, ma che non convince del tutto, sia nella trama che nella prosa, e che a un certo punto recita: "Mattia pensava che lui e Alice erano così. Soli e perduti. Vicini ma non abbastanza per sfiorarsi davvero."
E Clé e Agostino sono così, soltanto più adulti, con le loro esistenze separate, ma simili come personaggi/personalità.

La scena della sigaretta è molto bella. Sembra quasi una sorta di piccolo amplesso tra i due: convincente.

Il finale con la stretta, il bacio e confessione, il climax del racconto, che porta a rivedere/riconsiderare quello che si è detto prima, non è poi una vera stroncatura/rottura del loro possibile/plausibile rapporto/relazione in un futuro ipotetico. Perché l'amore di coppia non è soltanto fare sesso, ma pure attrazione, complicità, contatto, piacere di stare insieme, anche solo di chiacchierare o fumare una sigaretta in dolce compagnia: "Vorrei essere la tua sigaretta per bruciare tra le tue labbra". E a me pare che tra loro una certa intesa/complicità esista, o possa comunque esistere, essendo entrambi molto simili come "personaggi" (anche se permane, credo volutamente, l'ambiguità, perché lui sbaglia nome e la chiama Melissa invece che Clé).

Per quanto riguarda la riflessione sui social: Facebook, X (ex Twitter), TikTok, YouTube e altri, diciamo che è un dato di fatto che molti si considerino come "prodotti" e ne fanno marketing; a volte soltanto per pura vanità (i più fessi) o per fare soldi (i più furbi). Fenomeno in cui io sono nato e che soprattutto coinvolge ragazzi e ragazzine asessuate, che quando le guardi ti fai la Santa Croce e dici tre Padre Nostro e due Ave Maria, non sapendo che pensare di loro. Non è che io tifi per il burqa, chador e similari, però penso che debba esistere un decoro nel sapersi mostrare, perché ciò che è bello va mostrato, ma avendo stile e modi adeguati. La colpa degli eccessi sta nell'emulazione, in genitori assenti, o in genitori che magari sono pure peggio dei figli. Colpa anche delle Istituzioni, parlo di quelle scolastiche/educative, che sono ugualmente assenti. Inoltre, cosa paradossale, in molti di questi social è come stare in compagnia stando da soli. Dove la gente è una fotografia, qualche post scritto alla meno peggio, molte emoticon e frivolezze inutili: cosa davvero triste!

Struttura, lessico e registro:

La narrazione in prima persona è proprio adatta al tipo di racconto, poiché si sviluppa come un flusso di coscienza. Il lessico colloquiale deriva dalla scelta dell'Io narrante, mentre la struttura lineare risulta essere inevitabile per come è contestualizzato il racconto.

Ancora un appunto sul finale:

Riporto il piccolo passo:

"L'hai voluto tu, Melissa" e sbaglia nome. O forse no, che a pensare male si fa sempre centro. Mi bacia profondamente con la sua lingua tra la mia e poi avvicina la sua bocca al mio orecchio e soavemente mi sussurra: "A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne."

Frase che vuole essere scioccante e ci riesce, ma non completamente per le seguenti ragioni:

1) Agostino sembra disorientato, come se avesse perso la bussola: come se Clé fosse in quel momento un surrogato della moglie a cui non osa dire una cosa "inconfessabile".

2) Bisbiglia all'orecchio: "A me mi piacciono gli uomini, Clé, mica le donne", dà l'idea di una confessione, rivelazione, manifestazione (epifania si dice in letteratura, come sai meglio di me) sembra pure però come se Agostino facesse un passo verso la verità, ma contemporaneamente si ritraesse un po' per paura o per convenienza: perché Clé è una confidente segreta e non lo sta gridando ai quattro venti che lui è un po' "ricchione" (a Napoli si dice così). Non pare una dimostrazione d'amore, direi più di fiducia: per liberarsi, solo e momentaneamente, da un peso. La verità rende liberi, dice il Dio che morì in Croce (cito Agricane).

Piccola nota: "A me mi piace!" Per molti è un errore/orrore, ma in realtà è una dislocazione a sinistra con ripresa del pronome. Me, pronome tonico per enfatizzare; Mi, atono… e secondo alcuni grammatici, andrebbe isolato il primo pronome dal secondo: "A me, mi piace".

Esempi di enfasi: Mi piace (neutro); a me (mi) piace (marcato); piace a me! (più marcato).

Altro riferimento poetico, mi sovviene ora, la posto per intero:

Ed io ti penso, ma non ti cerco

Non ho smesso di pensarti,
vorrei tanto dirtelo.
Vorrei scriverti che mi piacerebbe tornare,
che mi manchi
e che ti penso.
Ma non ti cerco.
Non ti scrivo neppure ciao.
Non so come stai.
E mi manca saperlo.
Hai progetti?
Hai sorriso oggi?
Cos'hai sognato?
Esci?
Dove vai?
Hai dei sogni?
Hai mangiato?
Mi piacerebbe riuscire a cercarti.
Ma non ne ho la forza.
E neanche tu ne hai.
Ed allora restiamo ad aspettarci invano.
E pensiamoci.
E ricordami.
E ricordati che ti penso,
che non lo sai ma ti vivo ogni giorno,
che scrivo di te.
E ricordati che cercare e pensare son due cose diverse.
Ed io ti penso
ma non ti cerco.

Charles Bukowski

Questo è quanto: per un racconto molto introspettivo/psicologico.

Quando mi metto "a scrive" (come dicono a Roma), non riesco a fermarmi e magari ho scritto solo un "papiello" inutile. Ma più esaustivo di questo non posso/riesco ad essere.

Cari saluti, Namio intile,

Antonio

P.S. Io lavoro spesso di notte e per combattere la noia spesso leggo, scrivo o ascolto canzoni. Quindi non ci fare caso se posto alle ore 4:40.

Ultima cosa: "Imperfette solitudine", perché è la solitudine vera? Quella che non si può accettare? Come dice Paolini in una poesia chiamata appunto "La solitudine".
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