Gara 69 - Bando e racconti

Qui ci sono tutte le vecchie Gare letterarie, dal 2008 all'estate 2018.
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Lorenzo Iero
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Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Lorenzo Iero »

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In questa Gara sarete chiamati a confessare i vostri segreti, perché questa volta il titolo del concorso letterario sarà:

- Le parole che non ti ho mai detto -

Fatevi trasportare dai vostri sentimenti, liberatevi da quel fardello nascosto nel vostro cuore che non avete mai fatto emergere.
Le parole non dette da questo momento in poi saranno finalmente svelate. E se riuscirete anche a dare un altro significato al titolo del tema, ben venga!
Ammesso qualsiasi genere: comico, noir, giallo, fantastico, horror… Dateci sotto!

Regole:
Valgono tutte le regole ufficiali, che trovate qui:
viewtopic.php?f=80&t=2308

Riassumendo:
- lunghezza massima del testo: 1000 parole o 6000 caratteri (spazi inclusi) con una tolleranza del 10%;
- chi partecipa dovrà votare e commentare tutti i racconti eccetto il proprio; in caso contrario verrà escluso dalla Gara e non riceverà alcun premio né pubblicazione;
- ogni racconto dovrà essere corredato di un’immagine, da inserire preferibilmente in apertura del brano;
- voti da 1 a 5, consentiti anche i tagli a mezzo (1,5 e così via fino al 5);
- i racconti postati non potranno più essere modificati se non a gara conclusa; al termine dei giochi, si potranno apportare eventuali modifiche per la pubblicazione sull’e-book.

I racconti potranno essere postati come risposta a questo messaggio fino alla mezzanotte del 28 Febbraio 2018.
I commenti e i voti dovranno invece essere postati dal 1 Marzo fino alla mezzanotte del 15 Marzo 2018). a questo link: viewtopic.php?f=80&t=5181

Chi vincerà avrà l’onore e l’onere di organizzare la gara successiva.
I premi saranno:
1. Pubblicazione dei racconti in digitale, con il consueto e-book.
2. Il vincitore otterrà un abbonamento di 10 euro grazie al quale saranno scaricabili gli ebook integrali (pdf o epub) delle nostre pubblicazioni cartacee (vedi post "I premi delle gare" qui: viewtopic.php?f=80&t=2472
3. L'attestato stampabile che attesta la vittoria.
4. Nel caso in cui si abbia una buona partecipazione di concorrenti, con tutti i racconti sarà creato un libro acquistabile (per un periodo di tempo limitato) il cui ricavato andrà devoluto a BraviAutori.

Immagine presa da Pixabay, autore Greyerbaby
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Angela Catalini
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Angela Catalini »

vendetta siberianapic.jpg
VENDETTA SIBERIANA

Fernando Lai, regista di “Vendetta siberiana”, arrivò alla prima del film con un lieve ritardo. La sala cinematografica era già piena di critici e giornalisti e mancavano pochi minuti alla proiezione. Si fece strada tra la gente accalcata all’ingresso con l’agilità di un gatto, l’immancabile sigaretta spenta tra le labbra e le sopracciglia folte che davano intensità allo sguardo.
Fu accolto da un boato, battiti di mani e flash dei fotografi che squarciarono la penombra che avvolgeva la sala. Strinse mani, salutò amici, colleghi e politici intervenuti, poi prese posto in prima fila accanto a Ubaldo Tissell, che aveva finanziato il film e non gli aveva risparmiato critiche fin dal primo giorno di collaborazione.
«Così alla fine ti sei degnato di venire» gli sibilò Tissell sfoderando un sorriso a uso e consumo della stampa.
«Non sarei mancato per niente al mondo» rispose Lai ricambiando il sorriso.
Tissell lo odiava perché si era rifiutato di assegnare alle sue amanti ruoli di primo piano preferendo attrici più dotate e meno inclini alle sue avance. Avrebbe potuto sostituirlo, ma Lai era uno dei migliori e si diceva che il film fosse destinato ad acciuffare una statuetta. Solo per questo motivo il regista era ancora al suo posto.
Il produttore continuò a girarsi sulla poltrona cercando una posizione più comoda, ma a causa della sua stazza era compresso tra i braccioli, che premevano sui fianchi debordanti.
«Se il film avrà successo, ricordati che è solo merito mio» continuò Tissell allo scopo di provocarlo. «Sono io il padrone della baracca, tu sei solo il burattinaio. Augurati che il film vada bene, se vuoi ancora lavorare nel cinema.»
Lai non rispose, si limitò a fissarlo mordendo la sigaretta che pendeva da un lato della bocca.
Durante la lavorazione del film Tissell aveva cercato ogni pretesto per litigare, ma Lai sembrava fatto di gomma, era impermeabile a qualsiasi sollecitazione: le offese non lo intaccavano e gli insulti lo lasciavano del tutto indifferente. Rispondeva sempre con garbo e non alzava mai i toni. Il suo atteggiamento, che Tissell giudicava di sufficienza, lo mandava in bestia.
Le immagini scorrevano sullo schermo e il produttore, in preda a una crescente agitazione, ogni tanto si voltava puntando le mani sui braccioli per sollevarsi, e sbirciava la gente in sala per capire se il film era ben accolto.
Lai invece era rilassato e tranquillo, si godeva la pellicola disteso sulla poltroncina come se fosse una sdraio, con la giacca sbottonata e le gambe distese. La sua calma non faceva che irritare maggiormente il produttore, che smaniava e imprecava tra i denti. Prima della fine del film era già madido di sudore e fu costretto ad allentarsi parecchi bottoni della camicia. Nel farlo, infilò di proposito un gomito nelle costole di Lai, scusandosi senza troppa convinzione. «Non ti ho fatto male, vero? Tu sei un tipo che non se la prende, dopotutto.»
Lai, per tutta risposta, si portò un dito alla bocca invitandolo a fare silenzio. Poi gli indicò una scena del film in cui si vedeva la folla in preda al delirio che sciamava lungo le strade in cerca di vendetta. Nella baraonda che precedeva il finale tra la folla urlante, si udì chiaramente un’esclamazione: «Quel coglione del produttore!»
E subito dopo la voce di Lai: «Taglia».
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Roberto Bonfanti
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Roberto Bonfanti »

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LE NOSTRE PASSEGGIATE NOTTURNE

Se l’amore è cieco, tanto meglio si accorda con la notte.
William Shakespeare

Mi piacciono molto queste nostre passeggiate notturne, camminare fianco a fianco in silenzio, sfiorarsi ogni tanto, quasi per caso, vedere le nostre ombre che si allungano mentre passiamo sotto i lampioni. In tutti questi anni abbiamo stabilito dei piccoli rituali, come soffermarci davanti alle vetrine dei negozi preferiti. A lui piacciono quelle minimaliste, di design, io apprezzo quelle piene di luci e colori. Mi sopporta quando mi fermo lì davanti a guardarle, per tutto il tempo che voglio.
Mi piace stare con lui, vorrei che fossimo sempre insieme, ma col tempo ho capito che ha altri impegni, che ha bisogno dei suoi spazi, per esempio quando al mattino esce per andare al lavoro e io mi rassegno a stare tutto il giorno in casa. Lo guardo dalla finestra, mentre si allontana, qualche volta divento un po’ triste, specialmente se vedo quella gatta morta della vicina, che gli si accosta sinuosa e gli fa le fusa. Ma non è gelosia la mia, so che non mi tradirebbe mai, soprattutto non con una come quella! Non è gelosia, è solo un turbamento passeggero, dura un attimo, poi non ci penso più e, con pazienza, aspetto il suo ritorno.
Adoro le nostre passeggiate notturne, sono un momento tutto per noi, siamo finalmente insieme e siamo soli, lui e io. Per lui sono un modo per disfarsi della fatica e dello stress accumulato durante il giorno, per me rappresentano occasioni di svago, dopo tutte le ore solitarie in casa. Ora lo so, e non vorrei niente di più. Eppure c’è stato un tempo in cui tutto questo non mi bastava, volevo la mia libertà, avevo voglia di esplorare, di scoprire il mondo. Una volta ho tentato anche di fuggire, per pentirmene subito dopo, provando un senso di smarrimento e vergogna. Temevo che si sarebbe arrabbiato e non mi avrebbe più voluto bene. Invece è venuto a riprendermi, senza una parola, senza un rimprovero, anzi, mi ha abbracciato forte, si vedeva che era felice di avermi di nuovo accanto. Ha capito che quella fuga non era mancanza d’affetto da parte mia, era solo irrequietezza giovanile. Lui mi comprende, lo ha sempre fatto.
Mi piacciono davvero queste nostre passeggiate nell’aria fresca della sera. Amo in particolare quell’attimo in cui, poco prima di rientrare, l’ultimo lampione proietta le nostre ombre sul marciapiede. Sì, proprio quelle, che si sovrappongono e si fondono in una sola: sembra l’ombra di un unico essere a sei zampe, un po’ peloso e un po’ no.
È proprio vero quel vecchio detto: l’uomo è il miglior amico del cane.
Ultima modifica di Roberto Bonfanti il 19/03/2018, 22:08, modificato 1 volta in totale.
Che ci vuole a scrivere un libro? Leggerlo è la fatica. (Gesualdo Bufalino)
https://chiacchieredistintivorb.blogspot.com/
Intervista su BraviAutori.it: https://www.braviautori.it/forum/viewto ... =76&t=5384
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MicolFusca
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Angelica

Messaggio da leggere da MicolFusca »

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"Angelica"

- Andrà tutto bene – Angelica si chinò sussurrandolo all’orecchio di Gea, Giovanna, addormentata nel letto a baldacchino color noce. Lo aveva sostituito quando era diventata troppo grande per il lettino e lo aveva voluto così: simile a quello di una principessa. Il resto della cameretta era rimasto lo stesso: l’armadio ad angolo, il comodino rosa e la scrivania color arancio. Un assortimento di colori che per i primi istanti irritava gli occhi.
- Non è la prima volta che affronti un cambiamento, la forza non ti manca. –
Gea si scosse leggermente, infastidita da una zanzara. Una volta quieta Angelica tornò a chinarsi su di lei.
- Ricordi quando ci siamo incontrate? E’ stata la tua prima nonna a farci conoscere ed è stato amore a prima vista: non ti è mai importato sapere quante mani mi avevano sfiorata, usata. Mi hai presa fra le braccia come se fossi il dono più bello. E, lo ero. – la sua voce sottile risuonò compiaciuta.
- Ero con te quando ti hanno portata via da quella casa piena di urla, dolore. Avevi tre anni. Tutti pensano che quei giorni siano riposti nell’oblio, ma, io, so che non li hai dimenticati.
So che il tuo volto esprimeva spavento, tristezza, per ragioni inconfessabili. Ti sentivi cattiva, in colpa, per non aver mai amato le miserevoli creature che ti hanno dato la vita. Eri felice di andartene. Non ti è mai importato di loro, nemmeno quando ti tappavi le orecchie per escludere qualsiasi suono. -
Angelica le sfiorò il lobo dell’orecchio in una carezza gentile.
- Quando hai incontrato Antonio e Marina hai compreso di essere al sicuro. Ti sei affidata loro con l’istinto dell’incoscienza, senza pensare. Avevi già confinato il “resto” nel limbo: in un incubo.
Pensavano che tu fossi gentile per timore di essere rimandata indietro, all’istituto: erano spaventati dalla facilità con cui ti eri gettata nelle loro braccia accogliendoli dentro di te. Si erano preparati ad anni di transizione, istruiti dalle psicologhe che avevano dato loro supporto nelle prime fasi dell’adozione.
Non ti è mai costato chiamarli “mamma” e “papà”. Lo hai fatto il primo giorno, con una tale sicurezza che Marina è scoppiata a piangere. -
Finalmente, una famiglia. Quando Giovanna aveva preteso di cambiare nome mamma le aveva spiegato che non era possibile: all’anagrafe era già stato registrato il cambio del cognome. Così, le aveva proposto di trovare un nomignolo. Avevano deciso per Gea, le era sembrato esotico, diverso, e aveva abbracciato la filosofia di Marina con entusiasmo.
Angelica tornò per un attimo a sfiorare con lo sguardo la cameretta: in quel luogo erano racchiusi tutti i ricordi delle loro meravigliose avventure. Gea si era fatta grande, ma non l’aveva dimenticata.
Grande… quella riflessione, la portò ad altro.
- Ricordi, quando hai deciso di lasciare Edoardo? Nessuno, nemmeno quel poveraccio, ha compreso il motivo del tuo improvviso malumore. Un giorno prima fidanzatini, quello dopo estranei. Ha cercato di riallacciare i rapporti per mesi, chiesto una spiegazione che non gli hai mai voluto dare.
Io, so.
So che quando ha bevuto quel bicchiere di troppo, nemmeno era ubriaco, hai deciso di non volerlo al tuo fianco. Nel mondo che hai deciso per te non c’è posto per un alcolista.
Non potrà mai comprenderlo, Gea, in lui rimarrà una ferita aperta: non gli hai detto “perché”.
Sei una ragazza coraggiosa, un giorno dovrai venirne a patti e parlargli: ti voleva bene e quell’unico bicchiere di birra in più non farà, mai, di lui un ubriacone. –
Angelica sospirò. – Quello che è fatto è fatto.
Ora devi pensare al trasferimento a Venezia, mamma e papà sono fieri della tua decisione. Non credere che non gli costi lasciarti andare, ma è giusto così. Devi concentrarti negli studi, non puoi trascorrere l’intera giornata in treno per raggiungere l’Università.
Le ragazze con cui dividerai l’appartamento sembrano simpatiche. - si mise sulle ginocchia, decisa a scendere dal letto: entro mezz’ora la sveglia avrebbe iniziato a squillare.
Un ripensamento le fece decidere di attardarsi ancora qualche secondo. – Dimenticavo. C’è una cosa, che non ti ho mai detto.
Odio i vestiti da principessa. Sono scomodi, ridicoli e ingombranti. Lasciano le spalle nude e, ti assicuro, in inverno fa piuttosto freddo vicino alla finestra.
E… - sì, doveva proprio dirglielo. – Hai mai pensato di mettermi un paio di mutande? Per l’amor del cielo, un po’ di decenza! –
***
Marina bussò leggermente alla porta della camera di Gea, attirata dal trambusto.
Trovò la figlia seduta a terra intenta a rovistare in alcuni vecchi scatoloni che doveva aver recuperato in cantina.
- Tutto bene? –
La ragazza sollevò per qualche istante gli occhi, piegando le labbra in un’espressione corrucciata. – Ha ragione lei. – i capelli in disordine le coprivano parzialmente il volto, nascondendolo. Era ancora in pigiama.
- Lei? –
Gea annuì, esaminando con cura il suo bottino: aveva steso a terra diversi dei vestiti per le barbie che possedeva. – Sì, lei. Angelica. Non ha niente di decente da mettere. –
Marina diresse lo sguardo alla libreria. Angelica la guardava dal piedistallo nell’identica posizione di sempre: immota.
La ragazza si mise in piedi di scatto, facendola sobbalzare. – Mi butto sotto la doccia e mi preparo per uscire: vado a comprarle qualcosa di carino. –
- D’accordo. – ci pensò un attimo, preoccupata per quella bizzarria. – Vuoi compagnia? –
Gea aveva afferrato un paio di jeans e il primo maglione che le era capitato fra le mani. – No. – il suo sorriso rassicurò la madre. – Potrei chiederti un favore? –
La donna annuì. – Se posso, volentieri. –
- Puoi cucirle un paio di mutande? So che non sei una sarta, ma non dovrebbe essere difficile. –
- Ok. – basita, la seguì con lo sguardo mentre usciva dalla camera.
Rimasta sola tornò a fissare Angelica. – D’accordo, Signorina, ho scartato una canotta che ho rovinato con il ferro da stiro: seta grigia, dovrebbe essere di tuo gradimento. Ti avviso, non pretendere troppo. Ti cucio le mutande addosso e le tieni finché campi. -
Patrizia Chini
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Re: Gara 69 - Quella parola

Messaggio da leggere da Patrizia Chini »

tram a Roma.jpg
tram a Roma.jpg (17.18 KiB) Visto 6383 volte
─ Non so se ce la faccio, ho un impegno.
Al telefono, a mio padre che mi invitava a cena, mentivo… non avevo alcun impegno.
Era il 19 marzo, festa del papà, l’ultimo che avremmo potuto trascorrere insieme.
Persi quell’occasione e il rimorso di aver negato a quell’uomo buono, che mi amava teneramente, la gioia di vedere me, sua figlia, di abbracciarla e parlarle... mi bruciava, mi faceva star male.
Avevo cominciato a dire bugie qualche anno prima, dal giorno infausto in cui uno tsunami mi aveva travolto, sconvolto la vita, ed entrato di prepotenza nella mia casa, ospite sgradito a cui non è dato negare l’accesso: la malattia.
In quel giorno infausto, sul tram che mi riportava a casa, due giovani donne sedute di fronte a me e a mio marito, parlavano.
─ Cosa prepari oggi a pranzo?
Io non avevo alcun interesse per il pranzo, altri pensieri tenevano prigioniero tutto il mio essere, la mente fissa ad una sola parola e non riuscivo a pensare ad altro, se non a quella “parola”.
La parola concludeva la frase con la quale, al termine della visita, l’esimio professore aveva confermato la diagnosi che dava definitivamente vita allo spettro che io da tempo temevo e di cui sapevo il nome, lo stesso che sentivo riecheggiare in quella stanza anonima dell’ospedale: “PARKINSON”

─ Cosa prepari oggi a pranzo?─ continuava a rimbombarmi in testa, mentre tornavo a casa, alternandosi con il chiaro verdetto del luminare.
─ Lei ha una forma lieve di Parkinson.
Le due frasi, come palline da ping-pong, martellavano il mio cervello… ero completamente frastornata.
─ Ma sa che lei è fortunata. Ci sono tante ragazze con patologie più gravi!
Parole gentili, quasi affettuose, con le quali il professionista aveva tentato inutilmente di calmare il mio pianto sommesso.
“Fortunata!” Guarda che razza di fortuna mi è capitata e io, ancora oggi, non l’apprezzo.
In tram sentivo crescere dentro di me una rabbia sorda che mi faceva star male, ma non riuscivo a tirar fuori il mio dolore, a urlare la mia disperazione.
─ Te la sei tirata, è da tanto che vai dicendo di avere il parkinson!─ mi rimproverava mio marito.
Non solo fortunata, ma una fortuna “fai da te”. Quasi una colpa, dunque, essermi ammalata.
Ero arrivata a casa e, ancora, l’eco di quella frase risuonava nelle mie orecchie e nella mia testa. Un tormentone, “Cosa prepari oggi a pranzo?”, da cui non uscivo fuori. Era come se la mia vita si fosse fermata nell’attimo in cui avevo sentito quelle parole.
─ Le prescrivo un farmaco leggero, altrimenti fra dieci anni… ─ frase infelice del luminare che mi tornava in mente e nel cui ricordo crollavo e mi vedevo disabile in carrozzina.

Continuai a vivere tra una peregrinazione e l'altra degli ospedali, da un ambulatorio più o meno specializzato a un altro, costretta a dimenticare le certezze e i punti saldi progettati per il futuro per gli effetti di una patologia di cui quasi mi vergognavo e che, per questo, avevo deciso di nascondere.
Avevo scelto, infatti, di non dichiarare la verità sull’esito della visita ai parenti, a mio figlio, ai colleghi. Avevo scelto di piangere il mio dolore solo con mio marito e l’amica più cara su cui sapevo di poter contare in ogni momento e per qualsiasi motivo.
Per questa decisione fui costretta a nascondermi, a mentire alle persone più care. Avrei voluto, invece, urlare, gridare la verità, vomitando tutta la mia rabbia e liberandomi di quel segreto che mi uccideva più della malattia.
Mi è costato molto tacere ai miei genitori la verità. Mi è mancato l'abbraccio consolatorio di mamma e papà il cui affetto è e sarà sempre incondizionato.
Recitavo un copione dove “quella parola” non poteva essere pronunciata, cosa che mi lasciava l’amaro in bocca e non mi aiutava.
Mi rilassavo solo tra le quattro mura della mia casa ma anche il più insignificante degli eventi quotidiani, come l’improvviso suono del citofono, mi mandava nel panico, temevo che qualcuno riuscisse a decodificare e dare un nome all’insieme dei miei sintomi.
A scuola, dove insegnavo, lo sguardo insistente di una collega che doveva aver capito e che abbassava gli occhi non appena osavo guardarla, mi infastidiva, mi innervosiva. Modificavo di volta in volta le mie abitudini rinunciando anche a ciò che amavo, evitando di frequentare i luoghi dove mi conoscevano, dove ero stata bene… sempre per la paura che qualcuno potesse arrivare alla verità che avevo chiuso in “quella parola”.
─ Quest’anno rinunciamo alle vacanze al mare. Non scendiamo al tuo paese… in Sicilia ─ proclamai come un eroina che si privava del piacere di bagnarsi in quelle acque smeraldine.
Mi mancò la terra arsa di quell’isola polverosa, il mare cristallino e il profumo intenso dei gigli bianchi che facevo fatica a non raccogliere dalle dune di sabbia finissima di spiagge ancora selvagge.
In pubblico cercavo di comportarmi in modo disinvolto, con quel fine assurdo che mi ero prefissato.
─ Ma tua moglie sta bene? ─ chiedevano a mio marito che rispondeva mentendo… così mi raccontava. Invece credo che tanti sapessero perché lui non ha mai saputo mentire.
Il farmaco leggero prescrittomi dal luminare non era molto efficace, le difficoltà e gli impedimenti erano sempre più evidenti finchè mi resi conto di non poter continuare a svolgere la mia professione in modo corretto, come avevo sempre fatto.
Non riuscivo a scrivere, la mano si bloccava ed ero costretta a fare correzioni a voce o alla lavagna, a volte mi si bloccava la gamba destra mentre la classe era in fila per andare a mensa!
La verità veniva prepotentemente a galla, scalciava, voleva uscire dalla gabbia in cui l’avevo ristretta e io non ero più in grado di contenerla.
Lentamente arrivai alla resa, accettai la malattia come compagna di viaggio e decisi di presentarla in società.
─ Sono malata di parkinson ─ cominciai a comunicarlo alla mia collega di classe, piangendo e scusandomi per non averlo fatto prima e con un mazzo di fiori per ottenere il suo perdono.
Finalmente pronunciando “quella parola” mi sentii liberata dal masso che mi stava schiacciando.
Stranamente la divulgazione del mio segreto non fu una sconfitta ma l’inizio della lotta, l’uscita dall’apatia e dall’autocommiserazione... inutili strumenti di penitenza di un medioevo ancora fra noi.
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David Cintolesi
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da David Cintolesi »

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VOLEVO DIRTELO

– Volevo solo dirti che mi dispiace, – dice mio padre piangendo, – che mi pento di tutto quello che ti ho fatto. Non dovevo eri… – si asciuga le lacrime col braccio. – Eri solo un bambino. Il mio bambino.
Sono seduto davanti a lui e penso che lo odio anche in questo momento. In questa stanza d’ospedale che sa di alcol e sangue e di medicinali e disinfettanti.
Odio anche gli ospedali. Li ho sempre odiati. Non fosse perché è il suo ultimo momento scapperei come ho fatto tante volte.
Lo guardo con la flebo infilata nel braccio. La testa appoggiata al cuscino e i capelli bianchi disordinati. Le ciocche sopra alle orecchie. La Fruit madida di sudore e la coperta che non vuole tenere. Ha gli occhi sempre più deboli. Sempre più spenti.
– Io però non posso dimenticare, – gli dico. – Anche se te ne andrai voglio che tu sappia che il mio perdono non lo avrai mai.
Penso che non so se ho fatto bene a venire stasera. I miei occhi non possono cancellare. Quando si intrecciano con i suoi sento ancora i rumori. La cintura che si slaccia e la cerniera che si apre. Ma io non posso vedere. Ho gli occhi bendati e le mani legate al letto. Sento ancora il suo peso che piomba su di me e mi dice: – Tranquillo, non sentirai niente –. Poi mi tappa la bocca come fa da dieci anni all’insaputa di mamma. Io che grido come una iena ma mamma non può sentirmi. Sono vittima dei suoi istinti. Una preda nelle mani di una bestia feroce.
– Lo so, – prosegue, – non sai cosa darei per tornare indietro.
– Niente. Non si può tornare indietro. Il passato è una macchia che non si può lavare. Anche se lo volessi non riuscirei a dimenticare le volte che mi chiamavi femminuccia. Che dicevi che ero uno scherzo della natura. Che avresti preferito che io non nascessi. Ricordi, babbo?
Il mio volto è impassibile. Non ho più lacrime da versare. Posso soltanto continuare solenne a guardare quel volto che non mi fa più effetto. È una persona qualunque. Senza importanza.
– Tua madre diceva che eri soltanto… diverso, che ti piacevano i ragazzi e io questo non lo riuscivo a capire. Poi ho compreso. Ho capito che ognuno è fatto a suo modo. Che bisogna accettare un figlio per quello che è. E quando ho scoperto di avere il tumore… volevo che tu sapessi che ti volevo bene. Avrei voluto dirtelo prima se solo ne avessi avuta la forza.
– Quando volevi fare quelle cose però la forza non ti è mai mancata, – puntualizzo col sangue agli occhi.
Mio padre abbassa lo sguardo e non dice niente. Si asciuga il naso. Guarda il vicino di letto in fin di vita. E forse pensa che mai come adesso ha qualcuno con cui condividere qualcosa. Io invece penso che mancherà poco. Al massimo un mese, i dottori l’hanno detto, e poi se Dio vuole io e mia madre lasceremo quella fottuta casa della vergogna e ce ne andremo lontano.
Lontano.
Ecco il posto dove mi immagino di stare. Un qualsiasi posto in cui il tempo e le belle cose mi impediscano di guardarmi alle spalle, di pensare che ho avuto un padre che invece di chiedermi se avevo fatto i compiti e di accompagnarmi alla prima lezione di canto e di parlare da uomo a uomo (anche se praticamente non lo sono) mi portava in cantina tra giornaletti porno e dvd e fotografie scabrose.
Ho fatto un sogno stanotte: ero in riva al mare, cosa che non mi capita da chissà quanti anni e mentre l’acqua mi bagnava i piedi guardavo in lontananza, oltre gli scogli, e una figura ad un tratto si stagliava maestosa tra quel tappeto celeste. Una figura a cui ho dato sempre molta importanza. E perché mia madre mi ha sempre detto che è l’unica che può salvarci e perché ho sempre creduto in Lui. Anche se ha permesso che tutto ciò accadesse.
Ha spalancato le braccia e mi ha invitato a seguirlo. Aveva un sorriso bellissimo. Uno di quelli che vorresti vedere nella persona che ami. E io so che lo amo.
Amo la vita nonostante tutto. Questa è l’unica cosa che non voglio davvero dimenticare.
Mio padre rialza gli occhi. Si passa una mano tra i capelli e dice:
– Volevo solo dirti questo. Adesso posso anche andarmene tranquillo.
Cerca di sorridere.
Lo guardo pensando che neanche la morte potrà salvarlo. Resterà sempre in qualunque posto vada così come è.
Penso alla fine che non c’è salvezza per certe persone. E forse, è giusto così.
All’improvviso chiude gli occhi. Lentamente. Allunga una mano e un solco profondo si dipinge sulla sua bocca.
Si spengono le luci.
Sono contento.
Non chiamo nessuno ed esco di lì.
Ultima modifica di David Cintolesi il 18/03/2018, 19:14, modificato 2 volte in totale.
Enrico Gallerati
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Enrico Gallerati »

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VAFFANCULO


Il piatto era rimasto sul tavolo, lei senza rispondermi si era alzata ed era andata a mettere il vestito nuovo, poi era uscita rilasciando nella stanza l'odore del suo nuovo profumo.
Odiavo quell'odore, odiavo quel vestito che le stava male addosso, odiavo quel raffinato che aveva messo nel movimento delle mani; tutto quel suo cambiamento la portava sempre più distante.
Guardavo la pasta sul tavolo che si stava freddando, la sua forchetta con il manico rosa, il pigiama che le aveevo regalato e che lei ieri sera aveva gettanto nel bidone dell'immondizia.
Una manica era rimasta fuori, quasi fosse un tentativo di non volere sprofondare nei rifiuti, di salvarsi dalla fine e riessere indossato.
Sollevai il pigiama dal bidone, era color zinco con un simpaticob orsetto disegnato al centro, due pon pon scendevano allacciati al cappuccio; era morbidissimo ed aveva impresso il suo odore.
Annusavo quell'indumento e mi domandavo perché Viola non sapeva più di quella sua fragranza, Viola era mutata in tutto, era un'altra donna.
Riposi il pigiama nel bidone, forse era giusto così, non si sarebbe mai più rianimato, chiusi il coperchio e piansi.
Tante gocce scendevano dal cielo che era di una strana tinta cobalto bagnando i vetri della finestre.
Andai a letto. Pensavo a dove fosse: immaginavo che si stava divertendo, in uno di quei locali frequantati dalla Roma bene, e certo c'era lui.
Tutto ciò mi sembrava impossibile; Viola era una donna fragile e il suo cuore aveva sempre battuto contro il mio, ci eravamo sempre amati per quel che eravamo.
Io avevo aiutato lei e lei mi era stata vicina nel momento più difficile della mia esistenza, era penetrata nel mio buio con la sua luce.
Io rivedevo i suoi occhi che si sapevano fermare a lungo dentro i miei, era uno sguardo pieno di poesia.
Mi addormentai con il cielo che si accendeva nel rumore della pioggia.
Quando apii gli occhi Viola era lì, al mio fianco, dormiva come un sasso e aveva addosso ancora quel ripugnante profumo.
Ogni respiro mi veniva la nausea, disprezzavo quell'odore che sapeva di merda, Viola non era ciò, Viola ora avrebbe avuto addosso il suo pigiama, sarebbe stata rivolta verso il mio viso, con il cuore che batteva vicino al mio petto, questo era Viola.
- Viola svegliati -
Viola aprì gli occhi, mi bisbigliò una frase confusa e si riaddormentò.
- Viola svegliati che ti devo dire una cosa - dissi strattonandola.
- Che c'è? -
Il suo viso era impiastrato di trucco, i suoi occhi ciechi.
- Viola di devo dire una cosa che non ti ho mai detto -
Lei rimaneva a guardarmi, e per un attimo aveva fatto un'espressione che l'aveva riportata a se stessa, ma poi era tornata con quel fare sussiegoso, distaccato.
- Viola vaffanculo! Vaffanculo! -
Mi vestii, infilai nella valigia le miei cose alla rinfusa, poi la chiusi, quando uscii dalla stanza lei piangeva, ora era la Viola di un tempo ormai andato. Un peridodo della mia vita si era concluso, anche se prima d'uscire non resitetti, le andai vicino e la baciai, in quel momento lei spigionò dalla sua pelle il suo buon profumo, i suoi occhi si riempirono di turbamento.
Tornai a stare da mia zia Alma. Quando aprii la valigia trovai un foglio, era stropicciato con la calligrafia di Viola; forse aveva avuto dei ripensamenti per poi infilato dentro?
- C'è una mano che disegna sopra la tela della mia vita. Si diverte a fare sgorbi e brutture sopra il mio tratto, il mio colore. Mi domando spesso di chi è quella mano, ma forse è la mia -
Mi appoggiai il foglio al petto e piansi.
Ultima modifica di Enrico Gallerati il 02/03/2018, 1:24, modificato 6 volte in totale.
nunzio.campanelli
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

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Lettera al figlio

Caro Giulio,
 se stai leggendo questa lettera vuol dire che non sto molto bene. Mi dispiace, mi dispiace tanto. Quanto tempo ho aspettato per poterti parlare, quante volte ho preso un foglio per scriverti per poi buttarlo sempre nel cestino. Ho tante cose da dirti, una vita intera da raccontare e così poco tempo per farlo!
 Ti ricordi, Giulio, quando a Natale dovevi scrivere un pensiero, una poesia, e poi l'ultimo giorno di scuola, prima delle vacanze, leggerlo di fronte a tutti gli altri? Ti ricordi che tu, così timido, ti vergognavi tanto che non riuscivi a parlare? Ti ricordi, allora, che io ti prendevo le mani, ti sorridevo, e poi ti sussurravo in un orecchio la canzone che ti piaceva tanto? ... Amore, ritorna, le colline sono in fiore... allora spariva la tua timidezza e cominciavi a leggere le tue poesie.
 Quante volte, in seguito, dopo che me ne sono andata, dopo che ti ho lasciato, ho cantato quella canzone, per rievocare con il pensiero il tuo volto, la tua voce, il tuo profumo. 
Lo sai, Giulio, che i bambini profumano? Tu sapevi di farina, di pane appena sfornato, a volte di miele. Eri un bambino molto appetitoso. 
Perché, Giulio, perché ho lasciato che ti portassero via da me, perché non ho lottato, perché? 
Mi dicevo che era per il tuo bene, che per il momento andava bene così, che poi in seguito saresti tornato con me. Sapevo che non era vero, che stavo mentendo. Si può perdonare chiunque, tranne se stessi.
 Mi sono accontentata, Giulio; quando ho capito che non volevano più che io ti vedessi, quando mi minacciarono di rinchiudermi, privandomi per sempre delle tue notizie, ho accettato la loro misera elemosina. Ti ricordi, Giulio, quando d’estate ti portavano in quel paesino di montagna, dove giocavi con i tuoi amici tutto il giorno, nei ruderi della torre, in cerca di tesori immaginari? Io ero lì, stavo in una casa che dava sulla piazzetta, e da dietro la finestra potevo guardarti e in qualche maniera eri ancora un po' mio. 
Poi sei cresciuto, da adolescente non hai più seguito i grandi e non ti ho più visto. Mi sono dovuta accontentare di nuovo, di qualche tua fotografia.
 Non voglio annoiarti, non con le mie tristi vicende. 
Sono riuscita comunque ad avere costantemente tue notizie, anche quando decisero che non dovevo più interessarmi di te. 
Sono passati così tanti anni dall'ultima volta che ho potuto abbracciarti, che spero prima di morire possa almeno una volta, anche una sola, rivederti, poterti toccare, sentire la tua voce. 
Mi sono chiesta costantemente, da quando mi hanno portato via da te, quando questo sarebbe successo.

Quando sarà il tempo, mi sono sempre risposta.
 Ora il tempo si è compiuto.
Non so, se mentre leggi questa lettera sarò già morta, o se invece mi sarà concesso di vederti un'ultima volta. 
Avrei tanto da raccontarti, ma non posso continuare, non ci riesco, il dolore provocato dalla mia malattia è niente confrontato con quello causato dal continuo ricordo del tuo distacco.

Perché, Giulio, siamo così cattivi?
Volevo solo starti vicino, volevo solo amarti, volevo solo vivere con te, per te. 

Addio, Giulio, ho diviso la mia carne in due, per darti la vita. Quando potremo di nuovo essere uniti, come è stato, come sarà.
 Addio, figlio mio amatissimo.
Ti rivedrò, un giorno.
Quando sarà il tempo.
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Daniele Missiroli
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31 maggio 2009

Messaggio da leggere da Daniele Missiroli »

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31 maggio 2009

Caro Justin,
da quando mi hai scritto che saresti partito, conto le ore che ci separano, e se chiudo gli occhi, sogno il momento del nostro incontro. Ci siamo lasciati da bambini, quando i miei genitori emigrarono a New York dalla nostra Inghilterra, e non riesco a credere che ci rivedremo fra pochi mesi, dopo più di dieci anni. Sappi che né tutto questo tempo, né lo sconfinato oceano sono riusciti a mutare i miei sentimenti per te.
Grazie alla foto che mi hai fatto avere con la tua ultima lettera, ho visto che sei diventato un ragazzo ancora più bello di come ti immaginavo. Perdona la mia sfacciataggine, intendevo dire un bell'uomo. A ventidue anni si è uomini, non certo ragazzi. Mandarti la mia m’imbarazza troppo, ma sono rimasta uguale ad allora, con le mie lentiggini e le trecce rosse. Le tue lettere mi hanno accompagnato dalla fanciullezza all'età adulta, e ora che sono maggiorenne...
Scusa, non riesco a pensare al nostro futuro senza commuovermi. Più che le mie parole, saranno le lacrime su questo foglio a testimoniare quello che provo per te.
Ho udito che la nave potrebbe arrivare anche prima del 18 aprile, e allora vado al porto tutti i giorni a scrutare l'orizzonte in tua attesa. Il destino ci ha separati, il destino ci unirà nuovamente.
Bacio questa lettera e mi dico per sempre tua,
Costance.


Carissima Costance,
sono sicuro che la tua bellezza rivaleggi con quello che di più bello esista nel creato, ma non è solo questo che amo di te. Amo la tua dolcezza, la tua purezza, la tua grazia. Tutto di te mi ha conquistato e desidero passare il resto della vita con la bambina, ora divenuta donna, che ho conosciuto e di cui mi sono innamorato perdutamente.
Ho speso tutto ciò che avevo per un biglietto di terza classe, poi i miei genitori mi hanno aiutato e ne potuto acquistare uno di seconda. Che importa dove soggiornerò durante la traversata, ho pensato in cuor mio, se dopo solo otto giorni di navigazione potrò abbracciarti?
Il regalo più importante è stato il nome di un loro vecchio amico, emigrato tanti anni fa, che ha aperto una rivendita di verdura proprio a New York e che, ne sono certo, avrà un lavoro per me. Un lavoro è importante quando si vuole metter su famiglia.
Sto scrivendo quello che tu non leggerai mai, perché sarò io, di persona, a recarti questa missiva, e la leggeremo insieme, mano nella mano, nella tua nuova città. Una città che diventerà anche mia, e che vedrà i nostri cuori uniti per sempre.
La nave è enorme e bellissima: non crederai ai tuoi occhi quando la vedrai. Questo viaggio mi spaventa un po’, ma ho saputo che il comandante è molto esperto e che questa è la sua ultima corsa prima della pensione. Non riesco a credere che un così grande uomo abbia uno dei nomi più comuni che esistano.
Non so più cosa dire, perdonami; ora mi avvicino alla zona d’imbarco, perché si è già formata una lunga fila. Qui a Southampton sono molto precisi e sono quasi le dodici.
Ti abbraccio e ti bacio, tuo per sempre,
Justin.


- Nonna - disse Ann - perché hai voluto che ti leggessi queste lettere? Chi sono quelle persone?
- Vedi tesoro - rispose Elizabeth - io non le ho mai conosciute, ma tu devi la vita a Justin.
Sentendo quell'affermazione, la ragazzina aggrottò la fronte, meravigliata.
- Ora stai pensando che questi sono i vaneggiamenti della tua vecchia bisnonna, vero?
- Beh, forse la memoria a 97 anni...
- Tu, tua madre Stephany, tua nonna Juliet, che è mia figlia, io stessa e mia madre Peggy dobbiamo la vita a questo sconosciuto. Quando ci fu l'incidente, in tutto quel trambusto lui riuscì a trovare posto in una delle ultime scialuppe. Stavano già per calarla in mare, quando mi vide in braccio a Peggy. A quel tempo io ero ancora in fasce, e lui non ci pensò un secondo: scese e cedette il suo posto a noi, dicendo: - Lei usi questa con la sua bambina, io prendo la prossima.
- Mentre mia madre gli stringeva la mano per ringraziarlo, improvvisamente le diede queste lettere e aggiunse: - Se per caso non ci dovessimo reincontrare, le chiedo una gentilezza: all'arrivo ci sarà una ragazza ad attendermi. La riconoscerà subito perché è bellissima e starà piangendo. Le dia queste a nome mio.
- E poi che successe?
- Non lo so, perché nessuno lo rivide più.
- Avete cercato quella signora?
- Quando fui grande, un giorno mia madre mi raccontò tutto e mi disse che l'aveva cercata per anni, senza mai riuscire a trovarla. Ecco perché le lettere di Justin sono ancora in possesso della nostra famiglia e Costance non ha mai letto le sue ultime parole.


Il 31 maggio 2009, a 97 anni, è morta Elizabeth Gladys Dean, nata il 2 febbraio 1912, che aveva solo 71 giorni quando ci fu il naufragio del Titanic. Il capitano si chiamava John Smith.
Ultima modifica di Daniele Missiroli il 18/03/2018, 22:31, modificato 1 volta in totale.
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

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Le parole che non ti ho mai detto.

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Un monologo inesistente.
Ce ne sono, di parole che non ti ho mai detto, mamma. Ce ne sono tante. Troppe. Tutte. Perché, di parole, io non ne ho mai detta una, una sola. Né una parola, né un vagito, né un pianto. Niente. Sono immersa in questo limbo…
Limbo. Eh fa ridere, vero mamma, farebbe ridere, sarebbe una battuta simpatica, se non ci fossi sul serio. E tu sai perché, tu lo sai perché. Non ti ho mai detto nulla perché non sono mai nata. Non hai mai sentito la mia voce. Eppure ho gridato. Forte. Ho urlato quando quella cannula mi ha aspirata dal tuo utero come se fossi stata una nuvoletta di polvere da togliere dal salotto per non fare brutta figura con gli ospiti. E sai cosa avrei voluto dire? Che si stavano sbagliando. Che non poteva essere la mia mamma ad avere chiesto di farmi finire dentro un bicchiere di vetro. Per terminare poi bruciata in un fornello come un uovo di quaglia abbandonato al suo destino sul gas. E ti ho vista, attraverso la trasparenza del vetro, distesa a gambe allargate. Eri bella, bellissima. Ci ho creduto, ci ho voluto credere che quello sarebbe stato il mio primo incubo, che me lo sarei ricordato per tutta l’infanzia e poi anche un po’ da grande. Ho creduto che al risveglio mi sarei ritrovata di nuovo all’interno del tuo ventre caldo. E ci avrei fatto una risata, quando avessi avuto la bocca e i denti per farla. Invece no. Ho visto il tuo lettino che veniva spostato da un infermiere fuori dalla sala e poi le luci spente come si spegneva in quel momento la mia speranza.

Lo so. Non avresti voluto. Nella discoteca la vodka si trovava ovunque, anche per i minorenni, anche per te. E le pastiglie per farti sembrare più grande, più audace, più figa. Era carino. La barba da Hipster, i jeans alla moda. Si muoveva come un serpente in mezzo alla sala. Un serpente tentatore. Eri troppo ubriaca per avere autocontrollo, ma troppo poco per perderti quell'occasione. Quando ti ha preso la mano, lo hai sentito il brivido. E non era di freddo. Lo stesso brivido che avevi avvertito le altre volte, con altri maschi, in altri luoghi.
Poi lo sportello dell’auto che sbatte nel parcheggio e il calore delle sue mani sulle tue mutandine troppo piccole anche solo per opporre un po’ di resistenza. Minuti, forse secondi e il mistero della vita, quello che porta animali e umani a sopravvivere su questa terra, si era compiuto nella tua vagina.

Non ero io che ti facevo vomitare. È stata la tua coscienza. E la paura. La paura che qualcosa di indesiderato stesse sviluppandosi al tuo interno. E più vomitavi più tentavi di allontanarne il pensiero. “Non sarà per una sola volta” ti ripetevi. Invece sì. Una sola volta era stato sufficiente. Lì dentro qualcosa di tuo stava diventando qualcosa di vostro. Tuo e di quell’uomo di cui conoscevi gli occhi chiari, la consistenza dei denti bianchi, la forza dei bicipiti. Niente altro. Nemmeno il nome gli avevi chiesto in quella notte di alcol, MDMA e sudore.

Ti vedo, mamma. Pare impossibile, ma ti vedo. Non sei nella tua cameretta ancora arredata da adolescente viziata, fatta di peluche, cuscini a forma di cuore, libri che non hai mai letto, dove, insieme alle tue amiche, vi divertivate a snocciolare volgarità e cattiverie. Ti vedo, nel bagno, davanti al lavandino dove l’acqua tiepida si sta, piano piano, colorando di rosa. Non fanno male i tagli delle lamette, sono netti, puliti, chirurgici. Stai facendo l’ultimo sbaglio, mamma. L’ultimo di tutta una breve vita di sbagli. Ma doveva finire così, perché quello che non hai mai avuto è stato il coraggio e senza di quello non si vive, non si può vivere.
Non te le ho dette le parole che avrei voluto dirti, mamma. Non ho potuto. Per colpa tua.
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Alberto Tivoli
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Alberto Tivoli »

LE PAROLE CHE MAI TI DIRÒ
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Le parole che non ti ho mai detto te le ho disegnate come note su un pentagramma. Le ho suonate sulla tua schiena. Non le pronuncerò mai perché non lo meritiamo.
Ti.
Ti ho odiato quando ti girasti verso di me e il tuo sorriso splendette contro la notte del vestito che ti abbracciava e ti accarezzava in ogni tuo movimento.
Le parole che non ti ho mai detto le hai cantate ridacchiando per il solletico che le mie dita screpolate cacciavano tra la tua peluria.
A-ncora.
Come il vincolo tra le nostre anime che mi ha portato da te mentre urlavi sporta dalla balaustra della nave su cui hai speso i soldi che ti abbiamo dato Io e Lei. Lei alla quale dicevo che gli anni passati insieme non sarebbero mai stati abbastanza.
M-atto.
A farmi convincere dal desiderio più forte che avete. La polvere di luna, amara come la solitudine che Io e Lei avremmo avuto di fronte, odorava di immondizia la Sua frustrazione. Sì, e mille volte sì. E il matto gira, rotola, si rivolta dall’interno come uno stomaco da pulire per essere divorato. Senza pudore.
O-vulo.
E allora ti presi il viso tra le mie mani. Il tuo sorriso vacillò ma resistette, come una stella velata da una nuvola passeggera. Ti dissi il mio nome e tu lo riconoscesti e io ti riconobbi: due traditori. Eppure saremmo dovuti essere segreti l’uno per l’altra. Intimi, perché la mia essenza ha penetrato la tua in un universo a me familiare ma a te ignoto, ma nascosti l’uno all’altra.
O-Dio.
Omar è nostro figlio, cresciuto nel grembo di Lei. Nato da Lei. Rubato a Lei.
Dio che sei in Omar, continua a dormire, a sognare. Rimani inconsapevole della musica che suono su questa schiena. Le tue note non le disegnerò mai. Sono le parole che mai ti dirò.
Ultima modifica di Alberto Tivoli il 28/02/2018, 22:27, modificato 1 volta in totale.
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Fabrizio Bonati
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Re: Gara 69 - Bando e racconti

Messaggio da leggere da Fabrizio Bonati »

pexels-photo-377058.jpeg
]ADESSO LO SAI

Questa lettera è per tutte le volte che avrei voluto dirti ciò che pensavo, e non l'ho potuto fare.
Per tutte le volte che mi sono rintanato in camera mia, invece di dirti tutto quello che avrei voluto, perché altrimenti sarebbero stati sberloni.
Tutte le volte in cui ho pianto perché non potevo andare a giocare con gli altri bambini, ma dovevo restare ad aiutarti nei lavori di manutenzione.
Per tutte le volte che ho preso botte perché non avevo pulito la cacca dei cani che tu portavi a casa.
Per tutte le volte che avrei voluto un gioco nuovo, ma mi dicevi che non c'erano i soldi.
Però tu ti eri comprato un attrezzo nuovo per la tua officina personale.
Per tutte le volte che non sono andato in gita con la scuola, perché costava troppo, ma tu avevi appena comprato dei cerchioni speciali per la macchina di famiglia.
Per quella volta in cui volevo continuare a giocare a calcio e volevo cambiare società, perché l'allenatore non mi vedeva, ma cambiare squadra era troppo scomodo, l'altra società era in un altro rione, non ci potevo andare da solo, e allora se volevo continuare, la squadra era quella e basta.
Per quando volevo imparare a sciare, ma mi dicesti che la domenica dovevi riposare, non portarmi in giro a destra e manca per guardarmi sciare.
Sai, avresti potuto sciare con me, avremmo potuto passare alcune ore insieme, a divertirci.
E poi mica dovevamo andare a sciare tutte le domeniche. Ma no, tu dovevi riposare. E poi non riposavi mai, facevi sempre qualche lavoro, di solito inutile.
Per quella volta che volevo partecipare al concorso per pilotare i go-kart, e tu mi dicesti che non ero tagliato per correre.
Questa lettera esiste, perché le cose che i miei compagni avevano fin dalle medie, il videoregistratore, lo stereo, la console per giocare, io le ho viste a 19 anni, quando hai deciso che le volevi anche tu.
Perché quando finalmente comprammo un computer, mi toccò quello sfigato della Olivetti, perché costava meno. Peccato che nessuno dei mie amici ne avesse uno uguale, avevano tutti il Commodore, e i giochi non erano compatibili tra i due tipi di computer.
Però il trapano fighissimo che faceva di tutto, era appena arrivato, e lo andammo a ritirare appena prima del computer.
Perché, per non sottostare ancora alle regole economiche di casa, non andai all'università, ma andai a lavorare, così non dovevo più chiedere i soldi per uscire al sabato sera. Giurai che sarei andato a lavorare perché non volevo più dover chiedere soldi per uscire, dopo che un giorno, senza chiederli, mi desti cinquantamila lire per uscire, e poi la settimana dopo non ne dovevo più chiedere, pretendevi che ne avessi ancora, che cinquantamila lire dovevano bastarmi tutto il mese.
Perché, dopo avere avuto un incidente in cui mi avevano sfasciato la macchina, mi hai prestato i soldi per comprarne un'altra, ma li hai voluti indietro tutti. Non li avresti voluti, se avessi fatto aggiustare la macchina vecchia. Ma io quella macchina non la volevo più vedere.
Anche se avevo ragione, in quell' incidente era morta una persona, e io non volevo più una macchina sporca del sangue di una vita umana spezzata.
Tutte queste cose, non te le ho mai dette.
Ho ingoiato i rospi, uno a uno.
Fino a quando sono andato a vivere da solo, e tu non l'hai mai accettato. Io, invece di rinfacciarti tutto, sono stato zitto e ho preferito che passasse il messaggio che era un mio capriccio.
Adesso, non riesco a parlare.
La radioterapia mi ha ustionato la pelle, e le corde vocali sono danneggiate.
È temporaneo, ha detto l'oncologo. Già, ma fra una settimana mi sottoporranno a una operazione di 13 ore, per rimuovere tutta la massa tumorale. Ho il cinquanta per cento di possibilità di non farcela.
Quindi non so se mi riprenderò in tempo, se riuscirò a parlare prima dell'operazione, e dopo, potrebbe non esserci un dopo, almeno per me.
Sto combattendo contro la malattia da due anni, e adesso siamo alla stretta finale, o dentro o fuori.
Ho scelto dentro, l'alternativa era spegnersi lentamente, e io non sono tipo da uscite di scena soft.
Quindi ti scrivo questa lettera, papà, per dirti che quando mi chiudevo in camera per non risponderti, non erano capricci.
Non hai mai capito che io volevo essere uno come gli altri, non farmi riconoscere perché avevo i vestiti riciclati dei miei cugini, con i jeans allungati che avevano il segno del risvolto e il maglione di due taglie più grosso.
Non hai mai capito che io non volevo un supereroe, volevo un papà normale. Tu facevi tante cose, tanti lavoretti, ma li facevi perché piacevano a te, non chiedevi a nessuno se potevano piacere, li facevi e basta, e ti ammazzavi di fatica per farli.
Saresti stato un supereroe semplicemente facendo quello che fanno tutti i papà. Passare del tempo con me a giocare, portarmi a calcio, anche fosse stato dall'altra parte della città.
Incoraggiarmi a farlo, quel concorso per pilotare i go-kart.
Chiedermi cosa facevo a scuola, cosa facevamo con i miei amici quando andavo da loro.
Se avevano delle cose che io non avevo.
Chiedermi perché quella macchina non la volevo aggiustare, cercare di capire.
Ecco, cercare di capire. Capire gli altri, invece di pretendere che noi capissimo te. Capire i tuoi figli.
Fare il tuo lavoro di padre.
Questa lettera la affiderò a mio fratello, e lo obbligherò a dartela dopo l'operazione, se avrò azzeccato il cinquanta per cento sbagliato.
Altrimenti te la leggerò io.
Allora forse, per la prima volta, mi ascolterai, spero.
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