E la chiamavano musica...
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E la chiamavano musica...
I nostri eroi, coperti fino ai capelli da una fanghiglia sottile e compatta che aveva cancellato dai loro vestiti i mille colori della beat generation, rendendoli simili a maschere di creta, si trascinavano stremati, facendo appello agli ultimi brandelli d’energia per individuare la giusta direzione tra le mille possibili, in questa metropoli immensa.
Rammento che più tardi, se capitava d’incrociarsi nuovamente in qualche via o parco, anche molto distante da Vittoria, il riconoscimento era immediato, tant’era evidente che solo i reduci del festival pop di Bickershaw potevano vagare per la città conciati in quella maniera.
Tutto era partito dagli inviti assillanti di un tal Steve, promettente chitarrista inglese da me incontrato, nella passata stagione invernale, in una rassegna musicale molto nota in Italia. Scriveva e telefonava in continuazione, pregandomi di venirlo a visitare nella sua Londra, dove aveva fondato un nuovo gruppo, a suo dire dal successo garantito.
Alla fine riuscì a convincermi e prenotai l’aereo utilizzando la provvidenziale Student Card, che mi permetteva di viaggiare da Milano a Londra con sole 12mila lire.
Masticavo un inglese forse un gradino superiore a quanto imparato a scuola, per via di alcune frequentazioni femminili, ma certo avrei potuto migliorarlo parecchio: un’opportunità, questa, che persuase i miei a lasciarmi partire, schivandomi le solite noiose discussioni.
Steve venne di persona all’aeroporto di Gatwick e con il suo pulmino Bedford mi accompagnò fino a Londra, lasciandomi con la solenne promessa di ritrovarlo il lunedì successivo al Marquee Club, dove avrei assistito, nel pomeriggio, alle prove del suo gruppo e poi ospite dello spettacolo serale.
Per combinazione ero rimasto in contatto con due amici, da un paio di mesi residenti in Inghilterra, ospiti di un’arzilla signora conosciuta rispondendo a un’inserzione. La benefattrice si chiamava Elise e credo fosse sulla cinquantina. Da poco separata dal marito, abitava con il figlio Adrian in una graziosa villetta con giardino a Finchley, quartiere a nord della città di Londra e, forse per solitudine, forse per nostalgia, aveva deciso di assumere, in cambio di vitto e alloggio, Enrico e Rolando come giardinieri e aiuto nei lavori domestici. Grazie a loro, la cara Elise accettò di ospitare anche me, versando un ridotto contributo spese: una bella comodità, in una città splendida ma assai costosa.
Diplomato in ragioneria per il rotto della cuffia, con un misero “trentasei”, e bloccato in attesa dell’imminente chiamata alle armi, avevo escogitato un buon metodo per non pagare l’ingresso nei vari locali e teatri di Milano. Per conto di una casa discografica, il cui direttore era un amico di famiglia, osservavo e segnalavo, guidato dal solo fiuto personale, qualche personaggio degno di nota tra la miriade di complessini che allora spuntavano come funghi, un po’ dappertutto. Da parte mia sfruttavo la situazione senza prendere troppo sul serio un incarico che con poca fatica mi aveva già permesso di conoscere mezza città e oltre. Mi era spesso sufficiente, infatti, mostrare il tesserino con il simbolo della Record Company e la scritta “agente artistico”, per vedermi magicamente trasformato in un oggetto di desiderio, corteggiato in ogni modo.
La trovata di assistere al festival di Bickershaw era stata mia. Vi partecipava un numero notevole di gruppi, molti assai famosi e si trattava, quindi, di una ghiotta opportunità, che mi avrebbe consentito, in soli tre giorni di show continuato, da mattina a notte fonda, di ascoltare il meglio in circolazione: un compito impraticabile se avessi voluto inseguire tutti questi musicisti uno per uno, concerto per concerto.
Al ritorno dal festival avrei rivisto con calma i miei appunti e scritte decine di relazioni che mi avrebbero fruttato un bel gruzzolo, ripagando ampiamente i costi della vacanza.
Enrico e Rolando furono subito entusiasti alla mia proposta di barattare un loro aiuto nella valutazione degli artisti con l’ingresso gratuito e la copertura di una parte delle spese. Senza saperlo ci stavamo imbarcando nella più allucinante delle peripezie, in cui accadde l’impossibile salvo riuscire a scarabocchiare una sola relazione perché sarebbe stato un imbroglio clamoroso.
Prevedendo di servirmi, anche in terra inglese, del magico tesserino che si era sempre rivelato un lasciapassare infallibile, avevo giudicato opportuno non acquistare in anticipo i biglietti d’ingresso, limitandomi al solo viaggio in autobus, andata e ritorno, da Londra a Bickershaw. Autobus che ci depositò la mattina seguente davanti agli ingressi, dove, all'istante, esordirono le sorprese.
Il luogo era al centro di un enorme spazio vuoto, in prossimità di un pendio collinare. Solo prati e pascoli, nient’altro. Il villaggio di Bickershaw, ovunque esso si trovasse, era ben al di fuori della nostra visuale, mentre un robusto ondulato metallico, alto più di tre metri, isolava totalmente dal mondo esterno i partecipanti al festival. In aggiunta, un folto gruppo di poliziotti a cavallo sorvegliava i cancelli, pronti a intervenire al primo accenno di disordini.
Una pioggerella bastarda ci aveva già bagnato oltre il necessario e le code erano lunghissime. Dove e a chi avrei mostrato il mio pass?
Controllai a lungo la scena.
L’esperienza mi aveva insegnato che avrebbe dovuto pur esserci una seconda entrata, riservata a operatori e interpreti. Cominciammo allora a girare intorno alla recinzione, ma non era facile: pioveva e dovevamo camminare in mezzo a prati inzuppati, con le nostre scarpette di tela che affondavano fino alle caviglie.
Alla fine distinguemmo, dalla parte opposta, una strada che si dirigeva verso un secondo portone. Raggiuntolo, ci sostammo innanzi, scettici sul da farsi.
Sempre convinto di riuscire a non pagare, mi avvicinai a un gruppo di persone dietro al cancello e con il mio inglese stentato, cercai di farmi capire, dichiarando di essere l’agente di una nota casa discografica di Milano, incaricato, con due collaboratori, di scritturare per l’estate prossima dei validi musicisti per un gran tour italiano.
L’esagerazione era palese e questi tizi, accidenti a loro, non sembravano per nulla disposti a bere il mio racconto, ma semplicemente ridevano e parlavano fitto tra loro.
Preoccupato per la piega degli avvenimenti, non rinunciando, tuttavia, a sperare in qualche favorevole sviluppo, indugiavo pensieroso, mentre Enrico e Rolando mi spiegavano, con una punta di superiorità, che non eravamo in Italia, dove tutto si accomodava. Qui la gente era abituata diversamente: o si pagava con sonante moneta o si rientrava a casa.
Mi ero ormai rassegnato, quando uscì uno dei tipi con i quali avevo parlato. Avvicinatosi silenzioso, mi bisbigliò nell’orecchio che per tre sterline ci avrebbero accompagnati all'interno: il trasporto era offerto dagli addetti all’impianto luci, in arrivo da lì a pochi minuti.
Accettai immediatamente, raggiante di essere riuscito a farla in barba a tutti.
Arrivò un decrepito furgone e vi saltammo dentro dal portellone posteriore, sistemandoci tra una confusione di cavi e fanali, non prima di aver consegnato all’autista i tre pound pattuiti. Con tre brevi colpi di clacson il cancello si aprì e transitammo tranquilli. Trascorsi sì e no due minuti, il presunto elettricista ci fece cenno di scendere, proprio dietro ai tralicci del palco. Era fatta!
Primo dettaglio che causerà non poche complicazioni: eravamo entrati, questo era pacifico, ma privi di biglietto e impronta indelebile sul dorso della mano, eseguita utilizzando un curioso timbro a olio con il quale bollavano i ragazzi in transito all’ingresso ufficiale. Risultato: saremmo potuti uscire soltanto al termine dei tre giorni di festival.
Nel frattempo veniva giù insistente un’acquerugiola che pareva una nebbiolina autunnale.
Lentamente prendevamo contatto con lo strano pianeta nel quale c’eravamo catapultati, frequentato da una massa brulicante d’individui emaciati, dagli sguardi imbambolati e dai vestiti stravaganti. Qui avrebbero celebrato indisturbati i loro riti, mentre i poliziotti si sarebbero limitati a impedire ogni contatto tra loro e gli abitanti locali, garantendo a questi ultimi la possibilità di proseguire, ignari, la vita di sempre.
La prima necessità, per tipi come noi, accantonato per il momento l’ascolto della musica, che giungeva come un eco smorzato, tra queste colline spoglie e battute da un vento gelido, era capire cosa vi fosse di commestibile. Iniziammo così un laborioso girovagare tra banchetti carichi di mercanzie d’ogni tipo, scoprendo alla fine anche qualche cibaria, purtroppo molto lontana dai nostri gusti. Un miscuglio di piattini con cavoli, carote crude, patate lesse, rape, cetrioli e altro della stessa specie, in aggiunta a misteriose salsine colorate, davvero poco incoraggianti. Ma guardando e riguardando, spuntarono nientedimeno che dei ravioli al sugo, ahimè non fumanti su un elegante vassoio, ma freddi e ben tappati in un barattolo. Ci accorgemmo che alcuni volenterosi, aperto il contenitore, sistemavano i ravioli direttamente su delle grandi fette di pane bianchiccio, mentre Rolando, il più affamato del gruppo, osservò che la loro provenienza era italiana. A parte rari e timidi diversivi, furono il nostro pasto fino a domenica. Per colazione, invece, ci saziammo con ampie scodelle di caffè bollente e torta al rabarbaro che, riflettendoci, furono il ricordo più soddisfacente dell’intero festival.
Risolto in questo modo l’affare alimentazione, il cruccio successivo fu trovare una soluzione accettabile per il riposo, sprovveduti com’eravamo ad affrontare l’imprevisto di quel nostro ingresso rocambolesco. Si era immaginato, infatti, di poter uscire a piacimento dalla zona del festival e scegliere, con comodo, un economico alloggio in uno dei tanti bed and breakfast disseminati per tutta l’Inghilterra, quindi anche a Bickershaw. Peccato che la momentanea quanto scomoda posizione di clandestini limitasse grandemente la nostra libertà di movimento, e non ci restava che adattarci.
In un’area centrale, qualche anima pia aveva allestito un paio di tendoni, tipo croce rossa internazionale, unico riparo dalla pioggia e dal vento. Entrati, ci accomodammo con altre centinaia di ragazzi sull’erba umida, utilizzando come isolante delle scatole di cartone appiattite che avevamo scovato rovistando tra i rifiuti ammassati nel retro delle bancarelle. Il giorno dopo ci dotammo, per la modica spesa di una sterlina, di tre sacchi a pelo veramente originali, erano di cartone pure quelli. Pazienza! L’ultima notte, invece, si dormì, per modo di dire, sui sedili dello scalcinato autobus che ci riportava a Londra.
Rimuginando sulla struttura delle latrine, credo che i soldati nelle trincee della prima guerra mondiale fossero meglio attrezzati, ma viva i nostri vent’anni che quando scappa... scappa, e nessuno badi alla puzza.
A questo punto rimanevano soltanto le ragazze. Ce n’erano tantissime, tutte bionde, tutte altissime, tutte allegre, ma quella cosa era l’ultimo dei loro desideri. Stavano da mattina a sera sotto il palco, semi nude (la pioggia e le grandi folate di vento non erano un problema), a gridare e scuotere la testa come forsennate.
Musica: e chi ci pensava. Inutile, non riuscivamo proprio a lasciarci andare.
Arrivò domenica sera. Stanchi morti, non c’eravamo lavati né tolti i vestiti da tre giorni, ma alla fine suonò Gerry Garcia con la sua band americana. Era ormai notte fonda, e quando attaccarono con Dark Star, ci misero i brividi alla schiena. L’immensa collina era rischiarata da decine di falò, in lontananza bruciavano alti nel cielo dei grandi pali simili a croci. L’atmosfera era carica al massimo: dimenticammo tutto e ci buttammo nella mischia, fra un’ora sarebbe finita, si tornava a casa.
Finalmente eravamo al sicuro, nella nostra villetta a Finchley.
Sotto la doccia sognavo un vero english breakfast, con salsicce, patatine, uova strapazzate e tutto il resto.
Asciugato e rivestito, scesi in cucina, bloccandomi sull’uscio: non volevo disturbare la cara Elise che sapevo occupata nei preparativi. Poi, non resistendo alla curiosità, socchiusi cautamente la porta e sbirciai furtivo, attento a non richiamare la sua attenzione.
Appoggiate sul mobile, accanto al frigorifero, riconobbi all’istante delle forme cilindriche che speravo di non dover mai più rivedere. Erano quattro belle, grasse scatole d’Italian ravioli in tomato sauce, pronte da riscaldare a bagnomaria, non appena fossimo stati seduti nel dining room.
Ecco qual era la colazione.
Altro che english breakfast!
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Un racconto che mi ha trasportato in quella lontana era geologica, in cui la musica era quella rock (e quella beat, nella versione italica) e il rap/hip hop era confinato nel Bronx.
Oggi il rap è uscito dal ghetto ed è diventato la versione musicale della scatoletta di ravioli in tomato sauce: indigesta e insopportabile.
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Commento: E la chiamavano musica ...
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La scrittura riconda quella di Miller, non so perché ma per un attimo mi è sembrato di rileggere il Tropico del cancro. Sulla punteggiatura o refusi nulla da dire, tutto in ordine e niente stona. La storia è bella, mi dispiace non aver vissuto quei momenti. Azzardarei un commento di pancia (non voglio essere antipatico, davvero): rispetto alla gara precedente solita ottima scrittura, ma spessore della storia completamente differente. Voto 5.
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Re: Commento
Questo racconto è totalmente autobiografico e, come hai letto, non riuscii proprio a godermi quella pazza tre giorni. Tanto meno a scrivere appunti sui miei quaderni. Seguii le varie performance, ricordo bene quella di Donovan, gli Spirits, forse anche Country Joe, che non avevo mai sentito prima, ma, come avrai capito, quello non fu certo l'unico festival a cui partecipai in quegli anni. Posso dire, modestia a parte, che furono ben pochi gli eventi a cui non assistetti. Capisco la tua delusione per la mancanza di particolari. Se vuoi ho scritto, per esempio, di un altro concerto al Roundhouse di Camden dei mitici Doors nel 1968 e sono disponibile a inviartelo, o magari anche a pubblicarlo nella prossima gara.Francesco Pino ha scritto: 02/01/2022, 9:40 Non avevo mai sentito parlare del Bikershaw e sono andato a cercarmi alcune informazioni. In quel 1972 ci suonarono i Graetful Dead, gli Hawkins (nei quali all'epoca militava Lemmy Kilmister), i Kinks... avresti dovuto parlare anche (e non poco) della musica per trasportare il lettore in quel luogo e in quel tempo. E poi, non si dovevano prendere appunti sulle band che suonavano? Che fine hanno fatto? Possibile poi che in tre giorni non si sia incontrato nessun personaggio particolare tra il pubblico?
Va bene tutto quello che c'è scritto, ma secondi me manca il festival.
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Re: Commento
Cosa ti posso dire? Spero tu sia ancora abbastanza giovane per ricrederti. Io sono tagliato fuori, ormai, ma un Vasco Rossi potrebbe andarti bene?Egidio ha scritto: 03/01/2022, 5:53 Ho apprezzato il tuo racconto, Alberto, scritto con un linguaggio originale (c'era un "raggiante di essere riuscito ecc." che mi ha stupito, e altre costruzioni formali interessanti). Sui contenuti non saprei che dire. Non ho mai partecipato ad alcun concerto rock, pop... Sono andato con parsimonia in disco, ma l'obiettivo principale era un altro...
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Re: Commento
Racconto totalmente autobiografico. Come hai capito, a quel Festival non mi andò molto bene, e non mi sembrava giusto inventare avventure che non avevo vissuto.Mariovaldo ha scritto: 02/01/2022, 10:21 Un racconto ben pensato e ben scritto, che tratta di un avvenimento che non conoscevo, sara' forse perchè i miei gusti musicali erano e sono molto diversi. Comunque, pur col limite gia' segnalato da qualcuno, cioe' la mancanza di una vera storia, ho apprezzato.
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Re: Commento
Spiacente, ma la birra era vietata, se ben ricordo, e il profumino, non tanto particolare, che aleggiava era quello delle latrine a cielo aperto.Athosg ha scritto: 01/01/2022, 15:27 Anche questo racconto musicale gronda la nostalgia dei grandi raduni musicali della nostra gioventù. Sono convinto che non l'hai raccontata tutta visto che manca l'odore della birra e di qualche altro profumino particolare! Rimane un bel racconto di un passato che tutti ricordiamo con grande piacere. Le inglesine io me le ricordo nel contesto delle vacanze a Lloret de Mar: biondine, carine, con le scarpe color pastello in tinta con il vestito.
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all'epoca avevo 15 anni, quindi eran giorni d'oro, per me.
ma era un momento particolare per tutti, esplosione di vita a non finire, il via a un mondo nuovo,
resoconto di un'avventura, ricordo di ciò che fu.
ben narrato, scorrevole e di piacevole lettura.
non ho notato refusi, è scritto molto bene e con punteggiatura appropriata.
gradevoli le descrizioni e le scene createsi.
piaciuto
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Re: Commento
Giustamente, mi hanno fatto notare come il lettore rimanga insoddisfatto per la mancanza di descrizioni dei vari concerti, artista per artista. Allora non mi fu possibile, ma ho assistito a molti altri eventi e per alcuni ho scritto dei racconti molto particolareggiati. Non escludo che parteciperò con uno di questi alla prossima gara.Andr60 ha scritto: 29/12/2021, 16:41 Confesso che non ricordavo di aver sentito parlare ( a suo tempo) di questo festival rock, a differenza di quello nell'isola di Wight del '70.
Un racconto che mi ha trasportato in quella lontana era geologica, in cui la musica era quella rock (e quella beat, nella versione italica) e il rap/hip hop era confinato nel Bronx.
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Re: E la chiamavano musica...
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Arranca forzatamente, cercando di ficcare con prepotenza il lettore in un tempo e in una situazione: è la sensazione che ricevo quando ogni parola ha il suo aggettivo e ogni frase ne ha un'altra che la "colloca".
Capisco (credo) sia la nostalgia, la voglia di "tirare le somme" per qualcuno che il tale evento ha vissuto, ma questo è compito più affine alla cronaca che alla narrazione. Analizzo elementi della prima frase per fare un esempio (sebbene sia forse la meno indicata, perché ogni prima frase serve proprio all'immersione del lettore).
"agli inizi di un decennio ricco di fermenti e contraddizioni in ogni campo dell’attività umana" - totalmente pleonastico: se racconto per immergere il lettore nel momento del racconto, non so NULLA di quello che sarà il decennio a venire. D'altronde, non citi queste contraddizioni, quindi questa pare proprio una personale considerazione, e il fermento sul quale ti fissi è quello musicale. Dov'è quindi "ogni campo dell'attività umana"?
"andò in scena [...] uno spettacolo così inconsueto" - uno "spettacolo" è sempre alcunché di preparato. Infatti, tu usi addirittura l'espressione "andare in scena", quasi ci fosse una regia.
"dai piazzali ai marciapiedi, dagli ingressi delle tube stations a qualunque altro spazio calpestabile" - ok, ok, "ogni angolo della stazione" rendeva già abbastanza bene l'idea. Nota a margine: in italiano (in altre lingue l'uso può essere diverso) non si declinano al plurale le parole straniere, quindi resta "tube station" e, più avanti, "coach".
In seguito, raggiungendo la narrazione e una dimensione più personale, il racconto fila meglio ed è gradevolmente avventuroso, sebbene l'iperbolico (per la vicenda narrata) stile da "racconto d'armi" mi stona.
Qualche virgola di troppo, forse, come in "beat generation, rendendoli simili a maschere di creta", "tra le mille possibili, in questa metropoli immensa", "via o parco, anche molto distante da Vittoria", "calorosamente, come tra valorosi compagni d’armi" (e questo è solo il primo paragrafo).
Resta un'impressione: che questo materiale sarebbe molto più adatto a un romanzo lungo, dove i tempi per godere i tanti piccoli dettagli che hai tratteggiato sono più consoni alla tua scrittura. Un esempio: "famosissimo Marquee Club, osannato tempio del rock londinese". In un racconto breve come quelli che proponiamo in queste gare, che il Marquee sia osannato non ha molto valore: come lettore, voglio concentrarmi sul protagonista e i comprimari, ma entrare nell'eccitazione che oggi può dare il pensiero di essere stato al Marquee mi distrae dalla narrazione e dalle emozioni del momento di un racconto breve.
Insomma, leggo un racconto "annegato" dal resto che è fuori scala, debordante. È vita e si sente, non lo metto in dubbio, anzi! Ma "cum grano salis", perché è la <i>tua</i> vita, le tue emozioni, le tue sensazioni. Faccele vivere <i>accanto</i> a te, non <i>dentro</i> di te, perché nemmeno potremmo.
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Re: Commento
Questo era il capitolo un romanzo a suo tempo premiato nei soliti concorsi per amatori. Questo capitolo in particolare è anche stato pubblicato (senza contributo) in un libro di racconti dedicati ad avventure di viaggio di tutti i tipi e anche questa storia faceva la sua figura.Marino Maiorino ha scritto: 09/01/2022, 11:14
Resta un'impressione: che questo materiale sarebbe molto più adatto a un romanzo lungo, dove i tempi per godere i tanti piccoli dettagli che hai tratteggiato sono più consoni alla tua scrittura. Un esempio: "famosissimo Marquee Club, osannato tempio del rock londinese". In un racconto breve come quelli che proponiamo in queste gare,
Mi sono limitato a inviare la copia di questo capitolo scritto almeno una ventina di anni fa.
In effetti il linguaggio è un po' troppo "romanzato". Provvedo ad apportare le rettifiche che spero lo rendano più fruibile.
Grazie del commento. Sono queste le critiche che apprezzo.
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Re: E la chiamavano musica...
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Re: E la chiamavano musica...
Scusami. Ti ricordo che se non scrivi la parola Commento nel titolo del commento (esempio Commento: E la chiamavano musica...) il sistema non te lo considera valido al fine del voto e, inoltre, non ammette in gara il tuo racconto per assenza di commenti.AlexNohman ha scritto: 10/01/2022, 20:31 Un racconto interessante, che mette un certo buon umore. Non essendo vissuto in quegli anni, ne essendo mai stato in Inghilterra, non posso nient'altro che far viaggiare la fantasia per evocare ciò che è scritto, ma lo stile è talmente fluido che scorre che è un piacere...
Ti è possibile rimediare cliccando, dopo che ti sei "loggato", sull'icona simile e una matita collocata alla destra del titolo del suddetto commento ed eseguire la rettifica.
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Avrei lasciato parlare i protagonisti piuttosto che raccontare, forse è questo il limite maggiore del testo. Spogliarsi dei ricordi per far vivere chi ha assistito al Festival.
Alla fine più che la musica il ricordo prevalente pare sia quello del pessimo cibo. È inutile, siamo proprio italiani, prima si mangia e poi il resto.
Dal punto di vista formale ti segnalo alcune imperfezioni:
"Ma raccontiamo la storia dall'inizio." Qui viri al presente e la voce narrante passa al plurale. Noi chi? Io avrei scritto: Ma adesso è bene raccontare... o giù di lì.
"Tuttora convito di non riuscire..." Perché tuttora? È sinonimo di adesso. In quel momento sarebbe più adatto.
Ma bravi anche gli inglesi, e Ma non era primavera, sembrano più che riflessioni della voce narrante delle intrusioni dell'autore nel racconto. Purtroppo ripeti le incursioni anche di seguito.
"Era capire cosa c'era di commestibile": direi, cosa vi fosse stato di commestibile.
"Per colazione invece berremo" direi bevemmo.
" Il cruccio successivo era...": direi, sarebbe stato.
"Il giorno appresso ci dotammo": direi, il giorno seguente.
I tempi verbali sono comunque spesso ballerini.
A rileggerti
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Re: Commento
Commento prezioso. GrazieNamio Intile ha scritto: 12/01/2022, 10:30 Tutto sommato un buon lavoro. Hai scelto di adottare come forma della narrazione il personale ricordo, con la voce narrante che in prima persona al passato ripercorre la partecipazione dei protagonisti al festival di Bickershaw. A rileggerti
Mi accingo alle opportune rettifiche.
È un racconto giovanile, totalmente autobiografico. Siamo italiani, è vero, e le cose andarono proprio così, ma non a Londra con i Doors o i Cream, e nemmeno a Milano con Jimy Hendrix e molti altri.
Ho scelto di inviare il testo, scritto almeno trent'anni fa, forse nell'illusione che andava già bene così, visto che me l'avevano anche pubblicato. Idea sbagliata! Già ho incassato i rimbrotti di Maiorino e adesso anche i tuoi. Ma va bene così, anzi. Quando parteciperò per vincere (ahahah… ) ve lo farò sapere.
Grazie ancora.
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Re: commento
La storia è quella di un'esperienza che, per le condizioni climatiche e soprattutto per degli italiani viziati, non si rivelò per quello che immaginavamo prima di partire. Per mia fortuna credo di aver assistito ad almeno un centinaio di festival e concerti, un po' in tutta Europa dal 1968 fino al 2000. Poi mi sono dedicato ad altro, forse perché deluso dagli odierni saltimbanchi che di musica ne masticano davvero poca, solo effetti speciali e distorsori alle chitarre. E parlo da abbastanza competente in materia.Macrelli Piero ha scritto: 29/12/2021, 18:20 Racconto ben svolto che fa la cronaca di un tempo e di un ambiente non a tutti conosciuto, ma manca la storia al suo interno. Ci sono i fatti ma manca il pathos, non so come dire né se ho il titolo per farlo. a me piace l'argomento e di conseguenza ho gradito il racconto.
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Re: Commento
Ti devo delle spiegazioni. Forse il titolo ha generato in alcuni lettori una aspettativa che questo racconto non poteva né voleva dare. Il motivo è abbastanza semplice. Lo scopo era descrivere un'esperienza vissuta in prima persona non esattamente esaltante, e chi ha partecipato come me a una mezza dozzina di festival pop in quegli anni lo può ben capire.Domenico Gigante ha scritto: 30/01/2022, 16:00 Sarò sincero: non mi ha fatto impazzire. C'è tutta la nostalgia di un'avventura giovanile, ma - al di là della situazione climatica, della fame e del sonno - traspare poco dell'atmosfera di un grande festival. Concordo con chi ha scritto che probabilmente hai materiale per un romanzo, invece che per un racconto. Avresti forse dovuto dare una riletta al testo per eliminare qualche refuso e alcuni problemi sintattici. Cmq scrivi molto bene.
Nella prossima gara invierò il racconto di un concerto memorabile e stai tranquillo che qui l'atmosfera non mancherà di sicuro.
Refusi e problemi sintattici. L'aiuto che mi aspetto è anche qualche esempio, altrimenti come potrei valutare e intervenire?
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Commento
Come già detto da altri ho un po’ avvertito la mancanza dell’aspetto musicale dell’evento, ma questo lo hai ben spiegato con la volontà di descrivere le cose come erano andate veramente; data l’esperienza che hai dichiarato riguardo ai concerti mi aspetto altre storie sull’argomento.
Da ragazzo sono stato anch’io qualche volta in Inghilterra e, complice la scarsità di finanze, alcune disavventure culinarie me le ricordo bene!
Tutto sommato l’ho letto con piacere.
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Re: Commento
Roberto Bonfanti ha scritto: 17/02/2022, 22:02 Come già detto da altri ho un po' avvertito la mancanza dell'aspetto musicale dell'evento, ma questo lo hai ben spiegato con la volontà di descrivere le cose come erano andate veramente; data l'esperienza che hai dichiarato riguardo ai concerti mi aspetto altre storie sull'argomento.
Ho in animo di partecipare alla prossima gara con le emozioni di un "vero" concerto. Ho solo l'imbarazzo della scelta:
Doors, Hendrix, Cream, James Brown, Pete Seeger, Stones, East of Eden, Wishbone Ash, De Andre, Gaber, Rossi, Guccini, De Gregori, Night of the guitar, Pino Daniele, Canned Heat, …
Ai tempi ero anche un abituè al "Capolinea" di Milano e qui sono passati veramente tutti i più grandi jazzisti Italiani, per non parlare delle jam session alle tre di mattina, cui partecipava qualche volta anche il grandissimo Jerry Mulligan. E il Ronnie Scott di Soho?
Gran bei tempi e brillava gioventù...
Magari parto dal più vecchio in assoluto: Doors a Londra del 1968, tu avresti qualche preferenza?
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Re: Commento
Credo che Hendrix o i Rolling Stones all'epoca dovevano essere il massimo del live.Alberto Marcolli ha scritto: 19/02/2022, 9:48 Magari parto dal più vecchio in assoluto: Doors a Londra del 1968, tu avresti qualche preferenza?
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Masquerade
antologia AA.VV. di opere ispirate alla maschera nella sua valenza storica, simbolica e psicologica
A cura di Roberto Virdo' e Annamaria Ricco.
Contiene opere di: Silvia Saullo, Sandro Ferraro, Luca Cenni, Gabriele Pagani, Paolo Durando, Eliana Farotto, Marina Lolli, Nicolandrea Riccio, Francesca Paolucci, Marcello Rizza, Laura Traverso, Nuovoautore, Ida Daneri, Mario Malgieri, Paola Tassinari, Remo Badoer, Maria Cristina Tacchini, Alex Montrasio, Monica Galli, Namio Intile, Franco Giori.
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BiciAutori - racconti in bicicletta
Trentun paia di gambe hanno pedalato con la loro fantasia per guidarci nel puro piacere di sedersi su una bicicletta ed essere spensierati, felici e amanti della Natura.
A cura di Massimo Baglione.
Copertina e logo di Diego Capani.
Contiene opere di: Alessandro Domenici, Angelo Manarola, Bruno Elpis, Cataldo Balducci, Concita Imperatrice, Cristina Cornelio, Cristoforo De Vivo, Eliseo Palumbo, Enrico Teodorani, Ettore Capitani, Francesco Paolo Catanzaro, Germana Meli (gemadame), Giovanni Bettini, Giuseppe Virnicchi, Graziano Zambarda, Iunio Marcello Clementi, Lodovico Ferrari, Lorenzo Dalle Ave, Lorenzo Pompeo, Patrizia Benetti, Raffaella Ferrari, Rebecca Gamucci, Rosario Di Donato, Salvatore Stefanelli, Sara Gambazza, Sandra Ludovici, Sonia Piras, Stefano Corazzini, Umberto Pasqui, Valerio Franchina, Vivì.
La spina infinita
"La spina infinita" è stato scritto quasi vent'anni fa, quando svolgevo il mio servizio militare obbligatorio, la cosiddetta "naja". In origine era una raccolta di lettere, poi pian piano ho integrato il tutto cercando di dare un senso all'intera opera. Quasi tutto il racconto analizza il servizio di leva, e si chiude con una riflessione, aggiunta recentemente, che riconsidera il tema trattato da un punto di vista più realistico e maturo.
Di Mario Stallone
A cura di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.