Un giorno per sempre
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Un giorno per sempre
Sembrava una di quelle cartoline d’auguri che, in un tempo forse più povero ma sicuramente più ricco di sentimento di quello che ci è concesso attraversare, scrivevamo sui banchi di scuola per i nostri genitori, poco prima delle agognate vacanze natalizie. Sì, questa è l’immagine esatta che trasmetteva quel pezzo di campagna a ridosso della prima collina.
Il bianco intonso si stendeva come un tappeto dal declivio al piano; un filo grigio di fumo che usciva da un alto camino posto sopra un tetto occultato da un metro di neve, pareva messo lì di proposito per legare il candore della terra all’azzurro intenso del cielo sgombro da nubi.
Saliva dritto, il fumo, senza esitare, sospinto e alimentato dai ciocchi di robinia che crepitavano dentro il vecchio camino della casa colonica, aiutato nel seguir retto la via dall’assenza di vento.
Il solitario casale era l’unica traccia della presenza dell’uomo, nel bianco accecante di un Natale soleggiato.
All’interno, due figure affaccendate; l’uomo posava i ciocchi presi dalla legnaia accanto al fuoco ad asciugare, prima di sistemarli con cura sopra il focolare; la donna, dall’altro lato dell’ampio locale era intenta a cucinare; nonostante la giornata speciale niente di particolarmente elaborato per la verità: pasta e ceci, com’era d’uso fare ogni giorno.
Erano anni che la coppia non festeggiava il Natale, non avevano figli né parenti prossimi con cui cenare, o perlomeno scambiarsi gli auguri, nessuno con cui conversare, nulla che potesse dare un senso al santo Natale.
I due coniugi, oltre alla stanchezza delle molte primavere, si portavano sulle spalle l’amarezza, il disincanto di una festa troppo a lungo festeggiata da soli senza il conforto di figli e nipoti accanto al focolare.
Dopo il frugale pranzo, l’uomo s’immerse nella poltrona accanto al camino, si accese la pipa e restò a guardare il crepitio del fuoco; la donna sparecchiò la tavola, lavò le stoviglie poi andò a sedersi sull’altra poltrona, regalò all’uomo un fugace, amorevole sguardo, prese i ferri da maglia dal cestino posato sul pavimento accanto alla poltrona e iniziò a mettere su punti a un pezzo di lana ancora informe, ma che in pochi giorni avrebbe sapientemente trasformato in un maglione.
Il crepitare del legno sul fuoco, il tintinnare dei ferri da maglia che s’incrociavano; note tristi, colonna sonora di un silente e riflessivo Natale.
L’uomo, dal volto antico bruciato dal Sole, solcato dalle rughe del tempo e della fatica di anni trascorsi sempre uguali, ad arare, seminare, mietere, concimare… e amare la sua donna come il giorno che la impalmò; stringendo la pipa fra le labbra osservava, quasi ipnotizzato, il fuoco danzare dentro al focolare.
La donna dal volto che ancora rimembrava la bellezza di un tempo, con lo sguardo fisso sui ferri contava mentalmente i punti, mentre i polsi, muovendosi in modo quasi disarticolato con l’avambraccio, danzavano con i ferri e il filo di lana.
Improvvisamente la donna si arrestò e, alzando lo sguardo pensoso, si mise a osservare il fuoco.
Non udendo più tintinnare i ferri, l’uomo dapprima tese l’orecchio, poi volse lo sguardo su di lei. «A cosa stai pensando?» le chiese, dopo aver tolto la pipa dalle labbra.
«Niente!» rispose prontamente lei, ricominciando a far danzare i ferri.
Dopo cinque minuti si fermò di nuovo, ma questa volta volse lo sguardo sull’uomo. «Pietro?» esclamò decisa, facendolo sobbalzare.
«Cosa c’è, Maria», disse lui, togliendo nuovamente la pipa dalle labbra.
«Stavo pensando: sarebbe stato bello poter scegliere un giorno da vivere per sempre, pescando fra quelli già vissuti».
«Ne abbiamo già parlato e discusso mille volte: non è possibile», disse lui, scuotendo il capo.
«Lo so», replicò, immalinconendosi, Maria. E dopo una breve riflessione proseguì: «Ma ipotizzando che sia possibile muoversi all’interno del tempo, tu, quale giorno sceglieresti?»
Pietro si alzò, posò la pipa sulla trave del camino, prese un ciocco, lo mise sul fuoco e tornò a sedersi, sprofondando nella poltrona.
«Allora?» insistette Maria.
«Ci sto pensando», rispose Pietro.
Un lungo silenzio da parte di entrambi accompagnò la riflessione. Al termine della quale, Pietro, così si espresse: «Se potessi camminare su e giù dentro il tempo… non sceglierei un giorno passato, ma un giorno futuro, da vivere per sempre».
Osservando lo sguardo perplesso di Maria, aggiunse: «So cosa vorresti chiedermi… e ti rispondo subito che, no! Non ho nulla da rimpiangere del nostro tempo passato. Ma vivere un giorno già consumato, sarebbe come leggere un libro imparato a memoria. Se ci fosse data la possibilità di scegliere, preferirei vivere un giorno non ancora goduto… un domani… il futuro».
«Il futuro?!» esclamò lei stupefatta. «Mah, Pietro, hai ottantaquattro anni, quale futuro speri di poter vivere?»
«Non lo so, quello che sceglierà il destino.»
«E se fosse un futuro da infermo, lo potresti accettare?»
Pietro accennò un sorriso. «Sono i rischi dell’esistere.»
«Ma che ti sta succedendo? Vuoi buttare alle ortiche il tempo passato a scegliere un giorno per sempre? Sei stato tu a convincermi, con la tua filosofia da strapazzo, quanto sarebbe bello scegliere il giorno per sempre», ribatté, alzando il tono, Maria.
«Calmati, non ho cambiato idea… era solo un gioco. Ma visto il risultato, finiamola lì!»
«Sì, finiamola lì… il giorno doveva essere questo, e questo resterà!» chiosò Maria, incupendosi.
Pietro cercò di rasserenare l’animo della sua donna; indicando la neve fuori dalla finestra. disse: «Questo è il giorno per sempre: la pace del Natale, il silenzio ovattato della neve nei campi. E noi, soli in mezzo a questo immenso nulla, la vivremo e rivivremo per l’eternità, questa magia».
«Ho preparato la torta di castagne… più tardi scendi in cantina e prendi la bottiglia che avevamo tenuto in serbo per le grandi occasioni… è venuto il momento di tornare a festeggiare il Natale», replicò Maria, sorridendo e tornando a muovere i ferri da maglia.
«Perché?» chiese stupito Pietro.
«Perché, cosa?» disse Maria, fermando nuovamente i ferri.
«Non rammento nemmeno più quando fu l’ultima volta che lo festeggiammo, il Natale… perché vuoi tornare a festeggiarlo?»
«Perché se questo deve essere il nostro giorno per sempre, nessun cupo Natale dovrà più rovinare l’atmosfera idilliaca del nostro tempo.»
Pietro si alzò, prese la pipa dalla trave del camino, la strinse fra le labbra e, aspirando, annuì.
Soddisfatta dall’atteggiamento del suo uomo, Maria riprese a far danzare i ferri dentro la lana.
La luna, le stelle, il gelo che brillava sopra la neve, la notte complice concorreva a far di quel breve tempo il giorno per sempre, quello da vivere e rivivere per l’eternità.
Dentro il casale, il riverbero del fuoco illuminava la scena davanti al camino.
Sul tavolino la bottiglia mezza vuota, i bicchieri mezzi pieni, sopra un piatto grande faceva bella mostra di sé tre quarti della torta di castagne e un biglietto vergato a mano; in due piatti piccoli i rimasugli dei due spicchi di torta mancanti; i corpi allungati sulle poltrone, le teste appoggiate alla spalliera, gli occhi chiusi, i volti sereni di due vecchi innamorati assopiti.
E il fumo continuava a salire verso il cielo, nella gelida notte; e salì fin quasi all’alba, arrestandosi quando la legna finì di bruciare e nessuno si diede la briga di alimentare il focolare.
Tre giorni e tre notti di gelo senza vedere il fumo salire nel cielo; poi, nell’alba plumbea del quarto, mani esperte rimossero i corpi dalle poltrone davanti al camino silente.
Il maresciallo dei carabinieri prese il biglietto vergato in bella calligrafia da sopra la torta e lesse: «Abbiamo scelto questo Natale come nostro giorno per sempre. Forse non capirete, ma credeteci: è bellissimo vivere rinchiusi dentro un giorno perfetto».
Il maresciallo scosse il capo, si schiarì la voce e concluse: «C’è un post scriptum: la torta di castagne profuma di buono… non assaggiatela, è avvelenata!»
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Re: Un giorno per sempre
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commento: Un giorno per sempre
Trovo il testo poco scorrevole, forse dovuto all’abbondanza di aggettivi e particolari.
Secondo il mio parere il racconto è un tipico esempio di scrittura “infodump”.
Chiedo scusa per la lunga spiegazione che segue. Purtroppo anch’io scrivo con una dose esagerata di “infodump”.
Mi spiego: l’autore ha l’esigenza (per me eccessiva) di spiegare tutto al lettore, di chiarire qualsiasi dubbio e retroscena, di non lasciare nulla in sospeso.
Vuole descrivere nei minimi particolari i luoghi, con ogni passato, presente e futuro dei personaggi coinvolti, perché non sopporta l’idea che il lettore non abbia tutto ben chiaro il grandioso scenario all’interno del quale ha inserito la sua storia. Tutto questo brucia gran parte del fascino e dell’incanto che quello scenario, quella trama, quei personaggi erano riusciti a stimolare nel lettore.
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- Domenico Gigante
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"cominciamo a vivere la nostra seconda vita quando ci rendiamo conto che ne abbiamo solo una".
Tu arrivi a scrivere una racconto del genere proprio mentre sto cominciando a vivere la mia seconda vita, e la torta avvelenata è un bel suggerimento.
Soprattutto perché Pietro e Maria vogliono vivere per sempre... INSIEME, hanno qualcuno con cui voler trascorrere la loro eternità, ma la tua soluzione si adatta anche ad altri casi, come ad esempio non aver più nulla da sognare o desiderare perché nell'impossibilità di farlo.
Eh, anche il Padre nel racconto di Domenico suggeriva il veleno. Ragazzi, state congiurando?
Ad ogni modo, complimenti: bellissimo, toccante, riuscitissimo. Nulla da eccepire.
Racconti alla Luce della Luna
Autore presente nei seguenti libri di BraviAutori.it:
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Gara d'inverno 2021/2022 - La Strega, e gli altri racconti
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