Te ne sei accorta, sì?

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'estate 2024.

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Yakamoz
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Te ne sei accorta, sì?

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13

Te ne sei accorta, sì?

La prima volta non successe al BadGirls. Ero troppo piccola e forse Raul non voleva rischiare che qualcosa non potesse filare liscio come doveva. Quel giorno mi mandò un SMS in cui c'era scritto di chiamarlo al più presto da un telefono pubblico a un numero diverso dal solito. Scesi da casa, erano circa le quattro di pomeriggio, e lo chiamai dal primo box telefonico che trovai in strada. Parlò di un affare, così li definiva lui gli incontri, accennando poi anche a una grossa cifra in ballo, e che buona parte di quei soldi sarebbero toccati a me se avessi accettato; risposi di sì, accettai subito senza pensarci molto, perché sapevo che prima o poi mi avrebbe chiamata per propormi una cosa del genere. Continuò quindi a spiegarmi che tutto si sarebbe svolto in un piccolo hotel nella periferia della città, vicino a una vecchia ma ancora funzionante stazione dei treni, quella di Stony Brook, che a parole mi fece capire come arrivarci con l'autobus, la metro, infine in treno. Specificandomi nei dettagli anche tutti i nomi delle strade che avrei poi dovuto percorrere a piedi per raggiungere la mia destinazione. E a grandi linee mi consigliò pure come avrei dovuto vestirmi e comportarmi: "Truccati poco, indossa una camicetta, jeans, sneakers, golfino o piumino leggero, profilattici in tasca… e usali, mi raccomando. Metti sotto però della biancheria sexy e, se ti senti nervosa, fatti una canna dieci minuti prima di entrare. Quando sei in camera con lui, tieni spento il cellulare per evitare che possano disturbarvi, e se, per imbarazzo, non sai da dove iniziare, suggeriscigli di fare il bagno insieme e vedrai poi come sarà più facile continuare."

Poche ore più tardi, verso le sei e mezzo di sera, dopo aver camminato in una periferia ordinata e solitaria, mi ritrovai di fronte al Munger Moss Hotel: questo era il suo nome. Neanche lì vidi gente o altro, solo ogni tanto qualche auto sfilare sulla strada, pochi negozi aperti. E a volte, a causa di quella quiete che regnava tutt'intorno, si sentivano dei cani abbaiare da lontano, forse dalle case in legno a schiera sulla collina che intravedevo dalla mia prospettiva; mentre il vento, prima impercettibile, iniziava a scuotere i rami frusciando tra le foglie dei platani che costeggiavano, su entrambi i margini, quel viale da me poc'anzi percorso nel mio passo veloce per arrivare fin lì. Ma nell'istante in cui mi apprestai ad attraversare la strada per portarmi verso l'entrata, una musica mi distrasse e mi guardai intorno per capire da dove provenisse. Era distante da me, ma si vedeva bene lo stesso: un suonatore nero di sax, con la schiena addossata alla vetrina di un negozio, a farsi ascoltare osservando sottecchi il viavai dei passanti. Doveva essere uno di quei mendicanti che si esibiscono in strada, dato che accanto ai suoi piedi vi era posto il fondo di una scatola di metallo, in cui, eventualmente, avrebbe poi tintinnato il rumore delle monete di poco valore che qualcuno gli avrebbe lanciato. Ma in quel momento, nella strada deserta, a parte me, non c'era proprio nessuno da guardare, o che lo guardava, o ascoltava. Per lui, però, sembrava che questo non fosse molto importante: né cielo né terra esistevano per lui. E con gli occhi coperti da occhiali scuri, un piccolo cappuccio sulla testa e la barba lunga striata di bianco, imperterrito articolava le dita sulle leve del suo strumento, dando fiato e anima al lamento della sua musica. Per me, invece, tutto ciò, che in quel momento vedevo e sentivo giungere alle mie orecchie, mi suscitava dentro un sentimento troppo difficile da comprendere, simile a quello che si prova verso un qualcosa di nemico, ostile, che ti appare all'improvviso e tu non sai il perché.

Ma quelle distrazioni, a cui pure prima i miei sensi troppo spesso si erano concessi, magari erano solo un pretesto per prendere il maggior tempo possibile e giustificare le mie esitazioni a ciò che avrei dovuto fare quella sera. Guardai perciò l'orologio sul polso, mancavano pochi minuti, non potevo più indugiare perché l'avevo promesso che ci sarei andata. Attraversai la strada, camminai verso l'entrata e spinsi la pesante porta dell'edificio, non bloccata dalla serratura e accostata al battente solo dalla molla chiudi-porta. Appena fui nell'androne e l'anta si richiuse morbidamente da sé alle mie spalle, un click e dal soffitto una plafoniera sembrò magicamente brillare soltanto per me, come se fosse stata lì ad attendermi, poi la logica mi suggerì che in realtà qualche rilevatore di movimento ne avesse provocato l'accensione. Anche qui il deserto, e dietro il banco della reception nessun portiere o altri. Notai che c'era l'ascensore, ma rinunciai a usarlo per il timore di essere sola per davvero e scelsi di avviarmi su per la rampa delle scale. E intanto che furtiva e silenziosa mi arrampicavo sui gradini e nelle mie piccole soste sui pianerottoli, aperti da ambo i lati verso i corridoi delle camere, sentivo provenire un quasi impercettibile, ma certo, brusio di voci che smascheravano la finta desolazione di quel luogo, sfilai dalla tasca del giubbotto il mio biglietto scritto poche ore prima per essere sicura di non sbagliare, e lessi: quarto piano a destra, camera numero 190-91.

Spensi il cellulare, come Raul mi aveva detto di fare, e bussai con le nocche alla porta. Aspettai meno di un minuto, ma nessuno rispose. Picchiettai di nuovo con più insistenza. Ancora silenzio. Un dubbio mi assalì: avevo forse commesso un errore nel segnare il numero? Misi allora una mano sulla maniglia, abbassandola delicatamente, e spinsi l'anta fino a farla spalancare per tutta la sua ampiezza. Oltre la soglia, mi inoltrai con circospezione in un breve corridoio; sospeso tra ombre e luce. A sinistra e di fronte a me, due porte indicavano spazi più intimi: il bagno e una cabina armadio. A destra, un arco, simile a un'enorme bocca spalancata, conduceva alla camera principale. Lo attraversai e inaspettatamente mi investì, facendomi chiudere di riflesso gli occhi di scatto, un fascio di luce del sole basso che filtrava da una fessura delle tende a rullo che cadevano sulla la parete esterna interamente finestrata. Li schiusi e vidi un uomo sulla sessantina, non brutto, vestito in modo distinto e seduto in una poltroncina bianca accanto a un letto coperto da una trapunta rosa pallido e diversi e gonfi cuscini.
«Ti stavo aspettando», fece lui a quel punto.
«Beh, eccomi qui!», risposi come un'imbranata e abbozzando una specie di sorriso.
«Come ti chiami?», chiese poi.
«Denise!», esclamai dopo averci riflettuto un po' e, non so perché, dissi il nome della mia mamma, non il mio.
«Mi avevano detto un nome diverso. Forse si saranno sbagliati.»
«Sì», confermai.
«Poco importa. Anzi, voglio dirti una cosa…», e si interruppe.
«Cosa?», lo spronai, curiosa.
«Che di persona sei più bella della ragazza in foto. Sempre se eri tu in quelle foto, Denise», insinuò lui.

Non conoscevo la storia delle fotografie, che probabilmente erano quelle che ogni tanto venivano scattate nel locale, ma forse questo incontro era per davvero di un'altra ragazza che poi aveva rinunciato.
«Ero io in quelle foto», riconfermai. Non sapendo però se stessi dicendo una bugia o la verità.
«Allora, Denise, vuoi qualcosa da bere?», chiese ancora; risposi con una smorfia che non significava né sì né no. «Faccio io», continuò lui. Ma dopo che si alzò per chiudere la porta d'ingresso della camera, che io avevo lasciato aperta, e poi andare verso un piccolo mobile bar per afferrare una bottiglia e versare qualcosa in un lucido bicchiere, dissi: «No! No!» E lo bloccai e mi bloccai pure io.

Mi bloccai, con lui che mi guardava con un'espressione poco convinta, senza dire parola, perché mi resi conto che l'impeto di quelle certezze, che nella mia fantasia avevo troppo facilmente dato per scontato qualche ora prima, allo stesso modo erano andate a infrangersi contro la realtà di quei momenti, e questo mi disorientava, mi rendeva insicura, e non sapevo più a quel punto che fare e se dovessi essere io per prima a muovermi o aspettare l'inevitabile fatalità degli eventi: tenendo conto anche della mia timidezza e della mia caratteriale tendenza all'inibizione, che rendevano il tutto più complicato e incerto. Ed ebbi il timore che lui avrebbe potuto intuire quello che provavo dentro, e per questo indispettirsi, rinunciare e poi, di lì a poco, con un pretesto mandarmi via in qualche modo. Ma un pensiero mi venne in soccorso, perché mi ricordai di quello che mi aveva suggerito Raul se si fosse verificata una tale circostanza: la storia di lavarci assieme. Glielo proposi e disse di sì. Andammo quindi in bagno. Era strettissimo e la doccia non c'era. Ci spogliammo, io non del tutto e rimasi in reggiseno e mutandine. Entrammo poi nella vasca, rimanendo seduti di fronte con le gambe al petto, e io, da una sua risata beffarda, intuii che lui era abbastanza divertito, vista la mia età, dalla mia poca esperienza. Ma io, mi ripeto, mi sentivo soltanto a disagio, diffidente, anche in un certo senso ridicola per quello che stava accadendo. Capimmo perciò entrambi che non aveva senso stare lì, così uscimmo, e dopo esserci asciugati, andammo a stenderci sul letto.

In quel momento ero completamente soggiogata in quel giro di vite di quegli eventi in cui io stessa ero andata da sola a incastrarmi. Come in un gioco delle parti, nel quale io non ero esattamente una vittima, e da cui avrai potuto facilmente uscirne fuori se solo l'avessi voluto. Ma, a dispetto di ogni cosa, perché Raul si sarebbe arrabbiato con me se avessi fallito già al primo incontro e un'altra chance come quella non me l'avrebbe mai più concessa, volevo e dovevo a ogni costo continuare, nonostante il mio umore e le mie paure mi facessero sentire a pezzi già prima che tutto per davvero cominciasse.
Chiese, senza impormelo, di fargli delle cose e se anch'io volevo che lui mi facesse delle cose. Dissi in entrambi i casi di no o gli feci intendere di no. Non lo ricordo bene. Anzi, lo avevo dimenticato. Una cosa gli chiesi. Ma che non c'entrava nulla con le robe di sesso che intendeva lui. Gli chiesi di chiudere completamente le fasce delle tende perché non volevo che dall'esterno qualcuno, magari da una finestra dello stabile di fronte, potesse accidentalmente vederci mentre lo stavamo facendo. Le abbassò, e in camera si creò penombra, troppa, quasi buio, e lui per compensare la poca luce mosse la levetta dell'interruttore e illuminò il lampadario.

Quando mi riguardò, seminuda, ma sempre esitante e ferma come un tronco, distesa sul letto, accelerò i tempi. Sfilò le mie mutandine inzuppate d'acqua, mi allargò le gambe e le piegò all'indietro, si inginocchiò tra di esse, sollevò con due dita al centro la fascia elastica del mio push-up, scoprendomi i seni, e subito la rilasciò sulla parte alta del torace con uno schiocco: che a me sembro risuonare nel petto simile a un colpo secco e sordo di un tamburo. Si abbassò poi su di me e le sue mani iniziarono a stringere, palpare, graffiare, talvolta provocandomi dolore, mentre il suo fiato di tabacco sul mio volto, cercando con la sua bocca baci che respingevo, sospirando mi farfugliava frasi con parole volgari, alternate ad altre gentili e affettuose, di cui però non riuscivo mai ad afferrarne pienamente il significato, perché non mi importava saperlo; ma che, a ogni modo, a lui sembravano dargli carica, frenesia, eccitarlo sempre più.

In fondo era solo un pezzo di carne che doveva entrare in un altro pezzo di carne. Soltanto di questo si trattava! Non mi avrebbe poi fatto tanto male. Non ci sarei morta per questo!

Eppure, quando ciò avvenne, fu come essere trafitta per sprofondare in un liquido nero, vischioso, con l'impressione e la mia voglia ostinata di risalire a galla. Ma, invece, di tutti i miei slanci verso l'alto, in superficie riemergeva soltanto la percezione del mio corpo, ripetutamente schiacciato sempre più giù, mentre le molle della rete del letto cigolavano, e io, col fiato dei miei respiri spezzati dai suoi colpi e le sue spinte, che cercavo a ogni boccata d'aria di trattenerne più che potevo nei polmoni, lottando, per non sentirmi del tutto soffocare.

Non durò, credo, più del tempo che basta per fumare una sigaretta. Si sollevò da me per adagiarsi sulla sua parte libera del letto, mentre io rimasi sdraiata, muta e sempre immobile con le gambe divaricate a osservare, una alla volta, le pareti dipinte di tenero rosa che avvolgevano la camera, bloccandomi alla fine a scrutare il lampadario acceso in bilico dal bianchissimo soffitto: sette corolle di fiori in vetro delicatamente sfumate, sempre di rosa, e allo stesso modo sagomate. Pensai alla storiella dell'ape, all'odore umido dei fili d'erba di un prato dopo che è piovuto, ai petali, ai pistilli e al polline di fiori profumati; cioè a tutto quello che mi era stato raccontato da piccola per in qualche maniera spiegarmi l'amore fisico tra due persone. Nulla di ciò era stato. Inoltre, la stanchezza, che già in precedenza avevo avvertito, in quegli istanti mi aveva del tutto avvinta. Voglia di dormire, che non proveniva soltanto dal corpo, ma anche dalla tristezza del desiderio di non pensare più a nulla e sparire nel riposo di un sonno che sapevo bene di non potermi concedere. Cercai così di alzarmi, ma farlo sembrava avesse richiesto un'energia che semplicemente non riuscivo a raccogliere dentro. Dovevo però cercare lo stesso di muovermi, andare via da lì, altrimenti sarei impazzita e quel letto sarebbe diventato la mia tomba. Balzai allora con uno scatto nervoso, ma fu più un riflesso di volontà che forza muscolare, sulla grigia moquette a bouclé. Mi rivestii di corsa, andai per un attimo a rifugiarmi nel bagno e guardandomi allo specchio cercai con le mani di sistemarmi i capelli tutti scompigliati.

Prima di lasciare la camera, lui, nudo e rimasto disteso sul letto, disse che ero una bella ragazza, di preciso graziosa bambina mi chiamò, malgrado non avessi ancora molta fiducia nel mio corpo, e che gli sarebbe piaciuto rivedermi se ciò fosse stato possibile e anch'io lo avessi voluto. A tal proposito mi chiese il mio numero di cellulare, che io scandii una cifra alla volta, fin troppo lentamente, dato che in quel momento avevo la bocca impastata di saliva e non riuscivo ad articolare bene i suoni delle parole. Lui neppure lo annotò da qualche parte, perché disse che aveva buona memoria e non lo avrebbe dimenticato, come non avrebbe dimenticato la bellezza dei miei occhi neri. E almeno fu gentile in questa sua frase. Appena dopo, tirandosi su dal letto, sfilò un biglietto da visita dal taschino della giacca appoggiata sul dorso della piccola poltrona in compagnia degli altri suoi indumenti, che allungando un braccio mi passò fra le dita, dove c'era stampato un numero di cellulare con aggiunto a penna un nome: Sonny Jankis. Il numero sì, ma non credo che quello fosse il suo vero nome. Non confermai né risposi di no, ma gli spiegai che avrebbe dovuto sempre accordarsi anticipatamente con Raul, perché non potevo accettare appuntamenti in totale autonomia. Lui, un po' deluso, forse perché sperava, oltre a quella scopata, che potesse crearsi altro fra noi, annuendo con la testa fece intendermi che aveva capito. Però quell'uomo, di cui non conoscevo neanche con certezza il nome, cosa che lui altrettanto poteva dire di me, e che, a dispetto dei suoi propositi, mai più mi chiamò e io neppure mai cercai o chiesi a qualcuno chi realmente fosse, sapeva, o aveva intuito, che quella era stata la prima volta che lo avevo fatto per soldi, ma non anche che era stata la prima volta che lo avevo fatto in assoluto. Credendo che quella macchia rossa al centro di quel letto disfatto, su quella federa intrisa di umori e sudore, fosse dovuta all'inizio del mio ciclo. Addirittura mi suggerì, cosa davvero squallida, di usare le spugne mestruali per evitare che nelle eventuali future circostanze certi inconvenienti potessero creare irritazione per lui, o altri, e imbarazzo per la sottoscritta. Si mosse ancora, si mise seduto sul bordo del letto, tirò il cassetto del comodino al suo lato. Sul cui piano, in aggiunta all'abat-jour, c'era poggiato un piccolo vaso con altri fiori, ma questi erano veri: gladioli rossi, uguali nel tono del colore alla mia macchia di sangue su cui poc'anzi il mio sguardo si era soffermato. Prese una mazzetta di fruscianti banconote da cinquanta dollari legata con due elastici, sfilandone poi altri trecentocinquanta dal suo portafogli come extra per me, perché, pur non essendomi dimostrata completamente disponibile, avevo comunque accettato di farlo senza precauzioni. Ma io non avevo accettato un bel niente, mi ero solo dimenticata di quel piccolo dettaglio, che poi tanto piccolo non era, e lui ne aveva semplicemente approfittato. Per questo, nei mesi che seguirono, ho avuto di frequente il dubbio - anzi no, la quasi certezza - che fu esattamente da quella sera che iniziarono tutti i miei problemi. Restava tuttavia il fatto che in poco meno di due ore, incluso il tempo per raggiungere l'albergo, avevo realizzato una cifra che sembrava essere una piccola fortuna. Afferrai i soldi, li infilai nella tasca interna del giubbotto, lo salutai e andai via come fuggendo.

La notte stava calando quando uscii fuori dall'hotel e i lampioni sulla strada erano accesi. L'aria più fredda e immobile rispetto al mio arrivo e mi pizzicava la faccia. Feci un respiro profondo e d'istinto volsi la testa dove prima c'era il mendicante e il suono del suo sax. Ma erano spariti, e pensai che in realtà non fossero mai esistiti, e che quello che avevo visto e ascoltato prima erano stati solo il frutto della mia immaginazione; poi un altro suono, il rimbombo di un clacson di un taxi parcheggiato lungo il marciapiedi, richiamò la mia attenzione. Mi avvicinai e dal finestrino abbassato l'autista mi disse: «Mi hanno chiamato dall'agenzia per dirmi di venire sotto questo albergo ad aspettare una ragazza. Sì, una ragazza giovane, bruna, carina, coi capelli lisci, lunghi e di nome Mary. È forse lei, signorina?» Intuii che l'avesse mandato Raul come premio perché mi ero comportata bene.
«Sì, sono io Mary. Può portarmi subito a casa, per favore?», lo implorai con un filo di voce.
«Certo, signorina!», rispose lui, che vedendomi sola e agitata cominciò a guardarmi con stupore, incuriosito, e capii, ma non so come spiegarlo, che c'era come tenerezza nel suo sguardo.

Lungo il tragitto, che apparentemente mi riportava indietro, pensai che solo un istante prima di entrare in quella stanza, camminavo come in equilibrio sopra una linea; poi la linea l'avevo varcata. Probabilmente per la necessità di quel decoro che tutti quei soldi per un bel po' di tempo mi avrebbero garantito e che in altra maniera non sarei mai stata capace di guadagnare, o per una mia voglia di ribellione che doveva trovare un suo senso e sfogo nel dimostrare a me stessa e agli altri che pure io potevo essere desiderata, amata come Lucy, e valevo qualcosa, anche se era stato solo un prezzo quello che mi avevano dato; ma sentivo, ugualmente, con amarezza, che oltre al mio imene qualcos'altro si era irrimediabilmente rotto dentro di me, e che da quel momento in avanti sarebbe stato difficile tornare indietro. Ma forse il mio era solo un modo contorto per giustificarmi, un alibi o una facile bugia da credere, per spigare e capire quanto successo, e la verità, invece, molto più semplice: cioè che non c'era assolutamente nulla da spiegare o capire, e facevo proprio schifo come persona.

Improvvisamente il taxi voltò in una strada lungo la costa e di nuovo un fascio di luce, come in quella camera, mi ferì gli occhi e sentii l'autista dire:
«Bello qui, vero, signorina?»
Con una mano mi schermai la vista e guardai in controluce. Aveva ragione lui: perché ora era completamente diverso da prima. Il cielo era tutto un pavoneggiare di gialli, rossi e toni purpurei sopra un mare increspato di liquido d'oro; e le nuvole basse dai contorni infuocati, mentre il sole, immerso già a metà di quell'orizzonte d'acqua, andava morendo, in certi punti apparivano come screziate di madreperla e di altre sfumature di colori continuamente mutanti, indefinibili. E intanto che stavo lì e osservavo ogni cosa, gli occhi mi si gonfiarono e sentii nella mia bocca anche il sale di quel mare di fronte; ma in realtà erano solo le mie lacrime che, rigandomi le guance, scendevano a toccarmi le labbra.
«Perché piange, signorina?», fece con voce esitante l'autista.
«È stato un brutto sogno», risposi.
«Ma adesso è passato, vero?»
«Sì, ora sto meglio», dissi, ma era una bugia.
«Non pianga, la prego! La vita è giovane e bella come lei, signorina!», continuò ancora lui.

Mi incattivii a quella sua risposta e con rabbia presi dalla tasca del giubbotto il biglietto da visita di quell'uomo, rilessi lentamente quel nome e il suo numero di cellulare, promettendomi di non dimenticarli, e lo strappai con le dita in tanti piccoli pezzi, abbassai poi di poco il vetro al mio lato e li lanciai fuori dal finestrino, che rapidamente li aspirò, facendoli volare via alle mie spalle per disperderli come coriandoli nella corrente d'aria che l'auto creava avanzando.
Ultima modifica di Yakamoz il 31/08/2024, 3:45, modificato 23 volte in totale.
Yakamoz
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Re: Te ne sei accorta, sì?

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Questa volta, non avendo un racconto, propongo un estratto: capitolo 13 di un romanzo che, dopo un lungo tempo di scrittura (e tante riscritture), ho terminato circa 3 mesi fa. Naturalmente è un estratto, cioè solo una piccola parte di un testo molto più ampio: quasi mezzo milione di battute in 38 capitoli e 18 appendici. È ambientato negli USA, e non perché sono esterofilo; avrei potuto benissimo ambientarlo in Italia, ma mi serviva una società più "ricca e miserabile" per acconciarlo nel modo che mi ero prefisso. E qui si parla di Mary: che insieme ad altri/altre è una delle protagoniste che lo abitano, parlo del testo. Il capitolo 13 in realtà è un'appendice, ma ha lettura a sé stante, e può benissimo essere inteso come piccolo racconto.

Piccole note sul romanzo: la storia è raccontata in prima persona dal punto di vista dei protagonisti, combinando spesso il presente o passato remoto come tempi verbali. Il lettore può quindi conoscere i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro esperienze in modo diretto. L'eccezione è il capitolo 2, che è scritto in terza persona, per ottenere un effetto di suspense e di attesa. Inoltre, la storia è ricca di anticipazioni e posticipazioni temporali narrative. Queste, da una parte, possono svantaggiare l'emergere della trama, mentre dall'altra, per le stesse ragioni, favoriscono l'intento di creare un senso di mistero e curiosità.

Genere: formazione/psicologico/drammatico.

Solita premessa: mi chiamo Antonio Giordano. Se mi dovete nominare in qualche commento, sarei lieto se mi chiamaste Antonio, grazie.
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@Yakamoz
… sicuramente di una cosa si sarà accorta, di essere già sulla strada segnata per lei da Raul… "uomo di mondo".
Efficaci descrizioni del pre/durante/post incontro… efficaci al punto che mi sono letto tutto il racconto, cosa che non faccio solitamente quando il numero delle battute mi fa dire: Troppo lungo, non je la posso fa'! :-)
Jacopo
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Jacopo Serafinelli ha scritto: 22/06/2024, 15:02 @Yakamoz
… sicuramente di una cosa si sarà accorta, di essere già sulla strada segnata per lei da Raul… "uomo di mondo".
Efficaci descrizioni del pre/durante/post incontro… efficaci al punto che mi sono letto tutto il racconto, cosa che non faccio solitamente quando il numero delle battute mi fa dire: Troppo lungo, non je la posso fa'! :-)
Jacopo
Ciao Jakopo,

Ti ringrazio per aver letto il mio racconto. Spero non ti abbia annoiato con le mie 21.000 battute!
Apprezzo anche il tuo voto.

Ho già letto il tuo racconto, ma temporeggio un po' prima di espormi in "commenti e voti", in attesa che arrivino altri: giusto per avere una visione più attenta/obbiettiva dei racconti di questa gara.

A presto,
Antonio
Ultima modifica di Yakamoz il 23/06/2024, 23:36, modificato 1 volta in totale.
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Un racconto a mio parere scritto benissimo, molto efficace nel rendere sia lo squallore della situazione sia i sentimenti della protagonista. Peccato che (come premesso dall'Autore) non si capiscano appieno le motivazioni di Mary/Denise oltre al rapido arricchimento, ma è sufficiente ciò per giustificare la perdita della verginità con uno sconosciuto? A questo punto, rimango in attesa di informazioni sugli altri capitoli. Comunque, dall'alto del primo posto nella gara precedente :), mi espongo e do un bel 5.
Saluti
Yakamoz
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Andr60 ha scritto: 02/07/2024, 13:38 Un racconto a mio parere scritto benissimo, molto efficace nel rendere sia lo squallore della situazione sia i sentimenti della protagonista. Peccato che (come premesso dall'Autore) non si capiscano appieno le motivazioni di Mary/Denise oltre al rapido arricchimento, ma è sufficiente ciò per giustificare la perdita della verginità con uno sconosciuto? A questo punto, rimango in attesa di informazioni sugli altri capitoli. Comunque, dall'alto del primo posto nella gara precedente :), mi espongo e do un bel 5.
Saluti
Perché Mary si svaluta per "poco"? La risposta è facile: leggere quello che si è scritto prima per capirlo. Ma poi Max, giustamente, potrebbe arrabbiarsi con me perché mi metto a parlare di un "romance" essendo pure una storia d'amore, e non di un racconto – e questo non sarebbe né giusto né corretto in questo gioco che, appunto, è una gara di racconti. Posso solo dire che la protagonista, e non solo lei, rappresenta una ragazza, non fortunata, che vive in un mondo ostile, già dalla sua nascita in una famiglia disfunzionale, e a cui non resta una volta quasi adulta che la violenza e il sesso, non solo contro gli altri ma anche verso se stessa, come metodi di comunicazione/affermazione. In una società (afflitta da quella bruttezza, come direbbe Namio Intile) sempre più malata, isolante, nel quale tutto ha un prezzo (anche le persone) e in cui lei è in parte vittima, senza un'apparente via di fuga.

Poi io penso che un modo di raccontare descrittivo, dettagliato, riflessivo, e crudo se necessario, che però richiede tante battute per sperare di essere efficace, sia proprio il mio habitat congeniale/naturale; soprattutto per un animo un po' travagliato come il mio. Ci vuole soltanto volontà, impegno, moltissima pazienza e, sembra paradossale dirlo, però è così: avere una costante insoddisfazione (pure se è un hobby farlo) per ciò che si è scritto; almeno è così per me.

Sul resto della storia non posso dire molto. Finisce come la vita, un po' bene e un po' male, ma sempre con tanta speranza per un futuro migliore e diverso.

Ti ringrazio molto, Andr60, per avermi letto, per il tuo giudizio positivo e il voto massimo. Anzi, ne sono più che lusingato.

Un caro saluto, Andr60

Antonio
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Messaggio da leggere da Culture »

A me piacciono i racconti brevi quindi ho letto il suo in parte, concluderò domani.
Mi piace il variare dei verbi a seconda dei momenti e trovo il fatto della verginità perduta umano e comprensibile. In ogni caso, il sesso è come il pane, lo puoi gustare in tanti modi e in molte forme… Per il voto aspetto, mi sto ambientando.
Yakamoz
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Yakamoz »

Monet569 ha scritto: 08/07/2024, 15:57 A me piacciono i racconti brevi quindi ho letto il suo in parte, concluderò domani.
Mi piace il variare dei verbi a seconda dei momenti e trovo il fatto della verginità perduta umano e comprensibile. In ogni caso, il sesso è come il pane, lo puoi gustare in tanti modi e in molte forme… Per il voto aspetto, mi sto ambientando.
Ciao Monet569,

grazie per aver letto il mio racconto, anche se in parte. Mi fa piacere che apprezzi il variare dei verbi e la scelta di affrontare il tema della "verginità perduta" in modo umano e comprensibile, anche se il "racconto" non ha come tema/argomento solo il sesso. Il sesso è solo un pretesto per parlare anche di altro. E spero che questo messaggio arrivi a chi mi legge.

Capisco, dato che sei nuova (benvenuta!), che ti stai ambientando e che quindi non ti senti pronta a dare un voto. Neppure io sono un veterano di questo sito, difatti sono un "foglio bianco", cioè iscritto non da molto: attivo su BraviAutori da meno di un anno.

Sulla questione delle battute, hai perfettamente ragione; le "troppe battute" possono appesantire un racconto breve. E mi fa piacere, come "autore senza troppe pretese" lo dico, che questo non ti ha scoraggiata, decidendo di dividere la lettura in più parti. Grazie pure di questo.

Invece, per quanto riguarda il voto, non importa se alto o basso, non ci tengo al voto. Votare è come dare un prezzo alle cose. E non mi piace essere "prezzato". Apprezzato sì! Ma prezzato no! Quello che davvero conta per me è che ciò che scrivo, e questo è il vero voto, susciti emozioni e riflessioni in chi mi legge. Il voto fatto di numeri conta poco, è solo un piccolo qualcosa in più.

Ti auguro di trascorrere una bella serata, Monet569

Antonio

A rileggerci…
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Lodovico
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Scritto molto bene, io sono uno da racconti brevissimi e scrivere così tanto per me è praticamente improponibile. Tenendo poi conto che è solo una parte... Comunque ha la giusta ambientazione, personaggi definiti e un po' di "pepe" che ci sta.
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Yakamoz
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Lodovico ha scritto: 10/07/2024, 13:37 Scritto molto bene, io sono uno da racconti brevissimi e scrivere così tanto per me è praticamente improponibile. Tenendo poi conto che è solo una parte… Comunque ha la giusta ambientazione, personaggi definiti e un po' di "pepe" che ci sta.
Bravo
Ciao Lodovico,

ti ringrazio di avermi letto, nonostante il testo abbastanza lungo. Grazie anche per il "bravo". Partecipare a una gara con racconto lungo forse mi penalizza un po'. Perché magari qualcuno si "scoccia" di leggerlo, preferendo qualcosa di più sintetico e immediato. L'ideale, penso io, sarebbe un racconto tra 10.000 e 15.000 batt. Ma, purtroppo, non sono riuscito a completare un racconto che avevo in mente e ho rimediato, per la voglia di partecipare lo stesso, con qualcosa che avevo già pronto; che comunque ha lettura a sé stante.

Cari saluti,

Antonio
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Ho letto il racconto, che in realtà è parte di un libro, e devo dire davvero interessante. Le atmosfere un po' grigie, da periferia, che si mescolano con le sensazioni della protagonista, lo squallore di certi ambienti, davvero descritto tutto in un modo molto "vivo" da risultare quasi un "pugno nello stomaco" e consideralo un complimento, perché vuole esserlo hai descritto tutto in modo essenziale, crudo, ma nello stesso tempo "umano". Il testo ha sicuramente una lettura a sé stante, ma è comunque parte di un qualcosa di più grande, e ci sono delle domande che restano senza risposta, cosa davvero ha spinto la ragazza a prendere quella strada?, Perché? Come è arrivata a conoscere Raul?
Comunque tutto ciò non lede la lettura, anzi. I miei complimenti, mi ha attirato molto nonostante non sia il mio genere.
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Marirosa ha scritto: 16/07/2024, 10:37 Ho letto il racconto, che in realtà è parte di un libro, e devo dire davvero interessante. Le atmosfere un po' grigie, da periferia, che si mescolano con le sensazioni della protagonista, lo squallore di certi ambienti, davvero descritto tutto in un modo molto "vivo" da risultare quasi un "pugno nello stomaco" e consideralo un complimento, perché vuole esserlo hai descritto tutto in modo essenziale, crudo, ma nello stesso tempo "umano". Il testo ha sicuramente una lettura a sé stante, ma è comunque parte di un qualcosa di più grande, e ci sono delle domande che restano senza risposta, cosa davvero ha spinto la ragazza a prendere quella strada?, Perché? Come è arrivata a conoscere Raul?
Comunque tutto ciò non lede la lettura, anzi. I miei complimenti, mi ha attirato molto nonostante non sia il mio genere.
Ciao Marirosa,

grazie per avermi letto e per il tuo bel commento. Sì, come testo è un po' "particolare" il mio. Disturbante per certi versi e che magari a uno spirito romantico, sognatore e leggero, come si evince dal tuo "Inaspettatamente", può risultare alla lettura un po' indigesto, essendo noi un po' agli antipodi come Autori; in questa gara intendo. Verso la fine del tuo commento ci sono dei "perché" a cui non posso rispondere diversamente da come ho fatto con Andr60. Quando scrivi qualcosa di molto ampio, si crea, quasi per caso, la necessità di scrivere cose che neppure a me piacciono: "come cazzotti allo stomaco" (riprendo una tua frase); ma necessari per avere una trama completa e senza vuoti. Non posso scrivere solo rose e fiori. Perché pure io rileggendomi dico fra me: "Sembra un testo scritto da uno scrittore maledetto!", ma non è assolutamente così. Non sono il "Baudelaire" della prosa.

Ho letto anche il tuo racconto, però dammi un po' di tempo prima di commentarlo. Come prima impressione ti posso dire che mi ha ricordato un po' 9 settimane ½, un Harmony, qualcosa comunque decisamente di letteratura "Rosa" come stile e contenuti, più adatti a una teenager rispetto a me che sono un maschietto. Apprezzabile come racconto nel suo genere, ma un po' da "revisionare" nella punteggiatura: e dove spesso c'è pure una virgola tra il soggetto e il verbo (o tra verbo e oggetto), e non è una critica la mia, perché ci stanno. Hai scritto un racconto che merita nel genere a cui appartiene. Quindi aggiustalo!

Senza volerlo ho scritto una risposta che vale pure come commento al tuo racconto. Semmai faccio un copia e incolla della parte in cui parlo di "Inaspettatamente".

Ma poi si sposano alla fine i due innamorati? Perché "inaspettatamente" ricorda un po' i romanzi d'appendice, la cui maggiore esponente, almeno come fama, di questo genere in Italia è la Invernizio, scrittrice tra '800 e '900, più di 100 anni fa.

Cari saluti e a rileggerci,

Antonio

Voto 4/5 (per il tuo)
Namio Intile
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Ciao, Antonio.
È un lavoro di alto livello, mezzo milione di battute, e questo pare il capitolo numero tredici su diciotto mi pare tu abbia scritto. Il capitolo nella fattispcecie ha poi una struttura per cui ben si presta a essere utilizzato come racconto auto conclusivo.
Hai un’ottima prosa, precisa —forse troppo, ma poi ti dirò — anche veloce nella seconda parte e mi piace come riesci a fondere i discorsi liberi indiretti con l’io narrante. Perfetta la concordanza dei tempi verbali e la prima persona si accorda bene al punto di vista della protagonista.
Provo a riportarti il testo con le piccole cose che non mi tornano.


La prima volta non successe al BadGirls. Ero troppo piccola e Raul non voleva rischiare che qualcosa non potesse filare liscio come doveva (la precisazione è utile?) Quel giorno mi mandò un SMS sul cellulare (anche qui precisi, ma dove se non nel cellulare?) in cui c'era scritto di chiamarlo al più presto da un telefono pubblico a un numero diverso dal solito. Scesi da casa, erano circa le quattro di pomeriggio, e lo chiamai dal primo box telefonico che trovai in strada. Parlò di un affare, così li definiva lui gli incontri, accennando poi anche a una grossa cifra in ballo, e che buona parte di quei soldi sarebbero toccati a me se avessi accettato; risposi di sì, accettai subito senza pensarci molto, perché sapevo che prima o poi mi avrebbe chiamata per propormi una cosa del genere. Continuò quindi a spiegarmi che tutto si sarebbe svolto in un piccolo hotel nella periferia della città, vicino a una vecchia ma ancora funzionante (il lettore deve proprio sapere che è funzionante?) stazione dei treni, quella di Stony Brook (il nome l’avrei messo subito o lo avrei evitato), che a parole mi fece capire come arrivarci con l'autobus, la metro, infine in treno. Specificandomi nei dettagli anche tutti i nomi delle strade che avrei poi dovuto percorrere a piedi per raggiungere la mia destinazione. E a grandi linee mi consigliò pure (pure e poi appesantiscono la lettura) come avrei dovuto vestirmi e comportarmi: "Truccati poco, indossa una camicetta, jeans, sneakers, golfino o piumino leggero, profilattici in tasca… e usali, mi raccomando. Metti sotto però della biancheria sexy e, se ti senti nervosa, fatti una canna dieci minuti prima di entrare. Quando sei in camera con lui, tieni spento il cellulare per evitare che possano disturbarvi, e se, per imbarazzo, non sai da dove iniziare, suggeriscigli di fare il bagno insieme e vedrai poi come sarà più facile continuare."

Poche ore più tardi, alle 18:25 (non siamo in America? Ma poi perché questa maniacale precisione? Poche ore più tardi, verso le sei), dopo aver camminato in una periferia ordinata e solitaria, mi ritrovai di fronte al Munger Moss Hotel: questo era il suo nome. Neanche lì vidi gente o altro, solo ogni tanto qualche auto sfilare sulla strada, pochi negozi aperti. Ma a volte si sentivano, per via di quella quiete che c'era tutt'intorno, dei cani abbaiare da lontano, forse da quelle case in legno a schiera sulla collina che riuscivo a scorgere dalla mia prospettiva,(mi fermerei forse due punti, la proposizione è un po’ incasinata) mentre il vento, prima leggero (spedifichi e appesantisci le scorrevolezza della frase), in quegli attimi iniziava a far crepitare i rami alle mie spalle, soffiando tra le fronde del filare di platani in quel viale da me (e da chi altri?) poc'anzi percorso nel (a?) mio passo veloce per arrivare fin lì. Ma nell'istante in cui mi apprestai ad attraversare la strada per portarmi verso l'entrata, una musica mi distrasse, perciò (è inutile) mi guardai attorno per capire da dove provenisse. Era distante da me, ma si vedeva bene lo stesso: un suonatore nero (è una categoria? Esistono i suonatori bianchi, quelli gialli, quelli rossi?) di sax, con la schiena addossata alla vetrina di un negozio, a farsi ascoltare osservando sottecchi il viavai dei passanti. Doveva essere uno di quei mendicanti che si esibiscono in strada, dato che accanto ai suoi piedi vi era posto il fondo di una scatola di biscotti in latta, in cui, eventualmente, avrebbe poi tintinnato il rumore metallico delle monete di poco valore che qualcuno gli avrebbe lanciato (aveva una vista tanto acuta? Ricordati che hai scelto di adoperare un io narrante. È la tua protagonista senza nome a vedere e a parlare al lettore.Il quale in seguito potrà chiedesi, ma perché aveva voglia di riflettere sulla buatta del suonatore e non su quanto stava andando a fare. Mi sarei aspettato una riflessione piuttosto che una descrizione.)  Ma in quel momento, nella strada deserta, a parte me, (che senso ha chiedere l’elemosina in un posto del genere?) non c'era proprio nessuno da guardare, o che lo guardava, o ascoltava. Per lui, però, sembrava che questo non fosse molto importante: né cielo né terra esistevano per lui. E con gli occhi coperti da occhiali scuri, un piccolo cappuccio sulla testa e la barba lunga striata di bianco, imperterrito articolava le dita sulle leve del suo strumento, dando fiato e anima al lamento della sua musica. Per me, invece, ogni cosa che in quel momento vedevo e sentivo giungere alle mie orecchie mi suscitava dentro come un qualcosa (direi un sentimento) di nemico, ostile, che ti appare all'improvviso e tu non sai il perché.

Ma quelle distrazioni, a cui pure prima i miei sensi troppo spesso si erano concessi, magari erano solo un pretesto per prendere il maggior tempo possibile e giustificare le mie esitazioni a ciò che avrei dovuto fare quella sera. Guardai perciò l'orologio sul polso, mancavano pochi minuti, non potevo più indugiare perché l'avevo promesso che ci sarei andata.(Ecco, qui hai creato con maestria una seconda possibilità alla tua protagonista per una riflessione sul senso delle sue azioni. Ma la lasci scivolare senza provarci) Attraversai la strada, camminai verso l'entrata e spinsi la pesante porta dell'edificio, non bloccata dalla serratura e accostata al battente solo dalla molla chiudi-porta. Appena fui nell'androne e l'anta si richiuse morbidamente da sé alle mie spalle, un click e dal soffitto una plafoniera sembrò magicamente (non esageriamo) brillare soltanto per me, come se fosse stata lì ad attendermi, poi la logica mi suggerì che in realtà qualche rilevatore di movimento ne avesse provocato l'accensione (la spiegazione è logica, ma anche pedante e probabilmente inutile. Riformulerei l’intera frase) . Anche qui il deserto, e dietro il banco della reception nessun portiere o altri (cosa improbabile in un hotel, soprattutto in quel tipo di hotel). Notai che c'era l'ascensore, funzionante (perché precisarlo? Lo spieghi dopo perché non lo adopera), ma rinunciai a usarlo per il timore di essere sola per davvero e scelsi di avviarmi per la rampa (di solito dici salgo per la rampa delle scale?) delle scale. E intanto che furtiva e silenziosa mi arrampicavo sui gradini e nelle mie piccole soste sui pianerottoli, aperti da ambo i lati verso i corridoi delle camere, sentivo provenire un quasi impercettibile, ma certo, brusio di voci che smascheravano la finta desolazione di quel luogo, sfilai dalla tasca del giubbotto il mio biglietto scritto poche ore prima per essere sicura di non sbagliare, e lessi: quarto piano a destra, camera numero 190-91.

Spensi il cellulare, come Raul mi aveva detto di fare, e bussai con le nocche alla porta (un po' di volte). Aspettai meno di un minuto, ma nessuno rispose. Picchiettai di nuovo con più insistenza. Niente. Avevo forse sbagliato ad annotare il numero? Misi allora una mano sulla maniglia, abbassandola lentamente, e spinsi l'anta fin quando si spalancò per tutta la sua ampiezza. Avanzai con calma, ma quando voltai la testa al mio lato destro (perché lato?), inaspettatamente mi investì, facendomi chiudere gli occhi di scatto, un fascio di luce del sole basso che filtrava da una fessura delle tende a rullo che cadevano sulla parete esterna fatta per metà altezza a finestroni. Subito dopo che li schiusi (non è più facile averli schiusi?), vidi un uomo sui 55/60 (sulla sessantina non suona meglio?), non brutto, vestito distinto (in modo distinto?) e seduto in una poltroncina bianca accanto a un letto coperto da una trapunta rosa pallido e diversi e gonfi cuscini.
«Ti stavo aspettando», fece lui a quel punto.
«Beh, eccomi qui!», risposi come un'imbranata e abbozzando una specie di sorriso.
«Come ti chiami?», chiese poi.
«Denise!», esclamai dopo averci riflettuto un po' e, non so perché, dissi il nome della mia mamma, non il mio.
«Mi avevano detto un nome diverso. Forse si saranno sbagliati.»
«Sì», confermai.
«Poco importa. Anzi, voglio dirti una cosa…», e si interruppe.
«Cosa?», lo spronai, curiosa.
«Che di persona sei più bella della ragazza in foto. Sempre se eri tu in quelle foto, Denise», insinuò lui.

Non conoscevo la storia delle fotografie, che probabilmente erano quelle che ogni tanto venivano scattate nel locale, ma forse questo incontro era per davvero di un'altra ragazza che poi aveva rinunciato.
«Ero io in quelle foto», riconfermai. Non sapendo però se stessi dicendo una bugia o la verità.
«Allora, Denise, vuoi qualcosa da bere?», chiese ancora; risposi con una smorfia che non significava né sì né no. «Faccio io», continuò lui. Ma dopo che si alzò per chiudere la porta d'ingresso della camera, che io avevo lasciato aperta, per poi andare verso un piccolo mobile bar per afferrare una bottiglia e versare qualcosa in un lucido bicchiere, dissi: «No! No!» E lo bloccai e mi bloccai pure io.

Mi bloccai, con lui che mi guardava con un'espressione poco convinta, senza dire parola, perché mi resi conto che l'impeto di quelle certezze, che nella mia fantasia con troppa inconsapevolezza avevo in poco tempo facilmente preconizzato (il termine mi suona come non appropriato in questa situazione) qualche ora prima, allo stesso modo erano andate a infrangersi contro la realtà di quei momenti, e questo mi disorientava, mi rendeva insicura, e non sapevo più a quel punto che fare e se dovessi essere io per prima a muovermi o aspettare l'inevitabile fatalità degli eventi: tenendo conto anche della mia timidezza e della mia caratteriale tendenza all'inibizione, che rendevano il tutto più complicato e incerto. Ed ebbi il timore che lui avrebbe potuto intuire quello che provavo dentro, e per questo indispettirsi, rinunciare e poi, di lì a poco, con un pretesto mandarmi via in qualche modo. Ma un pensiero mi venne in soccorso, perché mi ricordai di quello che mi aveva suggerito Raul se si fosse verificata una tale circostanza: la storia di lavarci assieme. Glielo proposi e disse di sì. Andammo quindi in bagno. Era strettissimo e la doccia non c'era. Ci spogliammo, io non del tutto e rimasi in reggiseno e mutandine. Entrammo poi nella vasca, rimanendo seduti di fronte con le gambe al petto, e io, da una sua risata beffarda, intuii che lui era abbastanza divertito, vista la mia età, dalla mia poca esperienza. Ma io, mi ripeto, mi sentivo soltanto a disagio, diffidente, anche in un certo senso ridicola per quello che stava accadendo. Capimmo perciò entrambi che non aveva senso stare lì, così uscimmo, e dopo esserci asciugati, andammo a stenderci sul letto.
In quel momento ero completamente soggiogata in quel giro di vite di quegli eventi in cui io stessa ero andata da sola a incastrarmi. Come in un gioco delle parti, nel quale io non ero esattamente una vittima, e da cui avrai potuto facilmente uscirne fuori se solo l'avessi voluto. Ma, a dispetto di ogni cosa, perché Raul si sarebbe arrabbiato con me se avessi fallito già al primo incontro e un'altra chance come quella non me l'avrebbe mai più concessa, volevo e dovevo a ogni costo continuare, nonostante il mio umore e le mie paure mi facessero sentire a pezzi già prima che tutto per davvero cominciasse.

Chiese, senza impormelo, di fargli delle cose e se anch'io volevo che lui mi facesse delle cose. Dissi in entrambi i casi di no o gli feci intendere di no. Non lo ricordo bene. Anzi, lo avevo dimenticato. Una cosa gli chiesi. Ma che non c'entrava nulla con le robe di sesso che intendeva lui. Gli chiesi di chiudere completamente le fasce delle tende perché non volevo che dall'esterno qualcuno, magari da una finestra dello stabile di fronte, potesse accidentalmente vederci mentre lo stavamo facendo. Le abbassò, e in camera si creò penombra, troppa, quasi buio, e lui per compensare la poca luce mosse la levetta dell'interruttore e illuminò il lampadario.

Quando mi riguardò, seminuda, ma sempre esitante e ferma come un tronco, distesa sul letto, accelerò i tempi. Sfilò le mie mutandine inzuppate d'acqua, mi allargò le gambe e le piegò all'indietro, si inginocchiò tra di esse, sollevò con due dita al centro la fascia elastica del mio push-up, scoprendomi i seni, e subito la rilasciò sulla parte alta del torace con uno schiocco: che a me sembro risuonare nel petto simile a un colpo secco e sordo di un tamburo. Si abbassò poi su di me e le sue mani iniziarono a stringere, palpare, graffiare, talvolta provocandomi dolore, mentre il suo fiato di tabacco sul mio volto, cercando con la sua bocca baci che respingevo, sospirando mi farfugliava frasi con parole volgari, alternate ad altre gentili e affettuose, di cui però non riuscivo mai ad afferrarne pienamente il significato, perché non mi importava saperlo; ma che, a ogni modo, a lui sembravano dargli carica, frenesia, eccitarlo sempre più.

In fondo era solo un pezzo di carne che doveva entrare in un altro pezzo di carne. Soltanto di questo si trattava! Non mi avrebbe poi fatto tanto male. Non ci sarei morta per questo!

Eppure, quando ciò avvenne, fu come essere trafitta per sprofondare in un liquido nero, vischioso, con l'impressione e la mia voglia ostinata di risalire a galla. Ma, invece, di tutti i miei slanci verso l'alto, in superficie riemergeva soltanto la percezione del mio corpo, ripetutamente schiacciato sempre più giù, mentre le molle della rete del letto cigolavano, e io, col fiato dei miei respiri spezzati dai suoi colpi e le sue spinte, che cercavo a ogni boccata d'aria di trattenerne più che potevo nei polmoni, lottando, per non sentirmi del tutto soffocare.

Non durò, credo, più del tempo che basta per fumare una sigaretta. Si sollevò da me per adagiarsi sulla sua parte libera del letto, mentre io rimasi sdraiata, muta e sempre immobile con le gambe divaricate a osservare, una alla volta, le pareti dipinte di tenero rosa che avvolgevano la camera, bloccandomi alla fine a scrutare il lampadario acceso in bilico dal bianchissimo soffitto: sette corolle di fiori in vetro delicatamente sfumate, sempre di rosa, e allo stesso modo sagomate. Pensai alla storiella dell'ape, all'odore umido dei fili d'erba di un prato dopo che è piovuto, ai petali, ai pistilli e al polline di fiori profumati; cioè a tutto quello che mi era stato raccontato da piccola per in qualche maniera spiegarmi l'amore fisico tra due persone. Nulla di ciò era stato. Inoltre, la stanchezza, che già in precedenza avevo avvertito, in quegli istanti mi aveva del tutto avvinta. Voglia di dormire, che non proveniva soltanto dal corpo, ma anche dalla tristezza del desiderio di non pensare più a nulla e sparire nel riposo di un sonno che sapevo bene di non potermi concedere. Cercai così di alzarmi, ma farlo sembrava avesse richiesto un'energia che semplicemente non riuscivo a raccogliere dentro. Dovevo però cercare lo stesso di muovermi, andare via da lì, altrimenti sarei impazzita e quel letto sarebbe diventato la mia tomba. Balzai allora con uno scatto nervoso, ma fu più un riflesso di volontà che forza muscolare, sulla grigia moquette a bouclé. Mi rivestii di corsa, andai per un attimo a rifugiarmi nel bagno e guardandomi allo specchio cercai con le mani di sistemarmi i capelli tutti scompigliati.

Prima di lasciare la camera, lui, nudo e rimasto disteso sul letto, disse che ero una bella ragazza, di preciso graziosa bambina mi chiamò, malgrado non avessi ancora molta fiducia nel mio corpo, e che gli sarebbe piaciuto rivedermi se ciò fosse stato possibile e anch'io lo avessi voluto. A tal proposito mi chiese il mio numero di cellulare, che io scandii una cifra alla volta, fin troppo lentamente, dato che in quel momento avevo la bocca impastata di saliva e non riuscivo ad articolare bene i suoni delle parole. Lui neppure lo annotò da qualche parte, perché disse che aveva buona memoria e non lo avrebbe dimenticato, come non avrebbe dimenticato la bellezza dei miei occhi neri. E almeno fu gentile in questa sua frase. Appena dopo, tirandosi su dal letto, sfilò un biglietto da visita dal taschino della giacca appoggiata sul dorso della piccola poltrona in compagnia degli altri suoi indumenti, che allungando un braccio mi passò fra le dita, dove c'era stampato un numero di cellulare con aggiunto a penna un nome: Sonny Jankis. Il numero sì, ma non credo che quello fosse il suo vero nome. Non confermai né risposi di no, ma gli spiegai che avrebbe dovuto sempre accordarsi anticipatamente con Raul, perché non potevo accettare appuntamenti in totale autonomia. Lui, un po' deluso, forse perché sperava, oltre a quella scopata, che potesse crearsi altro fra noi, annuendo con la testa fece intendermi che aveva capito. Però quell'uomo, di cui non conoscevo neanche con certezza il nome, cosa che lui altrettanto poteva dire di me, e che, a dispetto dei suoi propositi, mai più mi chiamò e io neppure mai cercai o chiesi a qualcuno chi realmente fosse, sapeva, o aveva intuito, che quella era stata la prima volta che lo avevo fatto per soldi, ma non anche che era stata la prima volta che lo avevo fatto in assoluto. Credendo che quella macchia rossa al centro di quel letto disfatto, su quella federa intrisa di umori e sudore, fosse dovuta all'inizio del mio ciclo. Addirittura mi suggerì, cosa davvero squallida, di usare le spugne mestruali per evitare che nelle eventuali future circostanze certi inconvenienti potessero creare irritazione per lui, o altri, e imbarazzo per la sottoscritta. Quando si mosse ancora, si mise seduto sul bordo del letto, tirò il cassetto del comodino al suo lato. Sul cui piano, in aggiunta all'abat-jour, c'era poggiato un piccolo vaso con altri fiori, ma questi erano veri: gladioli rossi, uguali nel tono del colore alla mia macchia di sangue su cui poc'anzi il mio sguardo si era soffermato. Prese una mazzetta di fruscianti banconote da cinquanta dollari legata con due elastici, sfilandone poi altri trecentocinquanta dal suo portafogli come extra per me, perché, pur non essendomi dimostrata completamente disponibile, avevo comunque accettato di farlo senza precauzioni. Ma io non avevo accettato un bel niente, mi ero solo dimenticata di quel piccolo dettaglio, che poi tanto piccolo non era, e lui ne aveva semplicemente approfittato. Per questo, nei mesi che seguirono, ho avuto di frequente il dubbio - anzi no, la quasi certezza - che fu esattamente da quella sera che iniziarono tutti i miei problemi. Restava tuttavia il fatto che in poco meno di due ore, incluso il tempo per raggiungere l'albergo, avevo realizzato una cifra che sembrava essere una piccola fortuna. Afferrai i soldi, li infilai nella tasca interna del giubbotto, lo salutai e andai via come fuggendo.

La notte stava calando quando uscii fuori dall'hotel e i lampioni sulla strada erano accesi. L'aria più fredda e immobile rispetto al mio arrivo e mi pizzicava la faccia. Feci un respiro profondo e d'istinto volsi la testa dove prima c'era il mendicante e il suono del suo sax. Ma erano spariti, e pensai che in realtà non fossero mai esistiti, e che quello che avevo visto e ascoltato prima erano stati solo il frutto della mia immaginazione; poi un altro suono, il rimbombo di un clacson di un taxi parcheggiato lungo il marciapiedi, richiamò la mia attenzione. Mi avvicinai e dal finestrino abbassato l'autista mi disse: «Mi hanno chiamato dall'agenzia per dirmi di venire sotto questo albergo ad aspettare una ragazza. Sì, una ragazza giovane, bruna, carina, coi capelli lisci, lunghi e di nome Mary. È forse lei, signorina?» Intuii che l'avesse mandato Raul come premio perché mi ero comportata bene.
«Sì, sono io Mary. Può portarmi subito a casa, per favore?», lo implorai con un filo di voce.
«Certo, signorina!», rispose lui, che vedendomi sola e agitata cominciò a guardarmi con stupore, incuriosito, e capii, ma non so come spiegarlo, che c'era come tenerezza nel suo sguardo.

Lungo il tragitto, che apparentemente mi riportava indietro, pensai che solo un istante prima di entrare in quella stanza, camminavo come in equilibrio sopra una linea; poi la linea l'avevo varcata. Probabilmente per la necessità di quel decoro che tutti quei soldi per un bel po' di tempo mi avrebbero garantito e che in altra maniera non sarei mai stata capace di guadagnare, o per una mia voglia di ribellione che doveva trovare un suo senso e sfogo nel dimostrare a me stessa e agli altri che pure io potevo essere desiderata, amata come Lucy, e valevo qualcosa, anche se era stato solo un prezzo quello che mi avevano dato; ma sentivo, ugualmente, con amarezza, che oltre al mio imene qualcos'altro si era irrimediabilmente rotto dentro di me, e che da quel momento in avanti sarebbe stato difficile tornare indietro. Ma forse il mio era solo un modo contorto per giustificarmi, un alibi o una facile bugia da credere, per spigare e capire quanto successo, e la verità, invece, molto più semplice: cioè che non c'era assolutamente nulla da spiegare o capire, e facevo proprio schifo come persona.

Improvvisamente il taxi voltò in una strada lungo la costa e di nuovo un fascio di luce, come in quella camera, mi ferì gli occhi e sentii l'autista dire:
«Bello qui, vero, signorina?»
Con una mano mi schermai la vista e guardai in controluce. Aveva ragione lui: perché ora era completamente diverso da prima. Il cielo era tutto un pavoneggiare di gialli, rossi e toni purpurei sopra un mare increspato di liquido d'oro; e le nuvole basse dai contorni infuocati, mentre il sole, immerso già a metà di quell'orizzonte d'acqua, andava morendo, in certi punti apparivano come screziate di madreperla e di altre sfumature di colori continuamente mutanti, indefinibili. E intanto che stavo lì e osservavo ogni cosa, gli occhi mi si gonfiarono e sentii nella mia bocca anche il sale di quel mare di fronte; ma in realtà erano solo le mie lacrime che, rigandomi le guance, scendevano a toccarmi le labbra.
«Perché piange, signorina?», fece con voce esitante l'autista.
«È stato un brutto sogno», risposi.
«Ma adesso è passato, vero?»
«Sì, ora sto meglio», dissi, ma era una bugia.
«Non pianga, la prego! La vita è giovane e bella come lei, signorina!», continuò ancora lui.

Mi incattivii a quella sua risposta e con rabbia presi dalla tasca del giubbotto il biglietto da visita di quell'uomo, rilessi lentamente quel nome e il suo numero di cellulare, promettendomi di non dimenticarli, e lo strappai con le dita in tanti piccoli pezzi, abbassai poi di poco il vetro al mio lato e li lanciai fuori dal finestrino, che rapidamente li aspirò, facendoli volare via alle mie spalle per disperderli come coriandoli nella corrente d'aria che l'auto creava avanzando.


Dunque, la seconda parte fila via meglio rispetto alla prima. Credo che alle volte abusi della tua capacità di costruire sequenze descrittive, inserendole quando invece sarebbe meglio pensare ad altro. Le sequenze descrittive, tra l’altro, rallentano il ritmo. Nella seconda parte, dicevo, quando ti limiti a sequenze narrative la prosa mi riesce, come lettore più accattivante.
Quella che un po’ mi è mancata è la protagonista, Mary. Non si comprende, almeno dal racconto, da cosa sia mossa, quali siano i suoi obiettivi, e più in generale non ho compreso quale sia il tema del racconto. È probabile che sia un limite dell’estrapolazione di un singolo capitolo da un contesto più ampio, e io ne so qualcosa.
Il tema, il perché si scrive, ritengo sia l’elemento centrale di ogni narrazione e deve venire fuori per non ingannare se stessi e il lettore.
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Yakamoz
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Re: Te ne sei accorta, sì?

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Caro Namio Intile,

il romanzo esiste. Svelo il titolo: "Una cattiva ragazza", l'ultimo titolo fra i tanti che ha avuto in 5 anni di scrittura e forse anche più. Naturalmente io non sono uno scrittore, faccio altro come lavoro, da qui i tempi dilazionati per scriverlo e, soprattutto, per finirlo. Cosa che mi sembrava impossibile a un certo punto della trama, perché capita di bloccarsi e il foglio resta bianco. O magari scrivi cose che poi vai a cancellare, anche molte pagine. Difatti, credo di aver scritto non 500.000 battute ma 2 milioni. Ma alla fine sono contento e soddisfatto lo stesso, visto che scriverlo è stata una grandissima avventura e "palestra"; perché è vero che si impara a scrivere leggendo gli altri, ma poi farlo "sul serio" è tutta un'altra storia. Ricordiamoci che esiste gente super laureata che non sanno scrivere decentemente neppure un biglietto di auguri per un compleanno. Non basta essere portati - poca favilla gran fuoco asseconda, dice il Poeta - ma ci vuole impegno (perché ho scritto pure quando non avevo voglia), costanza (nel senso di crederci in quello che stai facendo, pure se è solo, a volte ho pensato, fatica sprecata) e allenamento (scrivere sempre, anche solo mezza paginetta al giorno).

Perché scrivo? Forse perché mi rende un po' felice. Tutto qui! E non c'è bisogno di un'altra spiegazione complessa per capirlo. Ma perché non scrivi racconti e ti sei avventurato in un romanzo? Mi chiedevo spesso. Un racconto, parlo di quelli molto brevi, è solo "come guardare dei fatti che accadono stando affacciati da una finestra", ma un romanzo è un "mondo". È stare fuori da quella finestra!

Avevo pensato all'inizio di scrivere un romanzo sulla "luce", tranquillo non lavoro all'ENEL, ma la luce non può esistere senza buio. Quindi se parlo di luce, di conseguenza parlerò di oscurità. Le stelle brillano perché esiste buio attorno! "Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo!", dice Moro. E in seguito, per questa scelta iniziale, magari mi sono ritrovato a parlare, e a fare ricerche, di altre cose che in principio non avevo neppure pensato di scrivere, come quando arrivi in un posto che non conosci e poi ti ritrovi a un incrocio e devi scegliere una direzione, perché non puoi stare fermo e devi necessariamente andare avanti.

Mary, i nomi sono tutti temporanei (ma Mary o Maria mi piace come nome, perché significa, etimologicamente, Amore; la più nobile Maria per amore degli uomini ha generato Cristo. "Nel tuo ventre si riaccese l'amore", dice sempre quel Poeta di Fiorenza). Ma la mia Mary non è la Vergine Maria, piuttosto una stella cadente. O una "piccola stella senza cielo", come direbbe Ligabue. Oppure appartiene a quel cielo notturno dei "vinti", e non come li intendevano Manzoni (riscatto nella fede) o Verga (sconfitta inevitabile e assoluta), perché i miei vinti sono senza Dio. E sono cocciuti, resilienti e vogliono vincere almeno una volta, anche solo per poco tempo, in questa vita (nella loro vita) prima che il loro cuore smetta di fare bum bum.

Inserisco una prefazione/premessa, che non è una sinossi; la sinossi vera in realtà è stata scritta da poco, ma racconta "tutta la storia" in un modo tanto sintetico e svilente, come fa Wiki con le trame dei film o altro, che può essere utile solo "per valutare l'efficacia della trama o farsi un'idea della stessa".

"Premessa, "Una cattiva ragazza" ha una sua validità di fondo come ritratto di un'umanità sbandata che ha perduto il senso dell'esistenza e dove non ci sono né santi né eroi. La galleria dei personaggi – Mary, Charlie, Daisy, ma anche Lucy – che il libro mette in scena è caratterizzata dalla solitudine, dalla difficoltà a rapportarsi con gli altri, dalla estraniazione rispetto a una società di fatto incomprensibile, indifferente. Dove ogni cosa appare ostile e senza conforto, e a cui non resta, sempre per i protagonisti, la violenza e il sesso, non solo contro gli altri ma anche verso se stessi, come veicoli di comunicazione. Ambientato in un'America insieme ricca e miserabile, con una trama folle, burrascosa, on the road, e per certi versi cinematografica. Con l'idea sempre presente del viaggio, ma più nel senso di fuga, verso paesaggi sconfinati, eppure claustrofobici, alla ricerca di qualcosa d'interiore, viscerale. Il mio vuole essere un romanzo "noir" nello stile di alcuni passaggi, ma più sofisticato ed essenzialmente drammatico/psicologico, in un'atmosfera post-modernista che cerca di rappresentare, e qui mi ripeto, usando una definizione più dettagliata: la distorsione della razionalità nella frenesia di un mondo che non ti dona il tempo di riflettere e la pazzia malata a cui porta, in una pulsione distruttiva che non lascia scampo se non risolta attraverso un processo di consapevolezza e auto-redenzione."

Naturalmente questa "premessa" serve solo a fare "scena" e dà un'idea enfatica, dicendo davvero poco del libro; ed è normale che sia così.

In parole povere, non ho scritto un libro che parla di una "puttana" per divertirmi da "misogino" (cosa che assolutamente non sono) a tracciarne i più biechi e disgustosi dettagli, come sembrerebbe dal cap. 13 che ho scelto anche in modo un po' provocatorio; è che i miei personaggi mi piace farli scendere nel profondo, dove c'è più buio, e poi accendere la luce per vedere quello che alla fine esiste o resiste. Forse speranza? Dio? Forse nulla… Ma nulla finisce per sempre! (è un mio motto) E io ci credo molto in questo.

Qualcuno forse riderà leggendo questa mia risposta al tuo commento, o mi prenderà per pazzo, scemo o megalomane. Ma io rispondo a loro: se non sei un po' pazzo e presuntuoso, non scriverai mai niente di buono!

Molto preziosi i tuoi rilievi sul testo. Mi saranno utili nell'ultima e futura revisione, grazie. Grazie anche del 5, sia da parte tua che da Andr60. Spero per me meritati.

Tante belle cose, Namio Intile

Antonio

P.S. Voglio comunque sottolineare, per non apparire arrogante/saccente, che la scrittura è un processo soggettivo e non esiste un modo giusto o sbagliato di scrivere. E qui parlo della mia esperienza nel suo complesso, ovvio!
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Re: Te ne sei accorta, sì?

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La scrittura è allenamento, dici bene. È scrivere anche quando si ha voglia di far altro. Anch'io ho scritto un romanzo di circa mezzo milione di battute come il tuo, ho partecipato a Io Scrittore, ho superato la prima scrematura, ero tra i trecento finalisti, ma non è andata. Alla fine l'ho trasformato di nuovo in un cantiere e lui, io, si è perso per strada. Ne ho iniziati almeno una mezza dozzina e sono rimasti là. Ne ho uno in corso d'opera uno che definisco importante perché per la prima volta so dove voglio arrivare, ce l'ho in testa. Anch'io non faccio lo scrittore, ma chi lo fa? Bufalino insegnava al Liceo, Sciascia era maestro elementare, Consolo e Vittorini lavoravano per delle case editrici, come Calvino e Calasso, Pirandello aveva provato a far l'avvocato, Brancati era insegnante e giornalista. Nessuno scrittore fa lo scrittore. Kundera era un professore universitario, ma nella sua vita ha scritto pure necrologi. L'unico vero scrittore scrittore che conosco era il Barone Giovanni Verga, quello dei vinti, perché era ricco di suo, un nobile latifondista vecchia maniera con una famiglia, i Vargas, nobile da sette secoli. A proposito, il palazzo di famiglia a Vizzini, dove è realmente nato, è in vendita per 180.000 euro. Ed è magnifico. Perché scrivi? Non voleva essere un suggerimento esistenziale. Ma mi riferivo al tema. Qual è il tema del racconto? Il tema è una ragazza che sprofonda e vuole rinascere, o che sprofonda e basta? E allora falla vedere, mostrala, scrivi di lei. Lo so che i miei suggerimenti non sono richiesti, e a molti danno fastidio, ma probabilmente ciò che hai scritto in 500.000 battute potevi più efficacemente scriverlo in 400.000. Le tue descrizioni sono fantastiche, ma possono essere sfoltite, Antonio. Io ho una scrittura barocca, siamo tutti e due figli della stessa miserabile terra e ti capisco. Anche a me piace infilarmi dentro le cose. Ti restituisco l'incipit di Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria. Fui giovane e felice un'estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell'estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all'altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re... che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna.
E prosegue così e ancor più di così, una delle scritture barocche più belle mai lette. Edito nel 1984 da Sellerio. Aveva 64 anni ed era il suo primo vero romanzo dopo Le dicerie dell'untore scoperte da Sciascia. Oppure leggi Nottetempo casa per casa di Consolo. Le descrizioni là raggiungono dei livelli sconfinati, superano il ristretto andito di descrizione e si fanno sostanza, arte pura. Mi taccio.
Senti, se hai bisogno di un lettore per il romanzo fammelo sapere.
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Yakamoz
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Re: Te ne sei accorta, sì?

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Cerco di essere breve per non annoiare,

a Napoli si dice "'A collera è fatta a cuoppo, chi s' 'a piglia schiatta 'ncuorpo", nel senso che è da fessi offendersi se si riceve una critica. Il P.S. non era riferito al tuo commento, parlavo in generale, divago mentre scrivo. Ogni tanto vado fuori tema. Mi capita!

Poi i tuoi rilievi sul testo erano tutti giusti, ne cito solo 3:

Il nero che suona il sax sembra un elemento intrusivo, vero! Poi mettersi con la "buatta" dove non passa nessuno è un poco improbabile come situazione.

Preconizzare, in bocca a una ragazza moderna suona strana come parola; sarebbe stato meglio immaginare, cercato d'intuire o altro.

Sull'albergo con la reception vuota: sì, andrebbe un po' rivista la scena.

Mi ha stupito molto il fatto che saresti disposto a leggere tutto il "tomo". Sarebbe un onore per me, visto che io mi scrivo, io mi leggo, io mi correggo, io mi edito… io tutto il resto… etc. etc.

Dammi un po' di tempo per fare un'ultima lettura, e anche di superare, come una sorta di gelosia, sembra assurda questa cosa ma è vera, la mia ritrosia/timidezza a espormi troppo. Anche se, magari, il testo è un libraccio che non vale niente.

Ti farò sapere…

Con stima, Namio Intile

Antonio

P.S. Pure io sono passato 2 volte a IoScrittore, ma avevo solo incipit. Per me è stato solo un test. Commenti ricevuti molto discordanti. Addirittura un tale mi scrisse in un brevissimo commento che io avevo la scrittura troppo "milanese". Ma io sono campano, in prevalenza, e come seconda lingua uso il napoletano… che ci azzecca Milano? Giuro che è vero! Poi là cercano più storie alla Montalbano o come scrive Carrisi: crime story, polizieschi e affini.

Che hai una scrittura ricercata e barocca si nota subito. È una forma di "eloquenza" di chi ama esprimere in modo compiuto la propria creatività e complessità di pensiero, anche cercando di stupire e affascinare il lettore. È un pregio esserlo! Invece di mettere su carta soltanto precarie, stanche e ovvie parole.

L'unico "problemino" è che essere "barocco" può far apparire l'Autore "vanitoso/superbo", cosa assolutamente non vera; perché come le persone pure la scrittura ha una propria forma e carattere. È solo questione di "temperatura" della penna, o "ardore".

Vado un po' in ferie, buone ferie anche a te!
Vittorio Felugo
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Il racconto è interessante, scorrevole e l'ho letto volentieri. Trovo che hai un gran talento nel descrivere i dettagli, creando un'atmosfera coinvolgente. La trama non offre grandi colpi di scena, ma ci sta se è parte di un romanzo. E quindi è un ottima "esca" per indurre a leggere tutta la storia.
Ho dato 4 come voto, sia per la forma che per il contenuto.
A presto
Vittorio
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Re: Commento

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Vittorio Felugo ha scritto: 15/08/2024, 11:02 Il racconto è interessante, scorrevole e l'ho letto volentieri. Trovo che hai un gran talento nel descrivere i dettagli, creando un'atmosfera coinvolgente. La trama non offre grandi colpi di scena, ma ci sta se è parte di un romanzo. E quindi è un ottima "esca" per indurre a leggere tutta la storia.
Ho dato 4 come voto, sia per la forma che per il contenuto.
A presto
Vittorio
Hai perfettamente ragione, Vittorio. In un racconto la brevità impone una struttura più serrata e un ritmo più sostenuto. E per catturare l'attenzione del lettore in poche pagine, spesso si ricorre a un colpo di scena/ o altro che faccia da contrasto (ma non è una regola, perché ognuno ha i suoi trucchi e le sue magie) ben piazzato che inneschi una svolta inaspettata: tipo "fulmine a ciel sereno" (ma basta anche molto meno) e invogliare il lettore a scoprire come proseguirà la storia.

In un romanzo, invece, la narrazione si sviluppa su un arco temporale più ampio, permettendo di creare atmosfere, e altro, più complesse e di introdurre gradualmente i "colpi di scena".

Forse ho scritto cose banali/scontate, ma in effetti è così, e scusami per questo. Volevo solo far capire che un racconto e un romanzo presentano difficoltà differenti e opportunità/abilità ugualmente diverse nella loro elaborazione.

Grazie di avermi letto e grazie del complimento: "gran talento nel descrivere i dettagli", spero meritato.

Tante belle cose,

Antonio

P.S. Riguardo al mio commento a "Origini", non avevo notato, come giustamente ha sottolineato l'attento Jacopo Serafinelli, che i nomi presenti erano scritti al contrario: Dio, Noè, satana. Se questo è il caso, il significato del racconto si arricchisce di nuove "sfumature", in quanto diventa più "interpretabile" (parla forse di futuro nel passato?) per certi versi, rimanendo pur sempre un testo piuttosto enigmatico/misterioso e soggetto a interpretazioni personali.
Il problema, secondo me, è che raccontare una storia solo attraversi l'uso di personaggi e dialoghi (seguendo uno stile più da sceneggiatura che da racconto) rallenta molto il ritmo di lettura e rende difficile visualizzare le scene (limita l'immaginazione); per comprendere bene sia il "tema" e sviluppo dell'eventuale "trama". E proprio questo, magari per voglia di originalità/stile/altri intenti, penalizza un po' il tuo racconto.

Per me sei un eccellente scrittore (anche se ti ho dato 3). Creare dialoghi non è affatto semplice: è un aspetto che merita attenzione in un'opera; perché nessuno parla nella vita reale come nei romanzi o nei film. La componente dialogica di un testo risulta sempre "artificiale", e ci vuole abilità per farla apparire vera/autentica.

A rileggerci…
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Re: Te ne sei accorta, sì?

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Il tuo racconto (o, meglio, lo stralcio del tuo romanzo) non è affatto banale. Certe situazioni di vita reale, inevitabilmente, si ripetono ma è l'abilità del narratore a renderle originali, e interessanti da leggere. E in questo riesci molto bene. Sui miei dialoghi… Sì, confesso che li preferisco alle descrizioni troppo dettagliate (per pigrizia?). Nelle mie storie supereroistiche, se le hai lette, hanno una grande importanza, anche perchè le scene d'azione rendono meno raccontate piuttosto che viste in film o fumetti. E non voglio che le trame di Batman & C. (del MIO Batman) si riducano a inseguimenti e scazzottate tra energumeni mascherati. Concludo spesso le avventure con delle… "scene dopo i titoli di coda" spesso formate solo da dialoghi. Mi piace fare così.
Grazie e a rileggerci
Vittorio
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Ciao Antonio,
ho letto con molto piacere il tuo racconto.
Lo stile asciutto, spoglio, trovo si sposi bene con la storia cruda, che mi da, in queste righe, una certa sensazione di squallore.
Ovviamente essendo un estratto puà perdere un po' di profondità psicologica dei personaggi, che il lettore nell'opera completa ha già visto e approfondito in altre parti.
Mi sembra decisamente da cinque.

Unica notadi ambientazione: Mary/denise immagino abbia tenuto nascosta la sua verginità... perché altrimenti un protettore esperto (come sembra essere Raul) saprebbe bene che una ragazza vergine e giovane un premium da non sprecare in un incontro standard ma puà fruttare un signor sovraprezzo.
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Re: Commento

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Ombrone ha scritto: 26/08/2024, 11:49 Ciao Antonio,
ho letto con molto piacere il tuo racconto.
Lo stile asciutto, spoglio, trovo si sposi bene con la storia cruda, che mi da, in queste righe, una certa sensazione di squallore.
Ovviamente essendo un estratto puà perdere un po' di profondità psicologica dei personaggi, che il lettore nell'opera completa ha già visto e approfondito in altre parti.
Mi sembra decisamente da cinque.

Unica notadi ambientazione: Mary/denise immagino abbia tenuto nascosta la sua verginità… perché altrimenti un protettore esperto (come sembra essere Raul) saprebbe bene che una ragazza vergine e giovane un premium da non sprecare in un incontro standard ma puà fruttare un signor sovraprezzo.
Grazie di avermi letto, Ombrone, del tuo apprezzamento e anche del voto, spero meritato.

In realtà, Raul, che è un personaggio minore e necessario nel romanzo, non sa della verginità di Mary; presume che non lo sia (e sapendolo non l'avrebbe neppure accettata, perché vuole ragazze "birichine" lui), ma sa che è molto giovane. Oltretutto, il capitolo 13 non fa esattamente parte della "vera storia" di cui il romanzo parla, ma è un'appendice introspettiva, in cui, dopo diversi anni, Mary racconta la "sua prima volta". Da qui anche il suo modo di raccontare, più maturo rispetto alla ragazzina "scapestrata e ribelle" che era una volta. Quindi il "premium" esiste lo stesso, essendo Sonny un sessantenne e lei una sorta di "ninfetta".

Ancora grazie e saluti,

Antonio
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Ciao Antonio,

perché tu ti chiami Antonio, vero?
Continui a usare dettagli, nei tuoi scritti, che fanno male. "Il caso non esiste" ma io lo lascio fare, finché non fa male.
Naturalmente, se è tutto frutto del caso, e visto che le emozioni può trasmetterle solo una buona penna, il mio giudizio sulla scrittura non può che essere eccellente.
Ottimo così. A presto!
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Marino Maiorino ha scritto: 02/09/2024, 15:24 Ciao Antonio,

perché tu ti chiami Antonio, vero?
Continui a usare dettagli, nei tuoi scritti, che fanno male. "Il caso non esiste" ma io lo lascio fare, finché non fa male.
Naturalmente, se è tutto frutto del caso, e visto che le emozioni può trasmetterle solo una buona penna, il mio giudizio sulla scrittura non può che essere eccellente.
Ottimo così. A presto!
Caro Marino Maiorino,

scusa se rispondo in ritardo. Ho la giustifica: giorni fa mi sono abraso la cornea dell'occhio destro con una scheggia di una piastrella mentre facevo piccoli lavoretti in casa. Nulla di grave, a parte il fitto bruciore. Con un po' di pomata antibiotica e coprendo l'occhio, passa!

Mi chiedi se sono io? Sì, sono Antonio (Giordano) di Salerno, "l'autore" di "Larissa", "L'ombrello rosso" e "La ragazzetta col gattino e il piercing" nelle scorse gare (mi permetto di citarmi). Ho scritto racconti brevi (più o meno) per partecipare qui: piacevoli (forse) da leggere, ma con aspettative piuttosto normali e limitate. In effetti, non mi considero molto abile nella scrittura di racconti brevi; per "breve" intendo intorno alle 10/15 mila battute, anche se ci sono autori capaci di farlo con molte meno parole, e li invidio per questo. Io, invece, ho sempre bisogno di uno sviluppo abbastanza ampio per trovare il mio ritmo narrativo; in poche pagine faccio fatica a entrare nella mente e nelle vicende dei miei personaggi. La mia scrittura si basa poi molto su "sovrapposizioni" (qui oltre 20 modifiche, grazie ai suggerimenti di Namio Intile nel suo commento), il che significa che rielaboro continuamente, anche la struttura delle frasi, cercando di ricreare un'immagine scritta che rispecchi il più possibile quello che voglio esprimere. In un certo senso, seguo il principio classico del "Show, don't tell": mostrare tanto e spiegare poco; altrimenti, il rischio è di scrivere cronaca da giornale piuttosto che "scrittura creativa". Ricevo commenti come "ottima prosa", ma spesso, quando mi ritrovo solo di fronte a ciò che ho scritto, dico tra me: "Ma come scrivo male!" (e lo penso sul serio!)

Credo di essere un po' vittima del mio stesso "cattivo giudizio"; quasi un complesso o una mania. Un'incessante ricerca di miglioramento, come un'onda insegue un'altra, alimentata da una "insoddisfazione costante". E penso che questo aspetto, malgrado sia abbastanza noioso e frustrante, sia un modo utile per contrappasso, o nel suo rovescio della medaglia, perché non essere mai completamente soddisfatti (non accontentarsi) è fondamentale per progredire, giusto? Non pretendo certo di essere una "cima", ma me la cavo discretamente bene nell'esercizio della scrittura, come tanti altri, tu compreso, qui.

Preciso una cosa: alcuni potrebbero pensare che io abbia partecipato con un "estratto" di qualità narrativa superiore, ma non è così, perché anche gli altri capitoli sono "quasi tutti" ben scritti (alcuni di certo migliorabili). Forse meno duri e crudi di questo, più leggeri e altri più "intensi". Nulla è poi frutto del caso; sebbene sia una passione/hobby farlo, poiché ci vuole necessariamente pure una certa dose di predisposizione, abitudine, dedizione e tanta tanta passione per cercare di essere un po' bravi.

Grazie per il bel commento, Marino Maiorino

A risentirci… o tante belle cose (come scrivo di solito)

Antonio
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Ciao Antonio, devo dire di essere rimasta un po' bloccata dalla lunghezza del tuo racconto, preferisco i brevi. Però, dopo avere iniziato a leggere, il testo mi ha incuriosito e catturato. La trama trovo sia tristissima, quella povera bambina appena cresciuta che si è buttata via così grazie a una autostima inesistente, e quante ce ne sono di Mary come lei... Mi fanno compassione, mi hanno sempre fatto pietà coloro che si vendono nel corpo e di conseguenza nell'anima, anche e certamente. Trovo ciò il massimo del volersi male. Comunque il tuo racconto è scritto molto bene, in modo comprensibile, la storia parla di solitudine, soprattutto, anche il poveretto che ha pagato è tristemente solo. L'unico che detesto in questa storia é ovviamente Raul e i tanti come lui, che si arricchiscono sulle debolezze altrui, schiavizzando chi gli capita a tiro. Non dico niente di nuovo, lo so... Comunque bravo, voto 5
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Re: Commento

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Laura Traverso ha scritto: 09/09/2024, 16:56 Ciao Antonio, devo dire di essere rimasta un po' bloccata dalla lunghezza del tuo racconto, preferisco i brevi. Però, dopo avere iniziato a leggere, il testo mi ha incuriosito e catturato. La trama trovo sia tristissima, quella povera bambina appena cresciuta che si è buttata via così grazie a una autostima inesistente, e quante ce ne sono di Mary come lei… Mi fanno compassione, mi hanno sempre fatto pietà coloro che si vendono nel corpo e di conseguenza nell'anima, anche e certamente. Trovo ciò il massimo del volersi male. Comunque il tuo racconto è scritto molto bene, in modo comprensibile, la storia parla di solitudine, soprattutto, anche il poveretto che ha pagato è tristemente solo. L'unico che detesto in questa storia é ovviamente Raul e i tanti come lui, che si arricchiscono sulle debolezze altrui, schiavizzando chi gli capita a tiro. Non dico niente di nuovo, lo so… Comunque bravo, voto 5
Grazie di avermi letto, bella Laura Traverso,

in effetti, il testo, che è un estratto di un libro, è un po' lungo, ma non sono l'unico a partecipare con un testo lungo. Poi dipende anche molto dalla leggibilità del "racconto": se è facilmente leggibile e non troppo pesante, pure lungo va bene. Io punto molto sulla leggibilità del testo, cercando nel contempo di non sacrificare troppo il mio modo di scrivere (stile), perché non si scrive solo per se stessi, ma anche per gli altri. Altrimenti, che senso avrebbe scrivere? Pure il più occulto e nascosto diario, che di solito ha contenuti molto intimi e personali, spera un giorno di essere letto da qualcun altro che non sia lo stesso autore. Quando ho postato questo estratto/racconto, ho pensato che sarebbe stato poco letto e commentato, sia per la sua lunghezza, ma anche per gli argomenti trattati "affini alla prostituzione", che potrebbero apparire disturbanti, soprattutto se a leggermi è una donna, come nel tuo caso. Con questo non voglio discriminare le donne, per carità. Uomini e donne sono uguali, ma hanno propensioni e sensibilità diverse nella loro intelligenza: la donna è più sensibile/protettiva; l'uomo, pratico ed egocentrico. Anzi, io penso che la cosa più bella che Dio ha creato in questo mondo è (uso "è" e non "sia", come la grammatica suggerisce) la donna, perché la donna possiede il grande dono di rinnovare la vita. La vita che rinnova la vita. Una cosa che sembra quasi un miracolo ogni volta che accade (e poi gli uomini fanno la guerra e uccidono). Il miracolo della vita: che cosa meravigliosa! (Sembro un prete come scrivo oggi. Tranquilla, non sono un chierico!) "Sono solo un piccolo destino in mezzo a tutta questa gente" (cit.).

Ritornando a quello che ho scritto, io, da piccolo baccelliere, penso che la "scrittura", soprattutto quella creativa (quella di racconti, novelle, romanzi, canzoni e altro), debba avere come compito/missione non solo intrattenere, ma cercare pure di veicolare un messaggio, una testimonianza, per belli o brutti che siano, qualcosa che faccia riflettere, anche turbare a volte. Dato che una scrittura fine a se stessa non avrebbe senso. Sarebbe come un quadro che si guarda da solo in uno specchio e poi dice: "Ah, ma che bel quadro che sono!". Il riconoscimento è potere: riconoscimento visto anche come atto di "condivisione di valori/conoscenza/arte" verso gli altri, il prossimo. Da qui la mia idea di affrontare, nei temi della mia scrittura, argomenti un po' duri e visti con un'ottica "abbastanza" realistica (sempre se riesco nei miei intenti). Altrimenti, che "scrittore" pretendo di essere se parlo solo di cose "belle, moraleggianti, edificanti"? Ogni cosa che in apparenza può sembrare o essere "squallida e immorale" può avere nella sua conclusione un "senso", anche migliore e più bello, perché più complesso nella sua elaborazione e macchinosità (ora sembro un filosofo) rispetto a una lettura di argomenti leggeri, pieni di eccellenti propositi, buonismi, edificanti, ma alla fine scevri di un vero valore.

Come vedi, ho il vizio di scrivere troppo, anche quando commento o rispondo. Scusami, Laura. Mi spiace che non ci sei in questa "gara", perché io, dall'altra parte, non commento; leggo soltanto le poesie (letta pure la tua e apprezzata), perché non mi ci vedo molto poeta. E poi sono prolisso: se mi impegno davvero a scrivere una poesia, come minimo mi esce un "poema di tre volumi rilegati in marocchino rosso!" Non voglio vantarmi, perché non è il caso, ma io quando attacco a scrivere, mi vengono facili le parole e non riesco più a frenarmi. Magari è un dono o forse una maledizione la mia!

Grazie ancora di avermi letto e per il voto alto, gentile e bella Laura (come la Laura del Petrarca).

Un caro saluto e a rileggerci,

Antonio

Hai ragione Mary è un vittima che si svaluta per nulla; l'uomo dell'albergo solo un mediocre, un "poveraccio"; Raul è il vero cattivo.
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Laura Traverso
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Re: Commento

Messaggio da leggere da Laura Traverso »

Ciao Antonio, anche un mio professore, insegnante di musica, mi associava sempre alla Laura del Petrarca. Me lo hai fatto ricordare: era burbero ma simpatico, già anzianotto allora che io ero una ragazzina, adesso certamente (per me che ci credo) lui "cavalcherà" altre vite... Credo sia un pregio avere la facilità di scrivere molto come fai tu. E' sempre un piacere leggerti; questo giro lo ho saltato ma penso che sarò in gara per il prossimo. Buona giornata Yakamoz/Antonio (più bello Antonio, secondo me). Ciao
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La Gara 58 - A volte ritornano

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La Gara 32 - MOM - Storie di Madri (e figli)

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La Gara 45 - Due personaggi in cerca d'autore

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Rosso permissivo

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Una bambina e alcune persone subiscono una crudele e folle violenza. Cosa potrebbe fare una donna per vendicarsi e scongiurare la possibilità che anche sua figlia cada vittima dei carnefici? Lo scopriremo in questo racconto, dato che il rosso ce lo permette.

Copertina di Roberta Guardascione
A cura di Massimo Baglione.

Vedi nwANTEPRIMA (1,48 MB scaricato 242 volte).

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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.



L'arca di Noel

L'arca di Noel

Da decenni proviamo a metterci al riparo dagli impatti meteoritici di livello estintivo, ma cosa accadrebbe se invece scoprissimo che è addirittura un altro mondo a venirci addosso? Come ci comporteremmo in attesa della catastrofe? Potremmo scappare sulla Luna? Su Marte? Oppure dove?
E chi? E come?
L'avventura post-apocalittica ad alta tensione qui narrata proverà a rispondere a questi interrogativi.
Di Massimo Baglione.

Vedi nwANTEPRIMA (188,99 KB scaricato 51 volte).

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Human Takeaway

Human Takeaway

(english version)

What if we were cattles grazing for someone who needs a lot of of food? How would we feel if it had been us to be raised for the whole time waiting for the moment to be slaughtered? This is the spark that gives the authors a chance to talk about the human spirit, which can show at the same time great love and indiscriminate, ruthless selfishness. In this original parody of an alien invasion, we follow the short story of a couple bound by deep love, and of the tragic decision taken by the heads of state to face the invasion. Two apparently unconnected stories that will join in the end for the good of the human race. So, this is a story to be read in one gulp, with many ironic and paradoxical facets, a pinch of sadness and an ending that costed dearly to the two authors. (review by Cosimo Vitiello)
Authors: Massimo Baglione and Alessandro Napolitano.
Cover artist: Roberta Guardascione.
Translation from Italian: Carmelo Massimo Tidona.

Vedi nwANTEPRIMA (494,48 KB scaricato 258 volte).

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