La fotografia
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Con una spatola iniziò a rifinire la piccola figura. Il viso non era venuto bene, sproporzionato rispetto alle forme longilinee del collo e delle spalle. Il modello inciso nella propria mente era senza dubbio migliore rispetto a quello nato attraverso l’inesperienza delle sue mani.
Passò la punta dello strumento sui fianchi della ragazza, asportando sottili strisce di materiale plastico. Ne esaltò la prosperosa solidità dei seni con un’attenta incisione appena sopra il diaframma. Molto meglio.
Allontanò il volto dal proprio lavoro. Chiuse gli occhi. Li riaprì.
Non gli piaceva.
Fece spazio sulla scrivania dello studio. Come il giorno prima, si inumidì la punta dell’indice con un po’ di saliva e la fece scorrere con delicatezza lungo la spina dorsale della scultura, dalle scapole all’attaccatura del sacro. Guardò intensamente la foto della moglie che gli sorrideva a occhi socchiusi da sopra i volti divertiti dei bambini, imprimendosela nella mente.
Soffiò con delicatezza sulla bocca della propria creatura.
Anche questa volta, lei dischiuse le palpebre iniziando subito a ballare.
***
Marta gli versò l’acqua, sforzandosi di tenere la bottiglia ferma. Le sue braccia smagrite sembravano quelle di una vecchia. «Che hai fatto oggi?» gli chiese.
«Eh?» Carlo appoggiò il cucchiaio nel piatto. «Oh, per domani ho una relazione da terminare. Tu?»
«Niente… Ho fatto la spesa, poi sono passata da tua mamma, le ho chiesto se domani può portare i bambini a scuola.»
Lui sollevò gli occhi dal giornale. «Come mai?»
«Non ti ricordi?» attese un istante. Si schiarì la voce. «Dovevo andare per quell’esame in radiologia, quello...»
«Oh, certo!» l’esplosione di voce la fece sobbalzare sulla sedia. «Oh scusa, è che…»
«Sembri quasi contento…»
Carlo rimase in silenzio qualche secondo. «No, no, ma che dici, io… è perché ci vuole molto più tempo per queste cose, è una fortuna che siamo riusciti così presto.»
Lei sorrise. «Già, una fortuna.»
Carlo ripiegò il giornale e si alzò. «Scusa, ora è meglio se torno nello studio. Voglio finirla in fretta, la relazione.»
Si piegò in avanti e la baciò su quella guancia che solo tre settimane prima era rosea e morbida come la buccia di un’albicocca. Uscendo, l’uomo si passò inconsciamente il dorso della mano sulle labbra.
Lei guardò il piatto di minestra del marito ancora mezzo pieno. Sparecchiò e iniziò a lavare i piatti.
***
Era caduta. Lo sapeva, cazzo! Doveva metterla per terra, la scatola. Chissà come, era riuscita ad arrampicarsi e a uscire. Aveva fatto un volo di oltre un metro.
Carlo si piegò sulle ginocchia e sfiorò la figurina. Era immersa in un liquido nero, lucido come petrolio. Vischioso. Un odore metallico.
Lei sollevò un braccio.
Carlo le sfiorò la manina con il mignolo, attorno al quale si chiusero le deboli dita della donna. Gli sorrise, prima che l’arto le ricadesse sul parquet intriso del suo liquido vitale. Lui la raccolse per portarla in bagno. Prima di uscire dalla stanza, gettò un’occhiata alla pila di pacchetti di plastilina che si ergeva sulla parete accanto alla scrivania. Erano una cinquantina.
Domani, pensò, spegnendo la luce.
***
Carlo guardò la foto. I vuoti lasciati dai denti caduti di Marta gli trasmisero un senso di disgusto, amplificato dalla pelle cadente attorno agli occhi e dalle zone del cranio affette da alopecia. I bambini, che venti giorni prima la stringevano forte al collo e ridevano, sembravano volerla strangolare.
Non aveva il cancro, sua moglie. Lo sapeva lui, cosa aveva.
Scacciò il pensiero.
Con la sua immagine ben impressa nella mente, soffiò.
La donna iniziò a ballare, come le altre prima di lei. Era venuta bene. Le aveva dovuto fare uno scheletro in legno e fil di ferro per sostenerla. Nonostante questo, si muoveva con la stessa fluidità di quelle piccoline.
Era alta poco meno di lui, forme accentuate, espressiva.
Il nudo corpo della ragazza volteggiava grazioso come un angelo, carezzando le membra di Carlo con mani tozze e sapienti, elettriche. Sorrideva con la bocca socchiusa e lo guardava da sotto in su con un desiderio proporzionato solo a quello di lui. La donna si voltò, offrendogli la semplice armonia delle scapole e della schiena, guizzanti spire di serpente. Appoggiò le proprie nudità contro quelle dell’uomo, che le cinse la vita e la fece sdraiare, prona, sul pavimento. Lei si sollevò sui gomiti, inarcò il bacino e divaricò le gambe, muta e sensuale, fragile. Vera.
Carlo si immerse nel profumo chimico della sua chioma uniforme e immobile, fece scorrere una mano dall’inguine fin sul seno di lei, sfiorandole il grazioso capezzolo, l’ultima parte che le aveva donato, dolce ciliegia matura. Lei lo invitò a entrare, e lui fu delicatissimo nell’allargare il piccolo taglio che le aveva praticato con una lunga lima all’altezza del pube. La ragazza in un primo momento si irrigidì, perse un po’ di liquido vitale, strinse i glutei. Poi ricominciò a muoversi piano sotto di lui.
Carlo non aveva mai provato nulla di simile con Marta. Era come sprofondare in una vasca piena di olio tiepido. Si staccò un istante, le afferrò una gamba e la fece girare. Lei lo guardò in un mutismo ansante e paonazzo, mentre lui si gettava sul suo corpo meraviglioso, quel corpo che a lui soltanto apparteneva. La baciò sul collo.
Strinse i denti.
Un fiotto di liquido nero uscì dalla ferita e macchiò il pavimento.
Quanto è simile pensò, inebriato
quanto è simile l’espressione di un dolore estremo a quella di un piacere estremo mentre mordeva, spingeva, stringeva. La donna iniziò a dibattersi e scalciare, mentre da ogni parte del suo corpo uscivano rivoli di liquido dal sapore di
(sangue)
Ferro, e lui gridava e lei provava a parlare e lui affondava le dita e ne usciva nero petrolio e il seme il suo seme che si mescolava con…
… la scultura. Il suo volto tumefatto guardava verso la porta con un’espressione di stupore annegato, la bocca a formare una piccola O. Immobile.
Carlo si voltò.
Marta era sulla soglia, le braccia conserte che stringevano un fascicolo bianco. Sembra uno spaventapasseri pensò lui, rischiando di mettersi a ridere.
Lei lasciò cadere la cartelletta con il simbolo della San Marco e corse via. Non aveva il cancro, non c’era bisogno di analisi.
Carlo si alzò dal grumo pastoso di plastilina.
Afferrò la foto. Un lembo di pelle violaceo sembrava essere sul punto di staccarsi dalla mandibola della mummia che un tempo era sua moglie, lasciando intravedere il grigio dell’osso. I bambini che le erano avvinghiati alla gola, invece, erano così vitali che gli sembrava quasi di sentirne le risate cristalline.
Domani, pensò, guardando le due piccole statue sullo scaffale che somigliavano loro così tanto.