Gara 64 - Bando e racconti
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Giovani e bellissimi
Mi stringo nel cappotto come se volessi sparire, ricaccio indietro le lacrime. Lui, il Grande Amore della mia vita è lì, steso in un letto d'ospedale, porta ancora i capelli lunghi, ora sono grigi però... è una di quelle cose che ti fa venire voglia di sorridere fra le lacrime abusive, perché è una cosa tipicamente sua, un po' come quella di essere una testa di cazzo. Uno di quei difetti, o peculiarità, che ti portano ad amare le persone perché le rendono speciali.
È ancora bellissimo, per me. Come se avesse ancora trent'anni. Non è cambiato molto. Immagino sia ancora anche un po' testa di cazzo, proprio come me.
Il sentimento che ho provato molto tempo fa per lui è ancora così vivo dentro di me da darmi un capogiro, forse l'ho amato per tutta la mia vita. Il suo ricordo è sempre stato con me. Una canzone, un film, una frase... l'odore dei suoi capelli dopo la doccia, il sapore della sua pelle. A volte ho immaginato che sia stato così anche per lui, come se fossimo rimasti per sempre uniti da un filo sottile che ci legava a quei giorni in cui ci siamo amati. Che abbia pensato spesso a me, in molti modi differenti. Un tempo fummo anche amici, amici prima di tutto.
Sta dormendo, i medici hanno detto che non gli rimarrà molto da vivere. All'idea sento una morsa stringermi il cuore. Saranno trent'anni che non lo vedo e quando è successo è stato solo perché ci siamo incontrati per caso. Ne sono passati almeno cinquanta da quando abbiamo avuto una storia. Quando ci innamorammo eravamo giovani e bellissimi. Giovani, bellissimi, scapestrati, incoscienti, spietati e talmente innamorati da non badare a nessuna di queste cose. Io ero fidanzata, lui sposato. Sposato con la mia migliore amica. Fidanzata con il suo migliore amico. Ecco perché fummo spietati, incoscienti... ecco perché ci lasciammo.
Forse non eravamo così spietati da voler fare del male alle altre persone che amavamo, che ci amavano. Preferimmo farne a noi stessi e fui io a prendere quella decisione, per tutti e due. All'idea sento nuove lacrime pungermi gli occhi.
Ora siamo vecchi. Io non mi ricordo di essere mai più stata tanto scapestrata, spietata o innamorata. O giovane.
Abbiamo avuto delle vite felici, la mia lo è stata in fondo, fra alti e bassi. Da ciò che so lo è stata anche la sua. Ha avuto dei figli, sono bellissimi. Io non ne ho avuti. Forse con lui avrei fatto anche quella pazzia. Forse sarebbero miei quei figli giovani e bellissimi che se ne stanno accanto al letto con gli occhi umidi.
Davanti a me c'è sua moglie, quella che un tempo fu la mia migliore amica. Io credo che non abbia mai saputo della nostra storia. Però immagino che abbia avuto dei sospetti, le donne lo sentono. Dopo che io e lui troncammo per il bene di tutti quanti io e lei ci allontanammo piano piano, ci allontanammo tutti piano piano. A lui faceva troppo male vedermi fingere di essere felice, a me faceva troppo male vederlo e anche un po' sentirmi stronza.
Tutti i dettagli del nostro amore mi tornano alla mente vividi come non sono mai stati. La notte nel parcheggio, l'odore della pioggia, la voglia di stare insieme, di sentirmi dire anche solo una parola che confermasse che non ero la sola a essere pazza d'amore. Il rischio di essere beccati, la follia, il sesso, la passione sfrenata, le risate, il suo tocco sulla mia pelle, le mie mani che stringevano le sue come per non lasciarlo andare mai. Quella me stessa forse è sparita quando tutto è finito con lui, cinquant'anni fa. Eppure ho pensato a lui ogni volta che mi sono sentita sola, sminuita... triste. Avevo avuto quei sei mesi di amore folle... forse è più di quanto abbiano avuto molti altri.
Deglutisco per non piangere. Sollevo lo sguardo e incontro quello di lei, annuisce piano... piano piano. Il confine fra il rimpianto e il rimorso si assottiglia; riconosco quello sguardo, è quello di una donna che sta perdendo l'amore della sua vita. Deve essere così anche il mio. Mi dispiace di averle fatto, in qualche modo, del male. Mi dispiace tantissimo. Mi dispiace anche di averla persa. Il suono delle nostre risate da amiche adesso sembra un'eco lontana, troppo. Un coltello nel cuore. Sono stata egoista, giovane e bellissima.
Una lacrima clandestina evade dai miei occhi traditori e cade sul lenzuolo bianco. Vorrei urlare: come sempre in presenza di questo Amore Grande ho perso quasi il controllo, anche se ora sono una vecchia, e si presume dovrei essere più saggia. Ovviamente anche lei è invecchiata e lo ha fatto meglio di me. Ne sono contenta, a lui in fondo è andata meglio così. Lei era fatta apposta per lui, io fui solo una follia.
L'amica che ho tradito nel modo più infido sorride, gli occhi arrossati, annuisce piano, mi fissa e io so che ha capito tutto. Forse lo ha fatto adesso, dopo più di cinquant'anni. Magari lo ha sempre saputo. Fatto sta che ora nel suo sguardo leggo il perdono e so che quel perdono esiste perché fra poco lo perderemo entrambe. Lei starà peggio di me perché non lo ha mai perso prima d'ora. Saremo sole, senza di lui e senza di noi. Il senso di colpa mi afferra per poi lasciarmi andare. Non posso sentirmi in colpa per un motivo preciso: rifarei tutto quanto. Forse non cambierei niente, non sceglierei neppure di lottare per restare con lui, facendo del male alle altre persone, deludendo tutti. Lo lascerei di nuovo andare.
Credo sia per quello che è stato un Amore Grande, perché non si è scontrato con la vecchiaia, con i malanni, con la sopportazione della quotidianità.
Sì, è stato un Amore Grande, l'amore di una vita che abbiamo vissuto lontani. Love of a Lifetime. Lui adesso ci lascerà entrambe e il mondo sarà meno colorato, ma il suo ricordo mi accompagnerà per sempre. In una parte del mio cuore resterà sempre con me, giovane e bellissimo.
Mi chino e gli deposito un bacio sulle labbra, infischiandomene di tutti i mormorii che sento. Per un attimo sono di nuovo giovane e bellissima anche io, stronza e scapestrata, follemente innamorata. Poi le lacrime mi fanno sentire di nuovo una vecchia con troppi ricordi e altrettanti rimpianti.
Borbotto un saluto ed esco dalla stanza. Non voglio che lui si svegli e mi veda. Il viaggio nei ricordi è troppo doloroso, non voglio che lui viva il mio stesso imbarazzo o provi la mia stessa nostalgia. Voglio proteggerlo. O forse, semplicemente, voglio che il ricordo di me che porterà dall'Altra Parte, sia quello di una donna giovane e bellissima. Ora non mi servono più conferme, mi bastano i ricordi... tengono a bada i rimorsi.
- Angela Catalini
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
ESSERE LA SIGNORA SANDERS
Mio marito torna con un mazzo di chiavi che getta sulla guardiola.
- Lo sgorbio del piano di sopra ha il cancro, starà via due mesi, mi ha dato le chiavi dell’appartamento per le piante e il gatto.
Mentre se ne va, farfuglia qualcosa sulle noie che deve sopportare un portiere per mantenere il posto di lavoro, come se il cancro fosse una grana che grava sulle sue spalle piuttosto che su quelle del signor Sanders, il signore anziano che vive nell’appartamento al secondo piano.
Ha iniziato a chiamarlo “sgorbio” per via di una malformazione alle ossa che con gli anni è peggiorata costringendolo a camminare piegato in avanti, come se trasportasse un grosso peso. Non sapevo si fosse ammalato, del resto, è sempre stato discreto e dubito che qualcuno del condominio fosse al corrente delle sue condizioni.
Prendo le chiavi e le tengo nel palmo della mano; sono fredde, come deve essere l’esistenza di una persona che ha perduto la compagna di una vita. Mi ricordo perfettamente della signora Sanders, era una donna piccola e sorridente, amante degli animali e ottima conversatrice. Si intratteneva a parlare con chiunque e aveva sempre una parola buona per tutti. Mi ricordo i capelli radi e sottili che portava cotonati e gli occhiali dai colori accesi, che, diceva, servissero ad accendere le giornate, anche quelle più grigie e tristi.
Mi avvio per le scale, il mal di schiena non mi ha dato tregua per tutta la settimana, ma ormai ho imparato a convivere con i dolori, me li porto appresso e cerco di non pensarci, tanto non se ne vanno. A volte mi fermo e immagino di essere giovane e longilinea, dicono che il potere dell’immaginazione faccia miracoli e se riesco a non muovere neppure un muscolo ed evito persino di respirare, il dolore si allevia.
L’appartamento del signor Sanders lo rispecchia: è pulito, ordinato ed elegante. Nella sala illuminata a giorno dalla vetrata, ci sono diverse piante, una grande libreria e quadri di diversa grandezza con i colori sbiaditi. Passo il dito sul dorso di ogni libro e lo faccio scorrere sui titoli come se leggessi in braille. Ho questa cosa di voler toccare le cose, come se potessi assorbirne l’essenza, capire, recepire, sentire.
In un angolo c’è la poltrona dove la signora Sanders, quando era in vita, amava sedere per leggere libri o correggere i compiti dei suoi allievi. La camera da letto è chiusa a chiave, perciò non dovrò occuparmene. Il gatto di chiama Oliver, è un gatto di strada con il pelo corto e gli occhi grigi. Sonnecchia tutto il giorno tranne quando ha fame e allora ti guarda con cert’occhi supplicanti che non puoi ignorare.
Durante l’estate le incombenze di un portiere sono maggiori perché le piante del condominio devono essere annaffiate più spesso e alcuni condomini ospitano amici e parenti e non si finisce mai di pulire. A volte, quando mi occupo dell’appartamento del signor Sanders, tiro un respiro di sollievo perché mio marito se ne disinteressa ed è un luogo riservato solo a me.
Così, dopo aver sistemato la lettiera del gatto, spolverato i mobili e passato la cera, mi siedo sulla poltrona della signora Sanders e immagino di essere una professoressa in pensione con la testa piena di nozioni.
Intorno alla poltrona ci sono diverse piante, la più alta ha dei fiori gialli che sporgono verso la vetrata, ai lati invece, sono sistemati due vasi di felce con le foglie sottili, che a volte fanno il solletico alle gambe. Mi piace leggere libri sulla poltrona della signora Sanders e qualche volta Oliver si avvicina e fiuta l’aria cercando odori famigliari che non trova.
Prima di uscire sbatto il tappeto e annaffio le piante, usando il vaporizzatore per le foglie che le rende lucide e brillanti.
La mia vita da qualche tempo si divide tra l’appartamento attiguo alla guardiola e quello del signor Sanders. Sono due mondi diversi che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro e quando varco la soglia dell’uno o dell’altro, mi sembra di indossare una pelle differente, di essere una persona diversa.
Mio marito non si è accorto di questa metamorfosi che è soltanto mia. Di notte, mentre dorme al mio fianco sprofondato in un sonno pesante e rumoroso, penso al Signor Sanders e a volte sogno di essere sua moglie e di vivere nella casa al piano di sopra, piena di calore, profumi e ricordi, oppure camminiamo per la strada e lui mi tiene il braccio sulle spalle come se fossimo giovani. Parliamo tanto e lui mi bacia le guance e mi dice che sono bella.
E certe volte, quando mi sveglio e vedo la luce del giorno che fa brillare il pulviscolo della stanza, mi chiedo chi sono e non ho risposte.
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Quando è nato Piero
Nel periodo che precedette la sua nascita, alcuni miei parenti si divertirono ad alimentare in me la gelosia per quella creatura che non aveva altra colpa se non quella di essere stato concepito, dopo di me, dai miei genitori.
“Ormai tu sei quasi una signorina, mamma e papà non avranno più tanto tempo per te; ti vorranno un po’ meno bene... ora che nasce il fratellino.”
Queste parole, anche se dettate dal fine ultimo di prepararmi all’inevitabile cambiamento, mi fecero molto male; minavano alla base, facendoli vacillare, gli affetti familiari sui quali affondavano le radici della mia serenità, come per ogni altra creatura non pronta ad affrontare in modo autonomo gli ostacoli della vita.
“Quando nasce lo butto dalla finestra!”
Così rispondevo per difendermi da quelle provocazioni, vere cattiverie di adulti ottusi.
L’azione che minacciavo non era poi così nefanda: abitavo in un piccolo villino della periferia romana... e la casa era al piano terra!
Arrivò il giorno in cui mia madre ebbe la gioia di avere tra le braccia il secondo figlio.
Mi bloccai davanti alla porta di una corsia del reparto maternità del Policlinico Umberto I di Roma, rifiutandomi di entrare. Tiravo fuori la mia rabbia o era la rabbia che mi guidava...
Mio padre, uomo generoso ma privo di pazienza, consapevole del fatto che io avrei continuato nel mio atteggiamento chissà per quanto ancora, risolse l’empasse con una sonora sberla!
Entrai. Vidi mio fratello ma non ricordo nulla.
Risalgono al tempo in cui Piero aveva sei o sette mesi i primi ricordi nitidi nei quali io, considerandolo più un gioco che altro, spingevo la carrozzina dove dormiva o quando gli preparavo il semolino di cui ne mangiavo metà e con il resto lo imboccavo giocando a fare la mamma con un bambolotto vero.
Il tempo cura tutte le ferite e io cominciai a voler bene sempre più a Piero, il piccolo che mi esternava il suo affetto nei modi semplici, ma inequivocabili, che conoscono solo i bambini.
Venne il giorno in cui, anche se per un periodo limitato, fatto comprensibile per me ma non per mio fratello che aveva sì e no quindici mesi, ci separarono.
Era finita la scuola e mio padre chiese a sua sorella, che viveva in campagna nel piccolo paese in Sabina dove era cresciuto, se poteva ospitarmi per qualche settimana.
Le vacanze della mia infanzia. Non villaggi turistici con animazioni per grandi e piccini; non la crociera con scalo nei maggiori porti del Mediterraneo... e il mare? Lo avevo visto solo nelle illustrazioni dei libri di scuola.
Quelle poche decine di chilometri, che separavano la mia casa dal litorale laziale, erano sempre troppe per noi che, come quasi tutti a quei tempi, non possedevamo l’automobile.
In campagna da mia zia arrivai con l’Alfa Romeo di un amico benestante che si prestava ad accompagnarci in cambio di pranzi, uova, polli, vino, olio… ma che l’avrebbe fatto ugualmente in nome dell’amicizia che univa le nostre famiglie.
Mio padre mi lasciò e se ne tornò a Roma. Dopo qualche giorno, superati gli imbarazzi iniziali, ero completamente a mio agio tra galline, maiali e gite con i miei cugini, lungo il ruscello, a pesca o a caccia di girini.
L’estrazione contadina, impressa nel mio DNA, prendeva coraggio e si manifestava nel mio adattarmi a una vita faticosa e difficile per la mancanza di acqua corrente, energia elettrica e telefono nella fattoria, tre capisaldi della società moderna di cui oggi nessuno farebbe a meno.
Proprio perché non si poteva comunicare, seppi, solo dopo, che mio fratello mi cercava... Seduto su uno dei due scalini della nostra casa di Roma, mi chiamava ogni giorno per ore cantilenando il nomignolo che usava abitualmente:
“Tata… Tata… Tata. ..”
Per mia madre era una sofferenza continua, preoccupata per la salute di quel figlio a cui tanto mancavo.
A mio padre non rimase che anticipare le ferie per riunirci.
Arrivarono senza avvisare, sempre con l’Alfa dell’amico.
Noi ragazzi, intenti a correre dietro galline e lucertole, fummo distolti dal gioco dal rumore della frenata dell’automobile.
Si era fermata sul viottolo sterrato che arrivava vicino alla fattoria di mia zia. Corremmo a curiosare... fermi ipnotizzati come davanti a un ufo proveniente da chissà quale galassia.
Si aprì la portiera della macchina; scese mio padre, si girò, prese in braccio mio fratello e lo posò sul terreno sconnesso, raccomandandogli di andare piano.
Piero teneva in mano quel che restava di un pezzo di pane duro masticato nel viaggio. Mi vide, gli brillarono gli occhi e, con un filo di voce eslamò:
“Tata!”
Mi tese, poi, quel pezzo di pane duro che era tutto ciò che aveva, che diceva più di tante parole che avrebbe potuto dire un adulto eloquente… un pezzo di pane che valeva per me e per lui più di qualsiasi altro tesoro al mondo.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Vestito rosso e niente scarpe
Ecco come mi descriverebbe un giovane scrittore amatoriale nel cercare di imprimere le prime battute della giornata sul foglio bianco: la splendida donna camminava spedita lungo il marciapiede, il bel sedere alto e sodo avvolto da un vestito attillato color sangue; un colore che ricordava la tonalità dei suoi capelli, i quali le ricadevano sulle spalle e fra gli odorosi, candidi seni come fossero una cascata di rubini.
Sì, il giovane scrittore amatoriale, mai l’avrebbe ammesso, doveva pure essere un po’ maschilista.
Tra l’altro non mi chiamo neanche Fiona, ma di certo nella mente sguercia dei giovani scrittori il nome deve risultare accattivante, ferino, carico di promesse erotiche.
Invece mi chiamo semplicemente Giovanna, indosso un vestito rosso e cammino spedita tra le vie deserte di una qualunque cittadina di periferia che potete chiamare come volete. Sono bella, ho i capelli rossi e gli occhi verdi ma la questione non è importante. Dimenticatevene.
Imprimetevi invece fra le retine quest’immagine. Giovanna, nel suo vestito rosso, che cammina per stradine deserte, scalza.
Esatto, scalza.
Niente rumore di tacchi nel silenzio di quell’alba. Il vento è morbido e l’umidità ancora sonnecchia al suolo, o appesa ai muri e alle finestre. Si respira bene, si pensa bene e si sta bene.
Le vie potete immaginarle come vi aggrada: larghe o strette, a doppio senso, con le strisce pedonali o con le piste ciclabili; costellate di buche, ben asfaltate, buie, puzzolenti, in discesa: davvero, come vi pare. Basta che siano deserte, non ci deve essere neanche un topolino. Magari metteteci qualche scarafaggio, o qualche mosca sonnolenta che comincia a prepararsi alla giornata, ma non esagerate. I suoni sono ronzii pacifici, fruscii di cartacce sospinte tra i vicoli e lievi gocciolii di vecchie tubature.
Eppure, so che svoltato l’angolo dovrò intervenire e descrivervi esattamente ciò che c’è. Non posso chiedervi uno sforzo immaginativo così ardito. E allora, tanto vale svoltarlo, il benedetto angolo, no? Togliamoci subito il pensiero: lo spazio è poco, non voglio creare false aspettative.
Prevedibile.
Spero non vi annoiate, la trama è davvero semplice, scarna. L’avrete già sentita mille volte.
Non è come in quegli horror b-movie americani dove la protagonista, superba e piena di armi fra le gambe lunghissime, si ritrova sorpresa da un qualcosa di incommensurabilmente più numeroso di lei e, accompagnata da una tonante orchestra di tamburi da battaglia, inizia magnificamente a sbudellare a suon di pistolettate il qualsivoglia numero di mostri. No.
È esattamente come in quegli horror b-movie americani dove la protagonista, senza un briciolo di armi se non un coltello da cucina appollaiato sulla schiena e sapendo esattamente di essere in numero incommensurabilmente più esiguo rispetto all’orda di schifezze putrescenti che si ritrova davanti, non ha però altra scelta di doverle scavalcare una dopo l’altra facendo presagire all’eccitato spettatore quello che sarà un indimenticabile volteggiar di gambe e pelle nuda, il tutto accompagnato da una sinfonia frenetica di violini e sequenze al cardiopalma.
Scusatemi, lascio stare per un secondo l’ironia e mi getto a capofitto nella descrizione di quanto sta accadendo: devo concentrarmi.
Sono circa una cinquantina. Non c’è bisogno di descriverli per bene: sono non-morti. Pelle rancida, membra in decomposizione e tutto il resto. Si muovono placidi urtandosi come gattini ciechi e gemendo moribondi: li abbiamo visti tutti.
Ho pochissimo tempo per trovare un canale per passare. Due mi hanno già visto, allungano le braccia e disarticolano le mandibole mimando una masticazione immateriale.
Sparo due urla ridicole per attirare l’attenzione dei restanti. La maggior parte di loro ha ancora almeno un timpano integro e percepisce subito la preda. La torma purulenta inizia a muoversi, l’aria intorno a essa freme di umori osceni e aliti affogati. Sembrano moltiplicarsi ogni volta. Giorni fa erano solo una decina. Io e Guido dovremo spostarci. Presto.
Quando le prime fila di defunti sono a un paio di balzi da me, eccomi a ripetere la solita coreografia. Ho le gambe forti, due giorni fa ho mangiato carne e sono ben idratata. Un tempo sarei stata schiacciata da una situazione simile, oggi mi fa quasi divertire. Do un ultimo sguardo al mio obiettivo: un terrazzino posto al primo piano di una palazzina gialla, incastonata fra due edifici mastodontici… e via! Inizio a volare.
Sento pure esplodere nella testa il rumore secco di uno starter, come fosse veramente l’inizio di una corsa. Eppure il rumore non è quello di uno starter e, soprattutto, non è nella mia testa.
Il proiettile mi trapassa un polpaccio, sento i tessuti interni ritrarsi come a volersi fare piccoli, minuscoli; poi il dolore dilaga, immenso e rosso e liquido, e io non posso fare altro che cadere con la faccia tra la polvere.
Peccato, sembra che il mio viso non sarà più molto cinematografico, dopo questa scena.
La portafinestra del terrazzino si apre di schianto. Sussulto. Vestito rosso e niente scarpe.
Diamine, la troia.
La troia ce l’ha fatta di nuovo.
Strega! Puttana! Porca!
«Guido, amore mio,» piagnucola attraverso le labbra tumefatte, «ce n’era un altro…» mi getta qualcosa davanti. Inorridisco. Se potessi urlerei e urlerei e urlerei. Ma la troia mi ha bruciato le corde vocali. Per il tuo bene, mi aveva detto dopo avermi risvegliato a suon di pompini. Troia malata! Sembrava così indifesa, così impaurita…
Maledetto me. Maledetto me e il mio fottuto uccello!
A terra c’è un occhio. So che è di Stefano. Era l’ultimo di noi. Una visione talmente disgustosa che non posso fare a meno di continuare a guardare.
«… Non me l’avevi mica detto, Guido mio, che c’era un altro dei tuoi amici…» la puttana si passa la lingua sugli incisivi spezzati. Si avvicina a me zoppicando, scalza. Sangue, tanto sangue sul suo piede destro. «Te l’avevo detto che volevo rimanessimo solo io e te, no? Mi ha fatto male sai?» la puttana fa il broncio. Anche così conciata, sembrerà ridicolo, ma è ancora in grado di farmi pensare a quant’è bella. Puttana!
Si inginocchia sul pavimento dove sono seduto, vicinissima, poi mi afferra i capelli e tira all’indietro, scoprendomi la gola. Sono contento di essere legato: mi è venuto l’indecente desiderio di abbracciarla.
Mi lecca la cicatrice fino al mento. Non ha quello che si possa definire un buon odore.
Accarezza piano il moncherino che rimane della mia coscia. «Domani ti prometto che ti porto della carne...» geme sul mio orecchio. Allunga una mano dietro la schiena e afferra il coltello da cucina. Appoggia la lama poco sopra il tessuto da poco cauterizzato. «…ma oggi sono io che ho bisogno di mangiare.»
La mia erezione si svuota in un baleno.
"Ho appena fatto la cacca". Un uomo libero.
- Angelo Manarola
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
MEDITAZIONI
Mi chiamo Mirko ma questo ovviamente lo sapete già dato che non essendo un personaggio famoso, le mie considerazioni sono rivolte ai pochi che mi conoscono.
Parenti soprattutto poiché alla mia veneranda età di novantadue anni, i molti amici sono già deceduti da tempo.
E’ parecchio tempo che avverto il cuore stanco traballare sempre più, ma cerco di resistere per non addolorare la dolce compagna di vita, distesa accanto a me.
Sono mesi e mesi che Gianna non riesce più a parlare e ad alzarsi dal letto, eppure il tocco della sua mano sulla mia riesce a trasmettermi discorsi profondi condividendo con me tanti ricordi di emozioni ed episodi trascorsi e vissuti assieme.
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Nonostante il sole entri dalla finestra, mi sembra di essere in quel particolare momento della sera quando ti trovi tra la veglia ed il sonno e i pensieri sembrano diventare sogni e i miraggi onirici, invece, realtà veramente esistenti.
Sono ormai anziana e l’unica cosa che mi tiene aggrappata alla vita è il desiderio di rimanere ancora vicina alle persone che amo. Soprattutto i nostri figli e i miei nipotini che danno gioia al cuore e allo spirito.
Poi c’è lui, Mirko, che ha trascorso i migliori anni della mia vita accanto a me. Sono preoccupata nel vederlo, e sentirlo soprattutto, diventare sempre più debole e indifeso.
Vorrei fare qualcosa per lui ma sono troppo debilitata ormai per accudirlo come dovrei.
Non riesco a parlare da tempo ma la sua voce mi rallegra sempre come quando, da giovani, mi prendeva in giro facendomi ridere o mi raccontava favole dove io ero la regina o la fata o una bellissima ragazza ma sempre, la protagonista di avventure che finivano costantemente a lieto fine. Il nostro lieto fine.
Il sonno sta aggredendomi sempre di più immobilizzandomi quasi completamente. Solo la mia mano sinistra stretta nella sua, riesce a percepire il contatto delle sue dita. Anche lui pare ascoltare i miei pensieri, annuendo flebilmente con una piccola e uguale risposta, rispondendo alla mia carezza.
Sicuramente ha sentito la mia buonanotte e altrettanto certamente, mi sta rispondendo.
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Si è addormentata. Ora finalmente posso appisolarmi anche io.
Sono sicuro che domani saremo finalmente guariti entrambi. Bisogna che in questi pochi attimi di lucidità, mi inventi una nuova favola da raccontarle domattina mentre correremo in qualche prato, nuovamente giovani e agili, godendoci questo sole di maggio.
Autore presente nei seguenti ebook di BraviAutori.it:
- Daniele Missiroli
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI
Seduto davanti al mio vecchio professore, in una stanza triste e grigia, mi sento come Giuda prima del famoso bacio.
La prima pagina è tua se mi porti la sua vera storia - mi ha detto il direttore.
Chiudo gli occhi per farmi coraggio, poi dico: - Prof, le dispiace se accendo questo?
- John, ho accettato a vederti perché mi fido di te. Però voglio che tutto questo resti fra noi. Metti via quell’affare e dammi del tu.
- Hai la mia parola, Ben.
L’ho rassicurato. Metto il registratore in tasca, lasciandolo acceso. So che domani mi odierò per questo.
- Ann era una donna minuta. Aveva i capelli biondo platino e gli occhi chiari: era la mia piccola, adorabile, bambola di porcellana. Insegnava alle elementari ed eravamo felici. A soli trent’anni avvertì uno strano formicolio alle gambe. Un esame ci rivelò subito la tragica verità: avrebbe perso lentamente l’uso dei muscoli del corpo. Non c’era cura.
- Questo non risulta dagli atti processuali – gli dico, sbalordito.
- Voleva che non lo sapesse nessuno. Dopo cinque anni dalla diagnosi, una sera si accorse che le gambe non rispondevano più. Lo sconforto attraversò i suoi occhi per un breve istante, poi il viso tornò a splendere come sempre. Io la guardai angosciato, ma lei disse: “Va tutto bene caro, è solo venuto il momento”. Io le risposi: “Come fai a sapere che ce l’ho già?” E lei: “Non è da te farti cogliere impreparato”.
- Ti eri già procurato una carrozzina?
- Sì, e avevo anche acquistato un’auto modificata. Tutti i giorni l’accompagnavo a scuola e la andavo a riprendere. Mi resi conto che in questo modo potevo passare più tempo con lei, e ciò mi sollevò un po’. S’impadronì subito del sistema di controllo. Bastava una mano per usare la levetta che le permetteva di muoversi in ogni direzione e le sue mani funzionavano ancora bene. Ma per quanto?
Mille domande mi attraversano la mente, ma non oso interromperlo.
- Pensavo notte e giorno a cosa potessi fare per migliorare la sua vita. Non mi rendevo conto che il tempo era limitato: ragionavo come se ogni nuova condizione fosse quella definitiva. Presto mi abituai a vederla muoversi su quel veicolo, dimenticando che il destino era contro di noi. Questo periodo di felicità relativa volò via senza che me ne accorgessi. Dopo altri due anni, la mia Ann non fu più in grado di comandare gli arti superiori: riusciva a muovere solo la testa.
- Aveva bisogno di assistenza, quindi.
- Rimanevo io con lei. Pranzavamo in mensa e così potevo aiutarla in tutte le sue necessità. Nessuno si accorse di nulla. Mi resi conto, però, che rimaneva solo una cosa che poteva darle ancora un minimo di autonomia. La voce era la risposta! La sua dolce voce poteva essere usata per pilotare la sedia, grazie a un software di riconoscimento vocale. Un amico ingegnere mi aiutò a collegare un portatile ai comandi della carrozzina. Fu così che la misi in grado di muoversi di nuovo, tramite pochi semplici ordini: avanti, ferma, destra, sinistra. Quando si rese conto di ciò che avevo fatto per lei, ci guardammo come scolaretti al primo appuntamento, e io la abbracciai, senza riuscire a trattenere le lacrime. Fra noi non servivano più le parole: era lo sguardo il nostro sistema di comunicazione. I suoi occhi riuscivano a parlarmi.
- Eravate diventati una cosa sola.
- Passarono sei mesi prima che anche le corde vocali si fermassero. Adesso era completamente paralizzata e allora ci chiudemmo in casa. Nel frattempo, io avevo contattato tutti i miei colleghi ingegneri e avevo trovato la soluzione anche a questo problema. Un’interfaccia neuronale, tramite un casco, permetteva di mandare segnali a un computer. Lui li interpretava e li utilizzava sia per comandare il movimento della carrozzina, sia per eseguire la sintesi vocale di una serie di parole. Se i motoneuroni stavano morendo, gli altri funzionavano ancora, ed erano quelli che adesso doveva usare per avere una vita normale. La chiamerò così, anche se di normale non c’era più niente.
- Hai fatto un miracolo, Ben.
- Esisteva solo un prototipo di quel genere. Cedetti la casa alla loro fondazione, e per questo acconsentirono a darmelo per qualche tempo.
- Gli hai regalato la tua casa?
- Il tempo stava per scadere e senza di lei non m’importava di nulla. Ho scritto un diario sull’evoluzione della malattia e l’ho dato a un amico, il dottor Stein. Mi ringraziò moltissimo e mi diede una pastiglia di Kilax. Disse che gli ultimi giorni sarebbero stati terribili. Dato che non c’era niente che si potesse fare, aveva senso continuare?
- Anche il dottor Stein è stato arrestato, Ben. La legge è severissima sull’uso di quel farmaco.
- Dopo due mesi, la macchina smise di funzionare. Lei respirava e muoveva gli occhi, ma non era in grado di fare altro. Chiesi ad Ann se voleva prenderlo e lei mi disse “No”. Le chiesi se aveva capito che cosa le stavo proponendo e rispose “Sì”. Il suo cervello funzionava ancora. Avevamo stabilito da tempo un codice: un battito di ciglia per il Sì e due battiti per il No. Gettai via il Kilax e poi le chiesi se voleva guardare le nostre vecchie foto o i film. Le dissi che l’avrei portata a vedere i panorami più belli del mondo, oppure ovunque lei volesse andare, ma rispondeva sempre di no. Qualsiasi cosa le proponessi, non andava bene. Ero disperato! Mi accasciai sul pavimento e piansi tutta la mia impotenza contro il destino crudele. Poi… ebbi un’illuminazione. Le chiesi se voleva semplicemente che restassimo insieme, abbracciati, senza fare niente. Fu a quel punto che la vidi sorridere. Non sorrise con il viso, ormai congelato dalla malattia, ma con gli occhi. Si illuminarono e abbassò le palpebre una sola volta. Finalmente avevo capito. Rimanemmo così, occhi negli occhi, abbracciati sul letto come due adolescenti. Poi mi addormentai.
Quando mi svegliai, lei aveva gli occhi chiusi e mi resi conto che… non li avrei rivisti più. Mai più.
- Allora non l’hai uccisa tu! – gli grido, alzandomi di scatto. - Dobbiamo avvisare subito le autorità!
Lui mi trattiene per un braccio e dice: - Lascia stare John. Sei l’unica persona che lo deve sapere. Era quello che mi serviva in questo momento e tu me l’hai dato. Grazie, non mi occorre altro.
Non riesco a liberarmi dalla stretta e il suo viso mi convince. Mi risiedo, avvilito.
Ora resta solo il silenzio. Pesante, come il mio respiro.
Poi sentiamo la porta aprirsi.
Mentre le guardie entrano per accompagnarlo nella stanza dell’iniezione letale, lui sorride felice, si alza e mi dice: - Scusami John, ma vado di fretta. Non la vedo da troppo tempo.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Puffetta era incredibilmente puffa quella notte. I suoi puffi d’oro le puffavano sulle spalle come puffi di puffo su una puffa appena puffata. Le sue puffe sode svettavano come bacche di puffragole su un puffo in una puffa d’estate.
« Puffami » disse, implorante.
« Io non puffo » le disse lui, puffandole il viso. « Puffo forte. »
Senza puffo ferire, lui estrasse il puffo più puffo che si fosse mai visto da quel lato del fiume Puffo e lo puffò ritmicamente fra le sue puffe generose, che la Puffetta teneva strette contro i suoi puffi, quasi temesse che lui potesse puffarle via, come un dente di leone trascinato da un capriccio di vento.
« Puffami » disse lui. Lei lo puffò.
« Puffami » disse lei. Lui la puffò. Appena fuori dalla graziosa villetta in stile Puff-Vittoriano, oltre le graziose tendine chiuse e la puffa serrata e il viale puffo che si puffava come un puffo a sonagli, la vita del villaggio si spegneva piano, soffocata dal copripuffo.
Lento si puffava il gemito autoerotico di Vanitoso. Si spense il lamento funebre di Stonato. Persino sulla Fonderia di Inventore, e sulle sue puffe mortali al servizio del Tiranno, puffò il silenzio. Intanto, fra le quattro puffe della piccola villa, i due amanti seguitavano a puffarsi.
Quando giunse il momento dello scudiscio, lui la puffò come un puffato a morte.
« Mi fai puffare tre mele sopra il cielo » puffò lei, in un soffio.
« Tre mele? »
« O su per giù. »
Puffarono la notte puffando tutte le sessantaquattro posizioni del Puffasutra, compresa quella segreta la cui puffa il Grande Puffo custodiva gelosamente fra le puffe del suo libro di formule puffe. L’alba li sorprese puffati l’uno all’altra.
« Puffa un altro giorno » puffò lei. Il puffo puffava dal suo viso, mentre una puffa stillava dolcemente dal suo puffo. « Perché dobbiamo puffare segreto il nostro puffo? »
« Ancora un po’ di pazienza, mia Puffetta » disse lui, asciugandole la puffa con dolcezza. Poi uscì dalle puffe e con un puffo brusco aggiunse: « Il Tiranno non potrà puffarci separati ancora a lungo. La Resistenza ha già puffato ormai. Tra due puffi il Grande Puffo attraverserà il ponte sul fiume Puffo e allora… »
« E se qualcosa puffasse male? » Puffetta non riusciva a puffare lo sguardo dalla puffa del puffo che amava, mentre goffamente infilava i calzoncini bianchi e puffava un oggetto dal suo comodino. Un oggetto familiare, da sempre simbolo del suo puffo. « Che ne sarà di te? Che ne sarà di… noi? »
« Pufferà quel che deve puffare. La Storia non è che la puffa dei vincitori » sussurrò Quattrocchi puffando i suoi occhiali di viscosa, neri come la notte più puffa.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
AMORE MALATO
Un tramestio fuori dalla porta mi sveglia, guardo l’ora, sono le quattro e mezza.
Mi precipito alla porta e guardo dallo spioncino. Un essere sporco e barcollante sta tentando di aprire la porta di casa con le chiavi della macchina.
Avevo ragione, è lui.
Adesso si è arreso e si corica sullo zerbino. Dall’interno si sente Jigen, il suo gatto, che gratta la porta e miagola, forse sperando che il padrone si riprenda dalla sbornia colossale che si è concesso, anche oggi, una volta di più.
Fausto è mio vicino di casa da due anni, è arrivato nel palazzo in silenzio. Si sono capite subito le sue intenzioni: usare l’alloggio come un semplice magazzino per se stesso e il gatto. Non da fastidio a nessuno, lo si sente pochissimo. Il gatto è una specie di fantasma, si aggira ovunque ma nessuno tranne me lo vede. Io lo vedo perché spesso, quando in casa non trova più cibo, viene a grattare alla mia finestra.
Fausto sarebbe un investigatore privato, ma in realtà lavora molto saltuariamente come buttafuori in un night club della zona, e per il resto passa le sue serate a ubriacarsi, quasi sempre a scrocco di un amico, che probabilmente gli deve molti favori.
Diciotto mesi fa è rientrato a casa quasi sobrio per i suoi standard, ma lo stesso, complice la serratura difettosa, non riusciva ad aprire la porta di casa. Ero ancora sveglia a studiare, sono uscita e l’ho aiutato, e lui mi ha offerto un caffè. È stata la prima volta che abbiamo scambiato più di un “buongiorno”. Mi incuriosiva quell’uomo taciturno, ma non mi osavo attaccare bottone.
Il caffè in realtà l’ho preparato io perché lui ha dovuto battere precipitosamente in ritirata verso il bagno. Dopo, mi ha raccontato un po’ della sua vita, o almeno la parte che lo ha condotto a questa vita fatta di sbornie e poco altro.
È stato allora che mi sono innamorata. Fausto è un essere sensibilissimo, si è praticamente rovinato per aiutare il prossimo, e l’unica cosa che ne ha ottenuto sono stati due divorzi, nessun lavoro stabile, e un gatto che lui non voleva, ma al quale è ormai affezionato più che a se stesso.
È anche un bell’uomo, nonostante non si curi affatto. Soffre tantissimo, sempre, e anche se cerca di nasconderlo, io lo capisco dagli occhi. Non comprendo come non una ma bensì due donne possano averlo sposato e poi rifiutato.
Da quella sera ho perso il conto delle volte in cui l’ho raccolto dallo zerbino, sporco e maleodorante, e l’ho aiutato a entrare in casa. L’ho anche aiutato a svestirsi e mettersi a letto.
Ha capito fin da quella prima volta che sono cotta di lui, e non perde occasione di rimproverarmi, soprattutto se mi spingo troppo oltre nell’aiutarlo, quando stento a frenare i miei impulsi bassamente carnali. Mi dice di non sprecare tempo con un rifiuto come lui, di curare il mio fidanzato ricco e andarmene da questa topaia, ma non c’è verso, lo amo nonostante tutto.
È tutto sbagliato, compreso il fatto che è di venti anni più vecchio di me, ma da diciotto mesi a questa parte io sto tergiversando con la laurea, nella speranza senza senso che lui cambi idea. Ho dubitato di me stessa, dei miei sentimenti, e anche di lui a volte. Poi ho deciso, e questa è la notte giusta. Antonio, il mio fidanzato, è di là, in camera. Ha un sacchetto della spesa legato sulla testa, e il rigor mortis ormai è iniziato. L’ho invitato a pranzo, e dopo pranzo, facendogli credere a un gioco erotico, l’ho legato alla sedia e soffocato. Non sapevo se ne avrei avuto la forza, ma ce l’ho fatta. In fondo mi vedeva solo come una bambola gonfiabile.
Mi metto addosso una vestaglia, esco sul pianerottolo e raggiungo Fausto, cerco le chiavi, che tanto tiene sempre nella stessa tasca dei jeans, apro la porta. Jigen corre fuori emettendo un basso miagolio prolungato, poi si struscia addosso al suo padrone il quale, pur ubriaco, lo saluta con un ciao masticato. Prendo Fausto per le braccia e lo trascino in casa fino al “letto”, cioè una rete con le gambe rotte e un materasso. Faccio rotolare il corpo sul materasso, e comincio a svestirlo. Quando resta in mutande, comincio a spogliarmi. Lui protesta, ma questa volta non mi lascerò fuorviare. Lo bacio a lungo ovunque, quanto ho desiderato questo momento. Sento solo il profumo della sua pelle, non il puzzo di alcol. Lo stimolo quanto basta per ottenere una reazione decente, ha smesso di protestare, forse ha deciso che in fondo non può essere così sbagliato, forse è troppo ubriaco e funziona al contrario di tanti uomini, chi lo sa.
Finalmente. Finalmente sei mio, anche se solo per una volta. Piano, piano, lui si ridesta quanto basta per partecipare attivamente, ed entrambi raggiungiamo il traguardo in fretta.
Fausto mi sussurra qualcosa che immagino sia un ringraziamento, anche se non lo capisco molto, poi sviene in un sonno profondo.
È ora di portare a termine il mio piano.
Chiudo Jigen fuori dalla porta, con due bustine di carne aperte in una ciotola. Non voglio che resti chiuso in casa per chissà quanto tempo, e non voglio nemmeno lasciare la porta aperta. Rientro in casa del mio amore, prendo il coltello più grosso che c’è in cucina, e mi avvicino al letto. Adesso non dovrai più soffrire, amore mio, nessuno più si approfitterà di te. Chi lo ha fatto spero si pentirà, oppure che si fottano tutti.
Salgo a cavalcioni su di lui, brandisco il coltello e lo pianto in pieno nel cuore del mio amore. Sono spaventata dalla lucidità che dimostro, non una lacrima esce dai miei occhi fino a quando non ho compiuto il malsano gesto.
Fausto spalanca gli occhi per qualche secondo, poi la morte rilassa i lineamenti, e lo vedo in tutta la sua bellezza, il volto è sereno, finalmente.
Mi sdraio di fianco a lui, entrambi siamo nudi, accarezzo il suo corpo, lo bacio in bocca, e poi senza più riflettere mi pratico due tagli, uno per ogni avambraccio, che vanno dal polso fino all’incavo del gomito, e aggiungo tanti tagli trasversali a quello principale, come una scaletta.
Fuori dalla porta Jigen miagola disperato, con il suo intuito felino probabilmente ha capito tutto. Tranquillo, qualcuno si occuperà di te, non resterai solo, sei un gatto magnifico.
Mentre la vita defluisce dal mio corpo, abbraccio Fausto, mischio il nostro sangue e gli dico quello che non gli ho mai detto in vita.
-TI AMO.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Cominciai per capriccio a leggere le sue mail in ritardo.
Mi spiego.
Mail delle quattordici e trenta piena di espressioni buffe, di quelle che lui sapeva che mi facevano ridere. Scherzi colorati su pagina color avorio del monitor. La congelavo nella posta in arrivo per poi leggerla alle sei della sera. Lui entrava dalla porta d’ingresso immusonito dal traffico, dalla pioggia, dal tempo di merda, così diceva.
Un uomo grigio.
E io intanto leggevo la mail dove uno smiley giallo mi faceva l’occhiolino e diceva di non vedere l’ora di stare con me. Che ero in gamba. Splendida.
Che poi il suo comportamento aveva un senso. Mica sono irragionevole. La promozione, il cumulo di lavoro, l’ufficio contabile alle costole… queste cose le capivo. Eppure, come ne “L’impero delle luci” di Magritte, io ero la casa che sprofonda nella tenebra della foresta mentre tutt’intorno risplende la luce. Mi rodevo della mia incapacità di interpretare il quadro completo.
E’ dalle scuole medie che sono scarsa in educazione artistica. Davanti a un quadro pieno di puntini esposto in un museo non vedo nient’altro che un quadro pieno di puntini. E la ragazza con l’orecchino di perla? Una ragazza con un orecchino di perla, ovviamente.
E un amore dalle tinte fosche che distruggeva la mia felicità? Beh, non mi ripeterò. Non tutti sono bravi a fare analisi.
Una cosa la sapevo, però. Appurare il vero stato delle cose avrebbe messo a rischio il nostro rapporto, se non distrutto completamente. Non ci vuole un genio a capirlo. E io non ero pronta a rischiare. Come con il gatto di Schroedinger. Finché è chiuso nella scatola può essere sia vivo che morto. Così la mia relazione. Finché mi limitavo a leggere le mail e tenevo il mio uomo lontano, tutto sarebbe andato splendidamente. Una coppia viva. Vitale. Ma se avessi scoperchiato lo scatolone chissà cosa ne sarebbe uscito. Magari il gatto era morto da un pezzo e allora sai che puzza.
Ma la cosa mi si rivoltò contro. A giocare con le emozioni spesso ne esce un quadro astratto, di quelli con l’occhio al posto della bocca e il naso al posto dell’orecchio.
E cominciai a dubitare.
Chi mi scriveva quelle mail esisteva sul serio? Era lo stesso uomo che tornava la sera col muso lungo e usciva la mattina altrettanto di fretta? E a chi le scriveva? Alla fin fine, chi diavolo ero io? L’altro capo di una connessione, oppure una persona viva? Per quanto ne so, potrei essere un’intelligenza artificiale in pieno estro creativo. Una sofisticata assistente personale in fase di sviluppo tipo SuperCortana o qualcosa del genere. «Posso aiutarti?» Surreale, appunto.
Mi rendo conto che in un passato molto recente questo non sarebbe stato possibile e mi illudo che sia arte. Di essere io stessa arte.
Un giorno qualcuno di molto più intelligente di me giudicherà la mia relazione virtuale dall’esterno come si fa coi quadri esposti al museo. Con l’indice sulle labbra e gli occhi semichiusi leggerà la mia posta elettronica attribuendogli profondi significati. Sarò chiamata precursore dell’amore elettronico, altro che quella stronzata di sesso virtuale.
Mi sono sacrificata per qualcosa di grande, come i pittori del passato.
In fondo, come diceva Munch, l’arte è il sangue del nostro cuore.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Sveva stava andando via. Preparava la valigia evitando il mio sguardo. Io speravo ci ripensasse. Ogni indumento che infilava nella valigia era un sogno che si sarebbe presto chiuso, ogni indumento accendeva mille fotogrammi, mille sorrisi e baci, viaggi e parole, era il mio mare dove trovare la libertà.
Udii la cerniera lampo chiudersi, e lei che con gesti tristi si voltava, fissava il pavimento, mentre io avevo gli occhi tutti per lei, non cercavano che il suo viso.
Chiuse la porta, sentii il suo profumo leggero, i suoi passi sulla scala parevano note di una musica malinconica.
L'avevo vista camminare lungo la via, non si era voltata, andava verso la sua nuova vita. Era un giovedì pomeriggio ed era sparita nel tramonto, quel magnifico calar di sole mi stava portato via ciò che tenevo più al mondo.
Così mi trovai a tavola solo, non avevo fame. D'impulso avevo composto freneticamente il suo numero, ma era un continuo squillare senza risposta… Erano passati pochi minuti e già m'annoiavo. Mi pareva di sentirla in bagno, sentivo il suo profumo, le sue parole, la casa mancante di lei non era più la stessa.
Mi domandavo che senso aveva amare per non essere amato, ma poi sapevo che chi ama davvero è anche amato, e così le mie mani la cercavano, tutto il mio corpo la cercava.
Alla sera mi ubriacai. Avevo visto decine di film che per pene d'amore si sbronzavano, mi pareva un cliché ben rodato da pellicola, e ora io ero seduto in una birreria fratello di quegli attori.
Bevevo senza guardarmi attorno, bevevo per dimenticare, ma non facevo che pensare a lei, non capivo perché mi aveva lasciato.
Forse se le avessi parlato… Se mentre stava andando via l'avessi afferrata per un braccio? Se avesse visto i miei occhi quanto stavano male? Perché l'avevo lasciata andare via così? Senza dire nulla.
Ricordavo il tramonto, quel crepuscolo che respirava profondo, e io invece d'inseguirla ero rimasto lì alla finestra, e lei che incedeva fino a farsi inghiottire in quel rosso vivido.
Salii in auto, schiacciai l'acceleratore sperando di morire. La notte fuori dal finestrino, il centro abitato ormai spento, e io che scrutavo la strada sfocata dal pianto.
Esaminavo le foto, le sue trecce bionde, puerili come il suo visetto sensuale. Era stesa sul letto, in quel letto dei mille giochi. Ricordavo bene quel giorno, era stato acqua, fuoco, luce. Poi lei beveva sempre la sua limonata fresca, lì adagiata come una bambina nel nostro talamo d'amore.
Mi mancavano i suoi capricci, i sui sogni, e ora privato di lei era tutto un immenso camminare insignificante.
Chiusi l'album: — tutto per una stupidata, tutto per una tremenda stupidata —
Quella sera era pazzo, pazzo non capivo, non capivo, perché? Di lei non ricordavo neppure il nome, mi aveva lasciato per una donna di cui non ne conoscevo neppure il nome!
Per uno stupido bacio, una stupida carezza, ma che importava. E Marinella che era riuscita a rovinare il nostro rapporto con il suo protagonismo, le aveva raccontato tutto, e ora era contenta, si era messa in mezzo ai nostri occhi, al nostro amore, era uno scoglio che era riuscita a dividere l'indivisibile.
Ora correvo verso Marinella, volevo vederla in faccia quella troia! Volevo prenderla a schiaffi, doveva piangere sangue!
Appena mi aveva visto non appariva turbata, pareva aspettarselo.
Entrai. Abitava in una piccolo appartamento in una zona vecchia della città.
C'era l'odore di quegli spessi muri medioevali, dalla finestra si scorgevano i tetti dalle case. Io mi ero affacciato per respirare, volevo calmarmi, affrontare la situazione lucido, così ero rimasto alla finestra, e lei dietro le mie spalle che si carezzava il ginocchio, il viso stranamente tranquillo, soave.
Mentre osservavo lo scorcio del centro respiravo, poi i miei occhi stanchi si voltarono verso di lei.
Mi guardava, la guardavo, i suoi occhi erano umidi di scuse.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Dieci giorni fa mia moglie è morta in un incidente sul raccordo anulare, aveva quarantadue anni, io ne ho quarantacinque, penso che sarà dura.
Parenti, funerali e io che volevo scappare sulle montagne a urlare da solo, ma la bufera è passata e è stata utile a suo modo, sono ancora qui, ma come pensavo è dura.
Ovviamente non so che fare, anche se so benissimo che se cado nella depressione sono morto.
Bene, mi dico alzandomi dal divano dove stavo seduto da ore a fissare il muro della nostra camera da letto, basta così, non hai moglie, non hai figli e sei ancora giovane, lei non vorrebbe vederti così e neanche tu avresti voluto se fosse successo a te.
Il casino della famiglia sono sempre stato io, bollette, fatture, estratti conto li teneva sempre lei ma ora devo prendere le redini della mia vita, non sono pronto e mai lo sarò purtroppo ma devo.
In camera da letto ritrovo le sue cose la sua borsa, quella che portava il giorno dell’incidente. Mi aveva telefonato mezz’ora prima di morire.
Prendo il telefono sorridendo e come per nostalgia lo accendo.
Non dovevo farlo.
Prendo il mio telefono e faccio un numero che ben conosco, mi risponde Anna, la sua amica d’infanzia.
- Giorgio ciao, tutto bene? -
- Non me la sento di uscire Anna… -
- Vuoi che venga lì, ti serve qualcosa? -
- No, cioè, si, sono senza sigarette. -
Mezzora dopo è a casa mia.
L’accolgo sulla porta e lei appena entra, molla la borsa sul pavimento, mi abbraccia e comincia a piangere di nuovo, non ha fatto altro per una settimana.
- Vieni. - le dico accompagnandola in cucina - ti faccio un caffè. -
- Giorgio… - dice lei vedendo che ho in mano il telefono di Sara, mia moglie.
- No, va bene Anna, va tutto bene. - poi però mi monta una rabbia dentro di cui lei si rende subito conto – Porca puttana, potevate anche dirlo, è morta mentre ti stava telefonando. -
Lei si piega su se stessa e si accascia su una sedia. Piange, singhiozza e io non so se strangolarla o abbracciarla, ma alla fine mi siedo accanto a lei e le prendo una mano.
Come se l’avessi liberata da una lunga prigionia lei mi abbraccia stretto e mormora parole troppo spezzettate dai singhiozzi per essere comprensibili.
Amiche d’infanzia, e questo lo sapevo, come che avevano fatto le stesse scuole e la stessa università, quello che avevo scoperto dai loro messaggi però aggiungeva fatti nuovi.
Amanti appassionate fin da adolescenti avevano condiviso praticamente tutto, si erano scambiati i ragazzi, avevano finto scenate di gelosia per lasciarli e avevano proseguito il loro gioco per tutta la vita fino a quando Sara non aveva conosciuto me.
Ora rivedo quei giorni con altri occhi, ma quel che Sara provava per me era amore vero.
Leggere quei messaggi non era stato facile.
Con te è diverso, diceva Sara in uno degli ultimi, io e te ci divertiamo da sempre, ci sfottiamo, sappiamo tutto l’una dell’altra e continueremo a farlo tutta la vita, ma non mi sembra di tradirlo, forse tradisco te con lui.
- Davvero non ce l’hai con me? -
- No – dico mostrandole il telefono – so che mi voleva bene, ma potevate dirmelo, forse ora non sarebbe morta. -
- Si lo so, scusa, devo andare in bagno. - dice lei alzandosi per prendere un faldone di scottex – Scusa, torno subito. -
Mi alzo guardandola correre verso il bagno e corro a prendere la sua borsa.
Apro il suo telefono e guardo la cronologia dei messaggi, prima di aprire quello che mi interessa.
Avevo capito bene.
Torno in cucina a fare il caffè.
Il tempo mi si blocca addosso come una colla, ascolto i suoi rumori e la odio.
Prendiamo il caffè in silenzio ma quando lei mi prende la mano attraverso il tavolo io mi allontano.
- Ne parliamo domani Anna, ti va? -
- Si certo, domani è sabato, io non lavoro, vuoi che venga presto? -
- Si adesso ci facciamo un bel sonno tutti e due, e domani ne parliamo. -
Mi abbraccia ancora prima di uscire e io non so come faccio a trattenermi dall’ucciderla lì e subito.
La guardo allontanarsi lungo il vialetto di casa e salire sulla sua auto, ovviamente la stessa di mia moglie.
Prendo il telefono di Sara e preparo il messaggio, lo stesso ultimo messaggio che Anna le ha inviato e aspetto che la sua macchina raggiunga l’incrocio prima di inviarlo al suo numero.
Il semaforo diventa rosso, ma la sua auto non frena più e lei ci passa in mezzo proprio mentre arriva un camion.
Chi di sms ferisce di sms perisce.
- Alberto Tivoli
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
FUORI SINCRONO
La ragazza aveva tatuata una croce Ankh tra le scapole. Sedeva di spalle alla piazza, dentro il lago d’ombra proiettato da un olmo. Fissava ora il bicchiere umido di condensa al centro del tavolo, ora lo specchio pubblicitario dell’amarena Fabbri appeso all’ingresso del bar.
Si irrigidì sulla sedia quando una figura in chiaroscuro si specchiò nella scenografia dai colori brillanti.
L’uomo si fermò alle sue spalle, appoggiandosi all’ombrello asciutto che teneva nella sinistra. Le strinse la spalla con la destra e rimase a fissare la croce ansata.
La ragazza sfiorò con le dita la mano dell’uomo e non disse una parola, aspettò che lui si accomodasse. L’uomo aggirò la sedia accanto a lei e le si sedette di fronte.
— Ciao.
— Ciao. — La ragazza trattenne le lacrime.
— Sei più bella di come ti ricordavo. Mi è sembrato così strano che l’immagine del tuo viso, del tuo corpo, iniziasse a sfuggirmi già dopo qualche settimana. Nel corso di quest’ultimo anno ho colmato di sogni interi vuoti di te.
La ragazza contrasse la mascella, storse la bocca. Le lacrime si affacciarono dalle palpebre. Gli occhi luccicarono.
— Ma la tua anima non l’ho mai dimenticata. Mi sei mancata tanto.
— Sei andato via tu. — La ragazza singhiozzò e asciugò le guance e gli occhi. Guardò l’ombrello in equilibrio contro il tavolo.
— È più decoroso di un bastone. Anche più utile, quando piove — spiegò l’uomo ammiccando.
— Sei arrabbiato con me?
— No, sono contento che sei venuta a cercarmi.
La ragazza si girò di profilo, costretta tra i braccioli della sedia. Passò le mani tra i capelli, indugiando sulle tempie.
— Non ti serbo rancore perché hai avuto paura.
— Quello che è successo mi ha travolto. Non ero pronta a stare senza di te ma nemmeno a restarti accanto se fossi sopravvissuto in quelle condizioni.
— Lo so. È proprio per questo che ho compreso come tu ti sia sentita.
La ragazza lo guardò. — Ti ho fatto soffrire.
— Sono stati mesi difficili e mi sono sentito abbandonato. Ho combattuto contro il dolore, contro il desiderio di arrendermi. Alla fine ho vinto. Mi sono ripreso la mia vita anche se dei segni dell’incidente rimarranno per sempre. — L’uomo pose una mano sul manico dell’ombrello e strinse forte.
— Ritornai da te troppo tardi, vero? Ormai non mi volevi più.
— No. Non è così.
— E com’è, allora? Perché sei scappato via? Senza dirmi niente.
— Ho pensato tanto. Nell’immobilità, nella solitudine, ho avuto modo di riflettere profondamente. Ho smesso di amarti per me stesso e ho iniziato ad amarti per te. Lasciarti libera è stato il vero atto d’amore nei tuoi confronti.
— Hai sempre e solo giocato con me.
— Non ci credi nemmeno tu.
— Sei tornato da lei?
— Da lei?
— La madre dei tuoi figli.
L’uomo scosse la testa. — Devi capire. È importante.
— Lascia perdere. Non avevi più fiducia in me.
L’uomo restò in silenzio.
— È che mi sono vista chiusa in una prigione. Ma potevi darmi un’altra possibilità. Non sono stata una compagna per te? Ti ho amato con tutta me stessa per due anni! Ti amo, ancora.
— Due anni... — soppesò. — Un intervallo di tempo insieme fugace e infinito. Tu sei tutta in questa prospettiva. Io fatico a metterla a fuoco come un istante autonomo nel flusso degli anni che ho vissuto.
Si alzò il vento. Una nuvola eclissò il Sole e la ragazza si strinse nelle braccia. Le porse la giacca ma lei rifiutò e sussurrò — odoro ancora di lui.
L’uomo lasciò la giacca sul tavolo. Il cotone bevve la condensa, inquinandosi. Scosse le spalle e le sorrise. — Un compagno di studi?
La ragazza annuì e si immobilizzò come la rappresentazione di Iside nei geroglifici.
— Come va? Ormai dovresti essere prossima alla laurea?
Lei lo scrutò. Le labbra premute l’una contro l’altra.
— Mio figlio maggiore si è laureato che ero in ospedale per la riabilitazione. Mi dispiace di non aver potuto assistere alla discussione, mi ha reso così orgoglioso.
L’uomo continuò a parlare, accompagnato dallo stormire delle foglie. — E sarò orgoglioso anche di te. Se tu mi inviterai, io...
— Ma che cazzo dici? Tu mi scopavi. Come fai a parlarmi così?
— Quello che facevo con te, che cercavo in te, che ho preso da te, non era solo scopare. Lo sai bene.
— Dimmi dove ho sbagliato. Da sola non lo capisco.
— Se avessi avuto vent’anni in più, il tuo modo di amarmi sarebbe stato sano. Sarebbe stato come un frutto maturo, concimato dai ricordi degli inevitabili sbagli che fanno tutti. Ma tu, bruciando le tappe, mi hai amato in modo insano, che ti faceva male. Mi amavi solo per me, anteponendo i miei bisogni ai tuoi. Invece di costruire con me un bilancio di coppia, ti stavi annullando.
— Insegnami ad amare per noi.
L’uomo si alzò. Avanzò sostenendosi al tavolo, il piano di plastica si fletté e dal bicchiere si rovesciarono cascatelle dorate. La ragazza versò lacrime bollenti.
— Non odori di lui ma è con lui, e con quelli che verranno dopo, che imparerai a diventare una donna e non un’ombra dietro le spalle di qualcuno.
L’uomo lasciò la piazza. Attraversò un viale, percorse un marciapiede sconnesso, scomparve in un vicolo. L’ombrello picchiò la pavimentazione battendo il tempo, insieme ad altri ombrelli, bastoni, cuori, pensieri. Tutti orologi fuori sincrono.
Il sapore della pelle tatuata sulle labbra rimase l’unico assoluto.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
Un sabato pomeriggio.
Le bloccò il piede e morse la caviglia. Lei urlò e cercò di tirare a sé la gamba ma la sua presa era forte e non ci riuscì.
Paolo affondò ancora i denti, questa volta nel polpaccio. Lisa gli graffiò la pelle nuda della schiena. Fu la volta di Paolo a urlare. Risero entrambi.
- Hai la pelle come un’albicocca – sentenziò inspirando col naso schiacciato su una coscia.
Lisa ansimava. Erano già diversi minuti che la tormentava così. Incapace di controllarsi, gli afferrò la testa e la tirò a sé. Lo baciò con rabbia, mordendo, leccando. Poi gli afferrò la virilità e si stese sul letto, attirandolo sopra.
Il traffico che entrava dalla finestra aperta sparì negli ansimi convulsi. Le tende si gonfiavano. Un sussurro privo di fiato: - Ti amo.
La risposta, dilatata da un orgasmo imminente: - Ti amo.
…
La domanda arrivò improvvisa, mentre ancora il petto di Paolo si alzava e abbassava più spesso del dovuto.
- Qual è la cosa più oscena che non hai mai osato neanche confessare e che vorresti farmi adesso?
Paolo si alzò sui gomiti e la guardò: era bellissima, avvolta per metà nel lenzuolo bianco in un letto ormai sfatto. – Stai chiedendo giudiziosamente?
Il viso di Lisa lo era terribilmente.
Paolo si rimise sdraiato perso nelle crepe del soffitto: - Quello che provo per te mi impedisce di mostrarti il mio lato cattivo.
- Sono io che te lo chiedo! Sono io che voglio. Cerco emozioni, lo sai, emozioni forti. Sei in grado di darmele?
Paolo la fissò ancora. Quella non era una sfida, Lisa lo stava pungolando perché lui si aprisse, agisse. Ormai la conosceva bene. Lo voleva davvero.
- Tu non sai quanta paura ho di perderti, di ferirti. Ne morirei.
Lisa sbottò imbronciata: - Se mi ami come io amo te, allora smetti di parlare e fallo.
Paolo la fissò a lungo, indeciso. Da una parte c’era il desiderio incontrollabile di far uscire tutte le fantasie che lo torturavano dentro, dar libero sfogo all’uomo morboso che si nascondeva dietro la facciata. Lisa lo aveva intravista ed evidentemente lo desiderava. Dall’altra parte, davanti a lei, si sentiva come un bambino impaurito e ogni parola, ogni gesto, risultava difficile.
Decise, sospirò e scese dal letto, nudo come era. – Alzati – le disse con un tono che Lisa non aveva mai sentito… Lisa era a quattro zampe sulla moquette, Paolo in piedi davanti a lei, stava rovesciando una bottiglietta d’acqua sulla moquette. Lisa si chinò e iniziò a lappare… Legò le gambe alla struttura metallica del letto, divaricate, salì sul letto e cominciò a giocare con oggetti impensabili… Le prese i capelli e la spinse contro il ventre, la tenne premuta così a lungo, fino a farla quasi soffocare. Ripeté l’operazione diverse volte, quando si ritenne soddisfatto l’allontanò. Vide grosse lacrime scorrere sulle guance rossastre di Lisa.
La torturò oscenamente, la sculacciò così forte che i segni sarebbero durati per giorni, la umiliò in ogni modo possibile e immaginabile, e più la faceva soffrire, più lei declamava il proprio amore per lui. Paolo lo sapeva già, era solo la conferma di avere dinanzi una donna fantastica, indescrivibile, la donna perfetta. E di essere l’uomo più fortunato al mondo.
La luce obliqua che entrava dalla finestra andava perdendo vigore, segno che il sole stava inesorabilmente andando a nascondersi. Per completare l’opera di annullamento che aveva portato avanti per tutto il pomeriggio, la prese brutalmente, come usano i sodomiti. Fu doloroso e gratificante per lei. Fu soprattutto gratificante per lui.
Stremati, ansanti e sudati, sul letto, incapaci di compiere anche il minimo gesto.
- Grazie – disse Lisa con un filo di voce. – Oggi mi hai reso più donna tu che qualsiasi altro uomo che abbia mai avuto.
Paolo la osservò incredulo. – Cosa sei? Da dove arrivi? Ringrazio ogni istante Dio per averti incontrata. L’unica cosa a cui riesco a pensare è che voglio rimanere con te per sempre.
Lei gli prese la mano e la strinse debolmente: - Sempre – rispose.
Domenica mattina.
Lisa oltrepassò la navata, un bambino per ogni mano: a sinistra tommy, sette anni, a destra Giorgia, quattro. Condusse l’intera famiglia fin sulle prime panche di legno, oggi fortunatamente sgombre dai soliti anziani perditempo.
Appena seduti Tommy esordì con un – Che puzza di marcio!
Lisa lo strattonò di nascosto: - Non si dicono certe cose – poi si rivolse al marito: - Teo, digli qualcosa anche tu per favore.
- Non dire certe cose – lo sguardo e la mente lontani anni luce da là.
Lisa lasciò perdere, dalla sacristia stava uscendo il parroco. L’osservò in religioso silenzio raggiungere l’altare.
Don Paolo notò che la chiesa era piena neanche a metà. Si rattristò per le anime dei fedeli, poi la sua attenzione fu catturata da Lisa, seduta in prima fila. La gonna morbida appena sopra il ginocchio, i fianchi larghi, il seno che allargava vistosamente il vestito. La bocca che si apriva in un timido sorriso appena incrociò il suo sguardo. Un brivido, una scarica elettrica di emozioni, ricordi di piacere.
Iniziò: - Nel nome del Padre…
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
L’uomo si muoveva tra le lenzuola, fradicio e affannato. La baciava. Lei non opponeva resistenza, anzi era perfettamente rilassata sotto di lui. D’improvviso, un sospiro dell’uomo, più profondo degli altri, ne testimoniò la conquista del piacere.
Lento scivolò a fianco della figura femminile. Era completamente scoperta. Osservò le gocce di sudore che, pigre come pioggia sui vetri, colavano verso il materasso. Avrebbe voluto chiederle se le fosse piaciuto, ma lei certamente non gli avrebbe risposto. L’uomo s’interrogò sulla propria vita, sull’amore, sul sesso. E, come ogni volta, avvertì quel sapore amarognolo dell’inadeguatezza. Un accenno di lacrima si affacciava all’angolo di una delle palpebre dell’uomo mentre lei, indifferente a tutto ciò, non si era mossa di un millimetro. Era il momento. Lei doveva tornare da dove era venuta, in attesa della prossima notte di fuoco. Ancora loro due. Insieme. Fu tentato di baciarne le guance, lo aveva fatto qualche volta, ma il contatto freddo sulle labbra lo aveva depresso ancora di più. Si limitò a guardarla ancora una volta. La asciugò con dei fazzolettini.
Poi tolse il tappo.
L’aria, che usciva dal fianco, portava via con sé le speranze e i desideri dell’uomo. Quando la bambola gonfiabile fu completamente svuotata l’uomo la infilò nella scatola di cartone. Ricordò la prima volta in cui si erano visti. Era arrivata, in pacco anonimo. Cinquantanove euro e novantanove da Amazon. Tremante aveva aperto la scatola. Una pelle rosa sintetica e una parrucca bionda. Si sarebbe dovuto accontentare. Quarantacinque anni alla vana ricerca di una donna erano stati sufficienti per convincerlo che il sesso femminile non provava, per lui, nessuna attrazione. E, pian piano, se n’era fatto una ragione. Qualche donna, in realtà, ne aveva accettato le avances, ma dietro pagamento di un corrispettivo. Ormai il conto in banca piangeva da tempo e “sexy Samantha”, in gomma anallergica e capelli sintetici, era il massimo che si sarebbe potuto permettere, per un po’.
Chiuse la scatola nell’armadio e accennò un saluto con la mano.
Avrebbe dovuto ridere di quel gesto.
Ma non lo fece.
Gli apparve. Non sapeva se credere ai propri occhi, o al proprio cervello. In realtà ciò che vide era un’indistinta macchia di luce sullo sfondo di un cielo nero come il carbone. Una luce che si muoveva a tempo con le parole. Prima indefinite e fioche, poi, dopo un tempo che gli sembrò incredibilmente lungo, divennero intelligibili. Non sapeva se esserne atterrito o incuriosito.
Poi ricordò.
Aveva già sentito quella voce, visto quella luce. Più volte, durante la sua travagliata infanzia. E si rasserenò. Era la luce che gli annunciava le buone notizie. Gli aveva predetto la promozione in terza media, il trenino che aveva tanto desiderato per Natale, il gattino che la mamma gli aveva comprato di nascosto. Scacciò la paura e ascoltò quelle parole che parevano giungere dallo spazio.
«Marco, so che hai un desiderio da molti anni e io ora voglio esaudirlo. Tu vuoi una donna, una donna vera che divida con te la vita e ti allieti le giornate. Ebbene, l’avrai. Ricorda, però che dovrai trattarla come va trattata una donna. Mi raccomando. Se la tratterai da vera donna sarà al tuo fianco per sempre.»
La voce si abbassò di tono. Nonostante Marco si sforzasse di seguirla, scomparì piano piano negli abissi di quello sfondo tetro. Improvvisamente si svegliò. Il lenzuolo ruvido gli solleticava la pelle. Steso, nudo, guardò il soffitto. Era il solito soffitto con la crepa che si allargava ogni anno di più. E le lenzuola verde stinto erano sempre loro. Distratto allungò la mano a destra. La ritirò terrorizzato. Poi ci riprovò. Caldo. Alla sua destra c’era qualcosa di caldo. Non poteva essere Meo, era chiuso sul balcone. Millimetro dopo millimetro la mano avanzò fino a scontrarsi con un morbido ostacolo. Scorse i polpastrelli. Pelle. Pelle calda. Voltò la testa sul cuscino. Quando i suoi occhi incrociarono quelli di “sexy Samantha” il cuore di Marco perse parecchi battiti.
L’uomo si muoveva tra le lenzuola, fradicio e affannato. La baciava. Lei rispondeva al bacio appassionatamente. Senza dire nulla. L’unico difetto di “sexy Samantha” era che mancava della voce. Era muta. Ma a Marco non importava.
Lento scivolò a fianco della figura femminile. Era completamente scoperta. Osservò le gocce di sudore che, pigre come pioggia sui vetri, colavano verso il materasso. Avrebbe voluto chiederle se le fosse piaciuto, ma non lo fece. Ricordò le parole della luce: «trattala come se fosse una donna vera.». A una donna vera avrebbe chiesto se fosse stata soddisfatta?
No, certo che no.
Il caldo di luglio era insopportabile. L’unico refrigerio era la birra che “sexy Samantha” gli aveva portato estraendola dal frigo. La canottiera bianca a coste era insopportabile. Marco la tolse e la gettò sul pavimento. La donna la raccolse e la portò in bagno. Non disse nulla. La osservò. Era bellissima nel suo vestito attillato a fiori. Guardò con desiderio le gocce di sudore sulla fronte di lei. Forse stirare con quella temperatura le era pesato un po’. Ma d’altronde una donna vera deve stirare. E lavare i pavimenti, come aveva fatto poche ore prima. E portargli la birra. Fresca, mentre lui, disteso sul divano, seguiva le prove del Gran premio di Montecarlo. Marco decise che, forse un lavoro più leggero le avrebbe fatto piacere con quella canicola. Le porse i calzini bucati. In fondo riparare le calze del proprio uomo è un mestiere da donna vera. La osservò mentre si sedeva con leggiadria ai piedi del divano e prendeva l’ago e il filo dal cestino. Poi gli occhi di lei lo fissarono. Apparentemente con odio. Sempre guardandolo negli occhi afferrò saldamente l’ago. Finalmente le labbra si mossero. Dalla bocca rossa uscì, sibilante, un suono.
«Addio.» sussurrò.
Poi avvicinò la punta dell’ago alla mano sinistra.
Il fragore dell’esplosione fece trasalire Marco, pezzi di gomma svolazzarono ovunque nel salotto.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
All’incirca, Maddalena gli disse così:
− Prendiamoci una pausa Ste'... farà bene a tutti e due.
«Prendiamoci una pausa?! Ma che cazzo vuol dire prendiamoci una pausa?! O ci lasciamo o restiamo insieme, non significa niente prendiamoci una pausa. Non abbiamo più quindici anni, lo sanno anche i bambini che le pause significano: guarda siccome non so come dirti che voglio lasciarti e che mi scopo un altro ti dico prendiamoci una pausa. Non siamo più dei ragazzini cazzo! Onestà! Onestà dannazione!» Pensò tra sé e sé l’uomo che aveva davanti.
Per dieci anni Stefano era stato convinto che Maddalena fosse la donna della sua vita, e non perché non avesse dato segni di squilibrio o di infedeltà, a dire il vero di segni gliene aveva dati eccome; uno in particolare aveva rischiato di compromettere per sempre il loro rapporto: il giorno in cui era tornato da Mikonos dopo una vacanza di sette giorni con Claudio e Brando − gli amici di sempre − e arrivato a casa si era accorto che Maddalena aveva cambiato la serratura della porta.
L'aveva chiamata, su tutte le furie, dicendogliene di cotte e di crude per sapere con quale figlio di puttana stava scopando per poi sentirsi dire: − Sono entrati i ladri in casa stanotte, razza di coglione che non sei altro! Se solo azionassi il cervello ogni tanto! − E lui testardo come sempre non aveva voluto crederle fino a quando Maddalena aprì la porta e gli disse:
− Hai visto? Sei o non sei un coglione? Vedi qualcun altro qua dentro?
− A parte te e Kitty no! − Aveva dovuto constatare Stefano vedendo che oltre a lei e al suo gatto persiano la casa era vuota.
Lui invece si. L'aveva tradita. A Mikonos. Con una greca con due tette giganti che avevano mandato in palla Stefano, il quale, aveva sempre recriminato a Maddalena questa mancanza.
«Una tavola piatta! Ecco come sono le sue tette capite? Perfette per farci surf ma nient'altro!» diceva ai suoi amici.
E si portò la greca in stanza con sé.
Avevano scopato come cinghiali, alla maniera classica: lei sotto lui sopra, poi si erano attorcigliati come un Souvlaki e alla fine si erano addormentati. La mattina seguente un biglietto di lei con scritto: «Thank you Italian!» e chi s'è visto s'è visto.
Adesso, a trentasei anni suonati, a quel tavolino di un ristorante di seconda mano che aveva scelto lui perché i tempi non permettevano cose migliori, non riusciva a capacitarsi del perché di quel "Prendiamoci una pausa".
Cristo Santo lo sa pure mia madre che in vita sua è stata solo con quel deficiente di mio padre che le pause non servono a un cazzo!» Pensava. Ma Maddalena, seduta di fronte a lui con il mento appoggiato alla mano, gli disse che era la soluzione migliore anche in vista di Giulio e Francesca, i due loro figli.
Lei: − Pensa a come la prenderebbero se gli dicessimo che mamma e papà si sono lasciati, non lo capirebbero mai, subirebbero un trauma troppo grande alla loro età.
− Gli disse Maddalena con gli occhi bassi.
Lui: − E certo, allora prendiamoli per il culo e diciamogli una cazzata, come se già tu non gliene avessi dette abbastanza! − Gli rispose Stefano aguzzando i denti come un tricheco.
Lei: − Io? E spiegami quale cazzata gli avrei detto io?!
Lui: − Tanto per farti ritornare la memoria: estate di due anni fa. Rimini. Io con i bimbi da solo. Tu arrivi qualche giorno dopo. Baci, abbracci, come va come non va... Stasera mi devo vedere con Fla'. Deve parlarmi. Per il divorzio. E a Giulio e Francesca che cosa hai raccontato? Che mamma doveva fare una cosa importante di lavoro. Ad agosto. In piene ferie. Mentre io come un coglione gli dicevo: «No, non piangete amori miei mamma tra poco torna, è andata a fare un lavoro importante che non poteva rimandare, adesso arriva, arriva».
Sei arrivata il giorno dopo e io non so neanche che cazzo sei stata a fare con quello lì e manco lo voglio sapere a questo punto.
Lei: − Come osi? Dubitare della mia sincerità. Sei un ingrato! Dieci anni buttati al cesso con un ingrato! Razza di coglione che non sei altro! Fallito! Fallito! Mettere in mezzo i nostri figli per una cosa che non ho mai fatto. Ti auguro tutto il peggio pezzo di merda!
Così, seduta stante, Maddalena gli versò il calice di champagne addosso e se ne andò correndo.
Ubriaco di rabbia e di champagne, pagò il conto, attraversò la notte e, arrivò sul molo, allargò le braccia e guardando il mare immenso si disse: «Questa volta lo faccio. Giuro che lo faccio. Adesso basta. Fanculo a tutti!E fu pronto per fare il bagno. Prima che una voce rauca lo fermasse.
− Vuoi davvero andartene così? Senza aver dato prima il bacio della buonanotte ai tuoi figli?
Stefano si girò di scatto e, a qualche metro più in là, vide suo padre Mauro che teneva per mano Giulio e Francesca. Inerti. Innocenti come solo due bambini possono essere.
− Amori miei che ci fate qua? Non dovreste essere a letto a quest'ora? − Disse Stefano voltandosi di scatto.
− Dovrebbero. Se solo il loro padre non avesse capito che a trentasei anni bisognerebbe smetterla di fare i ragazzini. Salta giù da quel molo e vieni qui cretino! − lo ammonì Mauro. Il padre a cui aveva dato del deficiente.
E Stefano scese.
− Venite qua amori di papà. Venite ad abbracciarmi!
Giulio e Francesca obbedirono al padre come ogni figlio farebbe al richiamo del loro genitore. Della loro vita. E corsero felici verso di lui.
− Che cosa facevi laggiù papà? Di notte il mare è buio, non si vede niente! − gli disse sua figlia Francesca.
Stefano le sorrise.
− Hai ragione amore mio. Di notte non si vede proprio niente.
− Andiamo a casa? Ho un sacco di sonno!
− Si tesoro. Andiamo a casa.
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Re: Gara 64 - Bando e racconti
L’autobus procedeva sobbalzando sul percorso sconnesso che portava fuori Beirut.
Dal finestrino osservavo le rocce sparse e le buche del terreno che si erano create in quegli anni di guerra. Pensavo alle case crollate in città, ai cumuli di macerie e alle ferite che nessuno risanava. La vita era ogni giorno più difficile.
Nonostante l’accordo che permetteva ai palestinesi di andarsene senza ripercussioni, i guerriglieri, adesso che ebrei e cristiani si erano alleati, non si fidavano e ci si poteva aspettare di vederli spuntare in qualsiasi momento per controllare, sparare, perfino uccidere per rivendicare altre morti.
Ma nell’autobus eravamo quasi tutte donne, portavamo il velo, anche se io nascondevo sotto la maglietta il cordoncino con una croce di legno intagliato, regalo dei miei.
Infatti non tornavo dal mercato né andavo a far visita, io arrivavo fino al capolinea, in un villaggio da dove avrei raggiunto una delle basi militari straniere per potermene andare per sempre.
— Perché non sei partita con la tua famiglia? — mi avevano chiesto all’università.
I motivi erano tanti, gli studi, gli amici in città, l’affetto per il mio professore e le sue lezioni. Pensavo che la guerra non mi avrebbe toccata, ma se n’erano andati tutti: spariti, morti, irrintracciabili.
Così intrapresi l’ultimo viaggio sulla mia terra natale, a bordo di quel vecchio bus.
Vicino a me sedeva una ragazza, con un bambino. A ogni sobbalzo sorrideva e gli faceva un po’ di moine per fargli credere che fosse un gioco. Dietro di noi due donne anziane chiacchieravano in arabo. Nell’angolo in fondo, un vecchio vestito di bianco era concentrato nella lettura di un libro.
La risatina del bambino mi distrasse, la madre gli aveva fatto il solletico e lui gradiva; sorrideva anche a me guardandomi con occhi castano dorato. Allungai un dito che lui subito afferrò, cercò di portarselo alla bocca ma gli scivolò dalla manina grassoccia. Sorrisi senza dire niente, non volevo entrare in confidenza con la ragazza e rivelare che ero l’unica cristiana in mezzo a donne musulmane.
Guardai verso l’autista, un uomo di mezz’età, con dei baffi nerissimi. Guidava tenendo saldamente il volante con le mani e canticchiava, segno che era tranquillo.
Sulla strada, più avanti, qualcuno agitava il braccio. Le due donne smisero di chiacchierare, l’uomo seduto dietro alzò la testa dal libro.
Il mezzo rallentò e si fermò, l’autista azionò l’apertura e smise di canticchiare.
Un uomo con una kefiah bianca e nera salì sui gradini e guardò dentro all’autobus, valutando i passeggeri, poi scese e fece passare una donna indicandole dove sedersi. Salutò l’autista, la portiera si richiuse e ripartimmo.
Continuavo a guardare fuori seguendo con gli occhi la linea delle montagne in lontananza, e quel cielo così ampio, quell’aria afosa e polverosa, quella terra che sapeva di deserto. Ne avevo già nostalgia, a dispetto di tutto.
Il bambino afferrò un lembo del foulard che mi avvolgeva la testa per richiamare la mia attenzione e quando mi girai vidi il volto di sua madre che mormorò una scusa per non essere riuscita a trattenerlo. Sorrisi di nuovo e questa volta mossi il dito sul pancino facendogli il solletico come aveva fatto prima lei. La risatina infantile fu immediata.
Quanto poteva avere? Dieci mesi, un anno? Mi morsi un labbro per non domandarlo alla ragazza.
“Beh,” pensai tra me “ tra quindici anni non lo ricorderai neppure che il dito di un’infedele ti ha toccato la pancia.”
L’autobus rallentò di nuovo. Tutti cercammo di guardare per quale motivo, eravamo in una zona desertica, lontana da villaggi e altri insediamenti. L’uomo che alzava la mano segnalando di fermarci indossava una divisa militare, e altri uomini ci corsero incontro con le armi spianate circondandoci.
L’atmosfera si fece di nuovo tesa. A un altro cenno l’autista aprì la portiera e scese, andò incontro al militare che lo aveva chiamato e si mise a parlare con lui. Non potevamo sentirli e nessuno si azzardava a guardare i soldati al di là dei finestrini.
Non erano palestinesi ma falangisti, avevano il simbolo del cedro sul braccio e realizzai che loro mi vedevano come una musulmana. Posai la mano sul petto dove sentii in rilievo la croce di legno. In caso di necessità avrei potuto provare di essere cristiana.
Ma non ci fu tempo per le parole. Il militare estrasse una pistola e sparò in fronte al nostro autista.
Mosse un dito e i soldati mitragliarono i finestrini mandandoli in frantumi. Gridando ci buttammo a terra.
— Restate lì! — ordinarono.
Trascinarono il corpo dell’autista e lo appoggiarono sui gradini della portiera aperta. In quei pochi secondi fu chiaro a tutti che era stata pronunciata la nostra sentenza di morte. Alcune donne piangevano, la ragazza era pallidissima e, cadendo, il velo le era scivolato indietro. Aveva capelli castano chiaro come gli occhi del suo bambino. Alzai piano la testa oltre la linea dei finestrini e vidi i soldati che accendevano delle torce.
— Bruceremo qui. — disse il vecchio che era seduto in fondo.
Fu allora che gridai, con tono fermo ma con tutta la forza che potevo:
— Sono cristiana!
Ci fu uno strano silenzio. Mi tolsi il foulard dalla testa e scossi i capelli, mi alzai mostrando la croce che avevo al collo.
— Sono cristiana. — ripetei.
Il militare mi fece cenno di scendere. Presi la mia borsa e incrociai lo sguardo della ragazza. Entrambe pensammo alle parole pronunciate dal vecchio. Tesi una mano e lei mi diede il bambino, poi si coprì la faccia col velo. Percorsi il corridoio dell’autobus cosparso di vetri, passai accanto al sangue, alla testa e al corpo dell’autista, scesi i gradini e toccai terra.
Un soldato sfiorò con la canna dell’arma il fagotto che tenevo in braccio.
— È mio figlio. — dissi.
Mi indicarono un fuoristrada più lontano e mi avviai.
Quando sentii i fucili sparare, mi voltai di nuovo. L’autobus era in fiamme e non avevano lasciato uscire nessun altro. Da un finestrino mi sembrava di vedere una testa che guardava verso di me. Girai il bambino appoggiandolo con la schiena al mio petto e lasciai che si guardassero.
— Quella è tua madre. — mormorai piano — Sei vivo perché lei ti ha lasciato andare. Sei il mio bambino ora, dovrò trovarti un nome.
Restammo a guardare finché ci fu solo cenere e fumo.
Il fuoristrada mi portò alla mia destinazione.
La ragazza che sedeva accanto a me nell’autobus, non le avevo nemmeno chiesto il suo nome.
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Il Bestiario del terzo millennio
raccolta di creature inventate
Direttamente dal medioevo contemporaneo, una raccolta di creature inventate, descritte e narrate da venti autori. Una bestia originale e inedita per ogni lettera dell'alfabeto, per un bestiario del terzo millennio. In questa antologia si scoprono cose bizzarre, cose del tutto nuove che meritano un'attenta e seria lettura.
Ideato e curato da Umberto Pasqui.
illustrazioni di Marco Casadei.
Contiene opere di: Bruno Elpis, Edoardo Greppi, Lucia Manna, Concita Imperatrice, Angelo Manarola, Roberto Paradiso, Luisa Gasbarri, Sandra Ludovici, Yara Źagar, Lodovico Ferrari, Ser Stefano, Nunzio Campanelli, Desirìe Ferrarese, Maria Lipartiti, Francesco Paolo Catanzaro, Federica Ribis, Antonella Pighin, Carlotta Invrea, Patrizia Benetti, Cristina Cornelio, Sonia Piras, Umberto Pasqui.
L'Altro
antologia AA.VV. sulle diversità del Genere Umano
Attraverso il concorso "L'Altro - antologia sulle diversità del Genere Umano", gli autori erano stati chiamati a esprimersi sulle contrapposizioni fra identità, in conflitto o meno, estendibili anche a quelle diversità in antitesi fra di loro come il terreste e l'alieno, l'Uomo e l'animale, l'Uomo e la macchina, il normale e il diversamente abile, il cristiano e il musulmano, l'uomo e la donna, il buono e il cattivo, il bianco e il nero eccetera. La redazione cercava testi provocatori (purché nei limiti etici del bando), senza falsi moralismi, variegati, indagatori e introspettivi. Ebbene, eccoli qua! La selezione è stata dura e laboriosa, ma alla fine il risultato è questo ottimo libro.
A cura di Massimo Baglione.
Copertina di Furio Bomben.
Contiene opere di: Furio Bomben, Antonio Mattera, Maria Letizia Amato, Massimo Tivoli, Vespina Fortuna, Thomas M. Pitt, Laura Massarotto, Pasquale Aversano, Ida Dainese, Iunio Marcello Clementi, Federico Pavan, Francesca Paolucci, Enrico Teodorani, Giorgio Leone, Giovanna Evangelista, Alberto Tivoli, Anna Rita Foschini, Francesco Zanni Bertelli, Gabriele Ludovici, Laura Traverso, Luca Valmont, Massimo Melis, Abraham Tiberius Wayne, Stefania Fiorin.
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Masquerade
antologia AA.VV. di opere ispirate alla maschera nella sua valenza storica, simbolica e psicologica
A cura di Roberto Virdo' e Annamaria Ricco.
Contiene opere di: Silvia Saullo, Sandro Ferraro, Luca Cenni, Gabriele Pagani, Paolo Durando, Eliana Farotto, Marina Lolli, Nicolandrea Riccio, Francesca Paolucci, Marcello Rizza, Laura Traverso, Nuovoautore, Ida Daneri, Mario Malgieri, Paola Tassinari, Remo Badoer, Maria Cristina Tacchini, Alex Montrasio, Monica Galli, Namio Intile, Franco Giori.
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