
Il surrogato di caffè inizia a borbottare nel bollitore. Questo suono è una sveglia non ufficiale che segue quella delle sei. Ma tanto sono sempre in piedi già da un’ora, nei dintorni il traffico umano comincia presto.
Verso il liquido marrone nella mia tazza di latta e mi trascino fuori dalla baracca. Kirp è già attivo, guaisce di fame. Mentre gli riempio la ciotola con gli avanzi della cena, getto il solito sguardo alla dom del professor Sirel. È avvolta da un tale silenzio…
Jahimann Sirel aveva ricevuto la sua dom quarant’anni fa, quando il governo si prodigava a elargire piccoli eremi contadini a tutti i miei connazionali che si erano distinti in qualche ramo della scienza. Il professore Sirel era un celebre chimico, “celebre” almeno per chi poteva permettersi di leggere giornali o possedere un televisore.
Quel luminare mai si sarebbe immaginato di dover trascorrere gli ultimi anni di vita a pochi metri da una specie di baraccopoli. Ma tant’è: il Paese è fallito da un pezzo, in campagna c’è spazio e le lamiere non mancano.
Sorseggio il mio surrogato, ripenso al mio primo incontro con Sirel, avvenuto pochi giorni dopo aver costruito la mia “dimora” a fianco della sua. Il professore non incuteva rispetto: piccolo di statura, infagottato in un cappotto antidiluviano, un volto talmente rugoso che pareva un ritratto accartocciato. Non so perché avessi attirato la sua attenzione, ma una sera, gracchiando qualcosa di appena comprensibile mi invitò nella sua dom. La spoglia verandina che si affacciava sui campi incolti era buia, Sirel soffriva il razionamento energetico.
«La tua è una vita di merda, vero?» esordì.
Mi venne da ridere al pensiero che lui si preoccupasse della mia situazione. Gli parlai del licenziamento dalla fabbrica; della mia ex moglie impazzita dopo aver trovato il nostro piccolo morto di freddo nella culla; dello sfratto e dei continui arresti per vagabondaggio. Annuì stancamente, poi comprese che era giunto il suo turno di vuotare il sacco. Prima di rispondermi, notò il mio interesse verso il suo calice di vino; percepivo il lieve moto ondoso rossastro al suo interno, causato dalle sue mani tremanti, oltre al buonissimo profumo.
«Frena, questa roba non è per te».
Sirel si alzò dalla sedia di paglia, entrò nella dom e tornò con una bottiglia di acquavite.
«Fattela bastare perché ne ho di cose da raccontarti…».
Non mentiva, parlò a lungo. Da giovane aveva vinto dei premi internazionali, ma la sua carriera si era assestata sugli alti e bassi dei governi che si erano succeduti. Dalle interviste in tv ai peggiori licei di provincia, per intenderci, fino al declino della ricerca scientifica del Paese. Una moglie morta di parto, due figli – Roman e Aleksa – che di professione lo spogliavano di ogni bene per addolcire le loro nottate in città.
«Sei stato fortunato a veder morire tuo figlio, e… credimi, l’avidità sarà la disgrazia dei miei» sibilò, con gli occhi annacquati dall’alcol. «Non c’è più rispetto per i padri, non credi?».
Ero indeciso se strangolarlo o dargli ragione, nel dubbio mi congedai con il proposito di rivederci nei giorni successivi.
Non potei che onorare la promessa: il vecchio professore, poco dopo ogni tramonto, cominciava a chiamarmi; mi faceva trovare una scodella di zuppa e l’acquavite schianta-fegato. Era un povero cristo come me, in fondo. Sorseggiava il suo prezioso vino rosso bestemmiando come un orso rabbioso, lamentandosi degli acciacchi e della solitudine. Alternava serate di pura ira a brevi periodi di paciosa rassegnazione, in cui trovava persino il modo di raccontarmi i fasti di un’esistenza vissuta, nonostante tutto, da privilegiato.
Col tempo, Sirel si ridusse sempre più a un mucchio di stracci raglianti. L’estate sembrava corroderlo e una sera mi accolse con due eleganti casse contenenti delle bottiglie di vino dall’etichetta blu e oro. I colori del vecchio governo.
«Adesso sono tue».
«Scherzate?».
«No. È tutto ciò che mi rimane, mi furono regalate dal presidente in persona. Mi raccomando: non aprirle».
«Perché?».
«Io…».
Diavolo d’un Sirel. Sulle prime non è che credetti troppo alle sue parole, ma quando lo vidi uscire dalla dom in una bara, portato in spalla da alcuni funzionari del Comune, capii che non mi aveva preso per i fondelli. Decisi così di sotterrare le casse di vino, dal momento che non avrei potuto trarne nulla.
Passò una settimana dalla morte del professore; un mattino, all’alba, sfondarono la mia porta. Nel giro di pochi secondi mi ritrovai spalle al muro, tempestato di bastonate da due energumeni.
«Dal notaio risultano certe bottiglie… parla o da qui non esci vivo».
Capii.
Indicai loro dove le avevo sotterrate. Mentre mi costringevano a disseppellirle, cercai di ricordare come si chiamasse quella sostanza chimica con la quale Sirel, mediante una lunga siringa che trapassava il sughero del tappo, aveva contaminato il vino, trovando il modo di avvelenarsi con dolcezza e morire con calma. Mi strapparono le casse dalle mani prima che potessi riferirglielo.
Adesso nella dom non abita più nessuno e intorno a quelle mura aleggia un silenzio che, a ripensarci ora, mi rimette in pace col mondo.