L'amante
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L'amante
Lasciato il vestibolo adattato a sala d’aspetto, superato un breve corridoio disadorno, venivano introdotti nella stanza color malva, affacciata su di una strada poco frequentata, e invitati a sedere dietro l'ampia scrivania di palissandro nero sulla quale crescevano, come casermoni di periferia, pile di fascicoli traboccanti solerzia e laboriosità certo, quanto una vaga indolenza; e il cui vero scopo era d’attrezzare una barriera, o un confessionale, tale da impedire il reciproco scambio di sguardi quando si rimaneva seduti l’uno di fronte all’altro.
E anche in quel frangente continuò a dissentire dando ragione a voce all’anziano cliente, il quale da mezz’ora si sfogava sciorinando tutte le sue fantasie riguardo a una servitù di passaggio che aveva causato più guai di quanti avrebbero potuto mai essere i vantaggi.
La professione gli aveva regalato una certa praticaccia del mondo: sapeva bene che contenziosi di tal genere esistevano, e resistevano al passar dei lustri, perché per molti una causa in tribunale rimaneva una di quelle occupazioni in grado di dar un senso alla propria esistenza.
Una sorta di litigo ergo sum, per adoperare la più famosa locuzione cartesiana, dove l’autocoscienza e l’esserci sono il risultato diretto del numero di cause incardinate in un’aula di giustizia.
E, in casi del genere, a nulla sarebbe servito opporsi, e l’unica azione possibile non poteva che cercar di soddisfare il patrocinato, e condurre innanzi la controversia, con accanimento, per anni, decadi, sine die.
Dopo aver congedato il vecchio, che arrancava con l'aiuto d'un bastone e pure strisciando i piedi, tornò nella sala d’aspetto che credeva deserta; lo fece più per abitudine che per vero scrupolo, e s’accorse che, invece, vuota non era.
Una donna d'una bellezza avanti negli anni e ormai sfiorita – a cui aveva rimediato con un trucco pesante e di cattivo gusto – sedeva col cappotto ancora indosso in perfetto silenzio.
Valentina, l’eterna praticante tutto fare che lo seguiva da anni nella speranza di associarsi un giorno allo studio, l’aveva lasciata entrare e poi abbandonata s’una seggiola in compagnia di un “Gente” del 2004.
Quindi era andata via – perché il suo indefinito orario di lavoro era trascorso da un pezzo, o perché s'era stufata di montare la guardia alla Fortezza Bastiani –, ma senza dire neanche una parola; né a lui né alla donna, rimasta senza proferire un bah e ad attendere fiduciosa l'arrivo del suo turno.
Da due giorni dormiva poco e male.
Forse a causa di un paio di memorie di replica piuttosto complesse, per le quali non riusciva a tirar fuori il classico ragno dal buco; per cui vagava tra gli impalpabili spazi che dividono un contratto nullo da uno inesistente, ossia la finzione dall'apparenza, e le astruse formule matematiche necessarie a stimare il valore di un diritto di abitazione. Tuttavia lo macerava anche dell’altro, e il suo viso pareva più scarno di quanto non fosse di solito, pur se riempito da una barba di tre giorni; tanto da sembrare invecchiato, appassito, un po’ come la cliente sulla seggiola, sebbene, nonostante l'anello al dito, fosse ancora discretamente corteggiato da alcune colleghe rimaste – o diventate – zitelle sulla soglia della mezza età; per non accennare delle occasionali clienti che approfittavano dell'atmosfera rarefatta del suo studio, e dei suoi modi vagamente premurosi, per farsi audaci.
Quella sera ringraziò i suoi ossessivi rituali, senza i quali avrebbe lasciato la donna chiusa dentro l'appartamento per tornare a casa dalla moglie, e le diede il benvenuto.
«Piacere di conoscerla. Sono l'avvocato Santo Corbera…» si presentò, con affettato ossequio, e le mostrò il cammino.
«Adelina Mancuso sono» ricambiò lei, e si lasciò condurre.
Esercitava la professione da tanti di quegli anni da recitare ormai con sicurezza il suo brogliaccio, in cui aveva scritto che le donne sole frequentavano gli studi legali per tre unici motivi: corna o soldi, o, più di frequente, corna e soldi assieme.
Anime pragmatiche, gli balenò per la mente, e poco inclini alle speculazioni.
Pensiero che gli uscì quasi fuori dai denti, con un sibilo, che riuscì, prima che fosse tardi, a trasformare in un sospiro.
Certo di aver già fatto centro intonò la sua avemmaria: «Mi dica… come posso aiutarla?»
«Mio marito… » esordì lei.
Suppose d’averla già vista tutta quella dolente rappresentazione, con corna reiterate e conseguente richiesta di alimenti stratosferici e fuori dal mondo.
Non che fosse un presuntuoso, ma considerava quello dell’azzeccagarbugli un mestiere che costringeva a conoscere, prima della norma fissata in codici, le persone: ciò che volevano e cosa avrebbero preferito evitare, i loro desideri. Perché dentro al suo studio aveva sentito raccontare storie che la maggior parte della gente non avrebbe confessato neanche in punto di morte. E dunque riteneva, nei confronti del cliente, che l’avvocato avrebbe posto maggiore diligenza comportandosi da adepto di Freud o da seguace di Jung, o di uno di quei nuovi terapeuti cognitivo comportamentali – i quali attendono alla pratica quotidiana, alla soluzione dei problemi, più che indagare sui motivi che determinano tali comportamenti –.
E pertanto, il lavoro che egli ogni volta riteneva di dover svolgere fosse quello di vivisezionare le anime: disassemblarne i pezzi, smontarle per comprenderne il funzionamento e trarne i vari elementi, utili per distinguere il vero dal falso, il bene dal male, l’apparenza dalla realtà, ciò che sarebbe risultato convincente da ciò che non lo era per niente.
«Come faccio a dirglielo… » tentò di spiegare Adelina Mancuso. «Ecco, mio marito da un po’ di tempo… »
«La trascura!» azzardò, con il piglio del sottuttoio.
«No» lo contraddisse. «Il contrario, l’esatto contrario, avvocato. Fefé, Filippo voglio dire, mio marito, lui da qualche tempo è… stracanciatu» aggiunse, e le venne fuori una sgradevole, gracchiante, vocetta stridula; come se il ricordo avesse suggerito alle corde vocali una diversa, e più acuta, intonazione.
«Ah, si tratta d'un cambiamento, dunque, che lei ha avvertito in suo marito» chiarì a se stesso più che altro.
«Sesé, avvocato… ma prima di questo canciamento, neanche mi parlava. Né mmi sintìa. Non chiedeva come stavo, né che facevo tutto il santo giorno. Non gli importava… E anche a letto, da un bel pezzo ormai non gli interessava. Che poi, si figuri quanto interessa a me» aggiunse, con sostenuta sufficienza.
E scrollò pure le spalle, come se pure l'idea la disturbasse.
«Ho capito, continui. Vada pure avanti… »
«Ma sempre così è stato, sa? Da poco maritati… indifferente era con me e pure al... ecco… al sesso» sottolineò, con un pudore ipocrita e finto come il biondo platino della sua chioma mossa. «E adesso, invece, si occupa di me, s’informa, gira per casa cortese e gentile, fa il premuroso… e anche a letto... uhhh… sapesse com'è diventato focoso.»
«Ahi, ahi» si lamentò. «Ma che mi dice? Signora, ma che dice?» balbettò, tra l’incredulo e il pensieroso.
Certo stavolta d’aver afferrato tutto e, quindi, di non aver capito nulla.
«Ecco, mi deve credere. Le dico la verità. È diventato... su fi sti ca tu.»
«Sofisticato» recuperò ogni sillaba, l’avvocato.
E con un colpo secco di braccia diede una spinta alla seggiola munita di ruote su cui stava come appollaiato, che s’allontanò dalla scrivania come una barca s’allontana dalla riva per affrontare un mare sconosciuto.
«Signora Mancuso, faccia capire anche a me» provò a domandare, con la veemenza di un procuratore da film americano.
Perché alle otto di sera la sua pazienza s’era ammosciata, e aveva necessità di fatti concreti, più che di sostantivi fumosi e aggettivi ambigui.
«Dunque suo marito, dopo anni di… diciamo distaccato e… infruttuoso matrimonio, finalmente pare accorgersi di lei, le mostra il suo affetto… il suo ardore di uomo. E lei, lei che fa? Viene a lamentarsi da un avvocato?»
«Sissi, proprio» rispose la donna, tutta seria e imbronciata.
«Va be’, va be’, signora Mancuso. Ma da me che è venuta a fare, si può sapere? A farmi perdere il sonno?» la pungolò.
E già aveva preso a selezione varie modalità di punizioni adatte a infliggere una lezione senza pari a Valentina, colpevole di aver fatto entrare una pazza strammata in studio senza darsene conto.
«Ma lei che ha capito, avvocato?» fece risentita.
E prese a dondolargli in faccia la destra, con le dita giunte al pollice a formare una piramide in movimento.
«Io, come andavano le cose prima, contenta ero, e con lui meno ci stavo… Dall'altro, però, adesso so che quel porco fedigrafo le corna mi mette!»
«Finalmente! E allora le corna ci sono» tracimò Corbera, giubilante.
E interruppe la conta delle staffilate da assestare alla sua assistente sotto forma di straordinario non pagato.
«Ma che mi viene a dire finalmente, avvocato?»
«È un modo di dire legale, carissima signora Mancuso. Non stia a preoccuparsi dei tecnicismi. Ma ora, torniamo al merito della questione. Come fa a dire che sono corna, se testé m’ha riferito che a suo marito gli è persino ritornato l’appetito sessuale?»
«Appunto! Stracanciatu per colpa di fimmina è. Io voglio il divorzio» confermò la signora Mancuso, con un tono risoluto, espressione d'una volontà incrollabile.
«È sicura?»
«Sicurissima, certissima. Chi gliele ha insegnate a quel fedigrafo quelle cosacce che fa con me? Del tutto nuove sono. Di sicuro prima non le faceva… ‘ste porcate. E poi, come spiegarle, avvocato?»
«E lei ci provi… »
«Mi pare a mmia che mi usasse per fare… come si dice?» E rimase con la lingua a penzoloni, muta, per qualche attimo, alla ricerca del termine esatto. «Ripetizione!» straboccò, simile a una colata lavica dal cratere di Sudest.
«Ripetizione? E che viene a dire?»
«Ma sì, quella cosa che fanno i carusi a scuola.»
«Ripasso.»
«Ripasso, quella è la parola. Ecco, cu’ mmia iddu ripassa» esclamò.
«Signora Mancuso, signora Mancuso… » strillò a due riprese, rosso in viso. «Magari du mischineddu guarda solo qualche filmi porno.»
Non gli era mai capitato di provare a rimescolare le carte.
«Ma che filmi porno e filmi porno. Prima, ogni tanto, con le bbuttane ci andava. L’omo è omo, anche ‘n’omo come a llui. Fotteva e io me ne fottevo, e nulla tra noi era mai cambiato. Adesso, invece... ciò le prove, avvocato!» si difese a tono la donna, ed estrasse dalla borsa, grande come la sacca di un marinaio, un cellulare. «È il telefono del porco fedigrafo, gliel'ho fregato questo pomeriggio e tanto è rimminchionito che pensa d’averlo perso. Ci sono puru gli semmesse della bbuttana. Monica si chiama, la bbuttana.»
«Ahi, ahi. Monica ha detto? Ne è sicura?»
«Sicurissima. Come so che lavora all'inpisi, la bbuttana. Li vuole vedere gli semmesse? Qua sono. E c’è pure il numero di telefono… »
«Magari dopo. Magari dopo ne parliamo, signora Mancuso» la fermò ansimante l’avvocato Santo Corbera. «Ma lei nella vita che fa? Lavora?»
«Io no, il porco fa il camionista per i Caleca e basta per tutta la famiglia. Mai nulla ci fece mancare.»
«Accursio Caleca?» chiese pensieroso.
«Sissì, lo conosce?»
L’avvocato accennò un sì con la testa.
«E figli ne avete?»
«Due. Grandi.»
«Suo marito si chiama?»
Adelina Mancuso ripeté il nome.
«È proprio sicura di volersi separare? Sa, glielo dico perché a volte è più comodo voltare la testa, fare finta di niente. Accomodarsi con quello che c’è. Immaginare che nulla sia successo, fingere di non sapere. Chiudere un occhio, mantenere lo statu quo. E col tempo uno neanche ci fa più caso.»
«Eh? Ma che viene a significare, avvocato?»
«Le sto dicendo che alle volte per una coppia l’odio è un collante più forte e duraturo di qualunque altro sentimento. Lo dico contro i miei interessi.»
La donna guardò l’avvocato Santo Corbera contrariata, con la faccia feroce e disgustata.
«Ma che collant e collant, avvocato. In giro mi piglia? Qua di corna parliamo! Io a quel porco maiale lo voglio squartariare. Mi devo vendicare! Solo così le cose si rimettono a posto e io posso essere felice.»
«Felice... cara signora. La felicità è un vago momento, che poi diventa un ricordo. Vale la pena sacrificare la tranquillità, anche economica, sua e della famiglia per un ricordo?»
«No. Cioè… »
«Sì o no?»
«In effetti ora… sono confusa. Anzi è lei che mi confonde.»
«Signora Mancuso. Non c’è fretta. Vediamo come va con suo marito. Lei gli faccia credere che tutto va bene, ignori i sintomi, aspetti che la malattia svanisca, che il malato rinsavisca, e cerchi di dimenticare» disse, e si alzò.
Si avvicinò alla sedia e accompagnò la signora Adelina alla porta, con nervosa sollecitudine.
È proprio vero, pensò Adelina Mancuso mentre la porta si chiudeva dietro di lei. M'aveva avvertita la mia amica Mariuccia: non andare da un avvocato masculo, picchì ‘ncosciamente sempre per l’uomo fa il tifo. Fimmina cercatela... e divorziata per giunta, accussì è cchiù arraggiata.
Anche quella sera l’avvocato Santo Corbera andò a coricarsi prima della moglie.
Prese dal comodino il saggio su Rosmini che stava leggendo e lo aprì al punto segnato.
«Un uomo si riconosce per i libri che possiede» lesse.
Tra gli occhi e la mente si era alzata come una palizzata. Si accorse dopo qualche istante solo della presenza della moglie; alzò lo sguardo e la vide con i soli slip indosso, le braccia alzate ad accogliere la maglietta che stava per infilarsi.
Gli si risvegliò il desiderio.
«Accursio Caleca» disse.
E sentì la propria voce distante, come se fosse un altro a parlare.
La faccia della donna si raggelò in una smorfia di sorpresa.
«Chi te l’ha detto?»
«Ci sono cose che si capiscono senza bisogno che qualcuno debba dirtele.»
Lei cadde in ginocchio, ai piedi del letto, e affondò il viso nelle coperte piagnucolando.
«Dovevi dirmelo! Dovevi fermarmi! Dovevi fare qualcosa.»
«Tu dovevi dirmelo!» la rimproverò.
«Credi che se te lo avessi detto sarebbe stato come se non fosse mai avvenuto?» rispose lei.
Santo Corbera parve non afferrare, e cominciò a dirle del suo amore, nonostante tutto, e della sua sofferenza. A rassicurarla che nulla sarebbe cambiato tra di loro.
Alla fine si avvicinò per abbracciarla.
«Eleonora» disse. «Io ti amo.»
E le sfiorò il braccio.
Ma appena toccata lei si alzò. Prese a ridere; e aveva un ghigno demoniaco, sprezzante, stampato in faccia. Tese la mano destra verso di lui; l’indice e il mignolo si alzarono dal pugno chiuso. Gli occhi si fecero fessure, dalla bocca le uscì il verso del caprone: «Beee… Beee… Beee...»
- Massimo Baglione
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Re: L'amante
Se invece state solo rispondendo, non serve specificare.
Ricordatevi anche che il testo del commento deve essere lungo almeno 200 battute.
Vi rimando alle istruzioni delle Gare letterarie.
- Roberto Bonfanti
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Molto bene il tratteggio dei caratteri: Santo, la signora Adelina, mi pare di averli davanti, ma anche un personaggio secondario come la praticante partecipa all’economia della storia, con quel suo entrare e uscire dalle grazie dell’avvocato senza esserne consapevole, averne merito o colpa.
Il nome del marito l’ha dimenticato Santo o Namio?
Il ricorso ai termini dialettali non è un vezzo, qui lo trovo particolarmente indovinato. Fa subito ambiente, storia e cultura, trascina in uno strato di significati che in italiano varrebbe la metà.
E quindi fin qui tutto bene.
Voglio cercare il pelo nell’uovo, perché immagino che tu, come me, apprezzi più una critica ragionata che un pletorico elogio. Spero di trovarlo nel finale, mentre lo cerco lo rileggo tre volte (e questo è positivo) perché la prima credo di non aver capito, la seconda non capisco perché non ho capito alla prima e la terza… ti deludo di nuovo: di peli non ne trovo, almeno uno che valga la pena di essere menzionato, eppure ci hai provato a mischiare le carte, Monica, Filippo, Eleonora, Accursio… “Tuttavia lo macerava anche dell’altro”.
No, seriamente, è perfido quello sfregio finale al povero Santo, ma è un’immagine troppo gustosa, da commedia all’italiana, quella nobile, di una Wertmüller o di un Monicelli, non quella pecoreccia (anche se, parlando di corna e caproni…).
Il mio voto te lo do subito, ed è più che positivo.
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- Teseo Tesei
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Il motivo sono “corna”, cioè un sicuro tradimento del proprio marito.
L’avvocato sconsiglia e cerca di far desistere la signora Mancuso dal separarsi dal proprio coniuge.
Nel farlo Corbera adduce ragioni meramente opportuniste e poco sensate, tanto che la signora Mancuso contrariata e disgustata se ne esce dallo studio con una certa irritazione in corpo.
Tornato a casa, nel letto matrimoniale l’avvocato trova il coraggio di pronunciare ad alta voce il nome dell'amante della propria moglie, così che la moglie lo sentisse.
Infatti pure l’avvocato Corbera è “cornuto”, ma pur sapendolo da tempo, fingeva di non essere al corrente di nulla.
La moglie dell’avvocato confessa il tradimento recitando la scena madre, piagnucolando e accusando il marito che era lui a doverlo impedire e fermarla.
Lui la rimprovera dicendo che semmai era lei a doverglielo dire.
Fatto è che vuoi per opportunismo, “amore” o sola convenienza lui pur sapendolo mai ha mosso un dito per porre fine a quella sequela di tradimenti tra la propria moglie e, nemmeno a farlo apposta, il datore di lavoro del marito della signora Mancuso, amante della moglie dell’avvocato.
In ultimo l’avvocato dice alla moglie di amarla rassicurandola che nulla sarebbe cambiato tra loro.
Al che lei, comportandosi da vera capra quale è comincia a prendere in giro il marito facendo il segno delle corna con la mano, intonando al contempo il verso del caprone.
Che dire … statisticamente le famose corna arrivano puntuali per tre ragioni: Qualcosa non funziona nella coppia, noia o infine ricerca di brivido della trasgressione.
Una capra, o un caprone qualora realmente pentiti potrebbero forse anche essere perdonati, dipende da i singoli interessati.
Certo è che se la capra o il caprone non sono pentiti o vi fosse anche solo un minimo dubbio è meglio che dividano le proprie strade.
Avvisaglie ce ne sono sempre, quindi è davvero il caso di darsi una mossa ai primi sintomi prima che sia troppo tardi. Poi naturalmente se la capra è una capra e la sua natura quella, e pari discorso vale per il caprone … meglio salutarsi con un bel belato, come ha fatto la signora Corbera.
Anni orsono con un mio collega nonché amico, lui deluso da una “capra”, trovandoci entrambi in vetta su di una famosa cima mi disse, amareggiato, dopo l’ennesimo tradimento della fidanzata: “Guarda laggiù a valle, pare di vedere un grosso cesto di lumache. Guarda quante corna si vedono”.
Gli dissi che tradire significa consegnare al nemico il vessillo della fortezza che si era giurato di difendere.
E’atto infedele, ingannatore e spergiuro degno di vili e deboli. Soggetti verso i quali è bene prendere le dovute distanze, a maggior ragione in caso di reiterazione. Ancor oggi mi ringrazia per averlo spronato a non sopportare quel che forse anche lui avrebbe gestito come l’avvocato Corbera.
In fondo anche il Buon Dio perdona ognuno di noi, ma solo quando veramente pentito e determinato ad evitare in futuro un agire errato. Non certo mentre lo tradiamo consegnando il vessillo del nostro essere al male.
Mi piace, buon racconto, con finale, forse non per tutti chiaro, ma estremamente sensato.
https://www.youtube.com/watch?v=HTRHL3yEcVk
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In particolare questo periodo: "Il ricorso ai termini dialettali non è un vezzo, qui lo trovo particolarmente indovinato".
Faccio una premessa: l'italiano colloquiale, senza differenza di latitudini o longitudini, ricorre massicciamente al dialetto ed è forgiato dal dialetto. Gli anglosassoni, quando ci guardano scrivono native living spoken languages. Sono trentaquattro credo, molti più che tutte le lingue neolatine messe assieme. Noi li chiamiamo dialetti, un termine che ha assunto un significato spregiativo col passare del tempo. E all'italiano abbiamo pensato come a una lingua comune, una sorta di koinè, come il greco ellenistico nell'antichità, o l'inglese in ambito internazionale oggi.
Per questo nei dialoghi, per suonare credibili, veri, mi pare quasi impossibile non adoperare qualche termine dialettale, come nella realtà si fa, senza accorgersene, da nord a sud e qualunque sia l'estrazione sociale del parlante.
Eppure tu hai ragione, in letteratura le cose cambiano. Si tratta di un mondo a parte, con le sue regole, che nulla hanno a che vedere con la lingua parlata: e pertanto l'uso del dialetto, pur se animato dalle migliori intenzioni, può risultare fuori luogo, come una nota stonata, o anche un vezzo. Un vezzo dell'autore.
Azzeccata anche la considerazione sulla praticante. E quella sullo sfregio finale. Era proprio lì che volevo arrivare. Complimenti.
Un grazie anche a Teseo, che ha ben riassunto quanto ho scritto.
Sul tema principale del racconto nessuno si è però soffermato. Avevo anche pensato a un titolo diverso, che includesse il concetto, la parola. L'indifferenza e i modi in cui si manifesta, i suoi vari volti e le conseguenze che produce sulla psiche e la vita dei protagonisti. L'indifferenza di Adelina, quella di Fefé, l'indifferenza di Monica verso Santo. E anche quella di Santo alla fine.
E ancora: Stefyp, spero sia tutto più comprensibile.
- Eliseo Palumbo
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Quello che mi è piaciuto è la struttura e l'accompagnamento del lettore fino alla fine, mi è piaciuto il protagonista e il suo "convincersi" che la soluzione da lui adottata, nell'affrontare il tradimento, fosse la migliore, elargendo lo stesso consiglio alla cliente.
L'intuizione sull'amante della moglie così repentina, senza nessun dubbio precedente(?), da un semplice colloquio con una clienta non mi ha convinto troppo ma in fondo ci sta.
Di certo ha finalmente trovato il coraggio di parlarne. Bello il climax nel finale con la moglie protagonista, inizialmente, di una sceneggiata fino all'esplosione finale della beffa, istigatrice d'odio, quell'odio che il protagonista suggerisce ma he non è in grado di manifestare.
Gran bel racconto, voto massimo.
PS: "E dedito alla famiglia non meno che alla sua attività..." la e iniziale forse va accentata.
A presto
- Laura Traverso
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Secondo me il titolo scelto non è abbastanza inerente alla storia: lo trovo un po' riduttivo. Infatti, come ho letto nei commenti, andrebbe evidenziato altro...
La lunghezza della narrazione, secondo me, è un po' troppa, tanto da far risultare un po' pesante la lettura.
Circa la stesura del testo do per scontato che sia perfetto: in considerazione dell'acutezza e la preparazione dimostrata dall'autore nel commentare, e così aiutare, gli altri scrittori in gara, ci si sente così come a scuola, supportati e guidati dal professore. Forse Namio è un professore di lettere?
- Giorgio Leone
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Ciò che invece non mi è piaciuto molto è il fatto di aver concluso il racconto esattamente come l'ultima scena del "Berretto a Sonagli", indimenticabile nell'interpretazione di Eduardo come Ciampa e Angela Ippolito come Beatrice. C'era proprio bisogno?
- Giorgio Leone
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Re: L'amante
Ti mando la parcella direttamente a Ortigia.
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Re: L'amante
Potessi farlo io, come piacerebbe a me! Sferrare, signora, qua (indica la tempia sinistra col
solito gesto) per davvero tutta la corda pazza, cacciarmi fino agli orecchi il berretto a
sonagli della pazzia e scendere in piazza a sputare in faccia alla gente la verità. La cassa
dell'uomo, signora, comporterebbe di vivere, non cento, ma duecent'anni! Sono i bocconi
amari, le ingiustizie, le infamie, le prepotenze, che ci tocca d'ingozzare, che c'infràcidano
lo stomaco! il non poter sfogare, signora! il non potere aprire la valvola della pazzia! Lei,
può aprirla: ringrazii Dio, signora! Sarà la sua salute, per altri cent'anni! - Cominci,
cominci a gridare!
Beatrice: Comincio a gridare?
Ciampa: Sì, ecco! Qua! in faccia a suo fratello!
(Glielo spinge davanti.) Forza! in faccia al Delegato!
(Glielo spinge davanti.) Forza! In faccia a me! E si persuada, signora, che solamente da pazza
lei poteva pigliarsi il piacere di gridarmi in faccia: «Bèèè!».
Beatrice: E allora, sì: Bèèè!... ve lo grido in faccia, sì: bèèè! bèèè!
Fifì (cercando di trattenerla): Beatrice!
Spanò (cercando di trattenerla): Signora!
Assunta (cercando di trattenerla): Figlia mia!
Beatrice (con grida furibonde): No! Sono pazza? E debbo gridarglielo: Bèèè! bèèè! bèèè!
Ciampa (mentre tutti fanno per portar via Beatrice, che séguita a gridare come se fosse impazzita
davvero): È pazza! - Ecco la prova: è pazza! Oh che bellezza! - Bisogna chiuderla! bisogna
chiuderla!
Balla dalla contentezza, battendo le mani. Momento di gran confusione, anche perché alle grida
sopravvengono i vicini e le vicine di casa Fiorìca, con facce sbalordite, e chiedono a coro, più coi
gesti che con le parole, che cosa sia accaduto. Ciampa, seguitando a batter le mani, festante, al colmo
della gioia, e rispondendo ora all'una, ora all'altro:
È pazza! È pazza!... Se la portano al manicomio! È pazza!
E mentre tutti quei curiosi, spinti dolcemente ora dal Delegato, ora dal fratello, si ritirano
commentando sotto sotto la disgrazia, si butta a sedere su una seggiola in mezzo alla scena,
scoppiando in un'orribile risata, di rabbia, di selvaggio piacere e di disperazione a un tempo.
Tela
Il testo è tratto dalla scena finale del Berretto a sonagli di Pirandello.
Che il finale del mio racconto sia " esattamente come l'ultima scena del "Berretto a Sonagli" è un'opinione: che rispetto, ma non condivido.
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COMMENTO
Le radici del Terrore
Antologia di opere ispirate agli scritti e all'universo lovecraftiano
Questa antologia nasce dalla sinergia tra le associazioni culturali BraviAutori ed Electric Sheep Comics con lo scopo di rendere omaggio alle opere e all'universo immaginifico di Howard Phillips Lovecraft. Le ventitrì opere selezionate hanno come riferimento la narrativa "lovecraftiana" incentrata sui racconti del ciclo di Cthulhu, già fonte di ispirazione non solo per scrittori affermati come Stephen King, ma anche in produzioni cinematografiche, musicali e fumettistiche. Il motivo di tanto successo è da ricercare in quell'universo incredibile e "indicibile", fatto di personaggi e creature che trascendono il Tempo e sono una rappresentazione dell'Essere umano e delle paure che lo circondano: l'ignoto e l'infinito, entrambi letti come metafore dell'inconscio.
A cura di Massimo Baglione e Roberto Napolitano.
Copertina di Gino Andrea Carosini.
Contiene opere di: Silvano Calligari, Enrico Teodorani, Rona, Lellinux, Marcello Colombo, Sonja Radaelli, Pasquale Aversano, Adrio the boss, Benedetta Melandri, Roberta Lilliu, Umberto Pasqui, Eliseo Palumbo, Carmine Cantile, Andrea Casella, Elena Giannottu, Andrea Teodorani, Sandra Ludovici, Eva Bassa, Angela Catalini, Francesca Di Silvio, Anna Rita Foschini, Antonella Cavallo, Arianna Restelli.
Special guests: gli illustratori americani e spagnolo Harry O. Morris, Joe Vigil and Enrique Badìa Romero.
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BReVI AUTORI - volume 4
collana antologica multigenere di racconti brevi
BReVI AUTORI è una collana di libri multigenere, ad ampio spettro letterario. I quasi cento brevi racconti pubblicati in ogni volume sono suddivisi usando il seguente schema ternario:
Fantascienza + Fantasy + Horror
Noir + Drammatico + Psicologico
Rosa + Erotico + Narrativa generale
La brevità va a pari passo con la modernità, basti pensare all'estrema sintesi dei messaggini telefonici o a quelli usati in internet da talune piattaforme sociali per l'interazione tra utenti. La pubblicità stessa ha fatto della brevità la sua arma più vincente, tentando (e spesso riuscendo) in pochi attimi di convincerci, di emozionarci e di farci sognare.
Ma gli estremismi non ci piacciono. Il nostro concetto di brevità è un po' più elastico di un SMS o di un aforisma: è un racconto scritto con cura in appena 2500 battute (sì, spazi inclusi).
A cura di Massimo Baglione.
Contiene opere di: Ida Dainese, Angela Catalini, Mirta D, Umberto Pasqui, Verdiana Maggiorelli, Francesco Gallina, Francesca Santucci, Sandra Ludovici, Antonio Mattera, Francesca Paolucci, Enrico Teodorani, Laura Traverso, Romina Bramanti, Alberto Tivoli, Fausto Scatoli, Cinzia Iacono, Marilina Daniele, Francesca Rosaria Riso, Francesca Gabriel, Isabella Galeotti, Arcangelo Galante, Massimo Tivoli, Giuseppe Patti, SmilingRedSkeleton, Alessio Del Debbio, Marco Bertoli, Simone Volponi, Tiziano Legati, Francesco Foddis, Maurizio Donazzon, Giovanni Teresi, Sandro Pellerito, Ilaria Motta.
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Dieci
antologia di opere ispirate dal numero dieci, in omaggio al decimo compleanno dell'associazione culturale BraviAutori.it
Non amiamo l'auto-celebrazione, tuttavia ci è piaciuto festeggiare il nostro decimo compleanno invitando gli autori a partecipare alla composizione di un'antologia di opere di genere libero che avessero come traccia il numero 10. Ventidue autori hanno accettato l'invito e ciò che ci hanno regalato è stato confezionato in queste pagine.
Con la presente antologia abbiamo voluto ringraziare tutti i collaboratori, gli autori e i visitatori che hanno contribuito a rendere BraviAutori.it ciò che è oggi, e che continuerà a essere finché potrà.
A cura di Massimo Baglione.
Copertina di Giuseppe Gallato.
Contiene opere di: Ferruccio Frontini, Giuseppe Gallato, Mirta D, Salvatore Stefanelli, Gabriella Pison, Alberto Tivoli, Massimo Tivoli, Francesca Gabriel, Francesca Santucci, Enrico Teodorani, Gabriele Ludovici, Martina Del Negro, Alessandro Borghesi, Cristina Giuntini, Umberto Pasqui, Marezia Ori, Fausto Scatoli, Arcangelo Galante, Giorgio Leone, Fabio Maltese, Selene Barblan, Marco Bertoli.
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Giudizio Ardito - A.D. - Apocalypse Day
A cura di Arditoeufemismo.
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La Gara 17 - Non è vero ma ci credo
A cura di VecchiaZiaPatty.
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La Gara 15 - Risorse a piccoli sorsi
A cura di Mastronxo.
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