La vendetta è mia
La vendetta è mia
Lunedì mattina
L'acqua nella brocca è come minimo dell'altro ieri, ma non me ne importa un accidenti. La verso nel catino e mi lavo la faccia. Senza nemmeno asciugarmi, infilo alla meglio la camicia nei pantaloni, e intanto metto le scarpe. Rinuncio alla cravatta. Il panciotto e la marsina li indosso in fretta e furia. Troppi bottoni, che non ho proprio voglia di allacciare. Vestirmi, d'altronde, sta diventando un'operazione sempre più fastidiosa. Per tre anni ho indossato un semplice saio, calzato comodi sandali, e agghindarmi da barone oggi mi complica la giornata.
Lo zio Filippo è preoccupato per me. Dice che se la mia rinuncia all'ordine dei francescani di un anno fa mi aveva già scombussolato l'equilibrio mentale, da due mesi a questa parte, da quando ho perso l'uso della parola, addirittura do i numeri. La sua, del resto, è anche la preoccupazione di un medico.
Io so solo questo: da due mesi una rabbia silenziosa mi colma il cuore. Una rabbia che rivolgo a me stesso e al mondo intero in egual misura.
Scoprirmi invalido la mattina mi fa gelare il sangue nelle vene. È come svegliarsi sepolto vivo in un sotterraneo.
Se cerco di parlare la lingua fa cilecca, le corde vocali non emettono che suoni gutturali, raschi pietosi, slabbrature acustiche.
I miei genitori sostengono che mi si è inceppato il cervello, non la lingua. A sentirli, non si diventa muti da un giorno all'altro. E sono certo che per la mia improvvisa menomazione si sono dati la più facile delle risposte. Il giusto castigo di Dio, non riesco a pensarne una diversa. Fatto sta che, se prima non volevano che mi ordinassi frate, oggi si scandalizzano perché ho rinunciato alla vita ecclesiastica.
Credo di averlo capito, oramai: per i miei genitori sono e sarò sempre un problema. E con la scusa che lo zio è medico e dovrà occuparsi della mia salute, l'hanno in parte risolto, il loro problema. Scaricandomi al caro parente. E io mi sono sentito come un pallone che viene allontanato con un calcio.
Ma devo smetterla di stare a ragionare sempre su queste cose. Piuttosto, devo sbrigarmi.
Alzo la ribalta dello scrittoio, afferro la piuma d'oca e la intingo nella boccetta dell'inchiostro. Per un istante la punta della penna resta sospesa sopra il foglio: ho sempre odiato la menzogna. E scopro che non è nemmeno necessario parlare per servirsene.
Sollevo lo sguardo: la mia faccia riflessa nello specchio è scarlatta fino agli orecchi.
Esco a sbrigare delle commissioni, scrivo. Poi lascio il foglio in bella vista, in modo che gli zii possano notarlo.
È un'idea folle, lo so. Rimango persino stupito che i miei piedi mi portino verso l'armadio, dove ho nascosto il coltello che penso di usare per il mio scopo. Lo recupero dalla cassettiera in basso, con tutto il fodero fissato stabilmente alla cintura da un passante posteriore. Mi viene subito l'istinto di rimetterlo al suo posto. Lo sfilo invece dalla custodia e ne tasto la punta: un improvviso nodo di rabbia mi torce lo stomaco. Devo punire quel maledetto di Salvatore Berti. E per il tipo di servizio che ho in mente di regalargli, dovrà essere un religioso a punirlo. È giusto così. In fondo, un religioso è stato offeso.
Nel seminterrato dovrebbe esserci un mio vecchio abito da frate. Spero solo che zia Lella non gli abbia cambiato posto.
Rimetto il coltello nella custodia e mi allaccio la cintura alla vita. Poi mi abbottono il panciotto e la marsina. Quando ho finito accendo il lume e mi avvio giù per lo scalone.
Nel cortile m'investe il profumo di erba nuova e fiori. È una bella mattinata che promette di diventare calda. Alzo lo sguardo alla finestra della mia stanza: le mura sono ricoperte di licheni e rampicanti così fitti che un brivido mi sale lungo la schiena. Ho voglia di sentirmi addosso la luce del sole. Ed è con tale brama che osservo la costruzione quadrangolare che si erge oltre la siepe: le sue mura, quasi bianche, risplendono come diamanti al sole. La parte dell'edificio più in alto, fino allo spiovente a visiere aggrottate, dove esiste l'ultimo piano di finestrelle della servitù, è battuta violentemente dal sole che ne affila gli spigoli. Dio, bruciano come fuoco.
Mi avvio per il vialetto subito a sinistra, tra le aiuole. Giunto al fontanone devio a destra e prendo per il colonnato che porta all'ala est della proprietà, quella immersa nel sole e dove peraltro si trovano le scuderie e i vecchi depositi. Meno male che il portone d'ingresso è sempre aperto, così non ho difficoltà a entrare e a percorrere il vestibolo. Alla fine del lungo corridoio, dentro il palazzo, c'è il cortile; prima di attraversarlo voglio assicurarmi che nessuno mi veda. Alzo gli occhi: via libera.
Scendendo le scale del seminterrato, un topo si mette in fuga proprio sotto i miei piedi. Per poco non mi rompo l'osso del collo. Avanzo nell'insieme di stanze tenendo alto il lume. Coperti da spettrali teli bianchi, ingombrano dappertutto poltrone, sedie dall'alta spalliera, tavoli e ciò che a prima vista mi sembrano quadri enormi. Alcuni mobili pesanti sono posati contro la parete in fondo, sotto una fila di finestre strette e lunghe che toccano il soffitto. La cassapanca è al solito posto: nel cavo della parete, sotto una montagna di cianfrusaglie.
Sto facendo la cosa giusta, mi dico.
Per avermi umiliato davanti a tutti, Salvatore Berti deve pagarla cara. Ho ancora nelle orecchie l'insulto che mi ha vomitato al Circolo: – Chissà se un muto, che ha rinnegato la fede, è in grado di pensare come una persona normale – ha detto. Le vili parole e il tono usato mi hanno dato la sensazione di essere stato graffiato a sangue. Sono stato tentato di afferrarlo per il collo e di morsicargli la faccia, ma ho osservato i due brutti ceffi che quel porco si porta sempre dietro, rammentandomi il dettaglio che girano sempre armati. Il giorno seguente ho fatto recapitare un messaggio direttamente nelle sue mani: un invito al duello con uso del coltello e giacca, in spazio chiuso. Ma lui ha rifiutato, sostenendo nel messaggio di risposta che non avrebbe mai combattuto con un frate disertore, per giunta minorato e squilibrato mentale.
È impossibile descrivere l'emozione velenosa che mi ha invaso in un istante.
Determinato a fargliela pagare, non mi è rimasta che una scelta: andare a stanarlo a Monterosso, nella sua scuderia di cavalli.
Appendo il lume a un chiodo fissato alla parete e mi affretto a liberare la cassapanca dagli oggetti. Infine la apro con cautela. Mi auguro solo che non salti fuori qualche altro topo. Sposto coperte, tovaglie, diversi indumenti. Avvoltolato in un sacco, finalmente trovo l'abito da frate. Ci sono anche i sandali e la catenella con la croce di legno. Rimetto tutto nel sacco, spengo il lume e mi avvio alle scuderie.
È una pazzia, continuo a dirmi.
Del servo di Dio che sono stato, ammantato di fede, non è rimasto un solo briciolo. Al suo posto oggi c'è un essere vile, scontroso con tutti.
Sono entrato nel convento dei cappuccini di Santa Maria degli Angeli animato dall'intenzione di farmi guidare dalla volontà di Dio. Purtroppo, nei tre anni in cui sono rimasto, non ho trovato la benché minima traccia di Lui. Non volendo seguire la volontà di qualcun altro, ho preferito riprendermi la vita che avevo lasciato. Quella del barone Alfio Coviello.
Ma da due mesi circa, privato dell'uso della parola, qualcosa è scattato in me. L'ira è il sentimento che più mi si è palesato. Dominato dall'irascibilità, ho scatenato risse furibonde, anche per futili motivi. Ho ceduto alla cieca violenza, percorrendo i sentieri della vendetta. Sentieri che, davanti ai vecchi residui disseccati e polverizzati di me stesso, mi lasciano oggi la sensazione tragica di ciò che sono diventato: un emarginato dalla fede.
Per la miseria! Ma che cos'è questo, un delirio? Continuo ad assillarmi con questi ragionamenti.
Entrando nelle scuderie sono investito dall'odore di biada e di letame. Tuttavia, il corridoio sul quale si affacciano i singoli ricoveri dei cavalli è pulito. Appena mi vede Caramella, il mio baio preferito, allunga la testa per salutarmi. Lo faccio uscire dalla cella e lo conduco nell'area spaziosa dell'ambiente. Mentre mi accingo ad attaccarlo al calesse, Caramella scarta da un lato e prende a raspare il terreno con gli zoccoli. È evidente che percepisce il mio nervosismo. Lo tranquillizzo accarezzandogli il collo.
Uscendo dalla rimessa Eugenio, il capo stalliere, mi viene incontro con aria incerta. Probabilmente si sta chiedendo se per la mia uscita piuttosto mattiniera non sia il caso di avvertire gli zii. Gli faccio cenno col capo di aprirmi il cancello del portico. Eugenio obbedisce, e va a piantarsi a un lato del passaggio.
Batto le redini e faccio compiere un largo cerchio al calesse puntando verso il portico. Eugenio mi saluta con la mano, sembra poco persuaso.
Il sentiero per arrivare alla scuderia dei Berti è quello per le colline Monterosso: un'ora e mezza di strada carreggiabile, quasi tutta in salita.
Lungo i bordi della strada operai dalle facce consumate si avviano pazienti sui luoghi di lavoro.
Più avanti, con i loro pesanti fagotti alle spalle le lavandaie si recano al lavatoio pubblico. Lo zio ha molta considerazione di loro. Dice che fanno un lavoro duro: sempre curve e con le mani nell'acqua fredda, hanno continuamente dei dolori alla schiena, al collo, alle braccia. C'è fra loro anche chi porta in mano il vaso da notte che dovrà svuotare nel grande pozzo di scarico fuori dal paese.
Tiro le redini e imbocco un sentiero sulla destra che conduce a una caverna adatta per il mio scopo. L'ho scoperta anni fa cercando resti antichi con alcuni amici.
Degli spaccapietre stanno imbrecciando la strada lungo un lato del percorso. Uno di loro interrompe il suo lavoro, per guardarmi. Lo riconosco, è Serafino Gangemi, in passato ha lavorato nella proprietà dello zio. Strano, avevo sentito dire che era morto qualche anno fa. Evidentemente non si trattava di lui.
Gli occhi di Serafino sembrano velati da un'invisibile nuvola di fumo. Mi saluta scoprendosi il capo. Un gesto gentile, umile, che mi cala in un fuggevole sentimento di religiosità. Un sentimento che riesce a turbarmi come un sentore familiare portato per caso dal vento.
Se le cose andranno come credo, quando ripasserò da qui Serafino avrà davanti agli occhi un assassino.
Rispondo al saluto con un cenno della testa. Sprono il cavallo, temendo quasi che Serafino possa udire il battito del mio cuore contro la cassa toracica, divulgatore di sentimenti che invece devo tenere nascosti.
Il sentiero è a tratti chiuso tra pareti alte e ripide, a tratti affiancato da alberi e da margini erbosi di là dai quali si aprono terreni incolti. Do uno sguardo dietro di me: gli zoccoli del baio alzano nugoli di polvere dalla pista sterrata.
Arrivo a destinazione. L'ingresso della caverna è seminascosto dalla vegetazione, situato in un punto dove la strada forma una larga rientranza.
Mi assicuro che non ci sia nessuno intorno. Libero il baio e spingo il calesse tra la vegetazione, fin dentro la caverna. Poi traggo fuori gli indumenti religiosi dal sacco. Mi tolgo gli abiti e li arrotolo, facendone un involto. Metto tutto dentro il sacco e lo nascondo sotto il sedile del calesse. Nella caverna c'è poca luce, mi porto nella rientranza. Mi allaccio l'arma attorno alla vita, mi faccio calare dalla testa il saio, lego e stringo la cordicella. Metto la catenella con la croce di legno al collo, infine indosso i sandali. Sono pronto.
Salvatore Berti non può permettersi il lusso di deridere la mia fede impunemente. La lama del mio coletto berrà il suo sangue.
Quando mi avvicino a Caramella, per montarlo, imbizzarrisce, si solleva sulle zampe anteriori. Poi sposta il peso da uno zoccolo all'altro, inclinando il capo per tenermi d'occhio: percepisce ancora la mia rabbia. Non ha mai fatto così. Mentre Caramella scarta di lato e appoggia gli zoccoli a terra, riesco per un pelo ad afferrare le redini. Lo accarezzo sul fianco, per rasserenarlo. Attendo che il suo respiro si calmi, e lo monto. Per un po' si agita sotto di me, poi si tranquillizza.
Mi calo il cappuccio sulla testa e mi rimetto sul sentiero.
La gente per strada incontrerà un fraticello in sella a un cavallo, non più il giovane barone Alfio Coviello a bordo di un calesse da passeggio.
Un vecchio viandante mi ostruisce il sentiero. La barba canuta spicca contro la stoffa scura del suo abito.
– Fermatevi, vi prego! – dice agitando le mani. – La povera Marta ha bisogno di una preghiera. Sta morendo.
Il sole troppo intenso irrompe alle sue spalle, ammantandogli il viso d'ombra. Così non riesco a vedergli gli occhi.
Il vecchio allunga il braccio, accennando il percorso alle mie spalle. – Dietro la curva incontrerete una vecchia casa. Marta è lì dentro.
Mi volto. A un centinaio di metri la strada volta a sinistra.
– Non è necessario che bussiate, spingete il portone ed entrate – continua lui. – Ma pensateci bene, frate, perché se doveste decidere di assistere Marta nella sua agonia dovrete pregare in mia vece.
Come se quella appena conclusa fosse la più sensata delle conversazioni, nel più normale dei giorni!
È soltanto lo sragionare di un povero vecchio, mi dico. Non è da escludersi che, avendomi riconosciuto e sapendo della mia rinuncia alla vita religiosa, il viandante abbia voluto manifestarmi le difficoltà psicologiche cui andrei incontro nello spacciarmi in ciò che non sono più. Ma non sembra avere tanta logica neanche il mio ragionamento.
Rifletto sul da farsi.
In fondo, una verifica sul posto non mi costa nulla farla. Magari la donna non è così grave come sostiene il viandante. E chissà che un aiuto concreto alla fine non possa consistere nel far intervenire un medico. La mia coscienza, in ogni caso, si rifiuta di disinteressarsi di quella donna.
Spingo il baio a compiere dietro front, lo incito e mi avvio nella direzione indicata dal viandante.
Voltata la curva, all'improvviso mi giunge alla vista una vecchia casa di pietra. È tra gli alberi, un po' all'interno rispetto al margine della strada ma visibile dal sentiero.
La casa respira come fosse una creatura viva. Forse è un pochino decadente, tuttavia i fiorellini gialli che crescono tra le pietre, la rendono graziosa.
Mentre lego le briglie a un palo nei pressi dell'entrata, si leva un forte vento. Una goccia di pioggia mi cade sulla mano. Lancio uno sguardo al cielo, alle nuvole che si ammassano rapidamente. Col vento, mi giunge alle orecchie un suono che è a metà tra un grido e un lamento.
Entrambi i battenti del portone sono chiusi. Mi vengono in mente le parole del vecchio. Non è necessario che bussiate, spingete il portone ed entrate.
Appoggio le mani a palmo aperto contro il legno e spingo. Il battente si apre, e sono dentro. La costruzione è malridotta, con molte mattonelle del pavimento traballanti, le persiane alle finestre curvate. La luce filtra dall'esterno attraverso le imposte ed è in parte assorbita da un vecchio mobilio in disuso, cupi arazzi e busti di personaggi classici disposti lungo le pareti. Davanti a quelle menti eccelse, il mio cervello svolazza come un uccello in gabbia.
Delle persone campeggiano al centro della stanza. Stanno tutte in piedi, le mani strette in preghiera. Saranno circa una decina.
Il rumore di qualcosa che dall'esterno sbatte contro la casa e i chiari lamenti di una persona, riempiono il silenzio dell'ambiente. I singhiozzi sembrano provenire dalla stanza laterale sul retro, all'estremità opposta dell'atrio.
Preferisco tenere il cappuccio calato sulla testa, anche se è poco probabile che qualcuno mi possa riconoscere. In realtà, però, nessuno s'interessa a me. Per attirare garbatamente la loro attenzione, simulo un colpo di tosse e dalla mia gola esce un suono pietoso.
Un uomo alto con una massa arruffata di capelli scuri si stacca dal gruppo e mi affronta immediatamente.
– Non c'è più nulla da fare – sentenzia.
Stagliandosi davanti alla finestra, l'uomo blocca la già debole luce proveniente dalle imposte, apparendo ai miei occhi come una sagoma incerta. E per quanto l'oscurità nella stanza non lo consenta, ho immaginato chiaramente l'espressione affranta con cui l'uomo si è rivolto a me nel pronunciare quelle parole.
Una donna robusta, con un fazzoletto in testa, si stacca anch'essa dal gruppo e si avvicina.
– Su, venite – dice afferrandomi una mano. – Dobbiamo pregare per Marta.
– Sì, buon fraticello – dice l'uomo affiancandomi dall'altro lato e calandomi un braccio sulle spalle – se deve morire, sia almeno in grazia di Dio.
Mi fermo. Li interrogo uno per volta con lo sguardo.
– Un maledetto cane rabbioso l'ha morsa a una mano – spiega la donna con voce lamentosa.
– Abbiamo mandato a chiamare un medico, ma è inutile, ormai – dice l'uomo con lo sguardo lontano.
Marta giace sotto le coltri, il viso pallido sopra una camicia da notte con il colletto a pizzo.
Una vecchietta vestita di nero è inginocchiata accanto al letto, raccolta in preghiera.
Mi avvicino.
La vecchietta si accorge di me. Si alza. Si mette di lato, per lasciarmi spazio. Quando le sono accanto la fisso, ma gli occhi in cui mi ritrovo a guardare sono sbarrati, come se contemplassero un punto indefinito oltre le mie spalle.
Marta è in preda agli spasmi muscolari. Muove continuamente la testa e gli occhi. È tutta sudata, disturbata nel respiro. La ferita è alla mano destra e arriva al metacarpo, dove nonostante il gonfiore e il tessuto slabbrato e illividito, sono ben visibili i punti in cui i denti della bestia sono penetrati nella carne.
Marta non ha scampo. Dallo zio so che più vicino al cervello si trova il morso di un cane rabbioso, più pericolo c'è di morire.
Le tasto la fronte. Scotta.
Marta reagisce al mio contatto arrestando i suoi occhi cerchiati sui miei. Sembra cosciente, ora.
– Dio vi ha mandato a me – dice con voce fievole.
Nascondo il volto nell'ombra del cappuccio, sprofondando nella vergogna. Poi mi giro, cercando di fuggire allo sguardo di Marta. I tre dietro di me si sono messi in ginocchio, mani strette in preghiera.
– Non dite un'orazione? – chiede la donna con il fazzoletto in testa.
– Sì, fate in modo che possiamo ripeterla insieme a voi – supplica la vecchietta.
– Coraggio – esorta l'uomo.
La corda che stringo alla vita e la croce di legno che porto al collo mi dicono che sono un frate. Deglutisco, per ricacciare indietro il nodo di tensione che mi affligge l'anima.
– Come puoi, o mio Dio… – la mia voce è un sussurro. – Come puoi mettermi in una simile situazione? Non ti bastava avermi reso un muto?
– Recitate più forte, per favore. Da qui non udiamo – dice l'uomo alle mie spalle.
– Sì, per favore – dicono a ruota le due donne. – affinché possiamo ripetere le orazioni insieme a voi.
Senza nemmeno rendermene conto, dopo due mesi di silenzio, ho parlato. E, nel farlo, ho levato la mia voce contro Dio. Che io sia maledetto.
Mi arrivano in soccorso le parole del vecchio viandante. "Ma pensateci bene, frate, perché se doveste decidere di assistere Marta nella sua agonia, dovrete pregare in mia vece."
Crollo in ginocchio. Pregare in vece di un'altra persona in fondo mi dà coraggio, e recito il Padre Nostro in nome del vecchio viandante. La voce esce forte e chiara.
Dietro di me i tre ripetono. Qualche istante dopo, ripetono anche le persone nell'altra stanza.
Marta mi afferra un braccio.
– Dell'acqua, per favore. – Anche la sua voce è forte e chiara.
Piomba nella stanza un silenzio gravido di incredulità.
La donna con il fazzoletto in testa si precipita al capezzale con una brocca nelle mani, in un turbinio di gonna. Versa dell'acqua su un panno e lava il viso della malata. L'uomo alto con la massa arruffata di capelli si fa largo con un bicchiere, che viene subito riempito dalla donna con il fazzoletto in testa. La vecchietta toglie il bicchiere dalle mani dell'uomo e lo porta alle labbra di Marta, sorreggendola con una mano dietro la testa. Marta beve, dimostrando a tutti noi che si è riavuta.
La vecchietta le mette una mano sulla fronte.
– La febbre è scesa!
– Non è possibile – dice l'uomo dopo aver verificato lui stesso.
– Stava morendo, un minuto fa – afferma la donna con il fazzoletto in testa.
– Come vi sentite? – chiedo a Marta.
– Ho tanta fame – risponde lei. E mi abbozza un sorriso.
Le tocco la fronte. È vero, la febbre è calata. Quelli dell'altra stanza accorrono, gridano tutti eccitati la loro gioia. Tutti vogliono vedere Marta. Tutti la vogliono toccare. C'è concitazione.
Nessuno bada a me. Mi guardo intorno. L'occasione per sgattaiolare via senza che nessuno se ne accorga è troppa ghiotta, e non me la lascio scappare.
Serafino è seduto sul mucchio di pietre già smazzate. È avanzato parecchio con il lavoro. Mi ha riconosciuto, nonostante il saio che indosso, nonostante sia in sella al baio e non a bordo del calesse.
Ma l'occhiata che stavolta mi lancia potrebbe sbriciolare una pietra. Non so perché ce l'abbia con me.
Se potessi guardarmi allo specchio, probabilmente scoprirei che un rossore di vergogna mi copre il volto. Mi sforzo di capire dove si annida il velenoso fantasma che mi fa sentire così in colpa.
Colgo un guizzo nello sguardo di Serafino. I suoi occhi sembrano appuntati sulla cordicella che stringo alla vita.
Per un motivo a cui non riesco a dare un nome, mi trovo a portarmi io stesso una mano alla vita. E all'istante mi sento premere sul fianco l'oggetto freddo e duro che mi porto addosso.
Ripenso a Salvatore Berti, al suo sarcasmo, alla mia vendetta. Sento aleggiare lo spirito maligno intorno a me.
Introduco le mani sotto il saio e mi slaccio la cintura con l'arma. Faccio ruotare il braccio più volte e lancio tutto oltre il ciglio della strada.
Una luce diversa si stende ora sulla faccia di Serafino: lo sguardo pungente diventa finalmente benevolo.
Gli zoccoli del baio risuonano monotoni sul terreno. Sottili lame di pioggia iniziano a sferzarmi il viso. La previsione di una giornata calda era solo una mia segreta speranza.
Sotto la pioggia innocua e grigia che mi bagna scrosciante l'abito da frate, i miei pensieri hanno preso un corso più tranquillo.
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Nel primo caso la vendetta non arriva, e non c'ho capito nulla.
Nel secondo caso invece, Dio lo punisce obbligandolo a tornare sulla "retta via", attraverso il mutismo, l'odio scaturito dall'ingiuria, il doppio miracolo del recupero della voce e della guarigione dell'inferma, e il ritorno sui suoi passi; in questo caso mi è piaciuto molto. Ho comunque il dubbio e spero in una deluciazione.
Un altro quesito mi sorge sulla piuma intrisa d'inchisotro: ha alla fine scritto qualcosa o ha lasciato perdere? Se ha scritto, cosa stava scrivendo?
Altra perplessità: perché il calesse? Non sarebbe stato meglio uscire direttamente vestito da frate, da un'uscita secondaria magari? E il coltello, perché sotto il saio? Come lo avrebbe cacciato fuori?
Il racconto è scritto bene a parte un paio di spazi dimenticati come: poimi, nonha, enon.
Re: La vendetta è mia
Nel rispondere alle tue domande, rivivo felicemente i momenti della stesura. Il racconto nasce infatti dopo aver letto il bellissimo romanzo di Dacia Maraini, La vita di Marianna Ucria, incentrato proprio su un personaggio muto (femminile in quel caso). Mi sono intestardito, e alla fine ho tirato fuori questo racconto. Per la prima domanda che mi poni, ti dico subito che la seconda spiegazione che ti sei data è quella che ho voluto trasmettere io: il personaggio muto è infatti in balia della decisione di Dio, che lo punisce quasi costringendolo al miracolo, ricordandogli che la vendetta è solo Sua. Tale aspetto, per altro, ho voluto legarlo all’altra circostanza che alita nella storia (o dovrebbe alitare), in cui, se il muto aveva perso la fede verso la chiesa e verso se stesso, Dio non l’aveva mica persa nel muto.
Riguardo alla piuma d’oca che il muto la intinge d’inchiostro, alla fine ha scritto agli zii la seguente frase: “Esco a sbrigare delle commissioni”, semplicemente non ho messo la frase tra virgolette per dare coerenza ai pensieri del muto scanditi dal io-narrante. La scena indugia un po’, del resto, per far risaltare il pudore del personaggio muto, il quale, tutto sommato, nonostante la sua acredine e sete di vendetta, è pur sempre un “buono”, cui gli riesce difficile persino mentire (da lì il suo arrossire fino agli orecchi).
In quanto alla scelta del calesse e di sgattaiolare da un’uscita secondaria, per il personaggio muto era importante non farsi notare dalla gente che lo avrebbe potuto riconoscere per strada, inoltre essendo un barone dovevo dare una certa profondità alle descrizioni, insomma dare l’idea dei luoghi dove si muoveva questo pentito frate che dal voto di povertà ritornava a essere un ricco barone.
Il coltello, infine, era infilato dentro il fodero fissato stabilmente alla cintura da un passante posteriore, cintura con fodero che il muto ha messo sotto il saio prima di partire con il calesse. Nel finale, pentito dai suoi propositi di vendetta, si è infatti disfatto dal coltello slegandosi la cintura e lanciando il tutto oltre il ciglio della strada.
Grazie quindi per l’opportunità e anche per la segnalazione dei refusi, ora provvedo a sistemare.
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Ti segnalo questo: “Gli domando dove si trovi la donna…”, in quel momento Alfio non ha ancora ritrovato la voce. “coletto” al posto di “coltello” e qualche spazio mancante, come ha già sottolineato Eliseo.
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"Chissà se un muto, che ha rinnegato la fede, è in grado di pensare come una persona normale" se non ho sbagliato a capire questa è la frase che fa scaturire tutta la rabbia del protagonista. Se così è direi che è un po' pochino, avrebbe dovuto usare un'offesa più pesante, più cattiva.
Non riesco a dare un voto più alto di 3 anche se mi spiace, ma l'estrema lunghezza, per me ovviamente, lo penalizza
Re: Commento
Lieto che ti sia piaciuto Roberto, grazie delle segnalazioni dei refusi, l'incoerenza che mi segnali in effetti mi è sfuggita del tutto. Ora sistemo.Roberto Bonfanti ha scritto: 08/12/2019, 19:09 Mi piace molto questo racconto sul giovane barone Alfio Coviello e la sua storia di redenzione e di perdono; una riconciliazione, sia con se stesso che con la fede. Anche la lunghezza, inusuale per queste gare, passa in secondo piano grazie a una buona prosa, uno stile elegante e preciso e una trama che coinvolge.
Ti segnalo questo: “Gli domando dove si trovi la donna…”, in quel momento Alfio non ha ancora ritrovato la voce. “coletto” al posto di “coltello” e qualche spazio mancante, come ha già sottolineato Eliseo.
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Re: La vendetta è mia
Sono contento di averci azzeccato, di conseguenza avevo afferrato la fede di Dio in lui.Giampiero ha scritto: 08/12/2019, 18:54 ... ti dico subito che la seconda spiegazione che ti sei data è quella che ho voluto trasmettere io: il personaggio muto è infatti in balia della decisione di Dio, che lo punisce quasi costringendolo al miracolo, ricordandogli che la vendetta è solo Sua. Tale aspetto, per altro, ho voluto legarlo all’altra circostanza che alita nella storia (o dovrebbe alitare), in cui, se il muto aveva perso la fede verso la chiesa e verso se stesso, Dio non l’aveva mica persa nel muto.
In questo caso è stata una mia svista, avrei dovuto rileggerlo una seconda volta prima di commentare forse, figuraccia ahahGiampiero ha scritto: 08/12/2019, 18:54 Riguardo alla piuma d’oca che il muto la intinge d’inchiostro, alla fine ha scritto agli zii la seguente frase: “Esco a sbrigare delle commissioni”
Be' l'idea e i luoghi dove viveva erano già stati descritti molto bene, perdonami ma resto della mia idea che sarebbe stato meglio non attirare l'attenzione, anche perché a fine '700 un frate col calesse non passava inosservato, specie un cappuccino, ordine conosciuto per essere "mendicante".Giampiero ha scritto: 08/12/2019, 18:54 In quanto alla scelta del calesse e di sgattaiolare da un’uscita secondaria, per il personaggio muto era importante non farsi notare dalla gente che lo avrebbe potuto riconoscere per strada, inoltre essendo un barone dovevo dare una certa profondità alle descrizioni, insomma dare l’idea dei luoghi dove si muoveva questo pentito frate che dal voto di povertà ritornava a essere un ricco barone.
Qui invece è un limite mio, non riesco a capire come lo avrebbe estratto da sotto il saio, ma non è importanti ai fini del racconto, che ripeto mi è piaciuto.Giampiero ha scritto: 08/12/2019, 18:54 Il coltello, infine, era infilato dentro il fodero fissato stabilmente alla cintura da un passante posteriore, cintura con fodero che il muto ha messo sotto il saio prima di partire con il calesse. Nel finale, pentito dai suoi propositi di vendetta, si è infatti disfatto dal coltello slegandosi la cintura e lanciando il tutto oltre il ciglio della strada.
Re: Commento
Per l'offesa ricevuta ho puntato sulla psicologia di sua già molto provata del personaggio muto, del suo sentirsi un fallito e sentirselo rinfacciare così crudelmente in società, in questo contesto è bastata la classica scintilla per scatenare tutta la sua delusione, per aver creduto verso una Chiesa che l'ha profondamento deluso. Per la lunghezza del testo, lo capisco, grazie della lettura Stefy.Stefyp ha scritto: 08/12/2019, 19:15 È lungo, decisamente troppo lungo, soprattutto nella prima parte. Rischia di far perdere l'interesse al lettore prima che arrivi il punto cruciale. Sforbiciando alcune frasi il racconto ne verrebbe valorizzato. Lo stile mi piace, mi ci ritrovo.
"Chissà se un muto, che ha rinnegato la fede, è in grado di pensare come una persona normale" se non ho sbagliato a capire questa è la frase che fa scaturire tutta la rabbia del protagonista. Se così è direi che è un po' pochino, avrebbe dovuto usare un'offesa più pesante, più cattiva.
Non riesco a dare un voto più alto di 3 anche se mi spiace, ma l'estrema lunghezza, per me ovviamente, lo penalizza
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Complimenti per il bel racconto dunque. Per certi versi mi hai ricordato il grande Vincenzo Consolo.
Non ho nulla da segnalarti dal punto di vista formale oltre le sviste che già ti sono state indicate.
Ti segnalo altro: il racconto è ambientato sul finire del secolo del Lumi, ma proprio per questo una similitudine del genere: "come un pallone che viene allontanato con un calcio." è del tutto fuori contesto.
Come quest'altro termine, per esempio: "Devo punire quel bastardo di Salvatore Berti". Mi riferisco a bastardo.
Anche il comportamento dei genitori mi è sembrato incongruente non solo rispetto al tempo e al loro stato sociale, ma in sé. Se non avevano condiviso la scelta del figlio di prendere il saio, dovevano poi esser contenti della scelta contraria, senza contare che in quel periodo era in vigore il maggiorascato.
I rapporti tra il giovane barone e i suoi parenti sembrano poi troppo moderni, anzi paiono animati da uno spaesamento quasi contemporaneo. Come il suo trovare e perdere la fede in modo troppo rapido, quasi modaiolo. Anche il livore di quel Salvatore Berti mi ha ricordato quello di un contemporaneo bullo, che poi rifiuta lo scontro fisico aperto, piuttosto che altro.
Marianna Ucrìa diventa muta per l'offesa subita da bambina dallo zio che diventerà poi suo marito. Qui il barone, già adulto, perde la voce per dei motivi tutto sommato futili.
Tutto ciò per dirti che i personaggi mi sono sembrati troppo moderni, e poco calati in quella realtà.
Il miracolo della guarigione improvvisa di Marta mi è sembrato un espediente troppo facile e, per quanto il racconto non sia breve, mi è sembrato affrettato. Bellissimo invece l'incontro, doppio, con Salvatore Gangemi. Quello davvero un colpo da maestro.
Re: Commento
Grazie Isabella, sei attenta lettrice. La personalità del protagonista che cambia con il proseguo della storia è un atto che ho voluto trasferire per l’economia e coerenza della storia. Per quanto riguarda la tua perplessità, vedi la proprietà del protagonista l’ho ubicata ad Acireale e la località di destinazione è Monterosso, oggi una frazione di Aci Sant’Antonio, distante circa 3/4 chilometri da Acireale, ma si deve considerare che la topografia di allora (siamo nel 1700) era certamente diversa dei tempi attuali e quindi lo scenario diciamo che l’ho adeguato con un po’ di fantasia. Il percorso fatto dal personaggio muto, praticamente, è un andare e venire Acireale - Monterosso, dove a metà strada, all’andata, il barone ha incontrato Salvatore e la squadra di operai, e al ritorno, ripassando, ha notato che avevano fatto progressi con il loro lavoro. Il calesse, quindi, a un certo punto del tragitto, a metà percorso, è stato nascosto nella grotta, e il barone, travestendosi da frate, ha preferito proseguire con il baio, proprio per non essere riconosciuto.Isabella Galeotti ha scritto: 09/12/2019, 9:27 Cosa scrivere. Ho trovato questo racconto un'ottima lettura, anche se lungo, l'ho aprezzato molto. Sia per le descrizioni, minuziose, sia per la personalità dell'attore, d'apprima vendicativa rabbiosa e poi redenta e quasi santificata, grazie al passaggio nella cascina di Marta. come già fatto notare i refusi sono poca cosa. Ho una perplessità. Salvatore. Alfio incontra Salvatore alla pietraia poi percorre ancora un po di strada per raggiungere il nastondiglio. Poi, probabilmente la casa di Marta è dopo il nascondiglio della grotta. Quando arrivi nuovamente da Salvatore all'epilogo della storia. Scrivi che ha proseguito con il lavoro, ottimo, Alfio è ancora vestito da frate e si libera, fortunatamente della lama che nasconde sotto di esso. Mi chiedo allora ha girato in tondo? Mi sfugge Salvatore calesse barone vestito bene, poi Salvatore baio frate saio. Vabbe. comunque voto 5
Re: Commento
Intanto grazie per l'opportunità, Monterosso è una piccola frazione vicino Acireale, all'epoca zona di campagna.Namio Intile ha scritto: 09/12/2019, 11:54 A giudicare dal modo di scrivere un po' barocco - carico di suggestioni, amore per i dettagli e per le descrizioni -, per non parlare di quell'Acireale e di quel Monterosso (che però mi ha confuso), sei siciliano come me.
Lui però è un grande autore oltre che saggista e poeta, io diciamo che conosco i miei limiti tanto da amarli per auto-simpatia.Namio Intile ha scritto: 09/12/2019, 11:54 Complimenti per il bel racconto dunque. Per certi versi mi hai ricordato il grande Vincenzo Consolo.
Non ho nulla da segnalarti dal punto di vista formale oltre le sviste che già ti sono state indicate...
Capisco l'osservazione, in realtà ho pensato che un autore ha bisogno di prendersi alcune libertà di espressione diciamo contemporanei, fermo restando che calciare un pallone usato come metafora non mi sembra proprio fuori contesto anche per quell'epoca. Mentre per il termine "bastardo" magari hai ragione.Namio Intile ha scritto: 09/12/2019, 11:54
Ti segnalo altro: il racconto è ambientato sul finire del secolo del Lumi, ma proprio per questo una similitudine del genere: "come un pallone che viene allontanato con un calcio." è del tutto fuori contesto.
Come quest'altro termine, per esempio: "Devo punire quel bastardo di Salvatore Berti". Mi riferisco a bastardo....
I genitori erano assenti del tutto, a prescindere del comportamento che avrebbe avuto il figlio. Ho voluto rappresentare un tipo di abbandono che è sempre stato presente nelle epoche storiche passate come lo saranno credo nelle epoche future. Certi atteggiamenti sono eterni, insite all'uomo. Come il bullo di turno, che nel Settecento magari lo definivano con un altro termine, ma sicuramente esisteva il tipo. Per la guarigione improvvisa, non saprei, il contesto entra nella dinamica di stesura di un racconto incentrato comunque sul personaggio muto che ha perso la fede oltre che la parola.Namio Intile ha scritto: 09/12/2019, 11:54 Anche il comportamento dei genitori mi è sembrato incongruente non solo rispetto al tempo e al loro stato sociale, ma in sé. Se non avevano condiviso la scelta del figlio di prendere il saio, dovevano poi esser contenti della scelta contraria, senza contare che in quel periodo era in vigore il maggiorascato.
I rapporti tra il giovane barone e i suoi parenti sembrano poi troppo moderni, anzi paiono animati da uno spaesamento quasi contemporaneo. Come il suo trovare e perdere la fede in modo troppo rapido, quasi modaiolo. Anche il livore di quel Salvatore Berti mi ha ricordato quello di un contemporaneo bullo, che poi rifiuta lo scontro fisico aperto, piuttosto che altro.
Marianna Ucrìa diventa muta per l'offesa subita da bambina dallo zio che diventerà poi suo marito. Qui il barone, già adulto, perde la voce per dei motivi tutto sommato futili.
Tutto ciò per dirti che i personaggi mi sono sembrati troppo moderni, e poco calati in quella realtà.
Il miracolo della guarigione improvvisa di Marta mi è sembrato un espediente troppo facile e, per quanto il racconto non sia breve, mi è sembrato affrettato. Bellissimo invece l'incontro, doppio, con Salvatore Gangemi. Quello davvero un colpo da maestro.
- Laura Traverso
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Re: Commento
Grazie, Diego, lieto che ti sia piaciuto nei contesti per me importanti. Con i racconti lunghi si rischia in effetti la vendetta del lettore che, appena sgarri, te la fa pagare per averlo costretto a leggere. Lo so per esperienza diretta. eh ehDiego.G ha scritto: 08/12/2019, 23:38 Difficile commentare dopo che hanno commentato minuziosamente gli altri scrittori. Personalmente l'ho trovato un pochino lunghetto anche io, ma non sono la persona più adatta per parlare di lunghezza, data la lunghezza del mio racconto in gara. Il racconto è scritto bene, il tema della redenzione mi è piaciuto (anche se sono ateo), mi piaceva anche il tema della vendetta comunque. A parte alcune sviste che ti hanno già segnalato, è un buon racconto.
Re: Commento
Fa sempre piacere apprendere da un commento aspetti che magari avevi puntato e organizzato con fatica. Lo sragionare del personaggio, infatti, è stata la prima caratterizzazione di questo muto parecchio incavolato con il mondo intero. Grazie, quindi, per le belle parole, Selene.Selene Barblan ha scritto: 09/12/2019, 8:27 Il racconto è bello, coinvolgente, suscita immagini vivide e riesce a catturare l’attenzione fino alla fine. Sia i luoghi, sia i ragionamenti o sragionamenti del protagonista sono ben delineati, minuziosamente descritti. Questo permette al lettore di accompagnare il protagonista nel suo viaggio e di percepire le sensazioni da lui provate. Voto 4.
Re: Commento
Come dicevo nel commento a Diego, con i racconti lunghi si rischia la pelle. Ho voluto puntare sulla scorrevolezza del testo che, da lettore accanito che sono, ho riconosciuto al testo dopo averlo riletto a distanza di tempo. Mi sono detto: non è malvagio. Ma, vabbè, io sono di parte. Lieto che ti sia piaciuto, Laura.Laura Traverso ha scritto: 10/12/2019, 19:30 E' senza dubbio un buon racconto, ricco di sfumature e storia, molto remota. Analizza tanti aspetti dei comportamenti umani con eleganza e precisione. La lunghezza del narrato mi ha un un poco bloccata ma è vero ciò che è già stato segnalato: il racconto risulta molto coinvolgente e la lunghezza passa in secondo piano.
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Il racconto mi è piaciuto molto e ti dico solo i punti che mi sono sembrati un po' deboli.
Il primo è veramente una sciocchezza, forse dettata dall'invidia verso questo barone che riesce a infilarsi la camicia nei pantaloni mentre si mette le scarpe: io sarei finito per terra, e infatti procedo in quest'ordine. Prima mi metto la camicia, poi la scarpa destra (la sola volta che ho messo prima l'altra mi sono slogato una caviglia), poi la sinistra. Riuscire a infilarsi tutto insieme, tenendo anche conto che non stiamo parlando di pantofole ma di scarpe baronesche, è da circo.
In secondo luogo l'offesa al Circolo "Chissà se un muto, che ha rinnegato la fede, è in grado di pensare come una persona normale" mi sembra troppo debole per averlo fatto incazzare così tanto. Io avrei calcato molto di più la mano, magari deridendo il povero barone.
Poi, quando incontra il vecchio, avrei fatto parlare solo lui, evitando l'infelice frase "Con un gesto del mento gli faccio capire dove si trovi la donna". Gli faccio capire?
Infine, la vera cosa che non mi è piaciuta è le frase finale: non una frase qualcunque, ma quella terminale che avrebbe dovuto raccogliere tutte le promesse fatte (qui sì, che lo dico anch'io) in un corposo racconto.
"La previsione di una giornata calda era solo una mia segreta speranza.
Sotto la pioggia innocua e grigia che mi bagna scrosciante l’abito da frate, i miei pensieri hanno preso un corso più tranquillo."
Non mi piace né la previsione che è una speranza (di una giornata calda?), né la pioggia innocua e grigia che però scroscia. Ma il vero problema è la frase moscia "i miei pensieri hanno preso un corso più tranquillo", assolutamente inadeguata al paio di miracoli (la parola che torna e il morto vivente) che, probabilmente, riporteranno il barone alla fede. insomma, a mio avviso qui ci voleva qualcosa di più forte e conclusivo, evitando naturalmente la discesa nel patetico sdolcinato mistico.
Re: Commento
Ciao Giorgio, intanto grazie per il tempo che hai dedicato al mio testo e lieto che ti sia piaciuto. In merito al tuo discorso, sono d'accordissimo con te, quel che conta è come è scritto un testo, i tempi soprattutto, non certo la sua lunghezza o la sua brevità. Non è come una formula matematica, se no il risultato sarebbe acclarato a ogni colpo di sciabola. Per dirla compiutamente, su certi testi cosiddetti corti, spesso impieghi più tempo a leggerli. Stesso discorso, per altro, per le poesie (ma qui ci sarebbe da scrivere un saggio a parte).Giorgio Leone ha scritto: 20/12/2019, 15:30 Mah, io questi discorsi sulla lunghezza del testo, intesa come un difetto anche se rientra nel numero legale dei caratteri, mica li capisco: tanto è vero che una volta sono riuscito a leggere persino un romanzo. Cosa vuol dire lungo? Se uno riuscisse a riassumere Guerra e pace in 12.000 caratteri, sarebbe lungo? L'importante è che lo scrittore abbia buttato fuori tutto quello che aveva in testa senza essere né prolisso, né ripetitivo.
Ah ah (ti ho visto praticamente slogarti una caviglia). Il barone Coviello avrà preso le brutte abitudini del suo autore. Io che sono un disordinato cronico, metto al volo ciò che mi capita a tiro.Giorgio Leone ha scritto: 20/12/2019, 15:30 Il racconto mi è piaciuto molto e ti dico solo i punti che mi sono sembrati un po' deboli.
Il primo è veramente una sciocchezza, forse dettata dall'invidia verso questo barone che riesce a infilarsi la camicia nei pantaloni mentre si mette le scarpe: io sarei finito per terra, e infatti procedo in quest'ordine. Prima mi metto la camicia, poi la scarpa destra (la sola volta che ho messo prima l'altra mi sono slogato una caviglia), poi la sinistra. Riuscire a infilarsi tutto insieme, tenendo anche conto che non stiamo parlando di pantofole ma di scarpe baronesche, è da circo.
Be', come detto in un precedente commento l'incazzamento del barone era già in atto, nel suo conflitto interno. Non so, questo aspetto che mi avete rilevato mi fa riflettere, sinceramente da lettore non riesco a coglierlo come una parte debole, anche perché faccio notare che il racconto inizia in medias res, qualcosa quindi da trasmettere al di fuori dell'esplicito dire dovrebbe essere insito nelle sue corde. Per la risposta al vecchio… vediamo 'sta frase infelice di cambiarla, magari toglierla.Giorgio Leone ha scritto: 20/12/2019, 15:30 In secondo luogo l'offesa al Circolo "Chissà se un muto, che ha rinnegato la fede, è in grado di pensare come una persona normale" mi sembra troppo debole per averlo fatto incazzare così tanto. Io avrei calcato molto di più la mano, magari deridendo il povero barone. Poi, quando incontra il vecchio, avrei fatto parlare solo lui, evitando l'infelice frase "Con un gesto del mento gli faccio capire dove si trovi la donna". Gli faccio capire?
La frase "moscia", simpaticamente parlando, in realtà è voluta (e mi fa piacere che l'hai colta), per dare l'idea dell'ira ormai scemata (per la serie, la quiete dopo la tempesta). Metterci qualcosa di forte? Uhm… come dici tu, corri il rischio di incorrere nel patetico o, peggio ancora, nel misticismo.Giorgio Leone ha scritto: 20/12/2019, 15:30 Infine, la vera cosa che non mi è piaciuta è le frase finale: non una frase qualcunque, ma quella terminale che avrebbe dovuto raccogliere tutte le promesse fatte (qui sì, che lo dico anch'io) in un corposo racconto.
"La previsione di una giornata calda era solo una mia segreta speranza.
Sotto la pioggia innocua e grigia che mi bagna scrosciante l'abito da frate, i miei pensieri hanno preso un corso più tranquillo".
Non mi piace né la previsione che è una speranza (di una giornata calda?), né la pioggia innocua e grigia che però scroscia. Ma il vero problema è la frase moscia "i miei pensieri hanno preso un corso più tranquillo", assolutamente inadeguata al paio di miracoli (la parola che torna e il morto vivente) che, probabilmente, riporteranno il barone alla fede. Insomma, a mio avviso qui ci voleva qualcosa di più forte e conclusivo, evitando naturalmente la discesa nel patetico sdolcinato mistico.
È stato un piacere.
Biblioteca labirinto
Cinque scaffali di opere concatenate per raccontare libri, biblioteche e personaggi letterari
Riportare la lettura e la biblioteca al centro dell'attenzione dovrebbe essere un dovere di ciascuno di noi. Se in qualche misura ci riesce una raccolta di racconti non si può che gioirne, nella speranza che possa essere contagioso, come deve esserlo tutto ciò che ci spinge a riflettere e a interrogarci sull'essenza del nostro esistere.
A cura di Lorenzo Pompeo e Massimo Baglione.
introduzione del Prof. Gabriele Mazzitelli.
Contiene opere di: Alberto De Paulis, Monica Porta, Lorenzo Pompeo, Claudio Lei, Nunzio Campanelli, Vittoria Tomasi, Cristina Cornelio, Marco Vecchi, Antonella Pighin, Nadia Tibaudo, Sonia Piras, Umberto Pasqui, Desirée Ferrarese.
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L'Animo spaziale
Tributo alla Space Opera
L'Animo Spaziale è un tributo alla space opera. Contiene una raccolta di racconti dell'autore Massimo Baglione, ambientati nella fantascienza spaziale. Un libro dove il concetto di fantascienza è quello classico, ispirato al Maestro Isaac Asimov. La trilogia de "L'Animo Spaziale" (Intrepida, Indomita e Impavida) è una storia ben raccontata con i giusti colpi di scena. Notevole la parentesi psicologica, in Indomita, che svela la complessa natura di Susan, elemento chiave dell'intera vicenda. "Intrepida", inoltre, ha vinto il primo premio nel concorso di letteratura fantascientifica "ApuliaCon 2006" (oggi "Giulio Verne"). I racconti brevi "Mr. Sgrultz", "La bottiglia di Sua Maestà" e "Noi, sorelle!" sono stati definiti dalla critica "piccoli capolavori di fantascienza da annoverare negli annali.
Di Massimo Baglione.
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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.
Luna 69-19
antologia di opere ispirate al concetto di "Luna" e dedicata al 50° anniversario della storica missione dell'Apollo 11
Il 20 luglio 1969 è la data che segna per sempre il momento in cui il primo essere umano ha posato per la prima volta i piedi sul suolo lunare. Quel giorno una parte di voi era d'avanti ai televisori in trepidante attesa del touch-down del lander, altri erano troppo piccoli per ricordarselo e altri ancora non erano neppure nati, tuttavia ne siamo stati tutti coinvolti in molteplici maniere.
A cura di Massimo Baglione.
Contiene opere di: Alessandro Mazzi, Andrea Coco, Andrea Messina, Angelo Ciola, Cristina Giuntini, Daniele Missiroli, Enrico Teodorani, Francesca Paolucci, Franco Argento, F. T. Leo, Gabriele Laghi, Gabriele Ludovici, Gabriella Pison, Iunio Marcello Clementi, Laura Traverso, Marco Bertoli, Marco Daniele, Maria Emma Allamandri, Massimo Tessitori, Namio Intile, Pasquale Aversano, Pasquale Buonarotti, Pietro Rainero, Roberta Venturini, Roberto Paradiso, Saji Connor, Selene Barblan, Umberto Pasqui, Valentino Poppi, Vittorio Serra, Furio Bomben.
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La Gara 36 - De Rerum Scientia
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La Gara 10 - Dreaming of a Weird Christmas
A cura di CMT.
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GrandPrix d'inverno 2023/2024 - Terrazze d'aprile - e le altre poesie
A cura di Massimo Baglione.
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