En Afrique il y a beaucoup de temps

Spazio dedicato alla Gara stagionale d'autunno 2022.

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Athosg
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En Afrique il y a beaucoup de temps

Messaggio da leggere da Athosg »

Un gran caldo umido li investì appena misero piede sulla scaletta dell’aereo. L’aria era densa a Dakar, in quel giorno di agosto di tanti anni fa.
Si affrettarono ad attraversare la pista insieme con altri duecento passeggeri, desiderosi di trovare un po’ di refrigerio all’interno della struttura aeroportuale. Bianchi e neri in percentuale quasi paritaria si ritrovarono nella sala, dove avrebbero recuperato le valigie. Giobbe rivide la donna di colore che due ore prima aveva cercato di rifilargli una borsa da dichiarare come bagaglio personale. Era rimasto sorpreso e, per non rifiutare apertamente, aveva fatto lo gnorri. La madame se lo ricordava bene e lo aveva guardato di sghimbescio.
Dopo un po’ le valigie cominciarono la loro lenta processione sul tapis roulant, in attesa che i legittimi proprietari le ritirassero. Ne passavano a centinaia, e Giobbe e JP cominciavano a essere nervosi, non vedendo passare le loro. Poco alla volta la moltitudine di persone recuperò il suo bagaglio, mentre loro continuavano ad aspettare. La madame, vestita di un abito iridescente, opulenta e materna, passò davanti ai due ragazzi inveendo in maniera scomposta. Loro fecero finta di nulla, con lo sguardo fisso sulla striscia di plastica dura. Finalmente videro le valigie e poterono partire verso l’hotel.
Dopo la doccia uscirono in città. Camminarono per le strade principali per prendere conoscenza del territorio. Molta gente li fermava, chiedeva loro da dove venissero, taluni volevano soldi. Arrivati in prossimità di una grande piazza, furono letteralmente abbordati da due uomini. Simpatici e caciaroni, promettevano di offrire informazioni sul paese, su cosa visitare e sui possibili pericoli che avrebbero potuto trovare lungo il tragitto. La loro camminata irregolare dimostrava che vivevano in occidente e ne avevano assunto i difetti, perché i senegalesi autoctoni erano dritti come un fuso. Si fermarono in un bar molto grande, con un’ampia sala all’aperto che la sera avrebbe offerto spazio per ballare. Ordinarono succo di mango, e cominciarono a parlare delle loro vite in generale e della comunione che doveva ricevere la figlia di uno dei due. La festa era d’obbligo perché le tradizioni andavano rispettate. Lo scopo era di chiedere un aiuto economico, Il Senegal era un paese a netta maggioranza musulmana e molto probabilmente la versione era fasulla. Giobbe e JP cominciarono a sentire puzza di bruciato, e in breve tempo chiusero la conversazione concedendo loro una mancia di 200 franchi CFA.
Una volta usciti da Dakar l’aria era più respirabile. Costeggiarono per qualche chilometro l’oceano, poi la strada s’inoltrò all’interno. Guidava JP con sicurezza, trovando la corsia spesso libera perché i mezzi in circolazione erano pochi. Passarono i centri di alcuni paesi, dove i bambini li salutavano stupiti, vedendo il diverso colore della loro pelle. Entusiasticamente i due ragazzi rispondevano.
Quello era il territorio dei peul, dediti principalmente all’agricoltura e alla pastorizia. Grandi prati destinati a pascolo, molte capanne e ogni tanto piccoli bar lungo la strada. Vendevano di tutto, pane, biscotti, acqua imbottigliata, pile. Giobbe intanto leggeva il libro sul Senegal, spiegando a JP, sempre immerso nella guida, che le etnie erano varie. La principale era quella dei Wolof, poi c’erano i Serere, i Toucouleur, i Peul e i Mandingo. Lui gli rispondeva evasivamente. JP era un ragazzone alto e magro che conosceva da tanti anni, un ottimo compagno d’avventura.
Passarono la città di Saint Louis, un centro affacciato sul fiume Senegal. Fecero incetta di biscotti, una riserva di cibo utile per i giorni successivi.
Quel giorno avevano come meta Matam, una cittadina nel nord est del paese. Molti chilometri li attendevano, e Giobbe di buona lena prese la guida della macchina. Si stavano acclimatando al caldo umido africano. La lunga striscia d’asfalto era dritta dinanzi a loro. Lo spettacolo a prima vista era desolante, campi coltivati a sorgo si succedevano nel tragitto, ogni tanto un baobab secolare allargava a ventaglio i suoi grandi rami come un padre che accoglie ogni figlio.
Poi, come d’incanto, si sentirono un tutt’uno con l’ambiente esterno, con il cielo e con l’aria che filtrava fresca dai finestrini. Si divertivano a strombazzare il clacson, salutando le persone che incontravano. I bambini saltavano con gioia e allegria al loro passaggio.
Giunsero in città quando il sole stava calando e le prime ombre si allungavano tra le vie poco illuminate. Chiesero informazioni su dove dormire. La visione delle cose negli abitanti era molto ampia. Le risposte, alla richiesta d’indicazioni, limitate. Sempre dritto, e se dopo duecento metri la strada si divideva in un bivio, dovevano richiedere ancora. Alla fine, dopo varie peripezie e contrattempi, trovarono l’alloggio. Era un’ex caserma militare adibita a hotel. Il prezzo era minimo e i ragazzi accettarono di buon grado. Dopo una giornata d’auto, non vedevano l’ora di farsi una doccia e andare a dormire.
L’interno dell’hotel aveva visto tempi migliori, i muri scrostati e il pavimento dissestato erano la dimostrazione della corrosione del tempo. La stanza era un piccolo tugurio, dove due materassi di gomma piuma, senza lenzuola o qualsiasi copertura, giacevano per terra. Non si fecero molte paranoie e si prepararono per la notte. I bagni erano abbandonati da tempo immemore; quando Giobbe aprì il rubinetto per lavarsi i denti, un getto di acqua marrone riempì il lavandino. Erano mesi che nessuno lo apriva e lui, sorpreso da quel liquame, vomitò quel poco che aveva nello stomaco. Riuscirono a farsi una doccia, solo dopo aver lasciato scorrere l’acqua per una decina di minuti.
La notte passò tra il sonno e il dormiveglia. Un temporale infuriava e il calore che la terra aveva assorbito durante il giorno risaliva prepotentemente nell’aria, inebriandola di un odore marcescente.
Una volta superata la notte, si ritrovarono vispi e allegri. L’aria era pulita e tanta strada avevano davanti. Fecero un giro per la cittadina. Era molto lontana dal mare, la sabbia proveniente dal Sahara stava avanzando velocemente e la città era ricoperta di manifesti riguardanti la tutela del territorio.
Giobbe e JP, affascinati dall’attivismo della popolazione, si fermarono a bere un caffè in un bar. C’era una rastrelliera con appeso una decina di quotidiani, addirittura una copia de “La Stampa”. Si sedettero, e con grande stupore, scoprirono che il giornale più recente era di due mesi prima.
“E’ incredibile come utilizzino ogni cosa, qui non buttano via niente. Guarda la tapparella, per tenerla bloccata hanno usato una biro” disse JP.
“... e scommetto che anche la cannuccia l’avranno utilizzata per qualcosa! Sai cosa penso JP? Mi sembra di ritornar bambino.”
“Sono d’accordo, amico mio. Io ne sono affascinato. Mi sto ammalando.”
“... e ammaliando. Anch’io, temo di aver preso il mal d’Africa.”
Uscirono dal bar. Fuori tanta gente, indaffarata nelle loro piccole cose. Una ragazza dal viso bellissimo si trascinava carponi, con i piedi nudi, alle mani un paio di ciabatte. Vittima di qualche infezione, aveva perso 'uso delle gambe. Ne avevano già viste così. Forse era polio o qualche altra malattia che lì, in Africa, non si poteva curare. Si accettava con fatalismo. Rimasero a guardare la ragazza del sorriso, lei li salutò e se ne andò carponi verso il suo destino.
“Quando torneremo a casa, non so come potremo raccontare queste sensazioni, l’armonia, il tempo sospeso che c’è qui. E’ vero, noi siamo turisti e tutto è più semplice, però quello che vivono queste persone è un’altra dimensione rispetto alla nostra” disse JP.
“Sì, non è paragonabile minimamente. Qui la vita scorre lenta, eppure ha un ritmo veloce. Non riuscirei a spiegarlo. Teniamocela come un’esperienza unica e riteniamoci fortunati” finì Giobbe.
L’Africa si apriva davanti ai loro occhi, penetrando sotto la pelle poco alla volta. Ai piccoli disagi quotidiani ormai non facevano più caso, osservando gli orizzonti intorno a loro. La grandezza del creato appariva in tutta la sua innata potenza.
Partirono affamati alla volta di Tambacounda. Stavano cominciando a scendere verso il centro del Senegal, in una città che era tappa della Parigi Dakar.
La strada ora era molto accidentata; affiancarono le riserve naturali, dove leoni, leopardi, antilopi e centinaia di specie vivevano liberi. Giobbe e JP non avevano intenzione di fare safari o attività prettamente turistiche, preferivano girare e vivere la quotidianità allo stato brado.
Tambacounda! Appena entrati in città, grande fu la loro delusione. La strada principale si snodava dall’alto di una collina degradando dolcemente. Piccole case e capanne sparse in maniera disordinata, coesistevano sotto un cielo plumbeo. Trovarono un alloggio sulla sommità della collina, in un hotel che parve una benedizione dal cielo. Lenzuola pulite, acqua potabile e un ristorante dal menu a prima vista accettabile. Mangiarono una bistecca con patatine e poi si riposarono. Pochi clienti vi sostavano. Un francese alto e muscoloso nuotava in piscina. Una coppia di tedeschi era seduta nell’atrio. Non c’era ombra d’italiani perché preferivano i lidi semidorati della Casamance.
Il nuotatore uscì dalla piscina e mentre si asciugava, rivolse loro la parola.
“Che fate qui amici?”
JP lo guardò e gli rispose che erano in vacanza.
“Avete visto Tambacounda? E’ interessante, se volete, possiamo fare un giro.”
“Ok” disse Giobbe “andiamo”
Il francese si chiamava Emmanuel, era arrivato in Senegal da cinque giorni. Aveva l’aria un po’ snob, non si capiva bene che ci facesse in un posto simile.
Intrapresero la strada scendendo giù per la collina, dove incrociarono piccoli maiali, galline e cani randagi. Dopo poco giunsero sulla strada principale, un susseguirsi ininterrotto di banchetti, dove si vendeva di tutto. Frutta, verdura, camicie, pantaloni, tutto messo splendidamente alla rinfusa. Provarono un mango, dolce e succoso. Gli stranieri erano pochi, la gente arrivava perlopiù dalle zone vicine, richiamati in città dal mercato. I tre si fermarono in un bar improvvisato, dove delle stuoie formavano un quadrato con alcuni anziani seduti in cerchio. Anche loro si sedettero. Non vendevano alcolici, il proprietario rispettava la legge del marabutto di turno.
I tre decisero di bere il the. Il cameriere disse loro che la tradizione suggeriva di berlo tre volte. Il primo è amaro come la morte, il secondo è dolce come la vita e il terzo zuccheroso come l’amore. La preparazione fu lunghissima, un’autentica cerimonia. L’uomo con una tecnica invidiabile lasciava cadere il the in una scodella, per poi rimettere il liquido in una teiera. Quest’operazione era ripetuta cinque o sei volte, dimostrando di avere una mira infallibile, non perdendone neanche una goccia. Poi prese finalmente tre bicchieri e versò la prima dose. Giobbe e JP sorridevano e bevevano, mentre Didier storceva il naso all’amaro sapore. I due turni successivi rispettarono in pieno quanto detto. Il secondo era dolce e il terzo un po’ nauseabondo. Gli italiani acclamarono il primo the bevuto, mentre il francese non disse nulla.
“Dove andrai dopo questa tappa?” chiese Giobbe al francese.
“Vorrei andare a Ziguinchor e Kafountine. Prima tappa a Ziguinchor. E voi?”
“Anche noi volevamo andare a Kafountine. Ti aspetta qualcuno a Ziguinchor?” chiese JP.
“No, però so che ci sono molte belle ragazze.”
“Se vuoi ti puoi unire a noi, venire a Kafountine dividendo le spese di viaggio. Noi vogliamo rimanerci qualche giorno e poi tornare a Dakar. Tra una settimana abbiamo l’aereo di ritorno” gli disse Giobbe. Il francese rispose che ci doveva pensare. Era una proposta logica quella, si trovavano nel centro della savana, i mezzi di trasporto erano piuttosto scarsi e offrire un posto in auto era un gesto di cortesia.
Ritornarono in hotel, la via era sempre piena di gente e si respirava aria di festa. Appena arrivati nella hall, il francese disse loro che accettava la proposta. Sarebbero ripartiti l’indomani mattina presto. Appena in camera JP disse che il francese aveva un po’ la puzza sotto il naso e che gli era simpatico solo al cinquanta per cento. Anche Giobbe la pensava così, però questo Didier un po’ lo incuriosiva.
Il mattino successivo si ritrovarono tristi a lasciare Tambacounda. Era bastato un solo giorno per sentirsi cittadini onorari. Avevano davanti un bel po’ di strada da percorrere, dovendo attraversare un bel pezzo di Senegal e le strade lì intorno non erano molto buone. Il pericolo consisteva nelle fosse piene d’acqua e nei margini sdrucciolevoli. Bisognava guidare con molta attenzione.
Didier era vestito di tutto punto: calzoncini corti blu, maglietta attillata in tinta, scarpe da trekking e un grande zaino. Si vedeva lontano un miglio che era un viaggiatore, anche se aveva sempre quel non so che di snob. Faceva il veterinario vicino a Parigi ed era già stato una decina di volte in Senegal. Giobbe sospettava che ci venisse per affari di sesso.
Attraversarono la savana a velocità ridotta, le strade erano una buca continua e gli ammortizzatori dovettero fare gli straordinari. La brousse li accompagnava in quel lento viaggio. Ogni tanto trovavano un baracchino sul ciglio della strada, dove compravano biscotti e bottiglie d’acqua. Il caldo non era opprimente, però prosciugava i tessuti corporei. I piccoli grassi, che si erano accumulati sulla pancia e sui fianchi, erano ormai spariti e i tre erano snelli come dei figurini. Didier era il più imponente, i muscoli guizzanti sotto la maglietta. Giobbe pensava alle donne italiane, a quanta fatica facessero per tenersi in linea e alla semplicità delle senegalesi, magre e flessuose fino ai venticinque anni. Poi, inspiegabilmente, tendevano a ingrassare, mantenendo intatta la loro bellezza. A quarant’anni sarebbero diventate delle matrone dal seno prosperoso e dal sorriso materno.
Verso sera giunsero a Kafountine. La natura era verdeggiante e rigogliosa, l’erba alta con tante mucche al pascolo.
Erano giunti in Casamance, la regione più florida del Senegal. Giobbe e JP si erano alternati alla guida, mentre il francese si era appollaiato silenziosamente nei sedili posteriori. Non parlava molto, a volte sembrava che non sapesse esattamente cosa fare.
Alloggiarono in un hotel vicino alla spiaggia. Il solito tipico capanno. I due ragazzi si misero nella frazione rivolta verso il mare, Didier in quella vicino. Ormai era buio e uscirono a buttare giù un boccone nel ristorante lì vicino. Servivano vino, birra e liquori e passarono insieme la serata. Come a Tambacounda, anche lì non c’era molto turismo. Qualche coppia, due o tre viaggiatori solitari e nient’altro. L’atmosfera era buona, lampade con candele illuminavano la sala aperta, tutta in legno. Una musica soffusa dava al locale l’idea di un posto alla fine del mondo. L’Italia era molto, molto distante.
La mattina il sole era già alto nel cielo quando i ragazzi si svegliarono. Didier era già uscito a correre, obbligato a tanto sport per mantenere quel fisico scultoreo.
Andarono a fare colazione. JP prese due cornetti e un succo di mango. Giobbe si abbuffò con due uova e un succo d’ananas. Quel giorno avrebbero finalmente fatto il bagno nell’oceano.
Didier arrivò poco dopo. Era sudato, aveva corso per parecchi chilometri.
“E’ bellissimo, la costa è lunga, piena di barche di pescatori. Sono stato alle dune più avanti, dopo se volete, ci andiamo.”
“Com’è l’acqua? Non vediamo l’ora di tuffarci” gli rispose Giobbe.
“Buona temperatura, il Mediterraneo è più caldo, qui è meglio che nuoti energicamente, altrimenti ti viene freddo.”
“Dai che andiamo Giobbe” disse JP
I tre partirono e dopo qualche minuto erano in acqua. La giornata era soleggiata e il vento era una leggera brezza che faceva venire qualche brivido se bagnati. L’oceano liscio invitava a immergersi. Poi uscirono e si sdraiarono sulla sabbia a prendere il sole.
“Salaamalekum” Giobbe si alzò e salutò Aboubacar. Era il barista dell’hotel, un ragazzone alto e dinoccolato con un sorriso a trentadue denti. Anche JP si alzò. “Peccato che non c’è con noi una ragazza italiana, altrimenti s’innamorava di te” scherzò.
“Eh, magari, così vengo in Italia a lavorare” rideva Aboubacar.
“Perché no, se apro un bar, ti chiamo subito.”
I tre ragazzi si scambiavano battute, mentre Didier non diceva nulla, sdraiato pensieroso al sole.
Passarono così un paio di giorni nel riposo più assoluto. Durante il giorno camminavano sulla spiaggia, salivano sulle dune distanti oltre sei chilometri, si gettavano in mare con lunghissime rincorse e la sera mangiavano nel ristorante dell’hotel, luci soffuse e buona compagnia. Le giornate erano sempre soleggiate e la sera la brezza rinfrescava e leniva il rossore del sole. Solo Didier non partecipava molto, a volte rispondeva a scatti. JP diceva che era uno snob, mentre Giobbe scherzava sul fatto che il francese volesse sempre andare a Ziguinchor. Ma era poi vero che avrebbe cercato delle donne una volta arrivato in città? Giobbe se lo chiedeva spesso.
La mattina successiva decisero di prendere una barca e andare a fare un giro lungo la costa. Aboubacar contrattò il prezzo con un suo amico di nome Diallo, e fu cosa fatta. Partirono nel primo pomeriggio e andarono al largo. Didier disse che era stanco e non si unì al gruppo. C’era una canna da pesca e i ragazzi si divertirono a pescare, anche se non presero nulla. Il sole, diventato cocente, li costrinse a rientrare a riva. Salutarono Diallo, lasciandogli un pacchetto di sigarette in regalo.
Non avevano ancora mangiato. Diallo prima di congedarsi aveva consigliato il ristorante L’Homme Tranquille. Ci andarono affamati. Dovettero fare a piedi ancora un paio di chilometri, prima camminando seguendo il mare poi, quando la spiaggia si allargava in maniera impressionante, andando verso l’interno.
Il ristorante era a circa 300 metri dall’oceano, e davanti c'era un’infinita distesa di sabbia. La costruzione era poco più di una capanna, dove un uomo magro li accolse. L’interno della capanna aveva tre tavoli con sei panche. Questo intreccio di legna sulla sabbia, tirata e levigata che sembrava un pavimento bianco, era fresco come una cantina. Scelsero dal menu granchio e sogliola. Dissero a George, il proprietario, di cuocerli bene. Chiesero del vino. George uscì dalla capanna, lo sentirono parlare con un ragazzo e poi ritornò. Papis, il ragazzo, arrivò poco dopo con un bottiglione di vino rosèe.
Dopo un po’ arrivarono i cibi. Due piatti enormi. George aveva accompagnato il cibo con delle cipolle e della verdura. Giobbe e JP si guardarono in faccia, sorpresi dalla semplicità e dalla serietà. Iniziarono a mangiare. George li aiutò a rompere le dure chele del granchio.
“George, è tutto straordinariamente buono” disse JP.
“Lo so, mangiate e bevete. Dopo mi scrivete due righe su quel quaderno. Tantissimi stranieri sono passati di qui, questo è un ristorante internazionale.”
Giobbe offrì loro il vino. George ringraziò ma rifiutò, essendo musulmano. Papis, dapprima titubante, accettò un bicchiere. Era di etnia mandingo, un fascio di muscoli che s’ingrossavano su di un torace possente e un collo che, se fosse vissuto in Italia, avrebbe dovuto farsi cucire delle camicie su misura. Una volta finito di pranzare, Giobbe ringraziò George per la bellissima giornata. Papis, già mezzo ubriaco, bevve altri due bicchieri.
Presero i tamburi e cominciarono a picchiare di buona lena. Giobbe e JP uscirono sotto il caldo sole del pomeriggio, inebriati dal vino, dal cibo e dall’ospitalità regale. Camminarono lentamente verso il mare. Da lontano, ovattati e sincopati, sentivano il tamtam dei tamburi. Ogni tanto si guardavano, sorridenti e stupiti, di come il mondo avesse tante sorprese da offrire a chi le avesse cercate con cuore semplice.
Ritornando verso la camera videro Didier che confabulava con un ragazzo. Riconobbero Bamba, l’addetto alle pulizie. Aveva vicino una panca, e sopra vi erano una decina di pantaloni.
Quell’estate in Senegal eran di moda degli Jeans particolari. Sembrava che sulla stoffa chiara lo stilista avesse versato della vernice fresca. Il risultato finale era un pantalone molto colorato, per il gusto occidentale sicuramente esagerato. Anche a Giobbe e JP erano stati offerti, ma loro avevano sempre gentilmente rifiutato.
Didier era accaldato, e quasi urlando disse a Bamba “Non li voglio, non mi piacciono. Te li puoi tenere stronzo.” JP intervenne e gli disse di calmarsi. Bamba era un ragazzo alto e muscoloso, dava l’impressione di essere molto forte. Più forte di Didier. Quest’ultimo aveva un gran fisico che sembrava costruito con gli estrogeni, mentre la forza di Bamba stava nella libertà e nel suo vivere sempre all’aria aperta.
“Va bene amico, non te lo chiedo più, ma stai calmo.”
“Che cazzo di calmo, portali via i tuoi pantaloni di merda, pezzente.” Didier aveva sbroccato forte, oscurando la sua altezzosa figura snob. Giobbe intervenne a dividere in due, principalmente in difesa di Didier, perché quelle frasi erano state troppo brutte e si stava esponendo troppo.
“Perdonalo Bamba, non sa quello che dice. E tu Didier, vai in stanza e rilassati.”
Bamba lo guardò e deglutì.
Il francese si guardò intorno indeciso, poi prese la via della stanza dietro lo stimolo amichevole di Giobbe. Bamba guardò i due ragazzi e diede loro la mano. Fece per girarsi e andare via, improvvisamente si fermò e disse loro ”Spiegate a quel francese di andare via il prima possibile. Se domani lo troverò qui, non so cosa succederà.”
“Dai Bamba, è acqua passata, lascia correre. Poi ci parliamo noi e vedrai che ti chiede scusa” lo calmò Giobbe. Bamba li salutò una seconda volta e tornò verso il ristorante.
I due ragazzi si ritrovarono soli. JP chiese a Giobbe cosa avesse in mente. Non ci fu risposta, poi gli disse che la sera avrebbero chiamato Didier per andare al ristorante a fare pace con Bamba.
La sera era scesa, nel silenzio interrotto solo dai grilli. Un’altra notte senegalese da vivere alla luce fioca delle torce.
Giobbe e JP andarono a chiamare Didier. Questi aveva chiuso la porta a chiave e non voleva uscire. Gli dissero di non preoccuparsi, però doveva chiedere scusa perché la sua reazione era stata spropositata. Il francese rispose che non aveva fame e si chiuse in un mutismo assoluto.
I ragazzi andarono al ristorante. Avevano appetito, ma la magia era un po’ rovinata. Trovarono Aboubacar dietro il bancone e Bamba lì vicino. Giobbe disse di lasciar stare, che non valeva la pena cercare qualsiasi tipo di vendetta. La punizione Didier l’aveva già avuta. I due ragazzi senegalesi si trovarono d’accordo e la serata proseguì tranquilla, con la brezza che rinfrescava il corpo e l’anima.
La mattina successiva con grande sorpresa trovarono sulla porta d’ingresso delle banconote coperte da un mattone.
Nottetempo il buon Didier aveva pensato bene di fuggire da Kafountine. Aveva pagato la stanza, senza neanche lasciare un biglietto di saluti. Giobbe e JP si guardarono in faccia e si misero a ridere. Didier aveva almeno conservato un minimo di dignità.
Quello fu l’ultimo giorno che passarono a Kafountine, il piccolo nucleo di capanne sull’oceano. Non avrebbero mai dimenticato quel posto così bello, quel senso di pace che si percepiva a ogni sospiro di vento.
Quel pomeriggio Giobbe incrociò sulla spiaggia un gruppo di bambini. Aveva con sé delle pastiglie di vitamina C, del tipo da sciogliere nell’acqua. Come Gesù Cristo le divise e le distribuì. Fu subito una gran festa, con i fanciulli che facevano a gara per averne di più. Lui si sentì l’ultimo degli uomini, al cospetto di tanta innocenza.
“JP, forse non torneremo mai più in Senegal” disse Giobbe “Un detto racconta che non bisogna tornare dove si è stati felici.”
I due ragazzi si abbracciarono fraternamente, sapendo che sarebbe stato così.
Prima di partire andarono a salutare Bamba e Aboubacar. Volevano ringraziarli per l’amicizia e l’atmosfera di quei giorni.
Bamba indossava i pantaloni di Didier.
“Ehi, ma quei pantaloncini io li ho già visti!” disse JP.
“Sì, ho incontrato il francese all’alba e senza che dicessi niente mi ha proposto uno scambio.”
“Nooo…si è convertito alla moda di Dakar. Incredibile.” Risero come matti.
Aboubacar era inginocchiato a terra e con una scopa senza manico stava pulendo l’ingresso della sala ristorante. Giobbe con finto furore paternalistico gli urlò che se avesse inserito il manico, avrebbe fatto meno fatica e finito prima il lavoro.
Aboubacar con la semplicità degli uomini giusti sorrise e allargando le braccia rispose:
“En Afrique il y a beaucoup de temps.” (In Africa c’è molto tempo)
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Marino Maiorino
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Messaggio da leggere da Marino Maiorino »

Molto bello nella descrizione dell'avventura, un semplice diario di un viaggio in realtà senza meta, il brano sembra poter esprimere di più, sembra voler partire più volte verso cime stilistiche e letterarie ambiziose, per fermarsi quasi subito: i periodi vengono chiusi in fretta, le descrizioni vengono lasciate a metà, le giornate sembrano trascorrere in un batter d'occhi nonostante la vita che racchiudono, e non tutto è dovuto al "mal d'Africa".
"Quel giorno d'agosto di tanti anni fa" è un po' un ossimoro stilistico e temporale (oltre che geografico): che differenza fa il mese così vicino all'equatore, se stai parlando di tanti anni fa?
Anche scoprire che i due viaggiatori sono in realtà vacanzieri è una rivelazione: bisogna attendere diversi paragrafi prima di leggerlo, e quest'informazione dispone certamente il lettore diversamente.
Bellissimi momenti: scoprire la tapparella tenuta insieme con la biro (forse), scoprire lo spirito degli indigeni (la bellissima ragazza che ha perso l'uso delle gambe), scoprire! Ci riesci, tante volte (l'aspirina ai bambini), e altre volte è come se qualcosa ti trattenesse dall'affondare il colpo (il disgusto fino al vomito per l'acqua lurida in uno dei primi hotel). Perché? Cos'ha, questo racconto, che non va?
È un po' slegato, certo, magari come tanti racconti di viaggio all'avventura, perché in realtà l'unica meta è la scoperta continua ma, essendo un racconto, tu hai gli occhi del dopo, perché non li usi?
È vero, in Africa c'è molto tempo (è anche vero il contrario e tu lo fai risaltare, a un certo punto), ma non è questo il filo conduttore del tuo racconto, o almeno io non l'ho percepito così.
Sulla punteggiatura, credo che usi qualche virgola di troppo ("Passarono i centri di alcuni paesi, dove i bambini li salutavano stupiti", ad esempio) e spezzi volentieri periodi che potrebbero scorrere più fluidi senza. Anche l'uso della virgola insieme alla congiunzione "e" è da moderare.
Piaciuto, ma non mi ha trasmesso quelle emozioni che pure ha evocato.
«Amare, sia per il corpo che per l'anima, significa creare nella bellezza» - Diotima

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Andr60
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Messaggio da leggere da Andr60 »

E' un diario di viaggio, mi ha interessato, anche se concordo in parte con Marino M.; forse avresti potuto descrivere maggiormente gli ambienti ma, soprattutto, visto che il racconto è un resoconto del passato "di tanti anni fa": quel viaggio ha cambiato i due protagonisti, Giobbe e JP?
Solo un appunto: quando parli del francese, che (...) "aveva un gran fisico che sembrava costruito con gli estrogeni": per "gonfiare" i muscoli si usano ormoni maschili steroidei (cfr., anabolizzanti come il nandrolone).
Saluti
Namio Intile
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Messaggio da leggere da Namio Intile »

Se scrivessi il solito racconto ben scritto sminuirei la tua perizia nel condurre da capo a fondo una narrazione, al netto di qualche svarione lessicale, ad esempio è tè e non the.
Ritorna Giobbe, ed è un piacevole ritorno, insieme a JP e a Didier, i tre protagonisti del racconto insieme a Bamba e ad Aboubacar. Un'umanità giovane in un paese giovane descritti senza sentimentalismi e senza sbilanciamenti su ciò che buono e ciò che non lo è, senza facili giudizi di valore eccetto che nel titolo, in quell'Africa dotata di tempo con quel perfetto aggancio finale. E sembra che con questo titolo e tutte le descrizioni seguenti l'autore voglia battere la strada, un po' affollata, della contrapposizione tra l'Occidente e l'Africa sub sahariana, tra Nord e Sud, tra il mondo lento africano e quello veloce europeo, tra una società dominata dalla tecnicalità e una ancora primitiva.
Sembra, perché questa contrapposizione svanisce nella lettura della racconto, non si nota, è stata apparecchiata a bella posta per farcelo credere.
A mio avviso il tema del racconto, il viaggio di JP e Giobbe insieme a Didier e l'incontro scontro con gli amici africani, è la giovinezza. Anzi, la nostalgia della giovinezza che ha l'autore. Quel potere andare e incontrare, vedere e assaporare, immergersi in profondità eppure superficialmente che è proprio della giovinezza, senza vincoli, senza pensieri. Giovinezza come illimitatezza. E in questo racconto tutti sono giovani in un paese giovane seppure vecchissimo. Un paese povere eppure illimitato, dove tutto è possibile, perché i suoi abitanti sono tutti giovani. I giovani che amano la vita ma non temono la morte, al contrario dei vecchi che sono stanchi della vita, ma temono la morte.
Giobbe spiega al lettore cosa sia la giovinezza, ecco. Non quale sia la differenza tra Nord e Sud, ma cosa implichi l'essere giovani, quel distacco, quella semplicità, la capacità di accostarsi a un mondo diverso con leggiadria, con la leggerezza degli stereotipi se vogliamo, ma pure quelli vissuti in un modo ambivalente segnato dalla reciprocità di chi offre e di chi riceve al tempo stesso senza porsi altre domande o aspettarsi altro in cambio. E forse per questa ragione che Didier fugge. Perché lui è già vecchio e non tollera la presenza dei giovani.
Un inno alla giovinezza senza in apparenza volerlo essere.
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Gara d'inverno 2021/2022 - La Strega, e gli altri racconti

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(inverno 2021-2022, 72 pagine, 700,60 KB)

Autori partecipanti: nwRoberto Bonfanti, nwMessedaglia, nwMarino Maiorino, nwAthosg, nwRobertoBecattini, nwAlberto Marcolli, nwGiovanni p, nwNamio Intile, nwStefano M., nwDomenico Gigante, nwMacrelli Piero, nwTemistocle,
A cura di Massimo Baglione.
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GrandPrix d'autunno 2022 - Endecasillabo di un impostore - e le altre poesie

GrandPrix d'autunno 2022 - Endecasillabo di un impostore - e le altre poesie

(autunno 2022, 22 pagine, 525,42 KB)

Autori partecipanti: nwNamio Intile, nwPaola Tassinari, Francesco Pino, nwNunzio Campanelli, nwEleonora2, nwDomenico Gigante, Gabriele Pecci, nwLaura Traverso, nwRoberto Bonfanti, nwPiramide, nwGiuseppe Gianpaolo Casarini,
A cura di Massimo Baglione.
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oppure in formato EPUB (391,43 KB) (nwvedi anteprima) - scaricato 25 volte..
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La Gara 40 - La musica è letteratura

La Gara 40 - La musica è letteratura

(agosto 2013, 50 pagine, 1,14 MB)

Autori partecipanti: nw2013Federica, nwAngelo Manarola, nwNunzio Campanelli, nwLodovico, nwLeggEri, nwAnto Pigy, nwMastronxo, nwDesiree Ferrarese, nwRovignon, nwPolly Russell, nwLorella15, nwMonica Porta may bee, nwNozomi, nwFreecora, nwKaipirissima, nwFilippo19,
A cura di Antonella Pighin.
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Alcuni esempi di nostri libri autoprodotti:


Un passo indietro

Un passo indietro

Il titolo di questo libro vuole sintetizzare ciò che spesso la Natura è costretta a fare quando utilizza il suo strumento primario: la Selezione naturale. Non sempre, infatti, "evoluzione" è sinonimo di "passo avanti", talvolta occorre rendersi conto che fare un passettino indietro consentirà in futuro di ottenere migliori risultati. Un passo indietro, in sostanza, per compierne uno più grande in avanti.
Di Massimo Baglione.

Vedi nwANTEPRIMA (1,82 MB scaricato 493 volte).

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Nota: questo libro non proviene dai nostri concorsi ma è opera di uno o più soci fondatori dell'Associazione culturale.



BReVI AUTORI - volume 5

BReVI AUTORI - volume 5

collana antologica multigenere di racconti brevi

BReVI AUTORI è una collana di libri multigenere, ad ampio spettro letterario. I quasi cento brevi racconti pubblicati in ogni volume sono suddivisi usando il seguente schema ternario:

Fantascienza + Fantasy + Horror
Noir + Drammatico + Psicologico
Rosa + Erotico + Narrativa generale

La brevità va a pari passo con la modernità, basti pensare all'estrema sintesi dei messaggini telefonici o a quelli usati in internet da talune piattaforme sociali per l'interazione tra utenti. La pubblicità stessa ha fatto della brevità la sua arma più vincente, tentando (e spesso riuscendo) in pochi attimi di convincerci, di emozionarci e di farci sognare.
Ma gli estremismi non ci piacciono. Il nostro concetto di brevità è un po' più elastico di un SMS o di un aforisma: è un racconto scritto con cura in appena 2500 battute (sì, spazi inclusi).
A cura di Massimo Baglione.

Contiene opere di: nwMarco Bertoli, nwAngela Catalini, nwFrancesco Gallina, nwLiliana Tuozzo, nwRoberto Bonfanti, nwEnrico Teodorani, nwLaura Traverso, nwAntonio Mattera, Beno Franceschini, nwF. T. Leo, nwFausto Scatoli, Alessandro Chiesurin, nwSelene Barblan, Giovanni Teresi, Noemi Buiarelli, Maria Rupolo, Alessio Del Debbio, Francesca Gabriel, nwGabriele Iacono, Marco Vecchi, nwSmilingRedSkeleton, nwAlessandro Pesaresi, nwGabriele Iacono, Gabriele Laghi, nwIlaria Motta.

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Il Bestiario del terzo millennio

Il Bestiario del terzo millennio

raccolta di creature inventate

Direttamente dal medioevo contemporaneo, una raccolta di creature inventate, descritte e narrate da venti autori. Una bestia originale e inedita per ogni lettera dell'alfabeto, per un bestiario del terzo millennio. In questa antologia si scoprono cose bizzarre, cose del tutto nuove che meritano un'attenta e seria lettura.
Ideato e curato da Umberto Pasqui.
illustrazioni di Marco Casadei.

Contiene opere di: nwBruno Elpis, Edoardo Greppi, nwLucia Manna, Concita Imperatrice, nwAngelo Manarola, nwRoberto Paradiso, Luisa Gasbarri, Sandra Ludovici, Yara Źagar, Lodovico Ferrari, nwSer Stefano, nwNunzio Campanelli, Desirìe Ferrarese, nwMaria Lipartiti, Francesco Paolo Catanzaro, Federica Ribis, Antonella Pighin, Carlotta Invrea, nwPatrizia Benetti, Cristina Cornelio, nwSonia Piras, nwUmberto Pasqui.

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