Il male fatto
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Il male fatto
Padre Demian invece era appena giunto dal Cile, come nuovo vicario e attendente. Si era subito reso conto che le condizioni di salute del reverendo s’aggravavano di ora in ora. Il vecchio prete respirava a fatica emettendo un rantolo pietoso. L’antipiretico prima e l’inalazione col broncodilatatore poi, non avevano sortito effetto. Padre Demian allora lo aveva accompagnato a letto, poi si era inginocchiato in preghiera di fianco a lui. Il Reverendo sudava, smaniava, tentava di rivoltarsi sui fianchi. Il mercurio dentro il termometro si espandeva fin dove la vita era messa in pericolo. La sua mente già vagava altrove, quando le mani caddero in preda a un frenetico tremolio. Gli occhi lacrimarono un paio di lucciconi grandi come pietre. La schiena si inarcò, le gambe si tesero, una smorfia di dolore gli si dipinse sul volto. Sembrava che un demone stesse indossando il suo vecchio corpo e che gli andasse stretto. Il reverendo lanciò un gemito e d’un tratto spalancò gli occhi. Era in preda a frammenti di reminiscenze allucinate, sparpagliate, che fuggivano alla spicciolata dalla sua memoria.
Al moribondo sembrò che il vicario cileno stesse leggendo qualche passo della bibbia.
«Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum, adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua, sient in caeli et in terra...»
Anzi no, stava pregando. Ma al Reverendo sembrò anche di sentirlo dire parole abominevoli: «Quest'essere inqualificabile che usurpa all'umanità la qualifica di uomo, di umano non ha nulla. Non ha luce d'intelletto, non ha anima, non ha cuore.»
E poi: «panem nostrum cotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo.»
«Codesto essere vivente che porta in giro morte, è un fantasma che si muove in mezzo a noi, un mostro insidioso che terrorizza le mamme e le bimbe.»
Il vecchio sacerdote tentò di voltarsi su un fianco, verso il vicario. Avrebbe voluto leggere il labiale, capire se il vicario stesse profferendo oltraggi o preghiere. Chi era questo silenzioso prete, venuto dal Sudamerica? Cosa sapeva di lui? Era stato ingenuo a non prendere informazioni. Temette che stavolta non lo avrebbe salvato nessuno, neppure la fortuna. Neppure il suo amico, il console inglese. Neppure un attentato al duce o un delitto Matteotti, che spostasse le attenzioni altrove. Neppure l’ostracismo delle gerarchie ecclesiastiche, né l’arcivescovo di Canterbury in persona né il Papa. Neppure l’onnipotente.
A novant’anni suonati, chi è che non ha messo in conto di morire? Il fatto è che stava accadendo in modo inaspettato. Forse quel prete gli aveva messo qualcosa nell’inalatore? In Cile si utilizzavano polveri vegetali psicoattive che causavano allucinazioni. Guarda caso da quando era arrivato quel Demian erano iniziati insoliti sogni a occhi aperti. Sempre più intensi. Coincidenze? Una voce dall’aldilà gli piantò in testa la paranoia che il giovane prete venuto dal nulla stesse mescolando quelle polveri con veleno per topi, perciò dopo le allucinazioni sarebbe sprofondato in un coma profondo, a causa delle esalazioni di tallio. Poi però gli sembrò di sentire la voce dell’attendente echeggiare e rimbalzare benevola nella sua testa.
Ma sì, dopotutto stava solo pregando.
I cattivi pensieri dovevano essere il frutto malato della febbre. Oppure no? Quelle parole – essere inqualificabile, mostro insidioso – le aveva già sentite. No, un momento… non le aveva sentite, le aveva lette. Come poteva padre Demian conoscere quegli articoli di un giornale italiano, di vent’anni prima?
Sentì la mano del prete posarsi sulla fronte e sussurrare «mio Dio.»
D’un tratto udì l’eco di una risata e pensò di vedere un uomo senza volto immerso in una pozza di sangue nero e denso, come carbone liquido. Poi vagheggiò di sua moglie che galleggiava in uno stagno d’acqua limpida, e un istante dopo fu buio. Le allucinazioni stavano galoppando, fuori controllo. La luce tornò e il reverendo rivide sé stesso trentacinque anni prima. Era di nuovo a Roma, a San Paolo, durante il fascismo. Elegante, in borghese, con il solito cappello nero sulla testa. Capelli e baffi tinti di biondo, per sembrare più giovane, per confondere le acque. Nel panciotto qualche spicciolo e diverse caramelle, almeno quattro gusti diversi: i ferri del mestiere. Poi di nuovo buio. L’oscurità nella sua mente venne squarciata da lampi improvvisi in cui intravide un piccolo calzino e una scarpina da bambina, graffi su tutto il corpo, sangue. E lei, la bimba, adagiata sopra un giornale, colpita con pugni in faccia, perdeva sangue e veniva strangolata con un fazzoletto bianco. Il ricamo sulla pezzuola riportava le iniziali dell’assassino: “R.L.”. Le visioni si susseguivano senza posa: un cespuglio, la riva di un fiume, una Peugeot verde decappottabile, un uomo che scattava delle fotografie. Poi violenza, piccoli corpi nudi, deturpati e gettati nel fango come bambole del malaugurio. Senza nessuna pietà cristiana né compassione umana.
«Cristo!», bestemmiò il reverendo. Per un istante riprese conoscenza, o almeno gli parve. Era per terra, caduto dal letto, madido di sudore. S’era morso la lingua fino a strapparsela.
Dov’era padre Demian? C’era qualcuno nella stanza con lui, ma chi? Chi c’era nella stanza con lui? Non era solo. Sentì un brivido di terrore accompagnato alla più oscena delle sensazioni. Era in corso un esorcismo? Sì. Il suo? Sentì una voce uscirgli dalla bocca e bestemmiare. Vide la sua lingua strisciare sul pavimento verso la porta. Pregò di morire. Se avesse avuto una rivoltella si sarebbe conficcato la canna in gola e si sarebbe fatto saltare le cervella dall’interno. Ma ci si può suicidare dentro un’allucinazione? Ancora visioni, come laser che squarciano il cervello. C’era il questore Angelucci e i magistrati che gli ridevano in faccia, per quei diciassette fogli ognuno contenente una prova fabbricata. C’era una bambina di due anni, che gli sfuggiva ma lui l’avrebbe ripresa tre anni dopo, perché l’aveva sempre avuta a portata di mano. C’erano le pagine bruciacchiate di un breviario in lingua inglese, un catalogo di libri ascetici, e c’era una creaturina di diciotto mesi rapita dentro casa sua, violentata e poi strozzata col pannolino. Desiderò che un enorme scalpello di ferro gli si conficcasse nel cranio, mentre sentiva gli occhi che lasciavano le orbite per andare a cercare una posizione migliore, un punto di vista d'insieme, per andare a cercare padre Demian. Infame, dove sei? I miei occhi ti troveranno, se ci sei.
Tentò di parlare, ma la bocca era un forno e la lingua una lumaca morta, distante ormai cinque metri. Sbavava come una larva, digrignava i denti e il cuore bussava sul petto.
Ecco di nuovo padre Demian. Bastardo! Si spostava troppo velocemente. Parlava uno strano idioma. Gli stava incidendo qualcosa sul petto, con un oggetto appuntito e tagliente. Una croce. Gli stava incidendo una croce. Parlava una sorta di aramaico, forse. Le vene del collo e del viso gli stavano per esplodere. Stava vomitando parole sacrileghe.
- Quis es? gridò il reverendo con la forza del pensiero.
- Respondeo! lo incalzò.
Il prete non rispose. Gli poggiò invece una croce d’amianto sulle labbra e cominciò a premere, a farsi strada tra i denti, che si opponevano. Pigiò, finché la resistenza della bocca non fu vinta e gli incisivi frantumati. La croce gli penetrò in gola e gli tolse il respiro.
- Quis sum? domandò stavolta. Chi sono, io?
Allora Demian gli porse uno specchio, e non appena il Reverendo ci guardò dentro, il vicario scomparve. D’un tratto il tempo si fermò e il vecchio poté tornare a respirare. Deglutì e digrignò i denti. Nel riflesso vide l’oscurità profonda di un buco nero, dentro la quale tuttavia si nascondeva qualcosa. Ma cosa? O chi? Gli occhi del reverendo rientrarono nelle orbite e si focalizzarono su un’ombra squamosa che si muoveva dentro l’oscurità, in fondo al vetro. La stanza e tutto il resto scomparvero, nel silenzio più tombale. L’universo era rinchiuso in quello specchio. Le pupille divennero due spilli con cui infine riuscì a scorgere ciò che era nascosto in profondità, tra riflessi opachi e subdoli. Vide, e capì che quello era soltanto l’inizio di un tormento eterno. Spalancò la bocca e lasciò entrare la morte.
***
Il mattino seguente suor Esmeralda bussò puntuale alla porta del reverendo, alle sette in punto. In tanti anni non era mai capitato, neanche una sola volta, che il vecchio prelato non fosse già sveglio, pronto a rispondere “buongiorno sorella” a quei due colpetti accennati dalla badante sull’uscio. Allora suor Esmeralda bussò di nuovo, un po’ più forte. Nulla. Fuori dalla porta si udiva soltanto una radio accesa. Il notiziario annunciava lo scioglimento della Società delle Nazioni.
- Reverendo, è lì? Si sente bene? - domandò, prima di bussare ancor più forte.
Silenzio.
La suora diede dei pugni contro la porta, facendola vibrare. Anche stavolta non ottenne risposta.
- Reverendo! Adesso apro, ho la chiave. Sto aprendo, mi sente?
Schiuse la porta, entrò, guardò, e subito corse fuori in preda al terrore. Vagò per qualche minuto nel cortile, in stato confusionale. Quando si riebbe telefonò alla superiora implorando aiuto.
Passò ancora mezz’ora e in convento si presentò un uomo brizzolato, molto distinto, inviato dalle gerarchie anglicane tramite il vescovo di Gloucester. Suor Esmeralda riferì l’accaduto, con sincerità, quanto meglio le riuscì. Era lei l’unica persona addetta alla cura del reverendo. Negli ultimi tempi il prelato soffriva di improvvisi cali di memoria e di brevi allucinazioni, inconvenienti dovuti all’età. A parte questo non le era sembrato che il sacerdote avesse palesato altri problemi, né di salute né psicologici. Quell’uomo elegante prese degli appunti su un taccuino. Poi entrò sulla scena del misfatto e vide il reverendo disteso a terra, nudo, in posizione innaturale, come se fosse caduto da un’altezza ragguardevole e non da un letto. Gli occhi erano bianchi, rigirati all’indietro come quelli di un posseduto. Niente sangue né segni di lotta. La stanza era in perfetto ordine, addirittura il letto era rifatto e l’abito talare era piegato sul comodino. Sotto il corpo del figlio di Albione c’era invece un quotidiano del 25 novembre 1924, aperto in particolare su un lungo articolo che parlava dell’assassinio della piccola R.P., di anni quattro. Qualcuno - forse il reverendo stesso? – ne aveva evidenziato delle parole: “Avrà dormito stasera il bruto? Oggi che il mondo gli urla in faccia quanto possa essere vile e codardo, che si nasconde pauroso e tremante, in questo momento cosa sta facendo?”
Esaminando il cadavere, l’eminenza grigia notò un’altra stranezza. Si trattava di un piccolo foglio che il prelato aveva accartocciato e conficcato in bocca. Su questo pezzo di carta, sbaffato dalla saliva, si leggeva una frase autografa: “Il male fatto, ti trova sempre”.
Il necrologio del giorno successivo recitava che il benemerito reverendo R.L. si era spento serenamente nel suo letto. Venne interessato un esponente della famiglia reale per poter celebrare i funerali cristiani e per avere una degna sepoltura nel suo luogo di nascita. Sulla sua tomba si può ancora leggere l’epigrafe voluta da sua moglie, in memoria dell’amato marito, il reverendo R.L.
In alcuni anfratti, sulle rive del Tevere, sembra ancora di sentire le voci dei bambini che giocano nell’aldilà.
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(racconto liberamente ispirato all’incredibile vicenda di Gino Girolimoni).
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che poi scoperte non sono, si sono sempre conosciute ma nnon se ne parla.
scritto abbastanza bene, con buone descrizioni, segnalo però che nei dialoghi ci sono parecchi errori.
comunque la storia è piaciuta.
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Il testo mi è piaciuto molto. Adoro quando la narrazione non è lineare e nel tuo caso la distrosionedei pensieri del protagonista riesce alla perfezione. Siamo nel passato, poi nel presente, poi lo rivediamo giovane, ma non riconoscibile. La presa di cosceinza del male fatto e con tanta fatica nascosto e dimenticato... poi l'infinito, il vuoto, la morte, il nulla.
Ottimo ritmo davvero. La parte migliore è quella centrale che culmina con il Climax dai toni quasi Lovecraftiani.
Buona la chiusura con il ritrovamento del cadavere. Un po' meno la frase con i bambini sul tevere.
Mi spiego meglio, ci sta bene il ritorno a Roma, ma non mi piace comeavviene. La tensione è salita nella camera con il ritrovamento del cadavere e questo cambio di scena così repentino spezza un po' il ritmo e "brucia" la frase sui bambini (che in realtà mi piace molto, ma poteva essere giocata meglio).
Nonstante ciò, questo racconto mi è piaciuto davvero e credo che meriti un buon voto!
Gara d'Estate 2021 Sorriso di Rondine
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Illustrazioni: @novelle.vesperiane
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